Edward tornò che avevo
appena finito di asciugarmi le
lacrime, gli occhi ancora rossi. Era angosciato, lo leggevo nei suoi
occhi,
anche se cercava di controllarsi.
«Li hai mandati
via?» domandai con un filo di voce.
Annuì, venendomi subito
accanto e carezzandomi la
fronte fredda e sudata. «Carlisle sta arrivando, ormai
è questione di minuti».
Volevo portare una mano sulla sua,
ma mi sentivo
davvero troppo debole. «È la bambina,
vero?» chiesi senza fiato.
Prese un piccolissimo respiro.
Annuì. «Crediamo di sì,
ma non capiamo ancora come e adesso non abbiamo tempo di capirlo,
dobbiamo
farti stare meglio. All’inizio della gravidanza eri un
po’ anemica, ma fino a
due giorni fa stavi bene, i tuoi livelli di emoglobina stavano salendo
con
tutti gli integratori che ti ha dato Carlisle. Non capiamo
perché sia successo proprio
oggi».
Sospirai debolmente.
«Vedrai che adesso starò meglio.
Non ti preoccupare. Sapevamo che avrebbe avuto dei bisogni
speciali».
Strinse i denti, rivelando sul suo
viso tutta la sua
preoccupazione. «Speravo di non arrivare a questo
punto».
Chiusi gli occhi, lasciando
riposare le mie palpebre
stanche. «Lo so».
Carlisle arrivò quasi
subito. La prima cosa che fece
fu prendere il mio polso e controllare ancora. Bastò che
guardasse il figlio
perché capissi anche io: era scesa ancora.
Mia figlia, in qualche strano modo,
mi stava
letteralmente dissanguando.
«Allora, Bella»
fece, togliendo la sacca della flebo
ormai terminata e posizionando quella rosso scuro con su scritto
“0 negativo”
al suo posto «adesso inizieremo la trasfusione. Vorrei farne
almeno un paio di
sacche. La manderò all’inizio lentamente, in modo
che tu abbia tempo di dirmi
se qualcosa non va, di qualunque genere. Pronta?».
«Finché non
guardo va tutto benissimo» mormorai fra le
labbra pallide, il viso rivolto dall’altro lato pieno di
disgusto.
Edward comparve al mio fianco,
tenendomi la mano. I
suoi occhi erano neri ed era pallido quanto me. Aveva sete, e quello
era un bel
po’ di sangue umano che non assaggiava da tempo.
«Guarda me» disse, concentrato
sul mio viso.
«Inizio» mi
avvertì Carlisle.
Annuii, poi domandai a mio marito.
«Sei sicuro di
stare bene?». Non potevo immaginare la sofferenza fisica che
stava provando
alla vicinanza con quel sangue.
«Non potrei mai stare
lontano da te adesso» sussurrò,
avvicinandosi la mia mano alla bocca per baciarne le nocche.
«Quando sarà
tutto finito promettimi che andrai a
caccia» mormorai debolmente.
Sospirò. «Ne
discuteremo quando sarà finito…».
«Edward, ti prego. Hai
detto tu che oggi me la sono
cavata bene» riuscii a dire debolmente «ho bisogno
di sapere che posso farlo
ancora e tu hai bisogno di cacciare».
Sospirò, scuotendo il
capo. «Te lo prometto».
Feci un debole sorriso.
«Grazie».
«Okay Bella, sembra che
vada bene» ci interruppe
Carlisle «Inizio a mandarla più
velocemente».
«Va bene»
mormorai, chiudendo gli occhi. Non volevo
pensare al sangue di uno sconosciuto che mi entrava nelle vene, mi
veniva da
vomitare. «Posso dormire un pochino? Sono molto
stanca».
«Certo»
sussurrò al mio orecchio Edward. «Dormi,
recupera la forze».
Stavo giusto accettando il suo
invito, lasciandomi
scivolare verso il sonno, che sentii un lieve fastidio nel punto dove
la
cannula si congiungeva con la pelle. Pensai che fossi solo dolorante
per l’ago,
ma dopo alcuni secondi divenne un bruciore che si irradiava in tutto il
braccio. Feci una smorfia, riaprendo gli occhi. «Mi
dà un po’ fastidio»
mormorai, sfregandomi il braccio.
«Che fastidio?»
mi domandò Carlisle attento.
Ansimai, stringendomelo al petto.
«Brucia» mi
lamentai, sentendo il dolore aumentare.
«Solo il
braccio?» mi chiese solerte.
«Che sta
succedendo?» domandò preoccupato mio marito.
«No» pigolai «brucia tutto,
mi brucia» piansi, sentendo il
dolore espandersi in tutto il corpo e concentrarsi in un punto: la
pancia. Mi
piegai su me stessa. «Vi prego, basta! Fatelo smettere!
Basta, brucia
tantissimo, brucia, brucia, vi prego!» gridai, in preda al
dolore sempre più
forte «La pancia, mi fa male» singhiozzai
«la bambina».
«Bella, calma, non
c’è più» tentò di
rassicurarmi
Carlisle, che intanto mi aveva staccato la flebo.
«Carlisle» lo
chiamò Edward angosciato, stringendomi a
sé e tentando di calmarmi.
«Non lo so, non sembra
una reazione trasfusionale. Non
so cosa sia» confessò il padre a denti stretti,
sostituendo la sacca rossa con
una trasparente.
I miei ansiti si calmarono in
pochissimi minuti
insieme al dolore, lasciandomi tremante e sudata.
«Stai meglio?»
mi domandò mio marito agitato,
lasciandomi un bacio sulla fronte.
«Sì» soffiai senza forze «mi
sentivo come quando mi aveva
morsa James e mi stavo trasformando» sussurrai a voce
bassissima fra le labbra
bianche.
«Non può
essere» soffiò sconvolto Edward.
«La bambina deve aver
usato il suo veleno, in qualche
modo» mormorò Carlisle con stupore.
«Non voleva il sangue,
credo» biascicai chiudendo le
palpebre «non quello».
Mio marito si allontanò,
angosciato. «Vuole il tuo».
«Non fare
così, Edward» mi sforzai di dire «Non
è
colpa sua. Penso ne abbia bisogno per crescere».
«Beh, non può
crescere se ti uccide!» esclamò,
rabbioso, allontanandosi da me.
«Edward» lo
richiamai, tentando di sollevarmi. Caddi
irrimediabilmente indietro. «Ti prego».
«Sta’
attenta» fece Carlisle, aiutandomi a sistemarmi
fra i cuscini. «Tranquilla, Bella. Avremo fede nelle leggende
e nelle visioni
di Alice. Ti supporteremo in tutti i modi possibili».
«Starò
meglio» mormorai a mia volta.
«Ti prego,
Carlisle!» esclamò disperato Edward «non
la illudere. Dille che
non può sopravvivere a lungo con
questi valori di emoglobina, senza poter fare una trasfusione! Dille
che c’è la
possibilità che l’unico modo di salvarla sia
interrompere la gravidanza».
«Edward» lo
fermai con un singhiozzo sconvolto. Non
potevo credere che l’avesse detto.
Ma Carlisle stette in silenzio,
abbassando il viso,
preoccupato.
«Credi che lo dica a cuor
leggero? Che io voglia
sacrificare una di voi due? Il solo pensiero mi uccide!»
confessò Edward
angosciato, facendo un passo in avanti nella mia direzione, tormentato
«ma se
tu morirai, adesso, morirà anche lei e il tuo sacrificio non
sarà servito a
niente!».
Mi portai le mani alle labbra,
lasciando scendere
tutte le lacrime dai miei occhi. «Non potrò mai
uccidere mia figlia» soffiai
fra le lacrime.
Edward distolse lo sguardo con
dolore immenso. «Vado a
chiamare gli altri. Non si farà nessuna trasfusione
stasera» disse prima di
scomparire.
Mi sentivo davvero, davvero molto
debole, come non lo
ero mai stata. Avevo pianto tanto, era quasi notte ed era da troppo che
non
dormivo. Carlisle mi fece una flebo di ferro, insieme ad altre di
vitamine
concentrate, dicendo che se la bambina avesse voluto solo il mio sangue
avremmo
dovuto aiutare il mio organismo a produrne di più.
«Carlisle» lo
chiamai, stremata.
Era seduto su una sedia accanto al
letto, un libro in
mano. Chissà, magari stava studiando un modo per salvarmi la
vita. Si chinò
alla mia altezza. «Dimmi pure».
«Avrei bisogno di
Jasper» mormorai a mezza voce. «Puoi
farlo venire da me, per favore?».
«Certo» disse,
sollevandosi dalla sedia «Bella» esitò
«non avercela con Edward, lui… ha molta
paura».
Chiusi le palpebre stanche.
«Lo so, non ce l’ho con
lui».
«Scopriremo cosa sta
accadendo. Andare in ospedale
adesso è un rischio perché non
c’è quasi nulla di normale in ciò che
sta
accadendo, ma se servirà faremo anche quello, va
bene?».
Annuii. Avrei fatto qualunque cosa.
«Grazie Carlisle».
Mi sorrise debolmente, alzandosi.
«Ti mando Jasper».
Entrò poco dopo nella
penombra della stanza, cauto. Mi
chiedevo se ci fosse ancora l’odore del sangue che mi aveva
fatto bruciare le
vene. Si avvicinò lentamente, quasi avesse paura di
spaventarmi, e con calma si
venne a sedere sulla sedia occupata precedentemente dal padre. Era come
se lo
facesse per me, per sembrare meno vampiro.
«Ha paura»
sussurrai.
Aspettò un attimo prima
di rispondere. «Anche tu».
Stetti in silenzio, arrendendomi a
chiudere nuovamente
le palpebre.
«Gli umani fanno
più errori quando non hanno paura. Da
noi, per esempio» fece con calma «hanno
più probabilità di salvarsi quelli che
hanno paura».
Non mi ero mai resa conto di quanto
la sua stessa voce
fosse tranquillizzante. «Non sono un buon esempio
allora».
Non replicò. I suoi
occhi gialli scintillarono nella
penombra e sì, capii cosa volesse dire l’istinto
di aver paura di un vampiro.
Ecco perché non c’erano in giro altre donne che
avessero concepito figli con
loro.
Sospirai. «Grazie per le
vostre ricerche. Mi dispiace
che vi abbiano portato lontani dalle vostre mogli».
«Continui a misurare il
tempo come un’umana. Non è
niente per noi. E poi, Bella, sei parte della famiglia. Anche se
desidero
sempre bere del tuo sangue» commentò, facendomi
rabbrividire. Fece una risatina,
e capii che stava scherzando. «Perché sono
qui?» mi chiese allora, facendosi
serio.
«Puoi
confortarlo?» domandai.
Chinò il capo da un
lato, studiandomi. «Dici come
fratello o con i miei poteri?».
«Entrambi»
ammisi stanca.
«Posso provarci. Ma si
arrabbierà leggendomi i
pensieri. Sono qui solo per questo?» domandò
ancora.
Deglutii. «Puoi farmi
addormentare, per favore?».
I suoi occhi scintillanti si
fermarono sul mio viso.
«Lui è l’unico in grado di
farlo».
«Non stasera»
soffiai, deglutendo il magone.
Sospirò, avvicinando
cautamente la sua mano al mio
braccio. «Posso?» fece prima di toccarmi.
Annuii pianissimo, e dopo il suo
tocco si fece tutto
buio. Non fu confortante e dolce come addormentarsi con Edward, e il
sonno fu
pieno di immagini e incubi tormentati.
Quando mi svegliai mio marito era
steso accanto a me
sul letto e mi stringeva forte. Avrei voluto dirgli che io non volevo
morire, e
che ero dilaniata dal dolore che gli stavo causando. Non lo feci.
«Che ore sono?»
balbettai, portandomi una mano alla
testa «mio padre?».
«Esme ed Alice sono
andate a prenderlo» mi rispose
semplicemente.
Sapevo che si sarebbe preoccupato
non vedendomi, e mi
dispiaceva che Esme ad Alice dovessero occuparsene al mio posto, ma non
sapevo
davvero come avrei potuto fare altrimenti.
Sospirai, facendo leva sugli
avambracci per
sollevarmi. Mi sentivo molto molto stanca e avevo la testa leggera e
pesante
insieme.
«Cosa fai?» mi
domandò Edward studiandomi. «Rimani
giù».
Gemetti, guardandomi intorno. La
luce era gialla e
bassa, doveva essere già tarda mattinata. «Voglio
chiamarlo, adesso sarà
preoccupatissimo».
In un attimo era alla porta.
«Ti prendo il cellulare»
disse, ma sembrava freddo e lontano.
«Edward» lo
chiamai imbarazzata prima che si potesse
allontanare «ho… bisogno di andare in
bagno» confessai.
Sospirò, e un battito di
ciglia più tardi era di nuovo
accanto a me, tendendomi le braccia per aiutarmi ad alzarmi. Mi
aiutò a
mettermi seduta, poi mi mise le mani sulle spalle. «Rimani un
minuto così, poi
ti aiuterò da alzarti» continuò con lo
stesso tono distaccato.
Presi dei respiri, sollevando il
capo per guardarlo
negli occhi, dando tutto il lunghissimo tempo che serviva al mio corpo
per
adattarsi affannosamente a quella nuova posizione. Ma Edward era perso
nel suo
sguardo lontano.
«Può farlo
Rosalie se preferisci» biascicai, la voce
più bassa di quello che avrei voluto.
Si chinò sulle
ginocchia. «Sono tuo marito» disse
serio «lascia che lo faccia io».
Volevo piangere, ma trattenni le
lacrime. Non si
trattava di me in quel momento, ma di lui. Volevo che avesse fiducia,
volevo
rassicurarlo e dargli speranza che sarei stata meglio, che sarei
guarita e che
sia io che la bambina saremmo state bene.
«Okay. Mi sento
meglio» mormorai a mezza voce, ed un
po’ era vero. Ieri non avrei neppure potuto immaginare di
stare seduta. Ma
quando mi prese le mani fra le sue le sentivo formicolare tantissimo e
quando
fece per alzarmi mi sentii cedere immediatamente le ginocchia.
Mi strinse al suo corpo per non
farmi cadere e non
disse nulla.
«Edward,
io…» provai senza fiato.
«Shh,
non parlare» fece,
tenendomi stretta a sé.
Strinsi forte le mani ai suoi
avambracci. Il cuore mi
batteva fortissimo, la testa mi girava tantissimo e mi sentivo sudata e
pallida. Lentamente riuscì a scortarmi fino in bagno e poi
di nuovo fino al
letto. Fu faticosissimo e sentirlo così distante da me mi
faceva sentire
peggio.
Riuscii a chiamare mio padre ma non
riuscii a
rassicurarlo fino in fondo, perché la mia voce era debole
come non mai. Rosalie
gli parlò al mio posto, convincendolo che il giorno
precedente mi ero stancata
molto e che dovevo stare un po’ più a riposo,
niente di più.
Quando Carlisle venne a visitarmi
con i risultati dei
test che avevamo fatto il giorno precedente capii dal suo viso quanto
seria
fosse la situazione. Disse che l’emoglobina era scesa ancora,
anche se molto
poco.
Non protestai quando mi portarono
in ospedale. Mi
fecero delle ecografie, una risonanza magnetica, e degli altri esami
del
sangue. Carlisle provò di nuovo a farmi una trasfusione con
una sacca di sangue
diversa, preparata in modo differente e dandomi prima del cortisone, ma
la
reazione fu la stessa della prima volta e dovemmo interrompere subito.
«Ce la fai?» mi
domandò Edward mentre mi accompagnava
fuori dalla stanzetta dove Carlisle mi aveva appena prelevato un
aspirato
midollare. L’ultima spiaggia per capire quanto di
“umano” ci fosse in quello
che mi stava succedendo e come aiutarmi.
Annuii a denti stretti, ignorando
zoppicante il dolore
al bacino e concentrandomi solo per mettere un passo davanti
all’altro e
portare avanti il mio corpo che m’implorava solo di avere
pietà.
«Edward» lo
avvertì Rosalie quando tremai più forte,
sbandando, pallidissima e sudata.
Mi tenne su con forza.
«Ce la faccio»
deglutii a fatica, stentando persino a
respirare.
Scosse il capo. «Lascia
che ti prenda in braccio».
Presi un paio di respiri,
aspettando inutilmente di
vederci ancora oltre il buio dei miei occhi. «Ce la
faccio» ripetei ancora.
Sentii al mio orecchio un ansito
doloroso, quasi un
singulto di un pianto. Era il verso straziante della disperazione di
mio
marito, ed io non sapevo come aiutarlo. Mi strinse il capo contro il
suo petto.
«Amore mio» iniziò pianissimo, attento a
non sconvolgermi ancora «sei esausta.
Nessun umano potrebbe farcela nelle tue condizioni. Lascia che ti
prenda io, ti
porterò a casa e potrai riposarti».
Annuii con un sospiro, arrendendomi
fra le sue braccia,
e mi sentii subito un po’ meglio. «Domani
starò meglio» tentai debolmente, ansiosa,
ma non mi rispose.
Mi strinse a sé,
lasciandomi un bacio sulla fronte,
trasportandomi dolcemente verso l’uscita. «Dormi,
riposati» mormorò, cullandomi
fra le sue braccia sul sedile posteriore dell’auto.
«Dov’è?»
chiesi la mattina successiva quando mi svegliai.
Nella stanza c’erano Carlisle e Rosalie.
«Bella, tesoro, ti sei
svegliata» disse mia sorella
venendomi vicino. Mi prese la mano abbandonata accanto a me sul
copriletto,
collegata a due tubicini di due sacche di flebo differenti.
«Puoi dormire un
altro pochino se vuoi» fece con dolcezza, carezzandomi il
dorso della mano con
il pollice.
Presi un piccolo respiro
superficiale. «Dov’è andato?»
domandai ancora, cercando di non dare a vedere quanto mi mettesse in
crisi la
sua assenza.
Carlisle si avvicinò,
sorridendomi per rassicurarmi.
«È uscito con Emmett, voleva convincerlo a
cacciare» disse tranquillo e
rassicurante, e quasi gli avrei creduto se non avesse aggiunto
più teso «Ieri è
stata una giornata difficile in ospedale».
Chiusi gli occhi. Dal mio petto si
levavano dei
respiri piccoli e superficiali. «I test sono tutti negativi,
vero?» sussurrai a
malapena.
Tentò di rassicurarmi
ancora. «Non deve essere per
forza una cosa negativa. Il distacco amnio-coriale è rimasto
stabile. Vuol dire
che non hai un’emorragia, un’aplasia midollare o
una leucemia o tante altre
malattie più gravi».
«No» biascicai senza fiato, riaprendo
gli occhi e
portandomi le mani alla pancia «vuol dire che dipende dalla
bambina».
Annuì, molto serio.
E in quel momento capii che
c’era qualcos’altro che
non mi stava dicendo. «È scesa ancora».
Fece un lunghissimo sospiro, poi
annuì. «4.9».
Presi un ansito fra i denti,
realizzando che la
situazione era molto, molto grave.
Rosalie mi strinse la mano.
«Bella, non vuol dire
molto, è un decimo di punto rispetto a ieri, che vuol dire
realisticamente che
è praticamente stabile».
«Sì,
è vero» intervenne Carlisle «ma
è vero anche che
è pericolosamente bassa, molto pericolosa non solo per te,
ma anche per la
perfusione della placenta e quindi per la bambina».
«Non si può
fare niente?» domandai ansiosa «forse
possiamo riprovare con la trasfusione, potrei resistere al
dolore» provai
debolmente.
«Bella» fece,
stringendo le mani nei pugni. Mi sorrise
con tenerezza, rilassando la sua postura «anche se resistessi
al dolore probabilmente
ti trasformeresti, e in quel caso la gravidanza non avrebbe modo di
evolvere».
Scossi il capo, disperata.
«Cosa posso fare allora?».
Posò la sua mano sul mio
avanbraccio, accanto alla
cannula della flebo. «Ti supportiamo, aspettiamo che il tuo
corpo reagisca, e
speriamo che questo sia il nadir».
«Il nadir?».
Annuì, serio.
«Il punto più basso da cui si può solo
risalire».
Il mio nadir con Edward fu quel
pomeriggio.
«Rosalie»
chiamai agitata, tremando. Avevo freddo, e
le mani e i piedi mi formicolavano così tanto che sembravano
punti da un
milione di spilli acuminati. «C-chiudi la finestra p-per
favore» ansimai appena
la sentii entrare in camera.
«È
già chiusa» mi rispose una voce, e non era quella
di Rosalie. Un attimo più tardi avevo addosso
un’altra coperta. Mi servì un
intero minuto per smettere di tremare e ancora non sapevo cosa dire o
fare.
«Hai mangiato?»
mi domandò mio marito, scrutandomi
dalla sedia dov’era seduto, accanto al letto.
Presi almeno quattro o cinque
respiri in dieci
secondi. Non ce la facevo più a fingere di stare meglio del
terribile stato in
cui ero ridotta. «Lo sai già» sputai fra
i respiri ansimanti. «Nemmeno tu»
aggiunsi poi, guardando i suoi occhi nerissimi.
«Non ci sono
riuscito» confessò disperato. Fece per
avvicinare una mano a carezzarmi, ma si bloccò. Poi, con un
sospiro completò il
suo gesto, accarezzandomi i capelli. «Appena ho addentato la
preda ho pensato
che fossi tu e che ti stessi dissanguando»
confessò angosciato.
Scossi il capo, mentre osservavo
tutto l’abisso della
sua agonia. «Non so come fare per farti stare
meglio» ammisi con la voce
soffocata.
Strinse i denti, una maschera di
dolore e disperazione
sul viso. «C’è solo un modo, lo
sai».
«Edward»
singhiozzai.
«Ti prego»
gemette a sua volta «non sono pronto a
perderti» m’implorò angosciato.
«Io… non
posso…» piansi disperata.
«Bella, ti supplico. Come
fai a non vederlo?» fece
terrorizzato «Carlisle dice che con questi valori di
emoglobina potresti
resistere una settimana, al massimo dieci giorni. Sempre che non
peggiori,
perché in quel caso moriresti subito!»
esclamò, sbattendomi in faccia la
realtà. «E non potrò trasformarti,
perché il tuo fisico sarà troppo
debilitato».
Strinsi le labbra bianche fra i
singhiozzi. «La
bambina…».
Sotterrò il viso sulle
coperte, accanto a me,
stringendomi la mano con le sue. «Non sai quanto mi uccida
perderla. Ma non
posso, non posso perdere entrambe. Ti prego, Bella, ti prego. Abbiamo
fatto
tutto il possibile. Non morire. Ti prego, non morire»
singhiozzò.
Presi un respiro, sconvolta dal suo
dolore. Portai una
mano a carezzargli i capelli. Avevo così tanta paura di
morire, e le sue parole
sconvolte erano così convincenti. Che senso avrebbe avuto
sacrificarmi se
nostra figlia sarebbe comunque morta con me? Ero davvero troppo malata
e
irrazionale per capirlo?
Edward se ne accorse, che stavo
vacillando. Sollevò il
capo, osservandomi con il suo sguardo devastato. «Carlisle ti
addormenterà, non
sentirai nulla. Lo so che sarà la cosa più
difficile che faremo nella nostra
esistenza, ma la supereremo insieme» incalzò,
disintegrando dalla mia mente
l’immagine di nostra figlia, felice, fra le nostre braccia.
Mi portai una mano alla pancia,
sfiorandola.
«Non è colpa
tua, non è colpa nostra. Lei non può
vivere in te, mi dispiace. Sarà per sempre la nostra
bambina, la ameremo per
sempre, Bella» continuò persuasivo.
Così persuasivo, così razionale, così
giusto.
Strinsi forte la stoffa del mio
pigiama. Non avevo mai
avuto il tempo di desiderare un figlio. Ora che lo avevo avuto,
semplicemente
lo amavo, come non avevo amato nient’altro nella mia vita.
Più di me stessa.
«Tu» biascicai, guardandolo negli occhi dilaniata
dalla sofferenza «hai sentito
il battito del suo cuore. Come puoi volerlo fermare?».
Chiuse le palpebre, addolorato.
«Bella».
Presi un respiro. «Non
c’è solo un modo, lo sai.
Potrei riprendermi».
Scosse il capo, guardandomi come se
avessi perso il
senno. «È troppo rischioso»
esclamò agitandosi «Potresti morire. Che senso
avrebbe avuto tutto quello che abbiamo passato? La nostra separazione,
Jacob,
la tua ripresa? Il nostro amore? Che senso avrebbero allora? Ti prego,
fallo
per noi».
«Edward» dissi
ferma nonostante la mia voce flebile
«se davvero mi ami non usare mai più le mie paure
contro di me. Se davvero mi
ami capirai la mia scelta. Perché l’ho
già presa. E se tu non sarai d’accordo
lo capirò. Ma allora devo chiederti di non tornare da me
finché non avrai
cambiato idea» dissi con voce spezzata.
Si sollevò di scatto,
facendo ribaltare la sedia.
«Perché non riesci a capire! Morirete entrambe e
non mi rimarrà altro che
uccidermi!» gridò, lanciando la sedia contro la
parete e lasciandola
disintegrare.
Tremai senza fiato, ammutolita.
I suoi ansiti si calmarono e i suoi
occhi si
riempirono di terrore per ciò che aveva appena fatto.
«Bella, io…» provò a
chiamarmi.
Mi strinsi una mano al petto,
chiudendo gli occhi e
rannicchiandomi su me stessa in posizione fetale. «Ti prego.
Vai via adesso».
Ci vollero dieci lunghissimi
secondi. Poi scomparve.
Fu il nadir, ho detto. Ma ancora non avevamo iniziato a risalire dal
fondo.
Quella notte non riuscii a dormire
un secondo, neppure
con l’aiuto di Jasper. Carlisle mi propose di prendere dei
sonniferi, ma decisi
che se avessero dovuto essere gli ultimi momenti di vita con mia figlia
avrei
voluto godermeli tutti. La mattina seguente mio padre
richiamò. Avrei tanto
tanto voluto assicurarmi che stesse bene, ma non ne ero nelle
condizioni.
Lasciai che Alice e Rosalie andassero da lui ad occuparsene e a trovare
una
scusa per me.
Speravo che mi sarei sentita
meglio, ma quel giorno
non riuscii neppure a mettermi seduta. Carlisle mi disse che
l’emoglobina era
stabile, ma che con le supplementazioni che mi stava dando avrebbe
dovuto già
cominciare a risalire. Mi diede un po’ di ossigeno e
l’affanno si placò
lievemente.
Edward non comparve.
Non aveva cambiato idea e quel
pensiero si univa
all’idea della mia morte vicina gettandomi nella
disperazione. Volevo
combattere, avevo qualcuno per farlo, ma non avevo più la
forza di farlo.
Perché quel qualcuno mi stava uccidendo. Aveva sete, e non
aveva di che bere se
non di me.
Sospirai, stringendomi la coperta
addosso. «Hai
freddo?» mi domandò Alice venendomi vicino.
«Un
po’» sussurrai a mezza voce.
«Vuoi andare di
là? C’è il camino acceso e possiamo
sistemarti sul divano» mi propose.
Deglutii. «Non so
se» iniziai, ma la voce mi morì in
gola «non ce la faccio a camminare».
«Vieni, ti porto
io» disse avvolgendomi nella coperta
e sollevandomi fra le sue braccia. Incredibile come riuscissi a
dimenticare
della sua forza per via della sua statura minuta.
Nel soggiorno c’erano
Emmett, Rosalie e Jasper che
discutevano davanti alla vetrata che dava sul bosco. Rosalie si
staccò dal
gruppetto, avanzando con il suo passo felino verso la sorella,
aiutandola a
sistemarmi sul divano, assicurandosi che i miei piedi fossero ben
coperti e che
il fuoco fosse acceso.
«Di che
parlavate?» mormorai incerta.
Alice e Rosalie si guardarono, poi
lei scrollò le
spalle, decidendosi a dirmi la verità. «Parlavamo
della sconosciuta che ha
incontrato tuo padre. Non è facile identificarla».
Crucciai le sopracciglia
preoccupata. «Può essere
pericolosa?».
Rosalie scosse il capo.
«No, ma saremmo più tranquilli
sapendo chi sia. Organizzeremo delle ricerche, ma non ora. Abbiamo
bisogno che
prima tu stia meglio, fidati di noi».
Combattuta decisi di arrendermi ad
annuire. Non avrei
potuto fare molto, comunque. Presi le mani di entrambe, guardandole.
«Grazie
per il vostro aiuto» mormorai.
Rose mi fece un piccolo sorriso,
dandomi un buffetto
sulla guancia. «Figurati tesoro. Carlisle è da tuo
padre, ha detto che sta bene
e sta tornando. Dice che potresti mangiare se vuoi, potrebbe
aiutarti».
Scrollai le spalle.
«Posso provarci».
Annuì, sorridendo.
«Dammi solo un attimo».
Alice si sistemò accanto
a me sul divano, prendendomi
i piedi avvolti dalla coperta e iniziando a massaggiarli. Volevo
chiederle se
vedesse qualcosa, ma sapevo già che non era così,
altrimenti me lo avrebbe
detto. «Come sta mio padre?» le domandai.
Non distolse lo sguardo dal fuoco.
«Non si è bevuto la
storia che eri stanca. Sa che stai male, ma non sa quanto».
Forse non l’avrei
più rivisto. Avrei voluto dargli quel
bacio prima di andarmene. Rabbrividii, tirando giù la manica
del maglione, ma
la cannula della flebo rimase impigliata. «Ahi»
bisbigliai, provando a liberarla, ma non feci che peggiorare la
situazione.
«Bella, aspetta, ti aiuto
io» disse Alice venendo in
mio aiuto, ma appena mi sfiorò il braccio un paio di gocce
di sangue
scivolarono sulla mia pelle.
Sollevai lo sguardo sul viso di
Alice, che si era
immobilizzata, smettendo di respirare.
«Alice» ansimai
preoccupata.
Si sollevò,
indietreggiando di un passo, gli occhi
improvvisamente neri. «Okay, tranquilla. D-devo…
dammi un attimo» disse,
battendo le palpebre.
Mi voltai spaventata a controllare
la vetrata, ma né
Jasper né Emmett c’erano più.
«Alice» la
chiamò la voce di Rosalie alle mie spalle
«ce la posso fare» disse con voce estremamente
concentrata «esci, va’ da
Jasper».
Presi dei respiri superficiali.
«Ragazze io…
mi dispiace» ansimai.
Alice scosse il capo,
concentrandosi sul mio corpo
tremante. «Rimango».
«No» fece la voce di mio marito,
facendole volgere
entrambe nella sua direzione, alle mie spalle.
«Andate».
«È solo poco
sangue, ce la possiamo fare» protestò
Rosalie.
Edward si materializzò
al mio fianco, facendomi
trasalire. Mi liberò dal maglione, studiando
l’accesso venoso che si era sposizionato.
«Andate» fece ancora, concentrato, senza
guardarmi «ho bisogno di stare solo con mia
moglie».
Strinsi le labbra, ma non
protestai.
Alice sollevò lo sguardo
verso la sorella e le fece un
cenno con il capo. Prima di andarsene portò un pacchetto di
garze e un rotolino
di cerotto.
Edward mi sfilò con un
gesto l’accesso e tamponò la
piccola perdita con una garza, coprendola poi con il cerotto.
M lasciai andare con il capo sullo
schienale del
divano, troppo stanca. «Mi dispiace» bisbigliai con
un filo di voce.
Sospirò, sollevando lo
sguardo sul mio. «Di cosa?».
Chiusi gli occhi, stanca.
«Oh Edward, lo sai. Non è di
quello che posso essere dispiaciuta e se ancora non hai cambiato
idea…».
«Non ho cambiato
idea» disse, facendomi riaprire gli
occhi «ma non voglio passare gli ultimi giorni di vita di mia
moglie lontano da
lei».
Strinsi le labbra, trattenendo a
stento le stanche
lacrime. «Nemmeno io».
Mangiai sul divano, mandando
giù boccone dopo boccone
con sofferenza, ma riuscendo infine a non vomitare. Mi sfregai gli
occhi,
stanca.
«Vuoi dormire?»
mi domandò, scrutandomi.
Annuii debolmente, lasciando che mi
prendesse fra le
braccia e mi portasse in camera. Mi tenne stretta al suo petto mentre
sollevava
le coperte e mi adagiava sulle lenzuola.
«Mi aiuti, per
favore» balbettai, cercando di
liberarmi della coperta in cui mi aveva avvolto Rosalie, troppo debole
per
farlo da sola.
«Aspetta» fece,
bloccando i miei deboli tentativi. Ma
quando mi tolse la coperta le sue mani finirono accidentalmente sul mio
fianco
e si bloccò, immobile. Il suo sguardo era perso, sorpreso.
Battei le palpebre, confusa.
«Che succede?».
Spostò la mano dal
fianco alla pancia, lentamente,
senza distogliere lo sguardo dal mio ventre.
Rabbrividii, per un attimo
spaventata di trovarmi sola
con lui. E se avesse voluto…? No, non avrebbe mai
potuto…
Sollevò il suo sguardo
sul mio, realizzando di avermi
spaventata. «No, io…» mormorò
sorpreso «è cresciuta. Si vede».
Mi portai le mani alla bocca,
sconvolta. «Si vede?»
balbettai emozionata.
Annuì, continuando a
tenere le mani sulla pancia. Misi
le mani sulle sue, lasciando scendere le lacrime. «Oh,
Edward. Ne ha così
bisogno. Non posso non darle così di cui ha bisogno. Non
posso».
Chiuse gli occhi, portando il suo
viso sul mio ventre.
«Se solo potessi darle io quello che le serve. Se solo
potessi aiutarvi in
qualche modo».
«Ti prego»
sussurrai, stringendo la sua mano «resta
con me. Resta con me stanotte. Non posso dormire senza di te. Non ce la
faccio
più a non dormire».
Sollevò il viso
addolorato e annuì. «Resto».
Dormii, e il giorno dopo quando mi
svegliai stavo
meglio. Carlisle disse che mi stavo solo “adattando
emodinamicamente”
alla nuova situazione perché l’emoglobina non era
risalita, ma io ero contenta:
non era neppure scesa.
Mi sistemò un nuovo
accesso venoso a prova di maglioni
e vampiri e mi collegò h/24 a delle sacche di flebo. Stava
dando una scossa al
mio corpo per convincerlo a produrre più sangue.
Più di quello che voleva da me
mia figlia.
Ma anche il giorno successivo,
quando mi svegliai,
l’emoglobina era ancora stabile.
«Devo fare
pipì» furono le prime parole che dissi
appena sveglia.
Rosalie ridacchiò.
«La gravidanza».
«Tre litri di liquidi in
vena» ribatté suo fratello,
prendendomi fra le braccia.
«Aspetta» gli
dissi in bagno, appoggiandomi con le
mani ai bordi del lavello e guardando il mio viso. Era pallido, con una
lieve
sfumatura grigiastra. «Vorrei lavarmi i denti»
dissi, prendendo lo spazzolino.
«Ce la fai?» mi
domandò incerto, sorreggendomi per il
gomito.
Annuii, e per qualche strano motivo
le vertigini non
aumentarono. Era un grande sforzo tenermi in piedi, ma era un miracolo
che ci
stessi riuscendo senza il suo aiuto.
«È cresciuta
ancora?» domandai, abbassando il viso e
carezzandomi la pancia.
Strinse le labbra. «Sì»
sospirò infine «pare di sì, anche se
molto poco».
Sorrisi. Sapevo che era
terrorizzato da quello che mi
stava facendo, ma sapevo anche che nel suo cuore era felice di sapere
che
nostra figlia stava bene e che stava crescendo. Portai una mano sulla
sua,
guardandolo con amore. «Torniamo di là, i tre
litri di flebo mi stanno aspettando».
Mangiai e non vomitai. Dormii.
Presi i farmaci.
Chiamai mio padre. Mangiai ancora, e anche questa volta non vomitai.
Dormii.
Presi altri farmaci. Mi feci fare altri esami. Mangiai. E quasi mi
preoccupai,
perché non avevo vomitato né avuto la nausea per
un giorno intero e Carlisle mi
aveva detto in tempi non sospetti che la nausea era un buon indicatore
del
benessere della bambina.
Così feci fatica quella
sera ad addormentarmi, anche
fra le braccia di Edward. Ma quando mi svegliai non aspettai il suo
aiuto. Era
ancora buio nella stanza e mi alzai di scatto per correre con la mia
debole
velocità umana verso il bagno a vomitare tutta la cena.
Quando ebbi finito appoggiai la
guancia, sfinita, sul
bordo della tazza del water. Portai una mano alla pancia. Mi girava la
testa,
ma mi sentivo sollevata: la bambina era ancora lì.
Edward mi studiava, cauto, dalla
porta.
«Che
c’è?» ansimai incerta, sollevando a
fatica il
capo.
«Una bella corsetta,
eh?». Si materializzò al mio
fianco, prendendo il mio polso e portandoselo al naso.
Corrucciò le
sopracciglia, dubbioso.
«Cosa?»
domandai perplessa «che dovevo fare, vomitare
sul pavimento?».
«Carlisle» lo
chiamò Edward, sollevando solo appena il
tono della voce ed ignorandomi.
Sospirai. «Fantastico.
Fammi prima tirare lo
sciacquone almeno. Non capisco perché devo avere sempre
tutto questo pubblico
quando vomito. Ciao Carlisle» lo salutai arrendevole.
Sorrise appena. «Ciao
Bella».
Edward mi aiutò a
tirarmi su per sedermi sul water.
Prese il mio polso e lo porse al padre con uno sguardo carico di
aspettative.
Si avvicinò subito.
«Che sta
succedendo?» domandai, facendomi seria.
Qualcosa era cambiato.
Lo sguardo di Carlisle si
riempì di sorpresa e anche
forse di… sollievo.
Edward sospirò,
contento, stringendomi forte al suo
petto.
«Sta risalendo. Poco, ma
sta risalendo» mi disse
Carlisle, guardandomi intensamente.
Mi portai una mano alle labbra,
commossa. «È una buona
notizia, vero?» balbettai.
Annuì con un sorriso
appena accennato. «È una
speranza».
Annuii a mia volta, stringendomi
forte a mio marito,
emozionata. Finalmente una speranza.
Quel giorno mi controllarono
ancora, molte volte.
Quella sera dissero che era salita ancora un po’ e la mattina
seguente non ebbi
bisogno di domandare. Edward, al mio fianco, sorrideva e io mi sentivo
decisamente più in forze.
«Quanto?»
biascicai, le labbra ancora impastate dal
sonno.
«7.5. Non
basterà per la maratona di New York ma credo
sia abbastanza per tenerti in piedi».
Sorrisi a mia volta, carezzando la
piccola pancia. «È
quello che ci serve».
«Bella» mi
chiamò mio marito incerto e preoccupato.
«Nessuno ci dice che non capiterà ancora. Adesso
che è lunga qualche centimetro
ti ha quasi uccisa. Non sappiamo cosa succederà quando
sarà molto più grande e
avrà sicuramente maggiori esigenze».
Gli carezzai una guancia.
«Hai ragione, non lo
sappiamo. Non possiamo far altro che sperare che non succeda ancora e
tenerci
pronti a far fronte al momento in cui succederà. E vivere
tutti questi giorni
insieme».
Sospirò, annuendo
incerto, chinandosi sulla mia
pancia. Mentre si chinava, però, si bloccò,
stupefatto. Poi prese il mio polso
fra le mani, portandoselo al naso, e subito dopo scese con il viso
verso la mia
pancia. «Carlisle» chiamò sorpreso.
«Che hai
sentito?» domandai, mettendomi a sedere.
Sgranò gli occhi,
sorpreso, spostando lo sguardo da me
al padre. «Mi sembra davvero strano, controlla anche tu.
È come se ci fossero
due livelli di emoglobina differenti».
Battei
le
palpebre, confusa, lasciando che mi esaminasse anche suo padre.
«Hai ragione»
disse infine, sorpreso quanto il figlio
«dovevo pensarci prima! È come se la bambina
avesse immagazzinato dentro di sé
un’ingente quantità di sostanze nutrienti, sangue
e zuccheri, che le sono
necessari per crescere».
Sospirai con un sorriso e carezzai
ancora la minuscola
pancina sotto cui era nascosta nostra figlia, commossa. «Sono
sicura che adesso
andrà tutto meglio. Cresci, piccolina».
Edward si chinò a
lasciarmi un bacio sulla pancia.
«Non bere più il sangue della mamma»
disse, facendomi ridere fra le lacrime.
«Sei solo
geloso» scherzai debolmente.
Sorrise a sua volta, avvicinando le
sue labbra alle
mie. «Eccome. Nessuno deve bere il tuo sangue»
fece, lasciandomi un lunghissimo
bacio alla base del collo.
Rabbrividii. Volevo davvero che
andasse tutto bene.