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Autore: keska    12/10/2009    38 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Qualcuno, Esme forse, mi aveva messo addosso una coperta, non spostandomi però dal divano, forse per paura di svegliarmi

Edward tornò che avevo appena finito di asciugarmi le lacrime, gli occhi ancora rossi. Era angosciato, lo leggevo nei suoi occhi, anche se cercava di controllarsi.

«Li hai mandati via?» domandai con un filo di voce.

Annuì, venendomi subito accanto e carezzandomi la fronte fredda e sudata. «Carlisle sta arrivando, ormai è questione di minuti».

Volevo portare una mano sulla sua, ma mi sentivo davvero troppo debole. «È la bambina, vero?» chiesi senza fiato.

Prese un piccolissimo respiro. Annuì. «Crediamo di sì, ma non capiamo ancora come e adesso non abbiamo tempo di capirlo, dobbiamo farti stare meglio. All’inizio della gravidanza eri un po’ anemica, ma fino a due giorni fa stavi bene, i tuoi livelli di emoglobina stavano salendo con tutti gli integratori che ti ha dato Carlisle. Non capiamo perché sia successo proprio oggi».

Sospirai debolmente. «Vedrai che adesso starò meglio. Non ti preoccupare. Sapevamo che avrebbe avuto dei bisogni speciali».

Strinse i denti, rivelando sul suo viso tutta la sua preoccupazione. «Speravo di non arrivare a questo punto».

Chiusi gli occhi, lasciando riposare le mie palpebre stanche. «Lo so».

Carlisle arrivò quasi subito. La prima cosa che fece fu prendere il mio polso e controllare ancora. Bastò che guardasse il figlio perché capissi anche io: era scesa ancora.

Mia figlia, in qualche strano modo, mi stava letteralmente dissanguando.

«Allora, Bella» fece, togliendo la sacca della flebo ormai terminata e posizionando quella rosso scuro con su scritto “0 negativo” al suo posto «adesso inizieremo la trasfusione. Vorrei farne almeno un paio di sacche. La manderò all’inizio lentamente, in modo che tu abbia tempo di dirmi se qualcosa non va, di qualunque genere. Pronta?».

«Finché non guardo va tutto benissimo» mormorai fra le labbra pallide, il viso rivolto dall’altro lato pieno di disgusto.

Edward comparve al mio fianco, tenendomi la mano. I suoi occhi erano neri ed era pallido quanto me. Aveva sete, e quello era un bel po’ di sangue umano che non assaggiava da tempo. «Guarda me» disse, concentrato sul mio viso.

«Inizio» mi avvertì Carlisle.

Annuii, poi domandai a mio marito. «Sei sicuro di stare bene?». Non potevo immaginare la sofferenza fisica che stava provando alla vicinanza con quel sangue.

«Non potrei mai stare lontano da te adesso» sussurrò, avvicinandosi la mia mano alla bocca per baciarne le nocche.

«Quando sarà tutto finito promettimi che andrai a caccia» mormorai debolmente.

Sospirò. «Ne discuteremo quando sarà finito…».

«Edward, ti prego. Hai detto tu che oggi me la sono cavata bene» riuscii a dire debolmente «ho bisogno di sapere che posso farlo ancora e tu hai bisogno di cacciare».

Sospirò, scuotendo il capo. «Te lo prometto».

Feci un debole sorriso. «Grazie».

«Okay Bella, sembra che vada bene» ci interruppe Carlisle «Inizio a mandarla più velocemente».

«Va bene» mormorai, chiudendo gli occhi. Non volevo pensare al sangue di uno sconosciuto che mi entrava nelle vene, mi veniva da vomitare. «Posso dormire un pochino? Sono molto stanca».

«Certo» sussurrò al mio orecchio Edward. «Dormi, recupera la forze».

Stavo giusto accettando il suo invito, lasciandomi scivolare verso il sonno, che sentii un lieve fastidio nel punto dove la cannula si congiungeva con la pelle. Pensai che fossi solo dolorante per l’ago, ma dopo alcuni secondi divenne un bruciore che si irradiava in tutto il braccio. Feci una smorfia, riaprendo gli occhi. «Mi dà un po’ fastidio» mormorai, sfregandomi il braccio.

«Che fastidio?» mi domandò Carlisle attento.

Ansimai, stringendomelo al petto. «Brucia» mi lamentai, sentendo il dolore aumentare.

«Solo il braccio?» mi chiese solerte.

«Che sta succedendo?» domandò preoccupato mio marito.

«No» pigolai «brucia tutto, mi brucia» piansi, sentendo il dolore espandersi in tutto il corpo e concentrarsi in un punto: la pancia. Mi piegai su me stessa. «Vi prego, basta! Fatelo smettere! Basta, brucia tantissimo, brucia, brucia, vi prego!» gridai, in preda al dolore sempre più forte «La pancia, mi fa male» singhiozzai «la bambina».

«Bella, calma, non c’è più» tentò di rassicurarmi Carlisle, che intanto mi aveva staccato la flebo.

«Carlisle» lo chiamò Edward angosciato, stringendomi a sé e tentando di calmarmi.

«Non lo so, non sembra una reazione trasfusionale. Non so cosa sia» confessò il padre a denti stretti, sostituendo la sacca rossa con una trasparente.

I miei ansiti si calmarono in pochissimi minuti insieme al dolore, lasciandomi tremante e sudata.

«Stai meglio?» mi domandò mio marito agitato, lasciandomi un bacio sulla fronte.

«Sì» soffiai senza forze «mi sentivo come quando mi aveva morsa James e mi stavo trasformando» sussurrai a voce bassissima fra le labbra bianche.

«Non può essere» soffiò sconvolto Edward.

«La bambina deve aver usato il suo veleno, in qualche modo» mormorò Carlisle con stupore.

«Non voleva il sangue, credo» biascicai chiudendo le palpebre «non quello».

Mio marito si allontanò, angosciato. «Vuole il tuo».

«Non fare così, Edward» mi sforzai di dire «Non è colpa sua. Penso ne abbia bisogno per crescere».

«Beh, non può crescere se ti uccide!» esclamò, rabbioso, allontanandosi da me.

«Edward» lo richiamai, tentando di sollevarmi. Caddi irrimediabilmente indietro. «Ti prego».

«Sta’ attenta» fece Carlisle, aiutandomi a sistemarmi fra i cuscini. «Tranquilla, Bella. Avremo fede nelle leggende e nelle visioni di Alice. Ti supporteremo in tutti i modi possibili».

«Starò meglio» mormorai a mia volta.

«Ti prego, Carlisle!» esclamò disperato Edward «non la illudere. Dille che non può sopravvivere a lungo con questi valori di emoglobina, senza poter fare una trasfusione! Dille che c’è la possibilità che l’unico modo di salvarla sia interrompere la gravidanza».

«Edward» lo fermai con un singhiozzo sconvolto. Non potevo credere che l’avesse detto.

Ma Carlisle stette in silenzio, abbassando il viso, preoccupato.

«Credi che lo dica a cuor leggero? Che io voglia sacrificare una di voi due? Il solo pensiero mi uccide!» confessò Edward angosciato, facendo un passo in avanti nella mia direzione, tormentato «ma se tu morirai, adesso, morirà anche lei e il tuo sacrificio non sarà servito a niente!».

Mi portai le mani alle labbra, lasciando scendere tutte le lacrime dai miei occhi. «Non potrò mai uccidere mia figlia» soffiai fra le lacrime.

Edward distolse lo sguardo con dolore immenso. «Vado a chiamare gli altri. Non si farà nessuna trasfusione stasera» disse prima di scomparire.

Mi sentivo davvero, davvero molto debole, come non lo ero mai stata. Avevo pianto tanto, era quasi notte ed era da troppo che non dormivo. Carlisle mi fece una flebo di ferro, insieme ad altre di vitamine concentrate, dicendo che se la bambina avesse voluto solo il mio sangue avremmo dovuto aiutare il mio organismo a produrne di più.

«Carlisle» lo chiamai, stremata.

Era seduto su una sedia accanto al letto, un libro in mano. Chissà, magari stava studiando un modo per salvarmi la vita. Si chinò alla mia altezza. «Dimmi pure».

«Avrei bisogno di Jasper» mormorai a mezza voce. «Puoi farlo venire da me, per favore?».

«Certo» disse, sollevandosi dalla sedia «Bella» esitò «non avercela con Edward, lui… ha molta paura».

Chiusi le palpebre stanche. «Lo so, non ce l’ho con lui».

«Scopriremo cosa sta accadendo. Andare in ospedale adesso è un rischio perché non c’è quasi nulla di normale in ciò che sta accadendo, ma se servirà faremo anche quello, va bene?».

Annuii. Avrei fatto qualunque cosa. «Grazie Carlisle».

Mi sorrise debolmente, alzandosi. «Ti mando Jasper».

Entrò poco dopo nella penombra della stanza, cauto. Mi chiedevo se ci fosse ancora l’odore del sangue che mi aveva fatto bruciare le vene. Si avvicinò lentamente, quasi avesse paura di spaventarmi, e con calma si venne a sedere sulla sedia occupata precedentemente dal padre. Era come se lo facesse per me, per sembrare meno vampiro.

«Ha paura» sussurrai.

Aspettò un attimo prima di rispondere. «Anche tu».

Stetti in silenzio, arrendendomi a chiudere nuovamente le palpebre.

«Gli umani fanno più errori quando non hanno paura. Da noi, per esempio» fece con calma «hanno più probabilità di salvarsi quelli che hanno paura».

Non mi ero mai resa conto di quanto la sua stessa voce fosse tranquillizzante. «Non sono un buon esempio allora».

Non replicò. I suoi occhi gialli scintillarono nella penombra e sì, capii cosa volesse dire l’istinto di aver paura di un vampiro. Ecco perché non c’erano in giro altre donne che avessero concepito figli con loro.

Sospirai. «Grazie per le vostre ricerche. Mi dispiace che vi abbiano portato lontani dalle vostre mogli».

«Continui a misurare il tempo come un’umana. Non è niente per noi. E poi, Bella, sei parte della famiglia. Anche se desidero sempre bere del tuo sangue» commentò, facendomi rabbrividire. Fece una risatina, e capii che stava scherzando. «Perché sono qui?» mi chiese allora, facendosi serio.

«Puoi confortarlo?» domandai.

Chinò il capo da un lato, studiandomi. «Dici come fratello o con i miei poteri?».

«Entrambi» ammisi stanca.

«Posso provarci. Ma si arrabbierà leggendomi i pensieri. Sono qui solo per questo?» domandò ancora.

Deglutii. «Puoi farmi addormentare, per favore?».

I suoi occhi scintillanti si fermarono sul mio viso. «Lui è l’unico in grado di farlo».

«Non stasera» soffiai, deglutendo il magone.

Sospirò, avvicinando cautamente la sua mano al mio braccio. «Posso?» fece prima di toccarmi.

Annuii pianissimo, e dopo il suo tocco si fece tutto buio. Non fu confortante e dolce come addormentarsi con Edward, e il sonno fu pieno di immagini e incubi tormentati.

Quando mi svegliai mio marito era steso accanto a me sul letto e mi stringeva forte. Avrei voluto dirgli che io non volevo morire, e che ero dilaniata dal dolore che gli stavo causando. Non lo feci.

«Che ore sono?» balbettai, portandomi una mano alla testa «mio padre?».

«Esme ed Alice sono andate a prenderlo» mi rispose semplicemente.

Sapevo che si sarebbe preoccupato non vedendomi, e mi dispiaceva che Esme ad Alice dovessero occuparsene al mio posto, ma non sapevo davvero come avrei potuto fare altrimenti.

Sospirai, facendo leva sugli avambracci per sollevarmi. Mi sentivo molto molto stanca e avevo la testa leggera e pesante insieme.

«Cosa fai?» mi domandò Edward studiandomi. «Rimani giù».

Gemetti, guardandomi intorno. La luce era gialla e bassa, doveva essere già tarda mattinata. «Voglio chiamarlo, adesso sarà preoccupatissimo».

In un attimo era alla porta. «Ti prendo il cellulare» disse, ma sembrava freddo e lontano.

«Edward» lo chiamai imbarazzata prima che si potesse allontanare «ho… bisogno di andare in bagno» confessai.

Sospirò, e un battito di ciglia più tardi era di nuovo accanto a me, tendendomi le braccia per aiutarmi ad alzarmi. Mi aiutò a mettermi seduta, poi mi mise le mani sulle spalle. «Rimani un minuto così, poi ti aiuterò da alzarti» continuò con lo stesso tono distaccato.

Presi dei respiri, sollevando il capo per guardarlo negli occhi, dando tutto il lunghissimo tempo che serviva al mio corpo per adattarsi affannosamente a quella nuova posizione. Ma Edward era perso nel suo sguardo lontano.

«Può farlo Rosalie se preferisci» biascicai, la voce più bassa di quello che avrei voluto.

Si chinò sulle ginocchia. «Sono tuo marito» disse serio «lascia che lo faccia io».

Volevo piangere, ma trattenni le lacrime. Non si trattava di me in quel momento, ma di lui. Volevo che avesse fiducia, volevo rassicurarlo e dargli speranza che sarei stata meglio, che sarei guarita e che sia io che la bambina saremmo state bene.

«Okay. Mi sento meglio» mormorai a mezza voce, ed un po’ era vero. Ieri non avrei neppure potuto immaginare di stare seduta. Ma quando mi prese le mani fra le sue le sentivo formicolare tantissimo e quando fece per alzarmi mi sentii cedere immediatamente le ginocchia.

Mi strinse al suo corpo per non farmi cadere e non disse nulla.

«Edward, io…» provai senza fiato.

«Shh, non parlare» fece, tenendomi stretta a sé.

Strinsi forte le mani ai suoi avambracci. Il cuore mi batteva fortissimo, la testa mi girava tantissimo e mi sentivo sudata e pallida. Lentamente riuscì a scortarmi fino in bagno e poi di nuovo fino al letto. Fu faticosissimo e sentirlo così distante da me mi faceva sentire peggio.

Riuscii a chiamare mio padre ma non riuscii a rassicurarlo fino in fondo, perché la mia voce era debole come non mai. Rosalie gli parlò al mio posto, convincendolo che il giorno precedente mi ero stancata molto e che dovevo stare un po’ più a riposo, niente di più.

Quando Carlisle venne a visitarmi con i risultati dei test che avevamo fatto il giorno precedente capii dal suo viso quanto seria fosse la situazione. Disse che l’emoglobina era scesa ancora, anche se molto poco.

Non protestai quando mi portarono in ospedale. Mi fecero delle ecografie, una risonanza magnetica, e degli altri esami del sangue. Carlisle provò di nuovo a farmi una trasfusione con una sacca di sangue diversa, preparata in modo differente e dandomi prima del cortisone, ma la reazione fu la stessa della prima volta e dovemmo interrompere subito.

«Ce la fai?» mi domandò Edward mentre mi accompagnava fuori dalla stanzetta dove Carlisle mi aveva appena prelevato un aspirato midollare. L’ultima spiaggia per capire quanto di “umano” ci fosse in quello che mi stava succedendo e come aiutarmi.

Annuii a denti stretti, ignorando zoppicante il dolore al bacino e concentrandomi solo per mettere un passo davanti all’altro e portare avanti il mio corpo che m’implorava solo di avere pietà.

«Edward» lo avvertì Rosalie quando tremai più forte, sbandando, pallidissima e sudata.

Mi tenne su con forza.

«Ce la faccio» deglutii a fatica, stentando persino a respirare.

Scosse il capo. «Lascia che ti prenda in braccio».

Presi un paio di respiri, aspettando inutilmente di vederci ancora oltre il buio dei miei occhi. «Ce la faccio» ripetei ancora.

Sentii al mio orecchio un ansito doloroso, quasi un singulto di un pianto. Era il verso straziante della disperazione di mio marito, ed io non sapevo come aiutarlo. Mi strinse il capo contro il suo petto. «Amore mio» iniziò pianissimo, attento a non sconvolgermi ancora «sei esausta. Nessun umano potrebbe farcela nelle tue condizioni. Lascia che ti prenda io, ti porterò a casa e potrai riposarti».

Annuii con un sospiro, arrendendomi fra le sue braccia, e mi sentii subito un po’ meglio. «Domani starò meglio» tentai debolmente, ansiosa, ma non mi rispose.

Mi strinse a sé, lasciandomi un bacio sulla fronte, trasportandomi dolcemente verso l’uscita. «Dormi, riposati» mormorò, cullandomi fra le sue braccia sul sedile posteriore dell’auto.

«Dov’è?» chiesi la mattina successiva quando mi svegliai. Nella stanza c’erano Carlisle e Rosalie.

«Bella, tesoro, ti sei svegliata» disse mia sorella venendomi vicino. Mi prese la mano abbandonata accanto a me sul copriletto, collegata a due tubicini di due sacche di flebo differenti. «Puoi dormire un altro pochino se vuoi» fece con dolcezza, carezzandomi il dorso della mano con il pollice.

Presi un piccolo respiro superficiale. «Dov’è andato?» domandai ancora, cercando di non dare a vedere quanto mi mettesse in crisi la sua assenza.

Carlisle si avvicinò, sorridendomi per rassicurarmi. «È uscito con Emmett, voleva convincerlo a cacciare» disse tranquillo e rassicurante, e quasi gli avrei creduto se non avesse aggiunto più teso «Ieri è stata una giornata difficile in ospedale».

Chiusi gli occhi. Dal mio petto si levavano dei respiri piccoli e superficiali. «I test sono tutti negativi, vero?» sussurrai a malapena.

Tentò di rassicurarmi ancora. «Non deve essere per forza una cosa negativa. Il distacco amnio-coriale è rimasto stabile. Vuol dire che non hai un’emorragia, un’aplasia midollare o una leucemia o tante altre malattie più gravi».

«No» biascicai senza fiato, riaprendo gli occhi e portandomi le mani alla pancia «vuol dire che dipende dalla bambina».

Annuì, molto serio.

E in quel momento capii che c’era qualcos’altro che non mi stava dicendo. «È scesa ancora».

Fece un lunghissimo sospiro, poi annuì. «4.9».

Presi un ansito fra i denti, realizzando che la situazione era molto, molto grave.

Rosalie mi strinse la mano. «Bella, non vuol dire molto, è un decimo di punto rispetto a ieri, che vuol dire realisticamente che è praticamente stabile».

«Sì, è vero» intervenne Carlisle «ma è vero anche che è pericolosamente bassa, molto pericolosa non solo per te, ma anche per la perfusione della placenta e quindi per la bambina».

«Non si può fare niente?» domandai ansiosa «forse possiamo riprovare con la trasfusione, potrei resistere al dolore» provai debolmente.

«Bella» fece, stringendo le mani nei pugni. Mi sorrise con tenerezza, rilassando la sua postura «anche se resistessi al dolore probabilmente ti trasformeresti, e in quel caso la gravidanza non avrebbe modo di evolvere».

Scossi il capo, disperata. «Cosa posso fare allora?».

Posò la sua mano sul mio avanbraccio, accanto alla cannula della flebo. «Ti supportiamo, aspettiamo che il tuo corpo reagisca, e speriamo che questo sia il nadir».

«Il nadir?».

Annuì, serio. «Il punto più basso da cui si può solo risalire».

Il mio nadir con Edward fu quel pomeriggio.

«Rosalie» chiamai agitata, tremando. Avevo freddo, e le mani e i piedi mi formicolavano così tanto che sembravano punti da un milione di spilli acuminati. «C-chiudi la finestra p-per favore» ansimai appena la sentii entrare in camera.

«È già chiusa» mi rispose una voce, e non era quella di Rosalie. Un attimo più tardi avevo addosso un’altra coperta. Mi servì un intero minuto per smettere di tremare e ancora non sapevo cosa dire o fare.

«Hai mangiato?» mi domandò mio marito, scrutandomi dalla sedia dov’era seduto, accanto al letto.

Presi almeno quattro o cinque respiri in dieci secondi. Non ce la facevo più a fingere di stare meglio del terribile stato in cui ero ridotta. «Lo sai già» sputai fra i respiri ansimanti. «Nemmeno tu» aggiunsi poi, guardando i suoi occhi nerissimi.

«Non ci sono riuscito» confessò disperato. Fece per avvicinare una mano a carezzarmi, ma si bloccò. Poi, con un sospiro completò il suo gesto, accarezzandomi i capelli. «Appena ho addentato la preda ho pensato che fossi tu e che ti stessi dissanguando» confessò angosciato.

Scossi il capo, mentre osservavo tutto l’abisso della sua agonia. «Non so come fare per farti stare meglio» ammisi con la voce soffocata.

Strinse i denti, una maschera di dolore e disperazione sul viso. «C’è solo un modo, lo sai».

«Edward» singhiozzai.

«Ti prego» gemette a sua volta «non sono pronto a perderti» m’implorò angosciato.

«Io… non posso…» piansi disperata.

«Bella, ti supplico. Come fai a non vederlo?» fece terrorizzato «Carlisle dice che con questi valori di emoglobina potresti resistere una settimana, al massimo dieci giorni. Sempre che non peggiori, perché in quel caso moriresti subito!» esclamò, sbattendomi in faccia la realtà. «E non potrò trasformarti, perché il tuo fisico sarà troppo debilitato».

Strinsi le labbra bianche fra i singhiozzi. «La bambina…».

Sotterrò il viso sulle coperte, accanto a me, stringendomi la mano con le sue. «Non sai quanto mi uccida perderla. Ma non posso, non posso perdere entrambe. Ti prego, Bella, ti prego. Abbiamo fatto tutto il possibile. Non morire. Ti prego, non morire» singhiozzò.

Presi un respiro, sconvolta dal suo dolore. Portai una mano a carezzargli i capelli. Avevo così tanta paura di morire, e le sue parole sconvolte erano così convincenti. Che senso avrebbe avuto sacrificarmi se nostra figlia sarebbe comunque morta con me? Ero davvero troppo malata e irrazionale per capirlo?

Edward se ne accorse, che stavo vacillando. Sollevò il capo, osservandomi con il suo sguardo devastato. «Carlisle ti addormenterà, non sentirai nulla. Lo so che sarà la cosa più difficile che faremo nella nostra esistenza, ma la supereremo insieme» incalzò, disintegrando dalla mia mente l’immagine di nostra figlia, felice, fra le nostre braccia.

Mi portai una mano alla pancia, sfiorandola.

«Non è colpa tua, non è colpa nostra. Lei non può vivere in te, mi dispiace. Sarà per sempre la nostra bambina, la ameremo per sempre, Bella» continuò persuasivo. Così persuasivo, così razionale, così giusto.

Strinsi forte la stoffa del mio pigiama. Non avevo mai avuto il tempo di desiderare un figlio. Ora che lo avevo avuto, semplicemente lo amavo, come non avevo amato nient’altro nella mia vita. Più di me stessa. «Tu» biascicai, guardandolo negli occhi dilaniata dalla sofferenza «hai sentito il battito del suo cuore. Come puoi volerlo fermare?».

Chiuse le palpebre, addolorato. «Bella».

Presi un respiro. «Non c’è solo un modo, lo sai. Potrei riprendermi».

Scosse il capo, guardandomi come se avessi perso il senno. «È troppo rischioso» esclamò agitandosi «Potresti morire. Che senso avrebbe avuto tutto quello che abbiamo passato? La nostra separazione, Jacob, la tua ripresa? Il nostro amore? Che senso avrebbero allora? Ti prego, fallo per noi».

«Edward» dissi ferma nonostante la mia voce flebile «se davvero mi ami non usare mai più le mie paure contro di me. Se davvero mi ami capirai la mia scelta. Perché l’ho già presa. E se tu non sarai d’accordo lo capirò. Ma allora devo chiederti di non tornare da me finché non avrai cambiato idea» dissi con voce spezzata.

Si sollevò di scatto, facendo ribaltare la sedia. «Perché non riesci a capire! Morirete entrambe e non mi rimarrà altro che uccidermi!» gridò, lanciando la sedia contro la parete e lasciandola disintegrare.

Tremai senza fiato, ammutolita.

I suoi ansiti si calmarono e i suoi occhi si riempirono di terrore per ciò che aveva appena fatto. «Bella, io…» provò a chiamarmi.

Mi strinsi una mano al petto, chiudendo gli occhi e rannicchiandomi su me stessa in posizione fetale. «Ti prego. Vai via adesso».

Ci vollero dieci lunghissimi secondi. Poi scomparve. Fu il nadir, ho detto. Ma ancora non avevamo iniziato a risalire dal fondo.

Quella notte non riuscii a dormire un secondo, neppure con l’aiuto di Jasper. Carlisle mi propose di prendere dei sonniferi, ma decisi che se avessero dovuto essere gli ultimi momenti di vita con mia figlia avrei voluto godermeli tutti. La mattina seguente mio padre richiamò. Avrei tanto tanto voluto assicurarmi che stesse bene, ma non ne ero nelle condizioni. Lasciai che Alice e Rosalie andassero da lui ad occuparsene e a trovare una scusa per me.

Speravo che mi sarei sentita meglio, ma quel giorno non riuscii neppure a mettermi seduta. Carlisle mi disse che l’emoglobina era stabile, ma che con le supplementazioni che mi stava dando avrebbe dovuto già cominciare a risalire. Mi diede un po’ di ossigeno e l’affanno si placò lievemente.

Edward non comparve.

Non aveva cambiato idea e quel pensiero si univa all’idea della mia morte vicina gettandomi nella disperazione. Volevo combattere, avevo qualcuno per farlo, ma non avevo più la forza di farlo. Perché quel qualcuno mi stava uccidendo. Aveva sete, e non aveva di che bere se non di me.

Sospirai, stringendomi la coperta addosso. «Hai freddo?» mi domandò Alice venendomi vicino.

«Un po’» sussurrai a mezza voce.

«Vuoi andare di là? C’è il camino acceso e possiamo sistemarti sul divano» mi propose.

Deglutii. «Non so se» iniziai, ma la voce mi morì in gola «non ce la faccio a camminare».

«Vieni, ti porto io» disse avvolgendomi nella coperta e sollevandomi fra le sue braccia. Incredibile come riuscissi a dimenticare della sua forza per via della sua statura minuta.

Nel soggiorno c’erano Emmett, Rosalie e Jasper che discutevano davanti alla vetrata che dava sul bosco. Rosalie si staccò dal gruppetto, avanzando con il suo passo felino verso la sorella, aiutandola a sistemarmi sul divano, assicurandosi che i miei piedi fossero ben coperti e che il fuoco fosse acceso.

«Di che parlavate?» mormorai incerta.

Alice e Rosalie si guardarono, poi lei scrollò le spalle, decidendosi a dirmi la verità. «Parlavamo della sconosciuta che ha incontrato tuo padre. Non è facile identificarla».

Crucciai le sopracciglia preoccupata. «Può essere pericolosa?».

Rosalie scosse il capo. «No, ma saremmo più tranquilli sapendo chi sia. Organizzeremo delle ricerche, ma non ora. Abbiamo bisogno che prima tu stia meglio, fidati di noi».

Combattuta decisi di arrendermi ad annuire. Non avrei potuto fare molto, comunque. Presi le mani di entrambe, guardandole. «Grazie per il vostro aiuto» mormorai.

Rose mi fece un piccolo sorriso, dandomi un buffetto sulla guancia. «Figurati tesoro. Carlisle è da tuo padre, ha detto che sta bene e sta tornando. Dice che potresti mangiare se vuoi, potrebbe aiutarti».

Scrollai le spalle. «Posso provarci».

Annuì, sorridendo. «Dammi solo un attimo».

Alice si sistemò accanto a me sul divano, prendendomi i piedi avvolti dalla coperta e iniziando a massaggiarli. Volevo chiederle se vedesse qualcosa, ma sapevo già che non era così, altrimenti me lo avrebbe detto. «Come sta mio padre?» le domandai.

Non distolse lo sguardo dal fuoco. «Non si è bevuto la storia che eri stanca. Sa che stai male, ma non sa quanto».

Forse non l’avrei più rivisto. Avrei voluto dargli quel bacio prima di andarmene. Rabbrividii, tirando giù la manica del maglione, ma la cannula della flebo rimase impigliata. «Ahi» bisbigliai, provando a liberarla, ma non feci che peggiorare la situazione.

«Bella, aspetta, ti aiuto io» disse Alice venendo in mio aiuto, ma appena mi sfiorò il braccio un paio di gocce di sangue scivolarono sulla mia pelle.

Sollevai lo sguardo sul viso di Alice, che si era immobilizzata, smettendo di respirare.

«Alice» ansimai preoccupata.

Si sollevò, indietreggiando di un passo, gli occhi improvvisamente neri. «Okay, tranquilla. D-devo… dammi un attimo» disse, battendo le palpebre.

Mi voltai spaventata a controllare la vetrata, ma né Jasper né Emmett c’erano più.

«Alice» la chiamò la voce di Rosalie alle mie spalle «ce la posso fare» disse con voce estremamente concentrata «esci, va’ da Jasper».

Presi dei respiri superficiali. «Ragazze io… mi dispiace» ansimai.

Alice scosse il capo, concentrandosi sul mio corpo tremante. «Rimango».

«No» fece la voce di mio marito, facendole volgere entrambe nella sua direzione, alle mie spalle. «Andate».

«È solo poco sangue, ce la possiamo fare» protestò Rosalie.

Edward si materializzò al mio fianco, facendomi trasalire. Mi liberò dal maglione, studiando l’accesso venoso che si era sposizionato. «Andate» fece ancora, concentrato, senza guardarmi «ho bisogno di stare solo con mia moglie».

Strinsi le labbra, ma non protestai.

Alice sollevò lo sguardo verso la sorella e le fece un cenno con il capo. Prima di andarsene portò un pacchetto di garze e un rotolino di cerotto.

Edward mi sfilò con un gesto l’accesso e tamponò la piccola perdita con una garza, coprendola poi con il cerotto.

M lasciai andare con il capo sullo schienale del divano, troppo stanca. «Mi dispiace» bisbigliai con un filo di voce.

Sospirò, sollevando lo sguardo sul mio. «Di cosa?».

Chiusi gli occhi, stanca. «Oh Edward, lo sai. Non è di quello che posso essere dispiaciuta e se ancora non hai cambiato idea…».

«Non ho cambiato idea» disse, facendomi riaprire gli occhi «ma non voglio passare gli ultimi giorni di vita di mia moglie lontano da lei».

Strinsi le labbra, trattenendo a stento le stanche lacrime. «Nemmeno io».

Mangiai sul divano, mandando giù boccone dopo boccone con sofferenza, ma riuscendo infine a non vomitare. Mi sfregai gli occhi, stanca.

«Vuoi dormire?» mi domandò, scrutandomi.

Annuii debolmente, lasciando che mi prendesse fra le braccia e mi portasse in camera. Mi tenne stretta al suo petto mentre sollevava le coperte e mi adagiava sulle lenzuola.

«Mi aiuti, per favore» balbettai, cercando di liberarmi della coperta in cui mi aveva avvolto Rosalie, troppo debole per farlo da sola.

«Aspetta» fece, bloccando i miei deboli tentativi. Ma quando mi tolse la coperta le sue mani finirono accidentalmente sul mio fianco e si bloccò, immobile. Il suo sguardo era perso, sorpreso.

Battei le palpebre, confusa. «Che succede?».

Spostò la mano dal fianco alla pancia, lentamente, senza distogliere lo sguardo dal mio ventre.

Rabbrividii, per un attimo spaventata di trovarmi sola con lui. E se avesse voluto…? No, non avrebbe mai potuto…

Sollevò il suo sguardo sul mio, realizzando di avermi spaventata. «No, io…» mormorò sorpreso «è cresciuta. Si vede».

Mi portai le mani alla bocca, sconvolta. «Si vede?» balbettai emozionata.

Annuì, continuando a tenere le mani sulla pancia. Misi le mani sulle sue, lasciando scendere le lacrime. «Oh, Edward. Ne ha così bisogno. Non posso non darle così di cui ha bisogno. Non posso».

Chiuse gli occhi, portando il suo viso sul mio ventre. «Se solo potessi darle io quello che le serve. Se solo potessi aiutarvi in qualche modo».

«Ti prego» sussurrai, stringendo la sua mano «resta con me. Resta con me stanotte. Non posso dormire senza di te. Non ce la faccio più a non dormire».

Sollevò il viso addolorato e annuì. «Resto».

Dormii, e il giorno dopo quando mi svegliai stavo meglio. Carlisle disse che mi stavo solo “adattando emodinamicamente” alla nuova situazione perché l’emoglobina non era risalita, ma io ero contenta: non era neppure scesa.

Mi sistemò un nuovo accesso venoso a prova di maglioni e vampiri e mi collegò h/24 a delle sacche di flebo. Stava dando una scossa al mio corpo per convincerlo a produrre più sangue. Più di quello che voleva da me mia figlia.

Ma anche il giorno successivo, quando mi svegliai, l’emoglobina era ancora stabile.

«Devo fare pipì» furono le prime parole che dissi appena sveglia.

Rosalie ridacchiò. «La gravidanza».

«Tre litri di liquidi in vena» ribatté suo fratello, prendendomi fra le braccia.

«Aspetta» gli dissi in bagno, appoggiandomi con le mani ai bordi del lavello e guardando il mio viso. Era pallido, con una lieve sfumatura grigiastra. «Vorrei lavarmi i denti» dissi, prendendo lo spazzolino.

«Ce la fai?» mi domandò incerto, sorreggendomi per il gomito.

Annuii, e per qualche strano motivo le vertigini non aumentarono. Era un grande sforzo tenermi in piedi, ma era un miracolo che ci stessi riuscendo senza il suo aiuto.

«È cresciuta ancora?» domandai, abbassando il viso e carezzandomi la pancia.

Strinse le labbra. «Sì» sospirò infine «pare di sì, anche se molto poco».

Sorrisi. Sapevo che era terrorizzato da quello che mi stava facendo, ma sapevo anche che nel suo cuore era felice di sapere che nostra figlia stava bene e che stava crescendo. Portai una mano sulla sua, guardandolo con amore. «Torniamo di là, i tre litri di flebo mi stanno aspettando».

Mangiai e non vomitai. Dormii. Presi i farmaci. Chiamai mio padre. Mangiai ancora, e anche questa volta non vomitai. Dormii. Presi altri farmaci. Mi feci fare altri esami. Mangiai. E quasi mi preoccupai, perché non avevo vomitato né avuto la nausea per un giorno intero e Carlisle mi aveva detto in tempi non sospetti che la nausea era un buon indicatore del benessere della bambina.

Così feci fatica quella sera ad addormentarmi, anche fra le braccia di Edward. Ma quando mi svegliai non aspettai il suo aiuto. Era ancora buio nella stanza e mi alzai di scatto per correre con la mia debole velocità umana verso il bagno a vomitare tutta la cena.

Quando ebbi finito appoggiai la guancia, sfinita, sul bordo della tazza del water. Portai una mano alla pancia. Mi girava la testa, ma mi sentivo sollevata: la bambina era ancora lì.

Edward mi studiava, cauto, dalla porta.

«Che c’è?» ansimai incerta, sollevando a fatica il capo.

«Una bella corsetta, eh?». Si materializzò al mio fianco, prendendo il mio polso e portandoselo al naso. Corrucciò le sopracciglia, dubbioso.

«Cosa?» domandai perplessa «che dovevo fare, vomitare sul pavimento?».

«Carlisle» lo chiamò Edward, sollevando solo appena il tono della voce ed ignorandomi.

Sospirai. «Fantastico. Fammi prima tirare lo sciacquone almeno. Non capisco perché devo avere sempre tutto questo pubblico quando vomito. Ciao Carlisle» lo salutai arrendevole.

Sorrise appena. «Ciao Bella».

Edward mi aiutò a tirarmi su per sedermi sul water. Prese il mio polso e lo porse al padre con uno sguardo carico di aspettative. Si avvicinò subito.

«Che sta succedendo?» domandai, facendomi seria. Qualcosa era cambiato.

Lo sguardo di Carlisle si riempì di sorpresa e anche forse di… sollievo.

Edward sospirò, contento, stringendomi forte al suo petto.

«Sta risalendo. Poco, ma sta risalendo» mi disse Carlisle, guardandomi intensamente.

Mi portai una mano alle labbra, commossa. «È una buona notizia, vero?» balbettai.

Annuì con un sorriso appena accennato. «È una speranza».

Annuii a mia volta, stringendomi forte a mio marito, emozionata. Finalmente una speranza.

Quel giorno mi controllarono ancora, molte volte. Quella sera dissero che era salita ancora un po’ e la mattina seguente non ebbi bisogno di domandare. Edward, al mio fianco, sorrideva e io mi sentivo decisamente più in forze.

«Quanto?» biascicai, le labbra ancora impastate dal sonno.

«7.5. Non basterà per la maratona di New York ma credo sia abbastanza per tenerti in piedi».

Sorrisi a mia volta, carezzando la piccola pancia. «È quello che ci serve».

«Bella» mi chiamò mio marito incerto e preoccupato. «Nessuno ci dice che non capiterà ancora. Adesso che è lunga qualche centimetro ti ha quasi uccisa. Non sappiamo cosa succederà quando sarà molto più grande e avrà sicuramente maggiori esigenze».

Gli carezzai una guancia. «Hai ragione, non lo sappiamo. Non possiamo far altro che sperare che non succeda ancora e tenerci pronti a far fronte al momento in cui succederà. E vivere tutti questi giorni insieme».

Sospirò, annuendo incerto, chinandosi sulla mia pancia. Mentre si chinava, però, si bloccò, stupefatto. Poi prese il mio polso fra le mani, portandoselo al naso, e subito dopo scese con il viso verso la mia pancia. «Carlisle» chiamò sorpreso.

«Che hai sentito?» domandai, mettendomi a sedere.

Sgranò gli occhi, sorpreso, spostando lo sguardo da me al padre. «Mi sembra davvero strano, controlla anche tu. È come se ci fossero due livelli di emoglobina differenti».

 Battei le palpebre, confusa, lasciando che mi esaminasse anche suo padre.

«Hai ragione» disse infine, sorpreso quanto il figlio «dovevo pensarci prima! È come se la bambina avesse immagazzinato dentro di sé un’ingente quantità di sostanze nutrienti, sangue e zuccheri, che le sono necessari per crescere».

Sospirai con un sorriso e carezzai ancora la minuscola pancina sotto cui era nascosta nostra figlia, commossa. «Sono sicura che adesso andrà tutto meglio. Cresci, piccolina».

Edward si chinò a lasciarmi un bacio sulla pancia. «Non bere più il sangue della mamma» disse, facendomi ridere fra le lacrime.

«Sei solo geloso» scherzai debolmente.

Sorrise a sua volta, avvicinando le sue labbra alle mie. «Eccome. Nessuno deve bere il tuo sangue» fece, lasciandomi un lunghissimo bacio alla base del collo.

Rabbrividii. Volevo davvero che andasse tutto bene.

   
 
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