Vorrei ringraziare tutti colore che mi
hanno aggiunto tra i preferiti o le storie seguite! E grazie a chi mi segue e
commenta assiduamente! ^_^
Capitolo 10
Lunga
salita
POV Kristen
E quando pensi che sia finita
È proprio allora che comincia la salita.
Che fantastica storia è la vita.
Salii
in camera mia e mi buttai sul letto sbattendo la porta alle spalle. Sprofondai
la testa nel cuscino del tutto incurante della mia reazione e del mio
comportamento. Certo avrebbe voluto delle spiegazioni. Ma come potevo fare
chiarezza a lui se non sapevo nemmeno io che diavolo era successo.
Come
avevo potuto fare una cosa del genere? Come era potuto accadere?
In
un secondo mi ero trovata accanto a lui, a un centimetro dalle sue labbra, a un
millimetro dal suo respiro freddo. Potevo sentirlo ansimare sulle mie guance.
Perché
cavolo mi ero avvicinata in quel modo?
Era
stato tutto involontario, spontaneo, naturale e senza che me ne rendessi conto
ero lì, a un passo dal rovinare tutto. O forse era troppo tardi ed era già
tutto rovinato.
Cosa
sarebbe successo se il telefono non ci avesse interrotti? Probabilmente mi
sarei scostata un secondo prima o forse avrei continuato ad accorciare la
distanza tra noi e unito le nostre labbra. Preferii codardamente non pensarci
provando a renderlo colpevole di tutto.
Che
sfrontato che era stato. Come aveva potuto farmi un tale affronto? Come aveva
potuto crede che..? cercavo disperatamente di buttare la colpa su di lui, di
alleviare la mia frustrazione e redimermi dai sensi di colpa. Ma era inutile.
La
verità era che avevo colpa quanto e più di lui.
Mi
ero avvicinata. Avevo sentito il suo respiro infrangersi contro il mio, non potevo
negarlo.
L’avevo
assecondato, mi ero lasciata trasportare. La domanda a cui non riuscivo a dare
risposta era, perché?
Cosa
avrei fatto? Come avrei dovuto comportarmi? Cosa avrei detto?
Cercando
una risposta a quelle domande non potei fare a meno di pensare a Michael. Avevo
cercato di porlo in coda ai miei problemi e sperato che non vi rientrasse per
niente.
Non
si arrabbierà, pensavo. Ma ingannavo me stessa.
In
realtà non avevo ancora considerato l’ipotesi di raccontargli tutto.
Non
sapevo cosa avrei dovuto dirgli. Non sapevo come avrebbe reagito.
Mi
logorai per non so quanto tempo, rigirandomi nel letto, cercando di prendere
sonno, ma non riuscivo proprio a chiudere occhio.
Qual
era la cosa giusta da fare? Mi stesi a pancia in su e fissando il soffitto
elaborai le possibilità, che in realtà erano poche: verità o bugia.
Avrei
voluto davvero raccontargli la verità, avrei voluto dirgli che non c’era stato
niente, avrei voluto dirgli di non preoccuparsi, ma ero troppo terrorizzata
dalla sua reazione.
Nel
timore che cresceva in me e nel dubbio che si divideva tra un assurdo perdono e
una giusta condanna, non riuscii ad essere onesta nemmeno con me stessa.
Ero
innamorata di Mike. Lo ero sempre stata. Eppure perché tutti questi dubbi?
Per
cosa poi…per uno che conoscevo appena da una
settimana.
Mike
era troppo importante per me; era il mio punto fermo, l’appiglio a cui
aggrapparmi in caso di bisogno, una boa in un mare in tempesta. La sola idea che
mi lasciasse mi creava un nodo in gola.
Non
potevo permettere che tutto fosse mandato all’aria da una stupida sbandata
insensata.
Inizialmente
optai per la verità, per l’onestà. In fondo davvero non c’era stato niente, dal
punto di vista fisico almeno, però “Sai amore, ero a un millimetro dalle sue
labbra ma non le ho toccate” non sembrava una giustificazione convincente.
Finii quindi per scegliere di non dire niente. In fondo se non aveva
significato niente, inutile parlarne. Omettere quel particolare non avrebbe
fatto male a nessuno.
Tuttavia
i miei problemi non finivano lì. Restava il cruccio principale che ancora
tormentava la mia mente. Cosa avrei detto a lui? come avrei giustificato il mio
comportamento? Avrei potuto dirgli che mi ero lasciata trasportare dalla parte
e dal personaggio, ma dubitavo che l’avrebbe bevuta. Forse era meglio dire la
verità. Si, ma come potevo dirgli una verità che nemmeno io conoscevo?
Un
semplice impulso, un inaspettato e passeggero impulso. Ecco cosa gli avrei
detto. Avrei chiarito il giorno dopo. Dovevo farlo.
Cercai
più volte di addormentarmi, ma avevo troppa paura di quello che avrei potuto
sognare. Chiudendo gli occhi l’unica immagine che mi saltava alla mente era
quella imbarazzante e imprevista scena. Se fosse dipeso da me sarei stata tutta
la notte sveglia per evitare di vederla ripetersi migliaia di volte, ma la
stanchezza ebbe la meglio e fui costretta ad addormentarmi accompagnata dal
ricordo di quel bacio mancato.
Fortunatamente
la notte passò tranquilla, senza brutti scherzi o sogni, tuttavia non potei
dire lo stesso della giornata.
Mi
svegliai con più dubbi e domande della sera prima, senza contare l’ansia che
già mi assaliva per la serata.
Una
festa non era certo l’ideale per rilassarmi, non in quella situazione almeno.
Eppure
era quello che mi aspettava e l’idea non mi allettava per niente, ma non c’era
modo per me di rifiutarmi.
La
scrittrice, Stephenie, era stata così gentile da organizzare un party per
conoscere tutto il cast, per conoscere i suoi Edward e Bella e per dare
occasione a noi di conoscerci, che sarebbe stato del tutto impossibile tirarmi
indietro. Ero la protagonista. Qualsiasi scusa non sarebbe bastata.
Così,
ebbi la luna storta per tutta la mattinata. Cercai di concentrarmi sui compiti,
sullo studio, ma niente. Bè, certo, avendo lasciato
la scuola al 7° grado ero avvantaggiata. Niente lezioni da seguire, niente
assenze da giustificare, ma dovevo comunque studiare da casa per poi dare degli
esami che mi convalidassero il diploma.
Quando
mi resi conto di stare da tre ore, letteralmente, sullo stesso problema di
algebra, rinuncia definitivamente. Già odiavo di mio quella materia, e sperare
di riuscire a capirla con i pensieri che mi ronzavano in testa sarebbe stata
una mera illusione, nonché perdita di tempo. Così passai presto al copione,
decisamente più allettante, e al quale dedicai tutto il pomeriggio. Dovevo
ammettere di sentirmi un po’ insicura. In due sere avevamo combinato poco e
niente – a livello professionale almeno – e mi chiesi se quel poco che avevamo
fatto sarebbe bastato. Non potevo fare brutta figura. Non era da me dimenticare
la parte come mi era successo al provino. Lo ripassai diverse volte, studiando
bene le parti che ancora non avevo ben memorizzate fino ad averle stampate
nella mia memoria. Nonostante questo continuai a leggerlo diverse volte.
6:30.
È presto. Lo leggo ancora.
7:05.
Ma si! C’è ancora tempo.
7:35.
Magari un’ultima volta.
Cercai
di convincermi della mia professionalità nel voler studiare tutto nei minimi
dettagli, ma la verità era che stavo solo rimandando l’inevitabile.
Inoltre,
come se non bastasse, un’ulteriore nube nera si condensò sulla mia testa: cosa
avrei messo?
Ah!
Che problema ogni volta!
Avrei
tanto voluto andare in giro sempre in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica,
ma per le premiere, feste o occasioni del genere, un tale abbigliamento sarebbe
stato decisamente poco consono. Sempre la stessa storia: poco femminile. Ecco
cosa dicevano i miei di me.
“Tesoro,
sei così bella! perché non vuoi farlo vedere?”. Tipica frase da circostanza per
ogni evento particolare.
Così
puntualmente mia madre se ne usciva con qualche nuovo acquisto comprato per
l’occasione, sempre vestiti, si intende. Alcuni li avevo posti nell’armadio e
mai messi. Erano o troppo corti, o troppo sontuosi: decisamente non il mio
genere di cose. Se proprio dovevo farlo preferivo qualcosa di semplice e
particolare al punto giusto. Niente di troppo appariscente.
Tuttavia
quella sera sentivo il bisogno di agghindarmi, di sembrare bella e attraente.
Ma per chi poi?
Cercai
di rimuovere presto questo strano impulso e di trovare la me stessa di sempre,
ma non mi abbandonò e nel frattempo il tempo passava.
“KRIS!”
un urlo quasi disumano mi destò dai miei pensieri. “MA COSA FAI ANCORA IN
PIGIAMA! NON SAI CHE ORE SONO?”.
Certo
che lo sapevo. Quel tic-tac non aveva fatto altro che suonare imperterrito
nella mia testa.
“TI
VUOI MUOVERE?!” urlò ancora mia madre.
“Mamma..stavo
pensando di non andare..” le dissi sorprendendo anche me stessa per quella
uscita. Non andare era impossibile…anche se molto
allettante.
“COSA?!
Non se ne parla nemmeno! Tu sei la protagonista e devi andare! Sarebbe una
grave mancanza di rispetto non presentarti”.
Aveva
ragione. “Ma non so cosa mettere..” mi lamentai.
Un
sorriso a 364 denti si aprì sul suo viso mentre prendeva un sacco
dall’appendiabiti dietro la porta. “E io che ci sto a fare?!”. L’emozione era
leggibile dalla sua voce, un’ottava superiore alla norma.
Era
davvero incredibile.
“Mamma…” mormorai mentre scorreva lentamente la cerniera.
Non potevo guardare. Chissà che cosa mi avrebbe rifilato questa volta. Già mi
vedevo vestita come un fenomeno da baraccone, con un nastro indecente tra i
capelli oppure una gonna a palloncino tanto larga e alta da farmi sembrare una
mongolfiera. Increspai la fronte e strinsi le labbra in attesa di quello
scempio finchè non si rivelò davanti ai miei occhi,
del tutto sorpresi.
Wow.
Non potevo credere ai miei occhi. ero del tutto sorpresa da quello che vedevo.
Niente cinghie, niente cinture larghe quanto il continente USA, niente nastrini
penzolanti dappertutto.
Era
un semplicissimo vestitino nero a giro-maniche, con una specie di ricamo sulla
spalla destra, una molla a stringere leggermente la vita e di lunghezza media e decente. Sembrava
arrivasse alle ginocchia, mentre il lato sinistro scendeva leggermente più
lungo.
“Wow..mamma..è…perfetto..” mormorai silenziosa ma sincera.
Mi
sorrise compiaciuta. “Bene! Problema risolto! Or vai a prepararti o farai
tardi! Ah e tieni anche queste!”.
Ovviamente!
Tacchi! Con un vestito non potevano mancare i tacchi! Che cosa assurda e
crudele. Non so se fosse il lato femminista in me a parlare ma sentivo che
fosse del tutto ingiusto che dovesse essere sempre la donna a soffrire.
Insomma: ciclo, ceretta, tacchi…per non parlare del
parto!
Malvolentieri
accettai le scarpe sbuffando consapevole che per quanto potessi battermi, la
mia condizione di donna non sarebbe cambiata e mi toccava quella tortura.
Cercai
di fare tutto in fretta, per non arrivare in ritardo, ma curando comunque i
particolari. Lasciai i capelli sciolti e mi truccai in modo leggero: un po’ di
fard, ombretto e matita.
Ero
pronta. Mi preparai ad affrontare la serata.
Scesi
le scale e trovai tutti lì. I miei genitori e mio fratello ad aspettarmi e
sorridermi come un branco di scemi imbambolati.
“Che
c’è? Perché state tutti qui?”
Di
tutta risposta mio padre si limitò a sorridere e mi cinse leggermente le
spalle. “Sei bellissima” mi sussurrò all’orecchio.
“Siamo
molto orgogliosi di te” aggiunse mia madre.
Non
era la prima votla che mi trovavo in una situazione
del genere, eppure ogni volta non mancavano di darmi il loro appoggio.
Inizialmente non erano od’accordo per le mie scelte, ma non mi avevano mai
impedito niente. Forse per una figlia adolescente la prospettiva di un incerto
futuro da attrice, in un mondo complicato e ingrato, non era certo quello che
desideravano, però col tempo avevano accettato i pregi e i difetti del mio
lavoro e alla fine si erano completamente lasciati andare all’entusiasmo, con cui
ormai mi coinvolgevano sempre.
“Sicura
che non vuoi che ti accompagni tuo padre?”
Ecco.
Ritiro tutto.
“Sono
abbastanza grande da prendere un taxi mamma…”.
“L’ho
già chiamato!” mi soccorse Cam e gli mimai un grazie
silenzioso.
Il
cellulare iniziò a vibrarmi in mano e di nuovo le mie incertezze si
impossessarono di me. Era Mike.
“Non
rispondi?”.
“Ehm..no…lo chiamerò più tardi”. Ancora non ero pronta per
parlargli. Avevo deciso di non dirgli niente convincendomi che non ci fosse
niente da dire, eppure mi sentivo in colpa anche solo a leggere il suo nome sul
display.
Provò
di nuovo a chiamare mentre ero nel taxi e ancora non risposi.
Due
volte. Tre volte. Cinque volte. Alla sesta volta, staccai il telefono e lo
spensi. Vederlo squillare ogni volta incerta se rispondere o no mi mandava
troppo in ansia, e non potevo esserlo in quel momento.
Quando
scesi dal taxi, mi trovavo in un affascinante sobborgo di Los Angeles,
grattacieli dappertutto, ma molta calma intorno.
Mi
diressi al “palazzo” indicato dall’indirizzo. Da quel che sapevo e che avevo
letto dietro la copertina del libro, la scrittrice viveva in Arizona con la
famiglia. Mi chiesi se avesse affittato un attico o un appartamento in quel
sontuoso grattacielo che mi trovai davanti, oppure se lo avesse direttamente
comprato, possibilità da considerare da quando i suoi tre libri erano entrati
nelle classifiche dei bestseller internazionali e aspettavano tutti con ansia
il quarto. Mi sentivo leggermente in
colpa nel pensare che io mi ero fermata al primo libro ma davvero non avevo
avuto il tempo per concentrarmi su altro.
Solo
quando fui davanti l’ascensore mi resi conto di non sapere dove andare. Quel
grattacielo era come un labirinto che si estendeva in lunghezza. Esclusi subito
la possibilità di fermarmi ad ogni piano e mi diressi di nuovo all’uscita
sperando di trovare indicazione sui citofoni.
Camminai
guardandomi in giro in cerca di indizi e per la fretta non feci attenzione a
uno scalino. Persi subito l’equilibrio. Stavo per finire a faccia a terra ma
qualcosa mi bloccò e attutì il colpo.
“Oh,
mi scusi” mormorai alzando la testa.
“Di
niente”.
“Rob…” mormorai.
“Kris..”
“Scusami….”
“Quando
vuoi. Stai solo più attenta..”. mi persi nei suoi occhi. “Che fai? Scappi?”
Allora
mi resi conto di essere tra le sue braccia. Mi sorreggeva stringendomi i
fianchi e sostenendomi con un po’ di forza.
Preda
dell’imbarazzo mi misi in piedi e mi ritirai subito.
Mi
guardò quasi rassegnato. “Credo che la festa sia di là..” indicò l’ascensore.
Ritrovai
le parole. “Si…ehm…non c’è scritto il piano…e..p-pensavo che forse..sui citofoni..”. il mio
balbettare era indecente e imbarazzante e gli fui grata di interrompermi
presto.
“Si,
mi ha chiamato Cath. Troveremo
indicazioni nell’ascensore. Dice di aver provato a chiamarti ma non eri
raggiungibile”.
“Oh..”
mormorai distogliendo lo sguardo e pensando a Mike mentre tornavo
all’ascensore.
Sperai
solo che la festa non fosse ai piani alti. Non avrei saputo come ingannare il
tempo. Presto detto. Entrando in ascensore un post-it tutt’altro che piccolo
riportava la scritta “TWILIGHT PARTY ALL’ULTIMO PIANO”. Ovviamente. Un attico
non poteva che stare all’ultimo piano. Certo il destino non era in vena di
collaborare con me quella sera, ma ancora peggio, scorrendo man mano i
numeri..mi resi conto che il grattacielo era più altro di quanto non sembrasse
all’esterno: 132 piani!!!
Da
brava attrice cercai di mantenere la calma e di fingere totale indifferenza
mentre con totale non-chalance premeva quel dannato pulsante, ma dentro fremevo
di agitazione.
Tutti
i buoni propositi di parlargli erano svaniti nel nulla e le mie buone
intenzioni crollate nel vuoto. Non sapevo cosa dire.
“Rob..” iniziai.
“Si?”
si voltò.
Lo
fissai per un secondo. “niente..” mormorai nervosa.
Accidenti
a te Kris! Parla! Dannazione!
“E’
che io..” tentai di nuovo.
“Tu?”
Persi
ancora le parole. “niente…”.
Avrei
tanto voluto che fosse lui a tirare in ballo l’argomento, ma invece sembrava
del tutto calmo, tranquillo, come se niente fosse successo. Ma infatti niente
era successo! Mi ripetevo, eppure non riuscivo proprio a convincermi.
Non
avrebbe mai parlato per primo, non mi avrebbe mai alleggerito il compito.
Tirai
un sospiro e mi feci forza. “Senti Rob, per ieri
sera..”.
“Ah
si..” mi interruppe. “Mi dispiace, mi sono lasciato trascinare dall’atmosfera. Non
capiterà mai più”.
Le
sue parole mi presero completamente alla sprovvista. Tutti i film che mi ero
fatta in testa erano stati completamente inutile. Che stupida a pensare che
davvero fosse stato lì con me, che stupida a sentirmi in colpa e a farmi tanti
problemi, che stupida a crocifiggermi su come dare spiegazioni. Non era
successo niente per lui. arei dovuto sentirmi
sollevata, era quello che volevoo in fondo. Eppure mi
sentii presa in giro, quasi tradita, stupida.
“Oh..”
sussurrai. “Bene..”
“Allora
amici come prima?” chiese allungando una mano come a stringere un patto.
Amici.
Era quello che voleva. E quello che doveva essere. “Amici” confermai
stringendogli la mano e cercando di non pensare alla scossa che quel contatto
mi procurò.
La
ritirai quasi subito e inizia a scrocchiarmi le dita per ammazzare il tempo.
“Qualcosa
non va?” chiese a un certo punto rompendo l’assurdo silenzio.
Mamma!
Quell’ascensore sembrava non arrivare più!
“Cosa?”
Con
un semplice movimento della testa indicò le mie mani. solo allora mi resi conto
che mi stavo mangiando le unghie, torturano le pellicina delle dita.
“Oh!”
le ritrassi subito ponendole nelle tasche del cappotto. “No niente! Tutto
apposto” dissi sperando di apparire sicura.
Accidenti!
Facevo sempre così! Quando ero nervosa mi mordevo le unghie inconsapevolmente.
Ma perché ero così nervosa?
Tenevo
la testa bassa e non lo guardavo negli occhi.
Mi
girai sul fianco appoggiandomi al lato dell’ascensore e mi trovai a lanciare
l’occhio allo specchio per vedere cosa stesse facendo, ma lui era sempre
voltato.
Ecco,
di nuovo quel comportamento freddo. Sapevo che avevo rovinato tutto. Con quelle
premesse, la serata non prometteva nulla di buono.
Stavo
seriamente pensando di scendere subito non appena arrivati quando finalmente le porte si aprirono davanti a
noi.
“Pronta?”
mi chiese con un lieve sorriso che mi calmò un po’.
“Ho
scelta?” risposi con una domanda.
Non
rispose e abbandonando finalmente quell’estenuante e interminabile salita mi
preparai ad affrontare quella serata d’inferno.