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Autore: Aurelia major    28/10/2009    1 recensioni
L’osmosi può essere fisica o psicologica. Una consiste nel passaggio e la fusione di due liquidi di diversa concentrazione, la seconda invece, avviene attraverso l’influenza tra persone, modi, stili di vita e culture. Nei brevi racconti qui presentati tento di sviscerare entrambe, poiché, incidentali oppure metafisici che siano, questi trattano di frammenti di vita diretta, ma anche ipoteticamente vissuta. Ché per osmosi chiunque potrebbe essere contemporaneamente sé stesso e mille altri.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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TNT

 

 

Non è per rivalsa personale, non è per sfida agonistica, né per missione benefica. Sono qui perché voglio esserci, punto. 

E’ una domenica pomeriggio come tante questa, nulla di nuovo in città, sul corso principale si scorgono sempre le stesse facce e nelle case si consumano le medesime abitudini che, settimana dopo settimana, pietrificano questo capoluogo nel suo perenne immobilismo.

E’ già buio, nell’aria c’è quell’odore tipico di bruciaticcio dal quale si capisce che i camini sono accesi e la maggior parte della gente è sul divano, impigrita come si può esserlo solo nei giorni festivi e dopo un lauto pasto. D’altronde non c’è molto altro da fare qui e fa troppo freddo per lasciarsi tentare da una passeggiata. Per vedere cosa poi? Le saracinesche abbassate? La tristezza dei bar  semivuoti?

Ciò nonostante, qui nel palazzetto dello sport, il pubblico pagante è abbastanza numeroso e si fa sentire. Personalmente suppongo che i più siano convenuti principalmente per ammirare le grazie delle giocatrici in campo, ma non si può mai dire. In fondo la competizione in corso è uno snodo cruciale o, per meglio dire, è l’ultima chance per restare nella massima divisione. C’è chi a queste formalità ci tiene, quanto a me, che la squadra retroceda o meno, non fa molta differenza.

Eppure sono qui, indolentemente stravaccata in panchina, a sezionare con lo sguardo l’espressione costernata dei tifosi e la rabbia impotente dell’allenatore, avvisaglie infallibili, indicanti che di qui a breve arriverà il mio momento.

Bella festa per lo sport oggi, titolava il gazzettino locale. Bella festa, penso io, per le avversarie. Nel giro di un’ora si sono già portate avanti di due set e, invece di reagire, le sei in campo sono in preda all’emotività.  Francesismo politicamente corretto questo per alludere al fatto evidente che si stanno letteralmente cacando in mano.

Dalla mia postazione, con clinico interesse, assisto al loro affannarsi, perdere di nuovo la battuta come delle pivelle e all’ennesimo time-out cui vengono chiamate. Ma non c’è incitazione motivante che tenga, altro che Gazzelle Volley Team, come hanno avuto il coraggio di battezzarsi. Tra me e me le chiamo Willie il Coyote Team, infatti, esattamente come questo, risultano essere sempre affaccendate in qualche impresa, ma totalmente inconcludenti quanto a risultati concreti. 

Beep, beep, mormoro guardandole ironica, giacché, purtroppo, le somiglianze finiscono qui. Eh sì, perché della perizia balistica, dello spirito d’iniziativa e dell’inventiva di Willie non hanno assolutamente nulla. Già, sono scarse di mira e,  se non glielo spiegasse  l’allenatore, non saprebbero manco da che verso infilarsi la divisa.

Magari, penso ghignando a viso aperto ormai, un anelito di rivalsa volto alla distruzione ultima dell’avversario comune potrebbe stimolarle a far meglio. Peccato però, aggiungo più infame che mai, che un evento simile sia più facile a verificarsi in un outlet, alla vista d’un capo dalle più conteso, piuttosto che sotto rete.

E c’è dell’altro, poiché, così come al furbastro predatore nel momento del bisogno arrivava il pacco contrassegnato ACME, con la medesima tempistica, quando l’inevitabile sconfitta si profila, il coach ricorre a me. Scruto il tabellone segnapunti, 13 a 4. Fisso la schiacciatrice titolare, s’è fatta murare ancora una volta. Guardo l’allenatore ed eccolo, giustappunto, che seccato mi ordina di cominciare a riscaldarmi.

Uh, uh, come gli rode. So benissimo infatti che preferirebbe crepare piuttosto che darmi la soddisfazione di togliergli le castagne dal fuoco ma tant’è, perdere anche questa partita per lui significherebbe un inevitabile ritorno al fetentissimo status di semplice aggregatore parrocchiale. E allora addio sicumera da grand’educatore, piacioneria d’aperitivo con le dirigenti e il pingue stipendio erogato dagli sponsor.  

Non ci provo neppure a nascondere il sorrisetto di superiorità che mi fa capolino mentre mi tolgo la giacca della tuta. Presuntuosa io? Forse, ma è singolare quanto la stima di sé posseduta da costui possa dipendere ora dalla mia forma fisica e soprattutto dall’indulgenza che potrei, o non potrei, condiscendergli. E questo lo sanno sia lui che le papere che capeggia, perciò la contrarietà è la stessa da un lato all’altro del campo di gioco.

Camilla, il capitano, lo fissa con occhi di fuoco. Se potesse parlare gli direbbe: “Di nuovo?!”. E lui, che neppure non può risponderle, le scocca una curiosa occhiata, ad un tempo supplichevole ed irritata, e vorrebbe significare “Sii indulgente e sopporta”.

Sì, sopporta Camilla cara, inghiotti l’orgoglio e lasciarmi fare, in fondo è il male minore. Lo so che mi disprezzi e che preferiresti essere ricambiata con la medesima moneta, piuttosto che con la palese indifferenza che ti riservo, ma che vuoi farci? Un capitano ha da fare simili sacrifici, per cui ti toccherà assistere e coadiuvarmi, sennò certamente continuerai ad essere la bandiera della squadra, ma non sarà altrettanto bello essere dalla parte di chi ha perso. E poi le tue compagne sono tutte con te, vedi? Lo stesso malessere che provi è ravvisabile nei tratti di tutte quante indossano i nostri stessi colori. E stai su con l’animo, persino le componenti della squadra rivale in un certo qual senso ti sostengono, giacché,  non appena s’accorgono che sto facendo stretching al di là della linea di fondo, fanno la tua stessa espressione schifata.

In effetti tutte qui mi odiano e debbo ammettere che non faccio nulla per scongiurarlo. D’altro canto, se la totalità delle presenti, al mio approssimarsi, comincia a sentirsi mediocre e un nel frattempo, intanto che non metto piede in campo ed imponga il mio gioco risolutivo, che posso farci?

Certo, rifletto intanto che piego alternativamente braccia e gambe, se non stessi continuamente a sottolinearne l’inadeguatezza, se riuscissi a sentirmi almeno un po’ parte della squadra, o magari mi prendessi la briga di fingerlo, probabilmente non mi detesterebbero con tanta e solidale intensità.

Quanto alle antagoniste, passate, odierne e future a venire, beh, se non mi disdegnassero che razza d’avversarie sarebbero?

In definitiva quindi trovo sarebbe inutile da parte mia prendersi il disturbo, poiché  non ci tengo affatto ad entrare in qualsivoglia gruppo, né m’aggrada essere accomunata a delle persone con le quali non ho nulla con cui spartire. E se questo mio tenere accanitamente all’individualità fa di me una carogna, venga pure. Tanto alla fin fine arriva sempre il momento in cui sono costretti a ricorrere a me ed è un piacere lussurioso sapere d’essere indispensabile, di schiacciarne gli amor propri in virtù della necessità ultima.

E’ un giochetto  sollazzevole tastarne la coerenza e mai, dacché mi sono voluta aggregare a questa squadra, hanno avuta la decenza di dar credito ai loro reali sentimenti. Già, piuttosto che calarsi le braghe ed accettare la disfatta, preferiscono vincere e dover ammettere la mia supremazia.

Oh, ma cosa odono le mie orecchie?

TRITO-LO, TRITO-LO, TRITO-LO!!!

Scandisce la tifoseria dalla fossa degli irriducibili non appena è chiaro entrerò in gara.

TRITO-LO, TRITO-LO, TRITO-LO!!!

Continuano cadenzandolo a tempo con il battito delle ballotte e il tonfo delle grancasse.

Tritolo, penso incerottandomi le dita, come la scritta che mi decora la maglia. Tritolo, mi dico inebriata da quel frastuono atavico, come la potenza esplosiva delle schiacciate che infliggo a chi mi sta di fronte. Tritolo, sussurro in un soffio appena udibile, come la radice del verbo triturare. Perché chi mi si oppone, contendente o alleato che sia, finisce inevitabilmente trito e contrito.

Esagero? Allora perché l’allenatore quando comunica il cambio all’arbitro appare tutto d’un tratto ringalluzzito e le mie care compagne di squadra  raddrizzano le spalle, sembrando assai meno scafate rispetto a qualche minuto prima?  

Sono il loro antidoto e, senza che se ne accorgessero, le ho intossicate del mio stesso veleno. Perciò sono tutte un fermento di sentimenti contrastanti, un pot-pourri tra la speranza e il diniego e, in definitiva, lo specchio fedele della volontà che mi tiene volutamente e con ostentazione ai margini, relegandomi il più delle volte sulla panchina lunga insieme alle mezze calzette più mezze calzette delle titolari, le quali, a loro volta, si arrogano la rappresentanza e gli onori, quando è chiaro come il sole che spetterebbe a me, e solo a me, di fregiarmi d’un barlume di gloria laddove una vittoria c’è.

E allora eccomi, preparate le fronde di lauro signore, Tritolo è scesa tra voi.

Bene, mi tocca immediatamente il turno di battuta, non chiedevo di meglio. Prendo posizione a limite, praticamente a ridosso della balaustra. I tamburi continuano a rullare e coordino i rimbalzi del pallone col loro ritmo. La mano sinistra lo spedisce al pavimento con forza, la destra lo riceve e sbalza flessibile, con le dita morbide e aperte.

L’arbitro fischia, volutamente lascio che l’attesa arrivi al parossismo prima di partire e infine, quando è ormai insostenibile, lancio in alto la sfera. Vortica fino a quasi toccare il soffitto e comincia la parabola che la porterà giù, mentre con tre passi di rincorsa, mi elevo a mezz’aria per impattarla.

Mi libro felice tra i fasci di luce, io sono luce, sono puro tritolo.    

 

   
 
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