TNT
Non
è per rivalsa personale, non è per sfida
agonistica, né
per missione benefica. Sono qui perché voglio esserci,
punto.
E’
una domenica pomeriggio come tante questa, nulla di nuovo
in città, sul corso principale si scorgono sempre le stesse
facce e nelle case
si consumano le medesime abitudini che, settimana dopo settimana,
pietrificano
questo capoluogo nel suo perenne immobilismo.
E’
già buio, nell’aria c’è
quell’odore tipico di
bruciaticcio dal quale si capisce che i camini sono accesi e la maggior
parte
della gente è sul divano, impigrita come si può
esserlo solo nei giorni festivi
e dopo un lauto pasto. D’altronde non
c’è molto altro da fare qui e fa troppo
freddo per lasciarsi tentare da una passeggiata. Per vedere cosa poi?
Le
saracinesche abbassate? La tristezza dei bar semivuoti?
Ciò
nonostante, qui nel palazzetto dello sport, il pubblico
pagante è abbastanza numeroso e si fa sentire. Personalmente
suppongo che i più
siano convenuti principalmente per ammirare le grazie delle giocatrici
in campo,
ma non si può mai dire. In fondo la competizione in corso
è uno snodo cruciale o,
per meglio dire, è l’ultima chance per restare
nella massima divisione. C’è chi
a queste formalità ci tiene, quanto a me, che la squadra
retroceda o meno, non
fa molta differenza.
Eppure sono
qui, indolentemente stravaccata in panchina, a
sezionare con lo sguardo l’espressione costernata dei tifosi
e la rabbia
impotente dell’allenatore, avvisaglie infallibili, indicanti
che di qui a breve
arriverà il mio momento.
Bella festa per
lo sport oggi, titolava il gazzettino
locale. Bella festa, penso io, per le avversarie. Nel giro di
un’ora si sono
già portate avanti di due set e, invece di reagire, le sei
in campo sono in
preda all’emotività. Francesismo
politicamente corretto questo per alludere al fatto evidente che si
stanno
letteralmente cacando in mano.
Dalla mia
postazione, con clinico interesse, assisto al loro
affannarsi, perdere di nuovo la battuta come delle pivelle e
all’ennesimo
time-out cui vengono chiamate. Ma non c’è
incitazione motivante che tenga,
altro che Gazzelle Volley Team,
come
hanno avuto il coraggio di battezzarsi. Tra me e me le chiamo Willie il
Coyote
Team, infatti, esattamente come questo, risultano essere sempre
affaccendate in
qualche impresa, ma totalmente inconcludenti quanto a risultati
concreti.
Beep, beep, mormoro
guardandole ironica, giacché,
purtroppo, le somiglianze finiscono qui. Eh sì,
perché della perizia balistica,
dello spirito d’iniziativa e dell’inventiva di
Willie non hanno assolutamente
nulla. Già, sono scarse di mira e,
se
non glielo spiegasse l’allenatore, non saprebbero
manco da che verso
infilarsi la divisa.
Magari, penso
ghignando a viso aperto ormai, un anelito di
rivalsa volto alla distruzione ultima dell’avversario comune
potrebbe
stimolarle a far meglio. Peccato però, aggiungo
più infame che mai, che un
evento simile sia più facile a verificarsi in un outlet,
alla vista d’un capo
dalle più conteso, piuttosto che sotto rete.
E
c’è dell’altro, poiché,
così come al furbastro predatore
nel momento del bisogno arrivava il pacco contrassegnato ACME, con la
medesima
tempistica, quando l’inevitabile sconfitta si profila, il
coach ricorre a me. Scruto
il tabellone segnapunti,
Uh, uh, come
gli rode. So benissimo infatti che preferirebbe
crepare piuttosto che darmi la soddisfazione di togliergli le castagne
dal
fuoco ma tant’è, perdere anche questa partita per
lui significherebbe un
inevitabile ritorno al fetentissimo status di semplice aggregatore
parrocchiale.
E allora addio sicumera da grand’educatore, piacioneria
d’aperitivo con le
dirigenti e il pingue stipendio erogato dagli sponsor.
Non ci provo
neppure a nascondere il sorrisetto di
superiorità che mi fa capolino mentre mi tolgo la giacca
della tuta.
Presuntuosa io? Forse, ma è singolare quanto la stima di
sé posseduta da costui
possa dipendere ora dalla mia forma fisica e soprattutto
dall’indulgenza che
potrei, o non potrei, condiscendergli. E questo lo sanno sia lui che le
papere
che capeggia, perciò la contrarietà è
la stessa da un lato all’altro del campo
di gioco.
Camilla, il
capitano, lo fissa con occhi di fuoco. Se
potesse parlare gli direbbe: “Di nuovo?!”. E lui,
che neppure non può
risponderle, le scocca una curiosa occhiata, ad un tempo supplichevole
ed
irritata, e vorrebbe significare “Sii indulgente e
sopporta”.
Sì,
sopporta Camilla cara, inghiotti l’orgoglio e lasciarmi
fare, in fondo è il male minore. Lo so che mi disprezzi e
che preferiresti
essere ricambiata con la medesima moneta, piuttosto che con la palese
indifferenza che ti riservo, ma che vuoi farci? Un capitano ha da fare
simili
sacrifici, per cui ti toccherà assistere e coadiuvarmi,
sennò certamente
continuerai ad essere la bandiera della squadra, ma non sarà
altrettanto bello
essere dalla parte di chi ha perso. E poi le tue compagne sono tutte
con te,
vedi? Lo stesso malessere che provi è ravvisabile nei tratti
di tutte quante
indossano i nostri stessi colori. E stai su con l’animo,
persino le componenti
della squadra rivale in un certo qual senso ti sostengono,
giacché, non
appena s’accorgono che sto facendo
stretching al di là della linea di fondo, fanno la tua
stessa espressione
schifata.
In effetti
tutte qui mi odiano e debbo ammettere che non
faccio nulla per scongiurarlo. D’altro canto, se la
totalità delle presenti, al
mio approssimarsi, comincia a sentirsi mediocre e un nel
frattempo, intanto che non metto piede in campo ed imponga il
mio gioco risolutivo, che posso farci?
Certo, rifletto
intanto che piego alternativamente braccia e
gambe, se non stessi continuamente a sottolinearne
l’inadeguatezza, se
riuscissi a sentirmi almeno un po’ parte della squadra, o
magari mi prendessi
la briga di fingerlo, probabilmente non mi detesterebbero con tanta e
solidale
intensità.
Quanto alle
antagoniste, passate, odierne e future a venire,
beh, se non mi disdegnassero che razza d’avversarie sarebbero?
In definitiva
quindi trovo sarebbe inutile da parte mia prendersi
il disturbo, poiché non ci tengo affatto ad
entrare in qualsivoglia
gruppo, né m’aggrada essere accomunata a delle
persone con le quali non ho
nulla con cui spartire. E se questo mio tenere accanitamente
all’individualità
fa di me una carogna, venga pure. Tanto alla fin fine arriva sempre il
momento
in cui sono costretti a ricorrere a me ed è un piacere
lussurioso sapere
d’essere indispensabile, di schiacciarne gli amor propri in
virtù della
necessità ultima.
E’ un
giochetto
sollazzevole tastarne la coerenza e mai, dacché
mi sono voluta aggregare
a questa squadra, hanno avuta la decenza di dar credito ai loro reali
sentimenti. Già, piuttosto che calarsi le braghe ed
accettare la disfatta,
preferiscono vincere e dover ammettere la mia supremazia.
Oh, ma cosa
odono le mie orecchie?
TRITO-LO,
TRITO-LO, TRITO-LO!!!
Scandisce la
tifoseria dalla fossa degli irriducibili non
appena è chiaro entrerò in gara.
TRITO-LO,
TRITO-LO, TRITO-LO!!!
Continuano
cadenzandolo a tempo con il battito delle
ballotte e il tonfo delle grancasse.
Tritolo, penso
incerottandomi le dita, come la scritta che
mi decora la maglia. Tritolo, mi dico inebriata da quel frastuono
atavico, come
la potenza esplosiva delle schiacciate che infliggo a chi mi sta di
fronte.
Tritolo, sussurro in un soffio appena udibile, come la radice del verbo
triturare. Perché chi mi si oppone, contendente o alleato
che sia, finisce inevitabilmente
trito e contrito.
Esagero? Allora
perché l’allenatore quando comunica il
cambio all’arbitro appare tutto d’un tratto
ringalluzzito e le mie care
compagne di squadra raddrizzano
le
spalle, sembrando assai meno scafate rispetto a qualche minuto prima?
Sono il loro
antidoto e, senza che se ne accorgessero, le ho
intossicate del mio stesso veleno. Perciò sono tutte un
fermento di sentimenti
contrastanti, un pot-pourri tra la speranza e il diniego e, in
definitiva, lo
specchio fedele della volontà che mi tiene volutamente e con
ostentazione ai
margini, relegandomi il più delle volte sulla panchina lunga
insieme alle mezze
calzette più mezze calzette delle titolari, le quali, a loro
volta, si arrogano
la rappresentanza e gli onori, quando è chiaro come il sole
che spetterebbe a
me, e solo a me, di fregiarmi d’un barlume di gloria laddove
una vittoria c’è.
E allora
eccomi, preparate le fronde di lauro signore,
Tritolo è scesa tra voi.
Bene, mi tocca
immediatamente il turno di battuta, non
chiedevo di meglio. Prendo posizione a limite, praticamente a ridosso
della
balaustra. I tamburi continuano a rullare e coordino i rimbalzi del
pallone col
loro ritmo. La mano sinistra lo spedisce al pavimento con forza, la
destra lo
riceve e sbalza flessibile, con le dita morbide e aperte.
L’arbitro
fischia, volutamente lascio che l’attesa arrivi al
parossismo prima di partire e infine, quando è ormai
insostenibile, lancio in
alto la sfera. Vortica fino a quasi toccare il soffitto e comincia la
parabola
che la porterà giù, mentre con tre passi di
rincorsa, mi elevo a mezz’aria per impattarla.
Mi libro felice
tra i fasci di luce, io sono luce, sono puro
tritolo.