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Autore: demoniopellegrino    28/10/2009    2 recensioni
Questo racconto parla di una storia d'amore, finita da molti anni, ma che rivive ogni volta che una donna ormai cinquantenne rilegge una vecchia lettera di amore.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tornare bambina

"Se avessi saputo che sarei stato prigioniero per 15 anni, se me lo avessero detto,
la cosa mi avrebbe aiutato? O mi avrebbe ucciso?"

Oh Dae Sun, Old Boy


Camilla spense il neon della cucina, e andò verso la camera da letto. I piatti erano ancora sul tavolo, sporchi, ma per stasera non importava. Li avrebbe lavati l'indomani. Suo marito Luca era in viaggio di lavoro, e Elisa avrebbe dormito da un'amica. Stasera era libera.

Passando in corridoio, sfiorò i libri sugli scaffali, come faceva da ragazzina. Quando si piazzava ore di fronte alla libreria, senza saper scegliere...tanti mondi da esplorare in ogni libro, tante vite da rivivere...allora le sembrava che sceglierne uno volese dire condannare all'oblio gli altri, far loro un torto.

Sorrise. A cinquant'anni la paura di scegliere non l'aveva più...era subentrata quella di non poterlo più fare.

Andò verso il comò, ne aprì l'ultimo cassetto, quello dove nei film i ladri trovano sempre quello che cercano, nascosto sotto qualche capo di biancheria. Nel caso di Camilla, però, avrebbero trovato solo una lettera. Una lettera di molti anni fa, con la carta ingiallita, e l'inchiostro macchiato in alcuni punti. Le macchie c'erano già quando la lettera le era stata recapitata, una ventina di anni prima.

L'aprì con cura. E come sempre, fu assalita da un sentimento ambiguo, di odio, rabbia, amore, desiderio. Marco era morto, lo sapeva, l'aveva letto sui giornali. Ma le sue parole, le ultime che le aveva rivolto prima ancora di diventare il Marco di dominio pubblico, erano ancora con lei.


Parigi, 8 luglio 2009

Camilla,

La tua voce quando ti ho detto che non sarei venuto. Mi perseguita, mi scava nello stomaco e uccide ogni mio sforzo. Una parola ti è bastata, ancora una volta, per farmi capire il mio errore. Di nuovo.

"Perché".

Una parola. E il tuo tono che era il tono di tutto il mio spirito. Sorpresa, stupore, disperazione, una slavina. Così mi sentivo. Così ti sei sentita. E averla generata la slavina non ti mette al riparo.

Tu mi chiedi la lettera. Eccola. Quando leggerai, se leggerai, forse capirai. Forse no. Come hai detto tu, ho solo questo da offrire, parole.

Era una sera di aprile. Lungo strade mai percorse, eccitato, impaurito, venivo ad incontrarti. Solo qualche foto e molte parole scambiate potevano aiutarmi a cercare di capire che cosa sarebbe successo. Non l'hanno fatto.

"Se avessi saputo che sarei stato prigioniero per 15 anni, se me lo avessero detto, mi avrebbe aiutato? O mi avrebbe ucciso?". La stessa domanda di Oh Dae Sun mi circola ormai da mesi nella testa. Non sono passati quindici anni. Sono passati solo pochi mesi. Ma la sensazione di cambiamento profondo, è stata immediata, improvvisa, travolgente. Come un apprendista stregone qualsiasi ho sollevato forze che non ho saputo controllare, che solo ora riesco a fingere d'ignorare.

Arrivare, parcheggiare. Cercare il tuo nome tra i campanelli. Titubare, guardando i vicini che entrano attraverso lo stesso cancello, e mi guardano inquieti. Segno dei tempi. Ma non sono uno straniero, i miei vestiti sono puliti, i miei tratti sono nordici, più a nord della Lega, e il mio sorriso non è clandestino. Desto diffidenza, ma garbata. Non paura.

Indugiare ancora, con un cane che abbaia da qualche parte vicino. Guardare le case. Ricordi di scuola, quando la maestra ci spiegava le costruzioni delle diverse tipologie di case romane. Non sembra una casa romana, la tua, non lo è, ma i ricordi immediati sono quelli. La mente ha i suoi percorsi. Mi chiedo se potrebbe mai diventare la mia casa. Non mi rispondo, mi dico che è un falso problema. Sapevo già tutto? O era solo un pensiero sciocco, inconsapevole del vaso di Pandora che stava per scoperchiarsi?

Suonare. Trovarti al portone. Risa d'imbarazzo. Lo sconosciuto a casa della sconosciuta. Una doccia, chiacchiere, una familiarità dapprima percepita come finta, poi capita come vera.

Un bacio. Sentire il volo dentro. Capire l'errore, capire che non lo controllo, parole che salgono subito alla gola, come una fonte che abbia trovato una via di sbocco dopo anni. Con uno sforzo, riuscire a rimandarle giu'.

Sesso. Molto. La sensazione, il bisogno di abbandonare i preliminari ed essere solo dentro di te. Anche se immobile. Anche senza muovermi. Ma immobili non siamo. Sesso come sublimazione di altro. Sesso come penetrazione dell'anima. Ma non la tua, la mia. Avvertire che sei tu che possiedi la mia mente come io sto possedendo il tuo corpo. E' bastato un attimo. Ma è ancora troppo presto per capirlo, e troppo tardi per fermarlo.

Era una sera d'aprile. Una sera in cui la mia anima divenne consapevole che lo sbocco esisteva. Senza sapere che di lì a poco si sarebbe mostrata troppo pavida, forse, per perseguirlo.

E leggere Catullo in latino, su un letto sfatto dagli odori e dai sapori di tutto quello di cui Catullo parla. Ascoltare la tua voce, mentre i rumori estivi penetrano nell'appartamento. Falsamente estivi, e dunque anch'essi almeno in parte responsaibili della perfetta illusione.

Baciarti ancora, fare di nuovo l'amore.

Parlare in macchina, con la tua voce che è come un balsamo.

Sognare di fare l'amore con te, anche mentre facciamo l'amore. Come se la perfezione presente non bastasse, come se volessi fare scorta di futuro.

Non eri nata neanche come un gioco. Non eri la prescelta con la quale divertirsi un po' per poi abbandonarla. C'erano altre, per questo. Eri la prova finale prima del grande salto. Eri quella che doveva confermarmi che non potevo stare meglio di come stessi. Eri quella che avrebbe ancora una volta dovuto confermare che non è una questione di chimica, che tutto era ormai come nel migliore dei mondi possibili.

Era questo il ruolo che avevo scelto per te. E per questo ti ho mentito. Non ti ho detto di lei. Non ti ho detto dei nostri piani, del nostro presente e del nostro futuro. Dovevi essere uno strumento, dovevi sparire dai miei pensieri, dalla mia vita. Dimenticata il giorno stesso in cui fossi uscito dalla tua porta.

Non cerco comprensione. Un motivo vero, non c'è.

Sto mentendo, c'è. E' la voce. La voce che mi ha convinto che in realtà l'elevazione di spirito fosse temporanea. Che mi avresti lasciato, tra due, tre anni, per un velista, un pittore, un contabile, un bancario. E che io non l'avrei sopportato.

Chiamami essere triste. Lo sono. Un uomo che ha paura di vivere pienamente l'amore oggi per paura di sprofondare domani. Un uomo che ha scelto l'atarassia dei sentimenti alla tempesta che tu rappresentavi.

Odiami. Disprezzami perché questo merito.

Avrei potuto mentirti. Continuare a vederti ancora, almeno un'altra volta. Senza che tu sapessi niente. La sua distanza, la nostra distanza me lo permetteva. Almeno per un po'. Sarei potuto venire quel fine settimana. Stare con te. Non ho voluto. E ho scelto di finire prima ancora che tu me lo chiedessi. Prim'ancora che tu mi mettessi di fronte all'obbligo di una scelta.

Non mi pento della scelta di quel giorno. Perché ti amo. E perché sono un vigliacco. La prima non posso spiegartela. La seconda forse si'.

Ho optato per la certezza di un'infelicità che speravo di saper gestire, figlia della mia decisione di non vederti. L'ho preferita alla possibile infelicità di un futuro in cui tu mi avresti lasciato. Non avrei sopportato di vivere una sensazione così e poi vederla sparire. Ed ho scelto di non viverla.

Ma l'annichilimento che provo mi fa capire che forse ho commesso un errore. Il baratto dei sentimenti non mi è stato vantaggioso, e sto forse pagando più di quanto avrei mai pensato di dover pagare.

Mi dimenticherai? Mi ricorderai con disprezzo? Tu che con una parola hai saputo capirmi e possedermi?

Con altre donne questo dubbio non mi avrebbe minimamente turbato. Con te mi tormenta. Non è il tuo giudizio che mi preoccupa. E' l'idea di averti persa. Aver perso non solo te, ma anche una parte di me.

Un bivio, che io non ho imboccato. Nonostante la strada sulla quale sono rimasto fosse stata chiusa da tempo, e io lo sapessi.

Baciami, stringimi, fammi sentire il tuo sapore. Scrivere queste parole mi provoca un desiderio incontrollabile. Ora capisco, finalmente, cosa vuol dire bruciare d'amore.

A una riunione oggi per la prima volta ho balbettato. Ti pensavo, ed è venuto il mio turno di dire qualcosa e non ci sono riuscito. Sei rimasta nella mia testa, senza andartene. E le parole non mi sono uscite. Solo suoni gutturali.

C'era un politico accanto a me. Era l'ospite d'onore. Avrei dovuto presentarlo, fare conversazione prima e dopo. Mi pareva un tipo in gamba. Sorridente, gentile, affabile. Sui 55 anni, più o meno. Senz'anello al dito. E mi sono chiesto se anche lui avesse bruciato tutto per una storia non vissuta. O se magari avesse bruciato tutto per averla vissuta, la storia. Ti ricordi quando in riva al lago parlavamo del dubbio della Falena?

Mi chiedevo se diventerò anch'io così. Mi chiedevo se come lui tornero' a casa dai miei viaggi di lavoro e guardero' la televisione da solo, forse chiamando una puttana ogni tanto per soddisfare i miei bisogni. Forse neanche quello.

Mi chiedevo fino a che punto una scelta, una scelta sola, possa condizionare una vita. E mi rispondevo "molto". Ma dipende dalla scelta. Mi chiedevo se anche lui serbava nel cuore il ricordo di un volto, di un momento, che non riusciva a passare.

E' venuto il mio turno, e ho balbettato. E me sono andato.

Come hai detto tu, ho solo questo da offrire, parole.

Tuo (da sempre, e per sempre)

Marco


Richiuse la lettera dolcemente, cercando di minimizzare i danni alla carta. Pensò a sua figlia Elisa, che con i suoi vent'anni viveva in un mondo dove ormai le parole esistevano solo attraverso lo schermo di un computer. Pianse per lei. Perché non avrebbe forse mai potuto capire cosa volesse dire rileggere parole d'amore scritte vent'anni prima, con i fogli macchiati dalle lacrime dell'uomo che le aveva scritte per te, e capaci ancor oggi di farti sentire leggera e pesante come allora.

Si alzò dalla scrivania, andò di nuovo in corridoio, di fronte alla libreria. Si sedette per terra, proprio come quando era bambina. Incrociando le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia, e il mento sui palmi delle mani. Guardandola, non fosse stato per i molti capelli bianchi, la si sarebbe presa ancora per quella bambina di tanti anni fa.

Il rumore del traffico arrivava smorzato attraverso le finestre. Lo scaldabagno ticchettava, come una macchinetta da caffé. Mentre Camilla si trovò di fronte a mille mondi, e ricomincò a dubitare ancora una volta su quale scegliere, quale far rivivere. Sorrise. E ringraziò Marco per l'unico vero gesto d'amore che avesse fatto per lei. Scriverle quella lettera.


  
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