Fianchi rotondi
Capitolo 4
- Mmm.
Aristandro si era ritirato nella sua stanza da
letto e osservava attentamente la coppa di bronzo che aveva prelevato senza permesso nella sala dei
banchetti.
Era una normalissima coppa di bronzo decorata,
nemmeno tanto pregiata, se la si confrontava con la
coppa intarsiata in oro in cui aveva bevuto il re. Doveva essere una di quelle
coppe in cui avevano bevuto i generali.
Si era servito vino puro come aveva desiderato
Alessandro, un vino giunto direttamente dalla Macedonia – al re non
piacevano i vini dolciastri della regione persiana e tanto meno che venissero serviti annacquati – e qualche eunuco
persiano particolarmente integralista si era sentito in qualche modo offeso.
Accostò per l’ennesima volta il naso
alla coppa.
Quell’odore… si sforzò di
ricordare se sulla grande tavola imbandita di ogni
bendiddio ci fossero state altre anfore oltre a quelle del vino ma non
riuscì a focalizzarne nessun’altra.
Quasi come d’istinto provò ad
appoggiare la lingua sul bordo e ad agitarla un poco, e si schermì
immediatamente al contatto col gusto amarognolo del bronzo. Nessun sapore
particolare. La coppa era stata lavata perfettamente. Ma
allora, quell’odore…?
Deciso a risolvere una volta
per tutte quell’enigma, avvicinò la coppa
all’orecchio destro e ascoltò attentamente. Nessun rumore
particolare.
Solo quell’odore attanagliato alla
coppa, a quanto pare per volergli dire qualcosa, qualcosa che solo lui sarebbe
stato in grado di interpretare.
Un odore dolce e agro, pensò, come
l’amore, e che lasciava senza fiato, come l’amore a prima vista; e
ad un tratto gli occhi s’illuminarono. L’amore a prima vista.
Ecco svelato il mistero.
Appoggiò la coppa allo scrittoio e
uscì dalla sua stanza per dare un’occhiata
in giro.
Camminava con la sua solita andatura quasi
apatica di chi ormai non avrebbe potuto meravigliarsi
di nulla, e presto si trovò nuovamente in giardino.
Guardò nella direzione delle stanze del
re ma sul ballatoio non c’era nessuno. Quasi
come per associazione logica, il suo sguardo si volse verso gli appartamenti di Efestione, e quando lo vide sorrise. Stringeva qualcuno
al petto, ma quando i suoi occhi miopi si abituarono meglio al buio si accorse
che non era la persona che s’aspettava. Non riusciva a mettere bene a
fuoco i suoi contorni, ma i lunghissimi capelli neri che si diramavano selvaggi
attorno alle spalle del generale non erano certamente quelli di
Alessandro.
“Molto, molto interessante.”
Ascoltava il suo respiro sommesso e silenzioso – Dario, invece,
russava - e contemplava il suo viso liscio e delicato, le gote d’avorio
erano asperse di un grazioso rossore che sembrava dipinto dalle dita di Afrodite, i suoi capelli erano dell’oro più
pregiato; alzò istintivamente una mano per raggiungere la sua pelle ma
si fermò poco prima.
Era troppo bello per essere
rovinato.
Alessandro.
Chiudeva gli occhi e un nodo gli serrava la gola quando pensava a quanto gli sarebbe piaciuto potergli
gettare le braccia al collo e gridare il suo nome, davanti ai suoi occhi, alle
sue labbra sanguigne, stordendosi del suo profumo, affondando il viso tra i
suoi capelli.
- I… Iskander…
- fu l’unica cosa che le sue labbra, inginocchiate di fronte a tanta
sublime bellezza, poterono sussurrare. Non resistette, e in un attimo le sue dita
brunite furono sul suo petto, e si alzavano e si
abbassavano al suo ritmo.
“Perdonami se ti ho fatto tanto
soffrire, amore mio,” socchiuse le labbra per
assaggiare il sapore salato di una lacrima “ma il tuo amore non ha
prezzo. Vorrei stringerti le mani e spiegare le mie ali e portarti via;
rabbrividisco al pensiero che facciamo l’amore sul letto impregnato dei
tuoi singhiozzi sommessi, quelli che ti scuotono anche l’anima quando
anche solo il vento ti sussurra il suo
nome; non avrei mai voluto sentire la tua voce spezzata, vedere i tuoi occhi
umidi e gonfi di pianto; sentirti invocare il suo nome nel sonno tra rantoli e sospiri mi uccide;
senza che tu te ne accorga mi ricordi ogni giorno di più quanto piccolo
è il puntino che ho tracciato nel firmamento del tuo cuore; ma perché Eros dev’essere
così crudele col cuore degli esseri umani?, ho perso tutti i miei
affetti quando ero solo un bambino, e in te vedo tutto quello che non ho mai
avuto, e che avrei voluto avere, tutto quello che non sarò mai, e che
avrei voluto essere; volevo solo che tu ricambiassi il mio amore, volevo solo
che tu dimenticassi quell’Efestione e per questo ho sfidato le leggi di
Eros, ho stravolto la sua volontà, e se, come dici, sfidare la
volontà di un Dio comporta conseguenze terribili, sarò pronto a
subirle. Con una mano nella tua sarebbe più caldo anche il respiro della
morte.”
Si coprì il volto con le mani e il suo
corpo venne scosso da tremiti convulsi, da lacrime
infuocate; e si alzò da quel letto che sapeva troppo, non voleva che gli
raccontasse cosa avesse visto le notti in cui ospitava anche Efestione,
uscì dalla stanza silenzioso come sempre, e si mise a vagare come un
fantasma per i corridoi del palazzo, si fece inghiottire dall’oscurità,
piangendo e singhiozzando, ogni tanto guardava fuori dalle grandi finestre
trifore come se cercasse risposte dalla bocca della luna, ma quella continuava
a sorridere come se non comprendesse il suo dolore, e allora Bagoas si
sentì tremendamente solo e in colpa.
“Oh Efestione, maledetto Efestione!, che rapisti il cuore del mio amato Alessandro non so
quanto tempo fa, forse nelle notti trascorse a Mieza,
quando vi scaldavate uno contro il corpo dell’altro fantasticando sul
vostro glorioso futuro, esci da lui e permettimi di amarlo!; Oh Dio, Dio di
tutti gli dei, Dio dal volto sconosciuto, detentore di tutte le verità,
dimmi, quale voce ha sussurrato al mio orecchio quella sera, quella
dell’insania o quella dell’egoismo? Lo amo o non lo amo? Dimmelo, oh Dio Creatore, perché questo dubbio
mi distrugge, perché se mi dicessi che non sono
un innamorato, allora sarei un assassino, perché ho ucciso un cuore
innamorato; e sarei un suicida, perché al pensiero di aver ucciso il
cuore di colui che non amo, ma che
sento di amare più della mia stessa vita, mi ucciderei.”
Si alzò nel bel mezzo della notte senza un preciso motivo e si
guardò intorno, intontito. Nessuno giaceva accanto a lui, eppure era
convinto d’aver fatto l’amore con Bagoas, quella sera.
Bagoas.
Quella creatura scatenava in lui una pena
infinita, struggente. Si abbandonava tra le sue braccia e lo accarezzava con
dedizione assoluta, soddisfava ogni suo desiderio, vibrava ad ogni sua carezza, e quando lo possedeva si squassava sotto
di lui senza ritegno, gli si concedeva senza riserve, lo circondava di un amore
assoluto, devoto fino all’eccesso.
Un amore che lui non
avrebbe mai potuto ricambiare.
Non era quella la volontà di Eros. O per lo meno, non lo era
stata sino a quel momento. Aveva imparato sulla propria pelle che la
verità di Eros era mutevole come il tempo, come
le stagioni, come la vita dell’uomo. Non era niente di certo, niente di assoluto, soltanto una velleità, una sorta di
capriccio, come se quel demone alato ogni tanto riprendesse frecce e faretra e
si divertisse a scombinare quello che aveva creato, e si tappasse le orecchie
per non angosciarsi dei lamenti dei poveri esseri umani.
Sarebbe stato più semplice innamorarsi
per sempre di Bagoas, e vivere felice con lui, pensava,
perché lui sì che avrebbe potuto renderlo veramente felice, lui,
che per sua natura avrebbe potuto amarlo completamente, lui, che per sua natura
non avrebbe mai potuto amare una donna al suo posto.
E invece si trovò a guardarsi di nuovo
intorno e a realizzare quanto quel letto fosse freddo
e dannatamente grande, con o senza Bagoas.
L’argentea luce della luna si soffondeva
nella stanza e per un attimo penetrò nella sua mente illuminando un viso
che Alessandro avrebbe voluto velare di nero per sempre.
Ma il suo corpo la
pensava diversamente e, senza neanche accorgersene, si ritrovò nel
corridoio.
- A quanto pare non
dormi la notte per disturbare i miei sonni. Lasciami in pace, per favore.
Aveva pensato ad alta voce, come per
convincersi delle sue stesse parole, che però suonarono
troppo fiacche e piagnucolanti per avvizzire il suo febbrile desiderio.
I suoi piedi lo condussero fino alle stanze
del suo amato e lo fermarono dinnanzi alla porta della sua stanza da letto.
“Dei, se ti
trovo avvinghiato a quella strega la uccido su due piedi.”
Non esitò un istante a varcare quella
soglia, e una volta dentro si sentì stordito, come se fossero passati
anni dall’ultima volta che si era trovato in quella stanza.
Lo vide. Venne scosso
da un tremendo moto d’emozione e avrebbe avuto voglia di gridare e
gettarsi sopra di lui, baciarlo, accarezzarlo ovunque, tirargli i capelli e
ansimare sotto le sue mani, ma sebbene non c’era quella sporca ladra accanto a lui, sapeva che
non avrebbe potuto farlo. Perché il suo Efestione non
l’amava più. Non
l’amava più. Probabilmente il suo grido gli sarebbe sembrato
troppo stridulo, non avrebbe ricambiato i suoi baci e le sue carezze,
l’avrebbe spinto via quando le sue mani avessero
cercato i suoi capelli, non avrebbe sopportato i suoi ansimi sotto di lui.
Incurante di questi pensieri, si
avvicinò con passo finissimo come avvolto in una nuvola di vapore, e si inginocchiò ai piedi del letto dove Efestione
dormiva di lato, nudo e squisitamente indifeso.
Con un dito gli sfiorò
impercettibilmente la guancia abbronzata, la bocca socchiusa, i capelli morbidi
e ondulati, il collo leggermente reclinato all’indietro.
“Efestione, amor mio, riesci a sentirmi?
C’è ancora in un meandro del tuo cuore una voce che scalpita
gridando il mio nome? Dimmi di sì, dimmelo ora, apri gli occhi e
guardami, Efestione, guarda le mie guance rigate di lacrime, e apri la porta a
quella voce affinché il suo fuoco possa espandersi nel tuo corpo, e che
il suo eco rimbombi fino a bruciarti le mani, e che esse possano
afferrarmi e stringermi a te come se fossi l’unica sorgente in grado di
spegnerle, appagando le loro voglie. L’aria di Babilonia non mi è
mai sembrata tanto fredda come adesso, da quando mi
hai rivelato di non amarmi più. Non cavalcheremo più fianco a fianco nei deserti e nelle paludi, le nostre mani fervide
non si stringeranno più quando sentiremo la morte incombente sul campo
di battaglia, i nostri occhi non si cercheranno più per trovare la forza
e il coraggio di andare avanti in questa impresa disumana, in queste terre
ignote e ostili, nella marcia ti perderai in mezzo a tutti quei soldati
sconosciuti che mi riveriscono e mi onorano solo come loro re, le nostre gambe
non si intrecceranno più nella notte torrida e terribilmente silenziosa.
Non sentirò più il respiro del mio Patroclo sul mio collo.”
Tremando, appoggiò le mani al bordo del
letto e lentamente scivolò accanto al suo amato. Non osava toccarlo, ma
riusciva a percepire il suo calore, sapeva che correva un grande
pericolo perché qualora Efestione si fosse svegliato, avrebbe dovuto
affrontare i suoi occhi, non più brucianti d’amore, che
l’avrebbero fissato, e le sue labbra serrate che gli avrebbero
sussurrato, con quella voce fredda e atona, che non l’amava più.
Ma il suo respiro lento e le forme definite
del suo corpo erano troppo invitanti per rinunciarvi,
e, abbandonato ogni indugio, Alessandro si avvicinò paurosamente, gli
cinse un braccio intorno alla vita e infilò una gamba tra le sue.
Efestione sbuffò, svegliato da un sonno
tranquillo, e si strofinò gli occhi.
Il cuore di Alessandro
cessò in quell’esatto momento di battere.
Efestione sbatté due o tre volte le
palpebre e socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco,
nell’oscurità, la figura snella e trepidante distesa al suo
fianco. I capelli di finissimo oro illuminati dal chiarore lunare gli fecero
salire il cuore in gola.
- Alessandro.
- Efestione. – pronunciò il suo
nome velocemente, come se avesse avuto paura di non poterlo fare mai più.
- Cosa ci fai qui?
– erano vicini, vicinissimi, i loro nasi quasi si sfioravano, e il fiato di Efestione era più gelido del vento che spirava
violento sulle montagne d’Illiria.
- Ti cercavo, Efestione. – era un
sussurro, niente di più, e si andò a perdere tra gli spifferi di
brezza estiva che animavano la stanza.
Efestione si liberò garbatamente della
presa del re e si sedette sul letto. – No, Alessandro.
Alessandro scese dal letto e si erse nudo
davanti a lui. Efestione accese la lucerna sul comodino accanto al letto e lo
guardò dritto negli occhi. Il re si sentì mancare, quegli occhi
non erano mai stati così neri, le pupille dilatate erano minacciose come
una lama alla gola, e presto scoprì che quel demonio gli aveva legato la
lingua.
- E’ meglio per te che tu te ne vada, Alessandro. Dico davvero.
Alessandro sussultò e si sforzò
di mantenersi integro. - Vuoi che me vada, quindi? – avrebbe voluto
dirgli tante cose, avrebbe voluto vomitargli sul letto
i suoi affanni, avrebbe voluto stringerlo a sé e imporgli
d’amarlo, ma lui non era così crudele con i suoi soldati.
- Sì, Alessandro. Vattene,
è meglio per te. Non soffrire più per me, non ne vale la
pena, davvero. Dona il tuo amore a chi lo saprà conservare.
- Io ti
amo, Efestione.
Efestione scosse la testa. – Esci, Alessandro.
Esci e lasciami dormire.
Se il generale avesse proferito
altre parole, Alessandro sarebbe inesorabilmente crollato, pertanto non se lo
fece ripetere e uscì silenzioso com’era arrivato. L’altro lo
seguì con lo sguardo finché non lo vide perdersi completamente nell’oscurità.
“Buonanotte, Alessandro.”
Nudo come un verme, intento a strapparsi i capelli dalla testa e a soffocare le grida che gli spaccavano il cuore, venne afferrato da una mano grinzosa e quando si
voltò vide due occhietti socchiusi e un paio di labbra sottili tirate in un
sorriso divertito. Cercò di ricomporsi alla meglio e si schiarì
la gola per ritrovare un tono abbastanza perentorio.
- Aristandro. Anche tu sveglio?
- Siamo in parecchi a non avere sonno,
stanotte. Ho visto Bagoas gironzolare per i corridoi nelle tue stesse
condizioni.
- Ah, Bagoas.
- Hai visto la luna, fuori?
- No.
- Voltati.
Alessandro obbedì. Dalla finestra
dietro di lui poteva vedere una luna esageratamente grande, di uno strano
colore rossastro. – Strana.
- Sì. Strana.
- Perché, ti
dice qualcosa?
- Mio caro Alessandro,
credo che sia giunto il momento di chiarire un paio di cose con te. Seguimi.
Alessandro deglutì.