Serie TV > Dr. House - Medical Division
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Autore: IsAnastaciaHuddy92    02/11/2009    6 recensioni
SONO DUE STORIE!!!
Dimenticare:
House ha subito l'elettroshock, non ricorda più nulla, solo le sue conoscenze mediche sono rimaste intatte.
Qualcuno però non riesce a dimenticare, e House cerca di rimettere insieme i pezzi... WH4E
Riviverti: (comincia esattamente al 13 capitolo)
L'occasione per House e Cuddy di ricominciare, ma purtroppo un terribile incidente, che ha coinvolto il marito della Cuddy, li costringe a mettersi ancora in gioco per salvargli la vita, e tentare di salvare la loro relazione.
TUTTO AMBIENTATO DOPO L'ARRIVO DI HOUSE AL MAYFIELD E SU QUELLO CHE SUCCEDE DOPO L'HO INVENTATO DA ME.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quarta stagione
Capitoli:
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Premetto di aver cominciato nemmeno una settimana dopo aver guardato l’ultima puntata della 5° stagione, che mi ha praticamente distrutta!
L’ho continuata a scrivere durante tutta l’estate, ma ancora non è finita quindi durante il corso della pubblicazione sarà spesso sottoposta a delle modifiche, da fan Huddy spero che vi piaccia e che vorrete lasciarmi dei commenti!:) Huddy 4ever sempre e comunque;)

Enjoy the reading!




Eppure glielo avevano detto, avrebbe potuto dimenticare tutto, ma l’obiettivo sarebbe certamente stato raggiunto, Amber sarebbe scomparsa, per sempre, morta e sepolta definitivamente. Non riusciva più a sopportare altro. Aver speso talmente tanto tempo in quella clinica, cercando di comprendere come risolvere un possibile problema psicologico e concludere con il continuare ad immaginare le cose, le persone, delle scene mai avvenute, dei momenti mai trascorsi, faceva male. La sua mente si era fin troppo presa gioco di lui.
 
Adesso il vuoto era disegnato fra i suoi ricordi, l’unica cosa che non avrebbe mai potuto dimenticare era la sua scienza, le sue conoscenze. L’elettroshock prevedeva questo, la cancellazione totale dell’esperienza personale lasciando intatto tutto il resto. Certo non ricordava il proprio nome, il proprio indirizzo, la data del giorno in cui aveva slacciato il primo reggiseno ad una ragazza, ma sarebbe stato ancora in grado di diagnosticare un lupus.
Adesso di quel volto che lo guardava con pietà non ne riconosceva il minimo dettaglio, nessun ricordo. Ecco quale fu la pena da scontare per far riavviare il suo brillante ingegno, “per ricominciare a vivere” si era detto quella mattina.
Era ciò si era ripetuto quella mattina di un+ giorno grigio di piena estate, sembrava l’atmosfera perfetta per ricominciare da zero, magari rinascere una persona migliore, tutto ciò che aveva voluto ricordare era stato rigato su un foglio piegato, che aveva chiesto a Wilson di tenere in tasca con la promessa che non l’avrebbe aperto nemmeno se ci fosse morto in quel dannato ospedale. Le scosse che irradiarono il suo cervello bruciarono definitivamente quella grande scatola di memorie inutili per un uomo la cui cosa più importante al mondo era razionalizzare, prendere le circostanze emozionali con i guanti di gomma, analizzarle profondamente e concludere con l’abbandono, perché lì la logica non sarebbe stata d’aiuto.

Adesso sedevano vicini, in quella macchina color blu notte, quell’uomo dall’espressione preoccupata doveva essere stato un suo amico, magari qualcuno con cui andava la sera ad ubriacarsi o a parlare delle belle donne; chissà che tipo era stato, se era stato un romantico amante o un uomo che cercava compagnia a pagamento, chissà se era stato un dipendente esemplare o un genio che il capo teneva solo per nobilitare il proprio ospedale; già il capo, chissà che tipo era il suo capo, un omone in giacca e cravatta o una sexy dottoressa in minigonna. E il suo team? Lui era un prestigioso diagnosta questo glielo aveva spiegato quel Wilson quando si era svegliato l’indomani su un lettino dell’infermeria del Mayfield. Wilson? Se era suo amico perché gli aveva dato il cognome? Aveva così tante domande, ma preferì tacere, preferiva restare in silenzio, chissà magari anche prima era stato un uomo di poche parole.

Arrivarono a Princenton quando erano già le undici di sera, quell’oncologo aveva guidato per tutto il pomeriggio senza mai lamentarsi, senza pronunciare una parola, eppure aveva avuto la sensazione che certe volte stesse per dire qualcosa ma che poi non riuscisse a dare forma alle parole quando apriva appena la bocca e sospirava rassegnato, forse non c’era nulla da dire a quello sconosciuto di cui il suo migliore amico gli aveva chiesto di prendersi cura. 
Una strada poco affollata, quattro scalini segnati dal tempo, un piccolo portone, altri cinque passi, il rumore di una chiave che si faceva spazio tra una serratura arrugginita e una porta scricchiolante lasciarono la scena ad un salotto ordinato, un pianoforte su cui lui sembrò ricordare l’ordine del premere delle sue dita stanche intonanti una serenata che magari...
-Ho composto delle melodie al piano?- una domanda che non riuscì realmente a pensare prima di tramutarla in suono.
-Eri molto bravo- una risposta poco esauriente ma una risposta.

E poi di nuovo uno sguardo curioso guardava il proprio appartamento, nessuna foto, nessuna decorazione, non doveva essere una persona molto affettuosa, solo tanti libri, una miriade di libri, sette sul piccolo comò a destra del divano e una ventina sul tavolo di fronte, due librerie riempivano totalmente quella stanza incapace di regalargli emozioni.

D’improvviso sentì il bisogno di riposare le proprie gambe, no soltanto la gamba destra, una fitta gli inibì i sensi, credette di svenire per un istante quando le ginocchia gli cedettero e si dovette appoggiare con espressione esausta sulla parete accanto alla porta d’ingresso, riuscì a compiere soli pochi passi prima di gettarsi affaticato sul divano, cominciò a massaggiare il muscolo della coscia e cercò nella propria mente una risposta che chiaramente non avrebbe potuto trovare, così si limitò a guardare con aria interrogativa la sagoma dell’oncologo che lo osservava rattristito alle sue spalle.
-È la ragione per cui ti trovavi al Mayfield, la dipendenza dall’antidolorifico ti ha creato quelle allucinazioni-
“Soffrirò a vita”,
 pensò, ma non fu capace di ripeterlo a voce alta.
-House, il tuo appartamento è stato pulito e messo in ordine una settimana fa, in fondo al corridoio c’è la camera da letto, ti ordino le valigie e...– indugiò -dormirò qui stanotte, in caso dovessi avere bisogno e domani se ti sentirai pronto possiamo andare al Plainsboro, penso che questo sia il modo migliore per cominciare ad adattarti- House si limitò ad abbassare lo sguardo e ad annuire, Wilson si allontanò trascinando faticosamente le due pesanti valigie.

La mattina era spenta, una di quelle che sembravano aver trascinato la luce del sole faticosamente, così per svegliare House, Wilson bussò rumorosamente alla porta socchiusa, House si alzò e senza dire nulla si vestì, scelse un paio di scarpe da tennis dallo sgabuzzino che ne era colmo, anche troppo specie per uno zoppo e mettendosi il cappotto aspettò silenziosamente l’amico che beveva il proprio caffè in cucina.

Saliti in auto Wilson si decise a parlare, era sorpreso come un uomo che aveva dimenticato semplicemente tutta la propria vita non fosse curioso.
-Devi avere in testa molte domande, chiedimi qualsiasi cosa...-
-Dimmi tutto ciò che mi è necessario ricordare per adesso-
-Sei nato l’undici giugno del 1959, figlio unico, tuo padre era un militare, tua madre una casalinga, lui é morto cinque anni fa…-

Il resto dei dieci minuti di viaggio proseguirono accompagnati dalla voce dell’oncologo, gli parlò della ragione per cui si laureò all’università del Michigan piuttosto che alla Hopkins, accennò di Stacy, gli disse qualcosa sulla loro particolare amicizia e del suo pessimo carattere, e House ascoltava in silenzio sperando di poter ricordare qualcosa.

Le porte scorrevole del Plainsboro fecero spazio ai due amici, che adesso apparivano due perfetti sconosciuti. House si incuriosì entrando, un luogo affollato e metà di quei personaggi mostrarono segni di riconoscerlo.

Una tra queste fu colpita da un turbinio di emozioni inaspettate, rimase impietrita per qualche istante nel rivederlo. Erano passati tre lunghi anni durante i quali si era accontentata di una approssimata descrizione del suo stato da Wilson, perché approfondire poi l’argomento House era come approfondire la lama che le aveva lacerato il cuore in tutti quegli anni. E adesso se lo ritrovava di nuovo davanti, con quella sua solita aria insensibile, ma che lei sapeva nascondeva qualcosa di più che un semplice uomo abbandonato all’infelicità. Fu in quell’istante che Cuddy ricordò la promessa fatta a Wilson e la difficoltà di mantenerla le sembrò maggiore.
–Dottor House sono lieta di riaverla qui, sono il decano di medicina, la dottoressa Lisa Cuddy- si strinsero le mani come due perfetti sconosciuti. La donna si scambiò un veloce sguardo con Wilson. Sembrava preoccupato o forse semplicemente stanco, sorvolò in quell’istante di fronte l’arrivato.
House porse due occhi curiosi verso quel luogo di cui Wilson gli aveva raccontato di aver lavorato per anni, e allo stesso modo il suo sguardo fu curioso di fronte all’aspetto della dottoressa, il camice bianco era lungo e nascondeva gran parte dei contorni del corpo di Cuddy, ma i suoi occhi si persero comunque a guardarla, era bella, bellissima.
-Piacere- poi riprese ad ascoltarla, mentre lei gli porgeva un fascicolo dalla copertina blu; in quel momento si accorse di tre cuoricini microscopici grigi lucenti incastonati in un anello d’oro bianco, che vestiva l’anulare della mano sinistra della donna.
-Credo sia necessario che sia ancora il dottor Foreman a gestire il reparto di diagnostica, finché lei non riotterrà la licenza medica. Questa è un vostro nuovo caso, la sua presenza durante la differenziale è temporaneamente ufficiosa- Lui annuì semplicemente mentre Wilson gli poggiò una mano sulla spalla invitandolo a proseguire.

Quando House e Wilson passarono davanti le vetrate dell’ufficio più grande del diagnosta, Wilson gli indicò la stanza, attirando la mente distratta del medico che si guardava intorno come un bambino smarrito.

Quando entrambi entrarono, Foreman seduto, che sorseggiava un tazza di caffè, si alzò, si avvicinò con passo deciso ai due medici e strinse la mano a House 
–Bentornato- Taub, seduto alla sua sinistra fece lo stesso e, imbarazzato lo accolse con un grande sorriso stampato sul volto –Come sta?-
-Bene, grazie- li osservò attentamente, l’uomo dal grosso naso aveva ancora il segno della fede al dito, doveva aver divorziato da poco più di sei mesi, le borse sotto gli occhi suggerivano che doveva aver passato molte notti in bianco, forse in preda ai sensi di colpa si era intanato in uno di quei motels a due stelle persi in qualche autostrada nel mezzo del nulla. Foreman sembrava un perfetto bastardo menefreghista, l’aria d’arrogante e l’espressione infelice suggerirono al suo attento occhio una qualche esperienza complicata che magari lo aveva segnato profondamente; aveva un bracciale semplice di oro bianco al polso, non era certamente un tipo vanitoso, quindi doveva essere un oggetto di affetto personale.
Quando Wilson notò l’attenta analisi di House, lasciò lo studio con aria soddisfatta, e appena si richiuse la porta dietro, il cercapersone suonò.

I medici rimasero qualche istante in silenzio, loro, escluso Wilson e Cuddy, erano gli unici ad essere a conoscenza di ciò accaduto al diagnosta.
-Io sono il dottor Foreman, specializzato in neurologia, sono a capo del reparto di diagnostica-
-Io sono Taub, sono un chirurgo plastico, lavoravamo entrambi per lei- contento di aver chiarito che Foreman era stato un suo pari e che presto lo sarebbe ridiventato.





-Come sta?- Cuddy era seduta dietro la propria scrivania, un’espressione impensierita sul volto.
-È confuso, disorientato, ma le sue conoscenze, lo sai, sono rimaste intatte… deve riprendersi, e noi dobbiamo solo aiutarlo a ricordare…-
Cuddy annuì.
-Ma…- Wilson fu quasi incerto se continuare.
-Ma non deve sapere nulla di noi, sarò semplicemente il suo capo, farò come hai detto… sempre- sollevò lo sguardo, sembrava stranamente serena.
Wilson si sbalordì, gli aveva tolto le parole di bocca.
-È giusto… io… l’ho già ferito abbastanza- Cuddy cercò di apparire il più naturale possibile.
-Sei sicura?-
-Sì, Wilson. Io sono sposata… perché dovrebbe ricordarsi di me?- sospirò, guardò concentrata i foglietti poggiati sulla scrivania -scusami, ho del lavoro da finire- non riusciva a spiegarsi nemmeno lei come era stata capace di essere così fredda, distaccata. Come se aver rivisto House non l’avesse in qualche modo angosciata. Quello sguardo privo di emozioni nei suoi riguardi l’avevano uccisa. Lei non era niente. Non significava niente per lui, e sapere che nemmeno tra i suoi ricordi riusciva a trovare spazio, la feriva, la faceva star male al solo pensiero, non si aspettava che dopo tanto tempo lui sarebbe stato capace di avere ancora un simile effetto su di lei eppure era così. E poi aver mentito persino a Wilson, con una certezza che non avrebbe mai potuto lasciar spazio ad alcun dubbio. Ma a cosa sarebbe servito dirgli la verità? Sapeva di cosa avevano bisogno entrambi già da anni, e sembrava esserci riuscita fino a quel momento, dovevano dimenticare.





Erano passati due mesi ormai da quando House aveva ripreso a lavorare, e sembrava si stesse adattando bene anche alla vita in generale, era diventato autonomo ormai del tutto, aveva dei buoni rapporti, nei limiti classici di House chiaramente, con le persone che gli stavano intorno e a lavoro, ovviamente, si dimostrava il solito genio, nonostante il disorientamento naturale che cercava di non far trasparire.

-Tumore al cervello, l’ipotalamo è…- aveva esordito House, non riusciva a spiegarsi come fosse possibile avere tali conoscenze mediche ma non riuscire nemmeno a ricordare il nome della donna che l’aveva tenuto in grembo per nove mesi.
Taub lo interruppe soddisfatto -I sintomi coincidono!- metteva ogni volta un pizzico di arroganza quando per l’ennesima volta dava ragione a House a dispetto del capo. Da quando House era andato via aveva dovuto prendere ordini da Foreman, il che lo irritava particolarmente, non gli era mica inferiore. E inoltre il tempo di riuscita nelle diagnosi, da quando anche Thirteen non c’era stata più, era ritardato di troppo, perlomeno però non erano accompagnate da insulti, umiliazioni e amare verità su loro stessi.

Foreman, invece, da quando il suo ex capo aveva rimesso piede al PPTH si sentiva in piena competizione, Cuddy lo aveva promosso ma sapeva che presto sarebbe tornato alla propria originale posizione, infatti da quando House era tornato tutte le diagnosi dirette al paziente erano elaborate da lui e il neurologo non poteva che concordare –Sì, vado a parlare con Cuddy-

Foreman bussò cordialmente prima che Cuddy gli facesse cenno di entrare –Il mio paziente ha bisogno di una biopsia al cervello- il medico diede la cartella nelle mani del decano.
-Sospettate cancro?-
-Sì, i risultati li sottoporrò a Wilson-
-Ok- Cuddy richiuse la cartella riconsegnandogliela.
-Foreman aspetta...- Foreman si voltò tenendo la porta socchiusa –Chi c’è arrivato?-
-Io- rispose il medico sicuro, prima di scomparire dietro la porta a vetri.

Cuddy la sera riceveva regolarmente la chiamata di Wilson, lui le parlava di House, di come si stesse adattando, di come si sorprendeva e gli raccontava fiero di aver raggiunto diagnosi geniali, e Cuddy ascoltava soddisfatta, di certo non aveva perso il suo medico migliore. Per questo la bugia di Foreman era difficile da digerire, se qualcuno meritava la gestione del reparto di diagnostica quello era House e lei non si sarebbe lasciata prendere in giro senza vendicarsi.
Infondo non sarebbe stato difficile cambiare le cose per una donna con la sua influenza, aveva soltanto bisogno di fare un telefonata per ottenere ciò che voleva.




L’indomani mattina Cuddy e Wilson si trovavano davanti l’ascensore, pronti ad approfittare della gelosia di Taub.
-Taub- Wilson abbassò il capo in segno di saluto... -ho analizzato i campioni in laboratorio, si tratta di cancro-
 
-Arrivo in ufficio e ti porto la cartella del paziente, è tutto tuo- la sua espressione rimase seria, un’altra notte insonne, le occhiaie e il bicchiere di caffè quasi vuoto non potevano che suggerirlo.
-Sì, Foreman sta facendo un ottimo lavoro... penso che finché House non si riprenda, lascerò lui a dirigere il reparto- Cuddy si rivolse a Wilson, come se si fosse intromessa nella discussione, escludendo del tutto il chirurgo.
-Ma non stai pensando di promuoverlo definitivamente vero?- Wilson le si rivolse sorpreso.
-Wilson la diagnosi è stata di Foreman, House non si è affatto ripreso! L’idea di lasciare Foreman a capo del reparto è una possibilità- sembravano sul punto di litigare, bravi attori, se lo riconobbero.

Entrarono tutti e tre nell’ascensore, Taub li guardò pensieroso, cominciò a picchiare nervosamente il piede contro il pavimento, finché non si decise a parlare –L’idea è stata di House- il piccolo omino vendicatore aveva agito.
Wilson sorrise soddisfatto, Cuddy divenne furiosa.
Quando raggiunsero il piano di diagnostica la donna con passo lungo e deciso entrò nell’ufficio più grande dove House e Foreman attendevano Taub per discutere di un nuovo paziente e senza salutare si rivolse ai due medici –Dottor House ha riottenuto la licenza, Foreman riprendi la tua precedente posizione di sudetto- evidenziò l’ultimo parola soddisfatta, sentendosi dopo sorpresa quando quella professionalità, che mai l’aveva abbandonata, adesso la lasciava sorridere arrogantemente mentre innervosita abbandonava lo studio senza alcuna formalità, che invece le era consona.

Per Foreman, che rimase di stucco, fu difficile ingoiare il boccone, e Taub che ancora una volta era rimasto affascinato dal fare del suo capo, rivolse uno sguardo appagato al neurologo.

House, invece, rimase impassibile alla situazione, Foreman per quanto tentasse di dargli torto alla fine si lasciava convincere, in ballo c’erano delle vite umane e non poteva fare di testa propria solo perché amava il potere, perciò a House era andata anche bene così.

 

 

  
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