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Autore: Kokato    07/11/2009    5 recensioni
TERZA CLASSIFICATA AL “CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!
Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città.
Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo bisogno di
qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.
Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.
-Di
qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.
1900. Il giovane ed eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano. Ci sono due giovani Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.
Roy X Edward, Edward X Alphonse
Genere: Dark, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alphonse Elric, Altro personaggio, Edward Elric, Roy Mustang, Scar
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Orange Saga'
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Autore: Lady Kokatorimon

Autore: Lady Kokatorimon
Titolo: La villa delle arance.
Rating: Arancione.
Genere: Dark, drammatico, sovrannaturale, horror.
Numero frase scelta: 11.
Avvertimenti: Alternate Universe, Shounen ai, non per stomaci delicati.
Introduzione:

Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città.

Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.

“Non voglio”

“Forse hai solo bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.

Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.

-Di qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.

1900. Il giovane ed eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano.

Ci sono due giovani Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.

TERZA CLASSIFICATA AL “CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!


Note dell'autore: Nel complesso questa storia non mi piace, ma ci sono vari elementi che volevo mettere in atto da molto tempo quindi almeno un po’ la gradisco. In realtà sarebbe stata concepita per avere un seguito, ma volendo può anche finire così dato che tutti i punti principali vi sono chiariti. Deciderò sé continuarla in base al posizionamento nel concorso ed al gradimento del pubblico: in linea di massima, se mi posizionerò sotto il podio, il secondo episodio non vedrà mai la luce… e credo sia molto probabile che ciò accada. Fondamentale è poi specificare che per me i veri vampiri sono solo quelli creati dalla mente di Miss Rice, e a parti alcuni elementi (quali il collegamento mentale tra –quasi- tutti i vampiri ed il fatto che di giorno non sono assolutamente in grado di svegliarsi dal loro sonno, neanche per qualche minuto) i miei li ricalcano perfettamente.

La storia si svolge esattamente nell’autunno del 1900. Buona lettura!

 

 

CAPITOLO 1:  Farse da romanzo gotico.

 

Solo i morti sanno quanto sia terribile essere vivi.

Da “Il ladro di Corpi” di Anne Rice.

 

 

Aveva un suo modo di risplendere, nell’oscurità.

Aveva perso la facoltà di serrare le palpebre, di piegare le braccia in modo da incassare il busto nella morsa delle gambe. Non poteva più nasconderlo. La testa abbandonata di lato esponeva il collo bianco su cui una vena sbiancata non pulsava più, lo splendore che lo avvolgeva reclamava attenzioni che i suoi gesti rifiutavano. Lui pensava, guardandolo, che avrebbe dovuto solo aspettare che la sua decadente bellezza si facesse più evidente, ed ogni cosa si sarebbe aggiustata.

“Nii san*” non sapeva dire nient’altro. Era un oscuro stato catatonico dove ogni desiderio era polvere ed ogni piacere un pugno di mosche, ed era impossibile convincerlo del contrario. “Hai fame?”, gli chiedeva, e la sua risposta non era altro che un dilatarsi flemmatico dei grandi e vuoti occhi salmastri, che le palpebre divaricate non sapevano coprire più.

Lui conosceva la risposta.

Quel profumo era il suo modo di controbattere.

“Profumo d’arancia?” chiedeva allora, tremando leggermente sulla poltrona di broccato rosso -i cui ricami di fiori sembravano volerlo ghermire-. Annuiva, osservando il suo corpo abbandonato risvegliarsi dal torpore -a partire dalla coscia bianca visibile da sotto i pantaloncini corti-, il viso ritrovare espressione per sorridergli e il tempo ricominciare a scorrere per fermarsi di nuovo.

“Hai fame, Alphonse?” chiedeva di nuovo. Senza rendersene conto i suoi canini brillavano, mentre confermava che sì, aveva fame, e protendeva le mani per accettare la sua offerta minore. Nelle sue mani le arance sembravano frutti divini caduti da alberi del paradiso, nati da semi piantati su nuvole dolci come zucchero filato, nuvole che solo il cielo che era loro negato avrebbe potuto mostrare. Il tempo che impiegava per posare le labbra sulla scorza era infinito, il suo movimento un’ipnosi inebriante. Quando i denti ledevano la superficie i suoi occhi guardavano già luna, fuori dalla finestra.

Erano passati meno di dieci anni.

Il succo delle arance era troppo rosso.

 

***

 

 

 

Le parole che Roy Mustang si era sentito dire, prima di essere malamente scaraventato via dal suo posto di lavoro, erano state probabilmente parecchio enfatiche, poco gentili ed un poco volgari. Era quindi un bene che non le avesse afferrate con sicurezza.

D’altronde era stato il suo capo, Olivia Milla Armstrong, a pronunciarle, e detto questo era piuttosto scontato che tutta quella faccenda non fosse cominciata con una benedizione, una carezza, o con un qualunque gesto d’incoraggiamento.

Era un idiota, un inetto, un fottuto eunuco senza spina dorsale ed era già fortunato ad aver trovato un impiego come quello, con i tempi che correvano. Quasi quasi cominciava a credere che fosse vero.

Il ’London Central Journal’ era un giornale ancora poco importante ma ben avviato, con una redazione piena di professionisti più che competenti. Certo, la caporedattrice amava rendere noto il contrario con tutta sé stessa -soprattutto parlando di lui-, ma in fondo lei amava il suo lavoro più di qualunque altro professionista competente in tutta Londra.

In quel momento, con una valigia di pelle chiara sbatacchiata dall’Inghilterra alla Scozia -con un entusiasmo sinceramente inesistente- nelle mani, il suo mestiere sembrava il più dannato e il più maledetto nell’intero panorama dei mestieri dannati e maledetti.

Era quasi sicuro che sarebbe stato in grado di sognare quell’arpia del suo capo in posizioni equivoche quella notte, solo per nostalgia della sua città. Odiava la Scozia, odiava il ricordo dei suoi rubicondi zii scozzesi con i loro fottuti gonnellini a scacchi rossi e verdi, odiava essere mandato fuori dal paese per un’indagine che probabilmente non avrebbe portato nessun lustro né alla sua carriera, né a quella del suo capo, né a al giornale.

Che bisogno c’era di mandarlo a cercare a tutti i costi un altro Jack lo squartatore fuori dall’Inghilterra?

Aveva pestato i piedi sulla sua immaginaria linea di confine con tutto il suo disappunto, e non era servito a niente.

Resembool,  piccolo paesino di mare poco lontano da Glasgow e lontanissimo dalle tentazioni, dalle scostumate belle donne, dai bordelli, dalle bettole piene di alcool, dall’oppio, e dal divino piacere, si appropinquava a lui come una condanna ad impiccagione.

Immaginò un cappio ben resistente, con il suo collo che ci passava attraverso.

Dette uno sguardo alle basse case di legno, quasi livide e tristi, battute dal vento freddo che proveniva dal mare. Tutte allineate, rivolte verso la costa dove le barche per la pesca sembravano soldati in prima linea di un battaglione in guerra, chinavano i tetti spioventi come teste di codardi davanti al cielo che minacciava tempesta per la notte. Tra la prima fila di basse casette e quella che stava più in alto, a ridosso del pendio, scorreva una stradina che, volendo fare un paragone, stava a quel posto come Oxford street* stava a Londra. Era stato giorno di mercato, e i banchi di pesce argenteo e ghiacciato che la costeggiavano- fin dove lo sguardo non incontrava il limite sinistro della baia nella quale il villaggio era infossato-, erano accalcati solo dai marinai che si accingevano a portar via la merce invenduta.

C’erano fin troppe persone a cui chiedere, ma ebbe l’impressione di essere finito in mezzo ad un orda di spettri, pronti a scomparire ancor prima che avesse potuto aprir bocca.

 In realtà qualunque essere umano sano di mente avrebbe riso a crepa pelle sentendosi rivolgere la domanda che Roy aveva attenzione di rivolgere loro. Figuriamoci, erano solo storielle da romanzo gotico, romantiche fantasie che non avrebbero potuto riempire un trafiletto di sesta pagina, nemmeno con tutta la faccia tosta e l’abilità di romanziere che un mediocre giornalista poteva tirar fuori.

Doveva chiamare Olivia. Doveva rassicurarla sul fatto che fosse arrivato sano e salvo a destinazione –senza perder tempo a correre dietro a qualche gonnella-: anche se non l’avrebbe dato a vedere nemmeno fosse stata la Regina stessa ad imporle di farlo, sapeva che era preoccupata per lui –e per il suo ricordo poco felice degli zii scozzesi-.  Si fermò davanti il banco di un’anziana signora con un telo di lana bianca a fasciarle la testa ed evidenti cataratte sugli occhi vuoti, spenti, inquietanti, e le rivolse un sorriso malfermo.

“Mi scusi, vorrei un informazione: sa dirmi dove posso trovare un telefono?” non dette segno di aver notato la sua presenza, e continuò a fissare il manico di una chiave inglese con attenzione, senza rispondere. Il suo banco era pieno di oggetti simili, di ferro più o meno arrugginito. Sotto la lana, l’ovale del viso rugoso spiccava appena, pallidissimo e tetro come il suo atteggiamento noncurante di ogni cosa la circondasse.

“Mi scusi, sa dirmi dove posso trovare un telefono?!” alzò la voce, inutilmente.

Se le reazioni erano quelle davanti ad una domanda così semplice, non immaginava come avrebbero potuto reagire alle altre.

“DOVE POSSO TROVARE UN TELEFONO?!” urlò, e la donna si voltò verso di lui come fosse stata investita da una folata di vento che veniva dalla sua parte. Sgranò le perle che pareva avere incastonate nelle orbite, scuotendo la testa, prima di aprire finalmente bocca.

“Cosa ci fai qui, giovanotto?” Voleva solo mettere le mani su un fottuto telefono per cinque fottuti minuti, era chiedere troppo?! Ripeté la domanda, sperando di ottenere una risposta utile, prima di finire a sbraitare contro una vecchietta più morta che viva. Finalmente, mostrandogli l’ugola rinsecchita attraverso la bocca spalancata, sembrò prendere atto della sua richiesta.

“In casa mia”  disse con voce ferma, estraendo una pipa allungata dalla tasca del grembiule.

“Potrei utilizzarlo?” per la prima volta la donna sembrò accorgersi per davvero di lui, alzandosi senza dire nulla.

Ringraziò spazientito, togliendosi il cappello e seguendola. Altri passanti lo fissarono impunemente, mentre camminava in mezzo alle persone che parevano levitare sopra il terreno. Avevano distolto lo sguardo dal vuoto dell’aria gelida e turbinante solo per osservare lui, e lo strano fenomeno che rappresentava.

Il sole era tramontato.

 

***

 

“Hai fame, Alphonse?”

Osservando il collo bianco flesso all’indietro sullo schienale della poltrona, in una posizione scomposta e lasciva, il concetto di sacrificio si esprimesse alla sua mente in tutta la sua sacralità. Ogni suo gesto era lento, evidente, sincero ed era sempre fin troppo semplice rintracciarne le motivazioni. Giaceva lì, ridendo di tanto in tanto sommessamente, vagava piroettando per la stanza con la giacca un po’ calata sulle spalle, lo chiamava, attendeva la domanda che – lo sapeva- sarebbe inevitabilmente giunta. Alla luce della luna capiva subito quando sorridergli e porgergli la mano, quando invitarlo a ballare per passare il tempo che lui non percepiva più. Comprendeva quanto c’era rimasto di ragione e d’oblio nella sua testa ciondolante.

“Tu non hai fame, Nii san?” racchiuso negli abiti neri da funerale, col viso celato per metà dall’ombra di un drappo di velluto rosso che dal soffitto scivolava sulla nuda gamba destra, sembrava una bambola di porcellana le cui giunture erano ormai usurate.

“Ho già mangiato” disse, e quella volta, tra le tante, non era vero.

Lui sorrise, come lo faceva ogni secondo, divaricando le gambe e sfregandosi sul suo giaciglio, la testa che spariva alla sua vista ed il suo collo che tornava a tormentarlo. Decise di lasciarlo struggersi un poco, soffrire la fame che soffriva lui, con la risata folle che lo aiutava a sopportare qualunque cosa. Senza la luce della luna, gli arti non coperti dalla funerea seta nera del suo completo nero si protendevano verso di lui involontariamente, in cerca di un contatto che gli concedeva solo quando ogni cosa diveniva tenebra, e lui si rendeva conto di avere fame.

Molta più fame di quanta il suo Nii san avrebbe mai potuto placare con le sue arance dal succo rossissimo.

“Ho fame… voglio un arancia, nii san! Dammi un arancia!” pigolò, mentre la luna veniva soffocata dai lampi di tempesta, dalla tempra più forte. Improvvisamente Edward non riuscì ad accettarlo. Ignorò l’accenno di lacrime sui suoi occhi, con una mano sul papillon che non si curava più di raddrizzare sul collo da tempo. Molto più tempo di quanto sarebbe riuscito a ricordare, provandoci.

“È una menzogna”, sussurrò. Non avrebbe piovuto, ed Alphonse avrebbe smesso di piangere con un sorriso bianco ed una richiesta di ballare il valzer. Alphonse lo guardò, come non lo guardava da anni, probabilmente. Neanche la luna, di nuovo libera, attenuò la sua impressione che stesse per comprendere cos’è che non andava aldilà della sua arrendevolezza, aldilà delle scorze rosse sul pavimento di marmo regale.

“Non è d’arance che hai fame”

C’era qualcosa, una vibrazione diversa nello scorrere dei secondi nei minuti, dei minuti nelle ore, delle ore nelle notti.

“Mi annoio” -il tuo sacrificio m’annoia, la pena che ho per te m’annoia, la mia noia mi terrorizza e l’amore che provo per te lo fa anche di più-.

“Non lo fare”, si voltò verso di lui, mentre la luce lo inondava e la minaccia di tempesta si rilevava per ciò che era. Una menzogna. Come i suoi desideri e come l’illusione di contentezza che la follia aveva provveduto a costruirgli addosso. Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, e sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città. Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.

“Non voglio”

“Forse hai solo bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.

Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.

-Di qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.

 

***

 

Lady Pinako Rockbell  gli dava una strana sensazione di deja vu, anche se non aveva l’aspetto di una persona minacciosa nel senso che lui intendeva. Era piccola, a tratti minuscola se la si guardava da seduta, con un paio d’occhialetti che le rimpicciolivano gli occhi ed un codino di capelli grigi simile al picciolo di una rapa. Ma sapeva molte delle cose che Roy voleva sapere, ed aveva la capacità di farle sembrare vere e più inquietanti del dovuto.

Roy Mustang aveva ancora vergogna della storia che sarebbe andato a ricamare, non lo negava, ma mentre osservava la zuppa tanto gentilmente offertagli pensò che sarebbe bastato renderla verosimile.

“Me lo sarei dovuta aspettare”

“Che cosa?” era stupito. Pensava che non gli avrebbe rivolto la parola, che la sua espressione diffidente sarebbe bastata a farlo desistere. Dalla credenza a qualche metro dalla tavola, imprigionata nella carta di una fotografia, una ragazza dai lunghi capelli biondi, di non più di vent’anni, gli sorrideva abbracciando un grosso cane. Era l’unico oggetto nella camera che non fosse un martello od una scatola di chiodi. La fissò per qualche secondo.

“Che qualcuno del mondo là fuori sarebbe arrivato, prima o poi”

Era un villaggio di fantasmi malinconici, rarefatti e rassegnati al loro legame col mare e con una lisca di pesce. L’immagine gli tornò alla mente, calzando a pennello con quella definizione del mondo da cui proveniva. “Quanti sono i morti?”

L’anziana donna aveva saputo sin dall’inizio dov’è che voleva giungere, e stette in silenzio per qualche tempo, ponderando su fantasie di cui aveva subito il lato reale. Era ancora abbastanza attaccata alla terra per dispiacersene e cercare vendetta. La luce del camino rendeva il suo viso meno spettrale. “Non mi fido di voi”

“Lo immaginavo”

“E nemmeno voi di me, suppongo”

“Il mestiere che svolgo rende il mio atteggiamento ambivalente, Milady” disse, indossando la sua maschera di candido ammaliatore. Doveva riporre la sua fiducia in chi poteva ricambiare lasciandogli tra le mani vitali segreti, sussurri e tracce su una mappa da disegnare. Allo stesso tempo doveva fare in modo che i gentiluomini e le gentildonne avessero fiducia in lui, o che perlomeno lo ritenessero tanto insignificante da pensare che, parlare o meno con lui, fosse irrilevante. Nessuna di quelle condizioni si era verificata, tra di loro.

“Èqui per gli Elric?” era una domanda, ma era abbastanza sicura della risposta che avrebbe ricevuto da non infondervi un tono interrogativo.

“Allora ci sono già dei sospetti”

“Fesserie”

“Perché avete parlato di questi Elric, allora?”

“Pensavo foste in cerca di fesserie anche voi. Non troverete altro, signore”

Mentre la luce della luna rendeva più chiari i lineamenti del suo volto allungato, Roy pensò che non fosse il caso di trattarla come qualunque altra donna –o uomo, se è per questo-. Si rimise nelle sue mani, sorridendo, come avesse un potere oltre quello conferitole da ciò che sapeva.

Annuì quasi meccanicamente. Era esattamente ciò che aveva pensato, ma quelle fesserie  si adattavano a lui e le meritava perfettamente, anche senza i fumi dell’oppio nella testa o senz’avere quest’ultima infilata sotto le vesti di una gentile donzella. Sorrise, annuendo quasi soddisfatto.

“Cinquanta vittime, tra abitanti del villaggio e commercianti in transito, da un anno a questa parte. Tutte completamente private del loro…”

“… sangue” lo disse soprappensiero, mentre lo diceva lui, creando un’eco che fece tremolare la fiamma della candela che stava sul tavolo. Nel gioco di luce e ombra, il suo sorriso non parve credibile. Tutte quelle dannate storie venivano fuori proprio quando denti aguzzi e creature succhia sangue, nel frattempo, si pavoneggiavano sulle pagine di romanzi da due soldi. Avevano incominciato a farlo, da due anni a quella parte, con una presunzione discutibile. “Vi offendo se confermo che mi sembrano fesserie?”

“È solo ciò che molti qui intorno hanno visto. Ma del resto voi del mondo là fuori ritenete che troppe cose siano fesserie”

Abbassò il capo, cercando di nascondersi da lei per qualche attimo. “La carta stampata c’ha rivelato troppo, forse? Non saprei, Milady. Sono qui per scoprirlo, non anelo altro” con un gesto di biasimo appena accennato parve voler liquidare la faccenda, con un po’ di quell’omertà degli spettri immorali, che non hanno nulla da perdere a lasciare che gli uomini si dannino per il loro divertimento.

“Avrei molta più facilità a crederlo, è solo che non lo desidero. Non voglio credere che loro siano…”

“… vampiri” lo disse con la noia nel tono di voce. Sgranando le minuscole iridi si ritrasse di scatto, trotterellando giù dalla sedia e fuori dalla casa prima che avesse potuto pentirsi della sua fretta. Aveva dimenticato che, superstizioni o no, delle persone c’avevano lasciato le penne nella stessa razionale realtà che lui riconosceva. La luna fuori era piena come un occhio pieno di terrore. Il cielo e il mare erano uniti dallo stesso colore nero, impenetrabili se non dalla luce della luna.

“Potrei dissipare tutte le vostre paure, se me lo permetteste” Fece per voltarsi verso di lui, ma il suo sguardo l’oltrepassava: su uno sperone di roccia, che pendeva sulle loro teste come la lama di una ghigliottina, stava una costruzione che sì stupì di non aver notato prima.

“La residenza degli Elric” Spiegò Lady Rockbell, con voce atona. Era comparsa insieme alla notte, non c’erano altre spiegazioni. Non si poteva dire se quella figura fosse davvero nera, o se fossero state le tenebre a farne una sagoma indistinta, la cui coppia di torri parevano il profilo di un paio di rachitiche braccia. Un castello costruito nello stile dei peggiori romanzi dell’orrore. “Mio dio, tutto ciò è troppo divertente”

“Non mi siete simpatico, signore”

“Non so perché l’avevo intuito”

Roy  sorrise ancora, alla vista, come avrebbe potuto fare davanti ad una bella donna.

“La popolazione del villaggio si è dimezzata da quando gli ultimi due rampolli della famiglia Elric sono tornati alla loro residenza estiva. E non parlo solo di morti. La mia unica nipote è scomparsa nel nulla qualche mese fa, perciò potete ridere ,dall’alto della vostra raziocinante intelligenza inglese, di questa storia da superstizione. Ma fatelo quando non posso vedervi”

Neanche allora riuscì a prenderla sul serio, e le rivolse un espressione quanto più possibile incolore. Dentro di sé non vedeva l’ora di scovare quel pazzo e sbatterne la foto sulla prima pagina del suo giornale, con una spiegazione scientifica e tangibile.

Niente trucchi da circo o castelli infestati.

“Parlatemi di questi Elric vi prego, Milady. Immagino di non potermi recare da loro l’indomani mattina, ho bisogno di tenermi occupato.

Suvvia, parlatemene!”

 

***

 

“TU! BRUTTO IDIOTA!” tuonò la cornetta del telefono.

Roy cominciava a temere di avere una malaugurata sfortuna con le donne: o gli urlavano contro, o si rifiutavano di parlargli.

Anche se Olivia Milla Armstrong aveva perso da tempo quella caratteristica che la gente comune chiama femminilità, consacrando la sua vita alla politica del terrore –specie se applicata su di lui-. Giusto qualche volta poteva essergli sembrato che il suo modo di terrorizzarlo fosse in qualche modo femminile, ma probabilmente era solo un’ impressione -messagli in testa dal dondolare dei suoi seni o cose simili, magari-.

“Se stai pensando quello che pensi di solito –ed io so che tu lo pensi- sappi che, ora, è alquanto ridicolo pensarlo”

“Vuoi dirmi che non hai trascurato il tuo lavoro per correre dietro a qualche gonnella nemmeno per un attimo?”

“Se ne avessi trovate di appetibili…”

“MUSTANG!”

“Ho notizie, My Fair Lady!”

Olivia odiava che la chiamasse a quel modo, ma soprattutto odiava il fatto che avesse il coraggio di farlo quando lo aveva mandato in un paesino sperduto ad occuparsi di qualche bega da superstizione paesana, solo per toglierselo di torno.

“Se mi chiami ancora così ti spezzo un braccio. Non chiedermi come, ma sai meglio di me che ho i miei mezzi!”

“Ne sono cosciente. Ma so riconoscere quando c’è un bella messinscena da smascherare, e stavolta non so dire se il nostro uomo sia davvero più incline all’omicidio che all’inganno” Olivia sapeva che era vero, che –quasi- ogni cosa che diceva era del tutto attendibile, ma non seppe trattenersi dal dubitarne un poco. Era pur sempre il migliore elemento della sua redazione, pur con tutte le sue dannate ossessioni nichiliste, e per questo andava tenuto sotto controllo. Acconsentì con un grugnito a farlo continuare.

“La serie di omicidi e sparizioni sembra sia iniziata in concomitanza col ritorno di due giovani conti ‘in città’. Poco più che ragazzini. La loro famiglia possiede la residenza che domina la baia fin da quando fu costruito, si dice, e, ad intervalli che vanno da cinque a dieci anni, tornano ad alloggiarvi per qualche tempo. Esattamente dieci anni fa, quando avevano rispettivamente sette e nove anni, i due fratelli passarono un soggiorno di qualche mese qui con i loro genitori. Ne sono sicuro perché un anziana signora mi ha raccontato che sua nipote, della stessa età del fratello maggiore, aveva stretto con loro all’epoca una fortunata amicizia. Almeno fin quando non se ne sono andati, e sono tornati poi con l’acquisito ‘savoir faire’ del nobile: troppo superbi per curarsi di lei. Per quanto abbia provato ad incontrarli i domestici le sbattevano sempre la porta in faccia. Ed ora è scomparsa nel nulla”

“Ma come avrebbero potuto due ragazzini uccidere in quel modo?” sbottò Olivia grattandosi la testa.

“Si tratta di un lavoro da professionisti: litri e litri di sangue tirati via dalle vene lasciando solamente due piccole punture, senza versarne una goccia e senza infliggere nessun’altra ferita. Sia che abbiano tramortito le vittime e che le abbiano poi dissanguate da un'altra parte, sia che abbiano raccolto il sangue in un contenitore, la cosa risulta infattibile senza che nessuno se ne accorgesse”

Doveva trattarsi quindi di un medico. Aveva già fatto un ragionamento simile, ed il risultato era stato lo stesso.

“Forse lasciano l’incarico a qualche servitore” azzardò quindi Roy.

“Possibile”

“Credi davvero che le due cose siano correlate?”

Ricordò il profilo della residenza, e riuscì ad immaginare una farsa tanto ben architettata da far ridere ed inorridire allo stesso tempo: un castello infestato, due giovani conti dalla vita solitaria su cui, imbastire una montatura di follia e decadenza, sarebbe stato fin troppo semplice.

“Tutto combacia” disse al termine della sua catena di pensieri.

“Cosa ti aspettavi? I grandi assassini sono fuori dalla nostra portata attualmente, e comunque sai quanto poco m’interessino. Il mondo è un alcova di pazzi, ormai, non capisco cosa ci sia da farsi uscire le pupille dalle orbite ogni volta”

“Grazie mille per la tua considerazione per me, allora. Farò quel che potrò. E grazie anche per avermi ricordato perché questo mondo fa tanto per me”

Protese le labbra verso la cornetta. Lo schiocco rese il tono di voce di Olivia più sbrigativo.

“Prego, idiota. Smettila di fare l’idiota, idiota, e fai un buon lavoro… nei limiti del possibile. Ah, e lascia perdere quel fottuto libro!”

Era forse il terzo telefono che rompeva quella settimana… forse.

 

 

*Nii san= fratellone, fratello maggiore. Scusate, so che essendo in Inghilterra non dovrebbero parlare giapponese, ma “fratellone” e “fratellino” mi suonano veramente male in bocca a loro xD

*Oxford street è, ai nostri giorni, la strada dello shopping di Londra. Non so se esistesse già nel 1900 e se avesse già questa fama, ma passatemi il paragone per piacere xD

*Otouto= fratellino, fratello minore.

 

NOTE FINALI!

Bene, stavolta sto avendo un inflazione di terzi posti xD quando arriverà quella dei primi? Credo mai.

Comunque la prima condizione necessaria affinché io scriva il seguito s’è verificata: sul podio ci sono arrivata! Non mi rimane da vedere se questa fic piacerà o no a voi del pubblico. Tutto sommato mi è andata bene, per il momento. La fic sarà formata da quattro capitoli e posterò ogni sabato.

Al prossimo capitolo e commentate in molti *O*

 

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