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Autore: EmMyLou    10/11/2009    2 recensioni
" Ormai nulla ha più importanza... basta solo che siamo insieme " In questa one-shot ho voluto trattare in modo specifico il rapporto speciale che lega i gemelli Kaulitz, inserendoli in un contesto drammatico.Infatti lo scopo era quello di far capire quanto Tom sia legato profondamente al gemello, come Bill è allo stesso modo legato a lui. Questa è la mia prima one-shot che pubblico su EFP e spero che vi piaccia, anche perchè a me è piaciuto tantissimo scriverla, anche se in alcuni punti è stata dura...Comunque ci tenevo a precisare che questa one-shot ho iniziato a scriverla quasi due anni fa (anche se l'ho finita solo ora XD), per questo motivo ci sono alcune incongruenze con la vita attuale dei Tokio Hotel. Infatti c'è ancora Saki come loro guardia del corpo e soprattutto i gemelli non hanno ancora cambiato look. So che forse avrei potuto modificare la storia, ma visto che era nata così mi sembrava giusto mantenerla esattamente uguale. ...sono accetti tutti i commenti, anche se brevi, e soprattutto sono accette le critiche (ma solo se sono costruttive)..anzi sono davvero curiosa di sapere che cosa ne pensate, in modo da poter eventualmente correggermi e cercare di migliorare... GRAZIE A TUTTI E BUONA LETTURA^^
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sei tu quello che mi guarda, non puoi essere tu.
Distolgo lo sguardo, ma continuo a sentire i tuoi occhi puntati su di me.
Sta piovendo.
Numerose gocce di pioggia battono incessantemente sul parabrezza della macchina, su di te.
Il tuo corpo esile steso sul cofano nero della Cadillac.
I tuoi occhi nocciola continuano a guardarmi, anche se sono spenti e senza vita, riescono ad essere tremendamente espressivi.
Rabbrividisco.
So che è impossibile, ma mi sembra che tu mi stia accusando di ciò che è appena successo, anche se forse è solo tristezza e paura.
Cerco di non pensarci.
Sento alcune grida in lontananza, ma non m’importa, vedo solo te.
Lo sportello si apre e due braccia robuste mi trascinano fuori dalla macchina.
Cerco di liberarmi, ma inutilmente.
- Lasciatemi..lasciatemi. Cazzo!! Non potete portarmi via così- continuo ad urlare.
Finalmente vengo lasciato libero, la figura possente di Saki mi scruta dall’alto.
- Perché non capite?! Io..devo..non posso-.
Sfuggo alla sua presa e corro verso la macchina, sei ancora lì, privo di vita.
Faccio forza con le mani e salgo sul cofano, le mie scarpe bagnate scivolano sulla vernice lucida, macchiandola di fango.
NON ME NE FREGA UN CAZZO! L’unica cosa che ora conta veramente per me sei tu Bill.
Tu e nessun altro.
Ti prendo per le spalle e ti giro verso di me, il tuo corpo fragile si affloscia contro il mio.
Ti abbraccio, vorrei poterti tenere sempre accanto a me, ma sento la tua vita affievolirsi sempre di più.
Ti stringo forte, ho paura che tu svanisca per sempre, ma allo stesso tempo temo di ucciderti con le mie stesse mani.
Sento una sirena, le luci dell’ambulanza mi accecano, cerco di stare calmo, ma non ci riesco.
- Tom ora dobbiamo andare- Gustav cerca di trascinarmi giù dal cofano ma io non voglio abbandonare mio fratello, non posso!
Arrivano anche gli altri: Georg, Andreas, David, Saki.
- No, non voglio!!-.
Nessuno mi capisce, mi sembra di essere solo, senza Bill.
Una lacrima.
Voci confuse in lontananza.
- Qualcuno ha chiamato i suoi genitori?-
- Sì li ho appena sentiti, ci aspettano in ospedale-.
Vengo trascinato di peso verso l’ambulanza. Salgo e le porte si chiudono dietro di me.
Mi guardo intorno impaurito: accanto a me ci sono Georg, Gustav e Andreas.
Gustav si tiene la testa tra le mani.
Georg mi guarda- Credi che ce la farà?-
Che razza di domanda è?! Gli sembra questo il momento di chiedermi una cosa simile.
Cerco di non pensarci, vorrei poter rispondere con sicurezza, ma non posso perché anch’io mi sono chiesto la stessa cosa poco fa.
- Non lo so- dico tristemente, Andreas e seduto accanto a me e continua a tenere gli occhi chiusi.
Sembra quasi che dorma, ma probabilmente sta solo cercando di non pensare a quello che sta succedendo.
Vorrei scomparire, non voglio rimanere lì, ho paura.
Un’infermiera mi chiede gentilmente – Scusi, ma lei è il fratello della vittima?-
- Sì- rispondo secco.
- Mi dispiace molto per quello che è successo, ad ogni modo sono convinta che suo fratello si riprenderà presto, mi creda-.
BUGIARDA! Non sono stupido, li vedo gli altri infermieri indaffarati intorno alla barella di Bill. Li vedo farli tutte quelle iniezioni, quegli esami, se davvero è così convinta che guarirà allora perché sono tutti così agitati?
- Bugiarda- sussurro.
- Come scusi?-
- Ha capito benissimo..BUGIARDA!!
Lei è una bugiarda, mio fratello sta morendo, lo so. È inutile che finga il contrario, so quello che sta succedendo, non sono stupido sa!- mi accascio sul sedile esausto.
- Ma veramente io..-
- Non si preoccupi, non è colpa sua- dice Andreas cercando di scusarsi.
Mi si avvicina e mi stringe le mani, sto tremando, si appoggia a me cercando di confortarmi.
- Ehi Tom, vedrai che andrà tutto bene. Bill è forte ce la farà-.
Perché continuano tutti a mentirmi!!
- Mmm- è tutto ciò che riesco a dire.
Rimaniamo in silenzio per tutto il resto del viaggio.
Quando finalmente raggiungiamo l’ospedale e l’ambulanza si ferma, vedo gli infermieri far scivolare lentamente la barella giù dall’ambulanza e sento la mano di Bill allontanarsi dalla mia.
Non voglio perderlo, non possono portarmelo via! Stringo con più forza la sua mano cercando di trattenerlo con me, ma sento la sua mano esile scivolare via dalla mia, gli sfioro la punta delle dita per poi staccarmi definitivamente da lui.
La barella viene spinta velocemente all’interno dell’ospedale, ma io sono ancora seduto qui: sul freddo sedile di questa fottuttissima ambulanza.
Chissà forse si sono dimenticati di me, mi hanno chiuso qui dentro e tra non molto morirò.
E allora potremo essere di nuovo insieme... solo io e te Bill..per sempre.
Magari potessi morire, invece sento le voci di qualcuno arrivarmi indistinte all’orecchio, poi due braccia robuste mi fanno scendere e mi conducono verso l’entrata.
Non appena varco la soglia dell’ospedale, la luce abbagliante dei neon mi acceca, cerco di farmi schermo con la mano ma quella, impietosa della mia tristezza e della mia rabbia, continua a ferirmi gli occhi.
Mi accascio su una delle sedie di plastica del corridoio e chiudo gli occhi.
Ho paura, in questo momento ho paura come non ne ho mai avuta in vita mia.
Ho una fottuta paura di perderti, Bill.
Sono preoccupato ma soprattutto furioso, perché tutte le persone intorno a me sembrano non rendersi veramente di quello che sta succedendo in quella stanza, oltre quella porta bianca che mi separa dalla mia anima, dal mio respiro, da tutto ciò che mi appartiene e che mi fa vivere ogni giorno.
Perché dietro quella porta c’è LUI.
Lui. Il mio gemello. La mia vita.
Quello che per tutti questi anni mi è sempre stato vicino, con cui potevo parlare di tutto e di niente, con cui ho imparato a vivere e ad amare.
Bill. Complice di tante scorpacciate segrete alla scatola dei biscotti condivise da piccoli fra le quattro mura della nostra cucina, la persona che mi ha fatto scoprire il piacere della risata e di un “Ti voglio bene” detto prima di spegnere la luce, lui che mi ha insegnato le cose importanti della vita.
Ma soprattutto che mi ha insegnato il vero significato dell’amore.
E se penso che ora possa perderlo così, in pochissimi minuti, e tutto per colpa di uno stupido incidente. Per colpa mia.
Scaccio indispettito una lacrima che sta scendendo lentamente lungo la mia guancia.
Vedo la figura di Gustav avvicinarsi verso di me con in mano del caffè caldo.
 Mi si siede accanto, porgendomi il bicchiere e mi chiede - Come stai?-.
- Che domanda stupida. Come vuoi che stia, sapendo che il mio gemello è la dentro da qualche parte, che probabilmente sta morendo ed io non posso fare niente per impedirlo. Anzi non posso nemmeno stargli accanto. Dimmi secondo te come mi dovrei sentire? – dico arrabbiato.
- Hai ragione Tom, scusami- si alza dalla sedia e si allontana in silenzio.
Cazzo. Mi sto comportando come un bambino! Perché ho trattato così male Gustav? Insomma lui ha solo cercato di essere gentile e io invece gli ho risposto così, senza un motivo.
Forse adesso dovrei alzarmi e andarlo a cercare per chiedergli scusa.
Ma anche se questa sembra la cosa più giusta da fare, non so perché ma il mio corpo non ne vuole sapere di staccarsi da quella sedia e di allontanarsi neanche per un secondo da quella porta, dove dietro c’è Bill.
Il mio Bill.
Un’altra lacrima fastidiosa si fa strada tra le ciglia e scivola lentamente lungo la mia guancia.
Non voglio piangere, so che forse dovrei sfogarmi in qualche modo, ma non voglio lasciare trasparire così la mia insicurezza, la mia paura.
Non voglio.
Incredibilmente riesco ad alzarmi dalla sedia e mi dirigo verso la macchinetta.
Ho assolutamente bisogno di bere un caffè forte, senza zucchero, forse almeno quello riuscirà a farmi ragionare.
Infilo le monete nella fessura e aspetto paziente.
Quando finalmente il ronzio della macchinetta cessa, apro lo sportellino e mi chino a prelevare il bicchiere colmo di caffè bollente.
Lo tengo stretto con due dita e cercando di non fare casini, torno a sedermi su quella scomodissima sedia di plastica azzurra.
Soffiò sul caffè per cercare di raffreddarlo, poi lo avvicino lentamente alle labbra.
CAZZO, É BOLLENTE!!! Ingoio un sorso di caffè, mi brucia la gola.
Probabilmente ho perso completamente la sensibilità del gusto, ma in fondo adesso che importa.
Ormai nulla ha più un significato.
Tristemente gettò il caffè annacquato nel cestino, mi alzo in piedi e inizio a camminare su e giù per il corridoio.
Non riesco a stare calmo.
Mio fratello è chiuso in una di queste stanze, dove probabilmente sta morendo e io sono qui impotente.
Questa è una cosa che non riesco a sopportare, vorrei tanto poter fare qualcosa, ma qui tutti non fanno altro che dirmi di stare calmo, che tutto andrà bene, che mio fratello si riprenderà... ma io sono stufo di queste cazzate! Perché non sono loro che stanno perdendo la metà di loro stessi, non è il loro gemello, non è la parte mancante del loro cuore, della loro anima.
Ma è il MIO.
Perché Bill è solo ed unicamente MIO!
Nessuno può capire quello che sto provando, è inutile che continuino a guardarmi con pietà, perché io non ho bisogno di questo, perché loro non capiscono.
Ora come ora l’unica cosa di cui ho veramente bisogno è poter stare accanto a mio fratello, ma purtroppo è impossibile.
Quindi mi limito a rimanere in silenzio, in attesa che quelle porte si aprano.
Respiro profondamente, questo ambiente asettico mi opprime: i colori, gli odori, le persone, è tutto così terribilmente irreale.
NON LO SOPPORTO!
Tanto lo so già come andrà a finire, me lo sento.
Quando quelle porte si apriranno, uscirà un’infermiera che con aria gentile e tono calmo mi dirà che Bill non ce l’ha fatta, che il mio gemello è morto... la mia metà, la mia vita.
Una lacrima fastidiosa mi scende lungo una guancia.
Poi inizierà a dire le solite frasi di circostanza che francamente non sopporto, del tipo: “ Mi dispiace davvero per quello che è successo... Non c’è stato modo di salvarlo... abbiamo tentato di tutto... ma sono sicura che suo fratello le sarà sempre vicino... ” e altre cazzate simili.
È così che andrà, ne sono sicuro, come da copione.
Perché in questa storia non può esserci un lieto fine, purtroppo.

***

Attimi.
Secondi.
Minuti.
Ore.
Il tempo scorre lento, incurante della mia sofferenza, del disperato bisogno che ho di sapere che mio fratello sta bene, che tutto questo è solo uno stupido incubo da cui presto ci sveglieremo e di cui poi rideremo insieme, nascosti sotto il piumone del mio letto, abbracciati uno all’altro, consolandoci a vicenda.
Un cigolio e le porte che conducono all’inferno si aprono.
Ma non è certo Satana quello che sta uscendo, anzi tutt’altro.
È un semplice medico di mezza età avvolto in un camice bianco, con una cartellina in mano che continua a sfogliare nervosamente, mentre avanza a passi lenti verso di me sistemandosi gli occhiali, che continuano a scendergli fastidiosamente sul naso affilato.
Gli occhi piccoli e gelidi scrutano un’ultima volta il plico di fogli che tiene tra le mani, per poi rivolgere la loro attenzione su di me.
- Lei è il fratello della vittima suppongo- chiede scrutandomi attraverso le lenti con aria di sufficienza.
Non lo sopporto.
Possibile che in un momento come questo certa gente non riesca ad andare oltre alle apparenze, ai loro fottuttissimi pregiudizi, e preoccuparsi solo di compiere il loro lavoro come si deve.
Non chiedo molto.
Pretendo solo che mi vengano dette le cose così come sono, senza tanti giri di parole.
Non mi sembra una richiesta così difficile.
Eppure sembra che a nessuno importi.
- Sì, sono io- rispondo apatico.
- Avrei bisogno di parlare con lei, se vuole seguirmi nel mio ufficio- dice avviandosi lungo il corridoio.
- No che non voglio. Non voglio seguirla nel suo cazzo di ufficio!- il mio braccio stretto attorno al suo, gli impedisce di muoversi.
- Mi scusi io non intendevo... - balbetta lui impaurito.
- Tom che stai facendo- la voce acuta di mia madre.
Merda!
Immediatamente mollo la presa sul suo braccio, lasciandolo libero.
Sento i suoi passi farsi sempre più vicini, quando finalmente la vedo, ferma immobile davanti a me.
Stento quasi a riconoscerla: il viso scarno e sciupato, le guance rigate dalle lacrime, gli occhi arrossati, i capelli in disordine.
Non sembra affatto mia madre.
O almeno non quella che mi ricordo io.
Quella che mi sgridava quando facevo i dispetti a Bill, che mi aiutava con i compiti, che mi dava la buona notte prima di dormire, che mi consolava quando ero triste e che ora, esattamente come faceva lei con me, viene consolata da Gordon.
- Si può sapere che cosa ti è preso?- dice tra i singhiozzi.
È incredibile come questa donna possa avere la forza di sgridarmi, nonostante uno dei suoi figli stia lottando tra la vita e la morte.
Simone è sempre stata così: una donna indipendente e sicura di sé, che è riuscita a tirar su due gemelli da sola, con il solo aiuto di Gordon.
È davvero ammirevole.
- Hai ragione mamma, scusa- dico a capo chino.
Lei mi guarda con aria severa, poi fa un respiro profondo – Non importa, so come ti senti... e ti capisco benissimo-.
Quando finalmente torna a posare lo sguardo sul medico che un attimo fa stavo quasi per aggredire, e gli chiede con voce tremante – Di che cosa voleva parlare con mio figlio Tom? Credo sia giusto mettere al corrente anche me, se ci sono novità su Bill, in fondo sono pur sempre sua madre-.
Sento la paura trapelare dalla sua voce, so che non vuole davvero sapere quello che hanno da dirle, probabilmente non vorrebbe neanche essere qui.
Teme di sentire quella semplice frase, ormai collaudata da tempo, che la farebbe crollare.
Una stupidissima frase, sufficiente a rovinare la vita di tante persone.
Il medico si schiarisce la gola e finalmente si decide a rispondere – Bill non ce l’ha fatta-.
Un urlo.
Quello di mia madre.
La vedo accasciarsi a terra, mentre Gordon cerca di sorreggerla come può.
Ma sono solo immagini confuse e sbiadite, non riesco a respirare, la stanza mi sembra improvvisamente troppo piccola, devo uscire di qui.
Senza preoccuparmi di nessuno, corro fuori dall’edificio.
L’aria fredda della notte mi sferza il viso, ricaccio indietro le lacrime e inizio a correre.
Non so neanche io dove sto andando, so solo che ho bisogno di allontanarmi il più possibile da quel luogo, così smetto di pensare e lascio che sia il mio istinto a guidarmi.
Corro, senza mai fermarmi, fino a quando arrivo di fronte a un vecchio edificio abbandonato.
Te lo ricordi Bill?
Entro da un ingresso laterale che ormai conosco a memoria, salgo in fretta le scale fino ad arrivare sul tetto, spingo la maniglia arrugginita della porta e finalmente sono fuori.
È ancora più grande di come me lo ricordavo.
Non ci sono più i direttori di scena, la troupe, David che urla da dietro le quinte, io e i ragazzi che ti supportiamo stando ai margini della scena.
Niente telecamere, niente luci.
Questa volta ci sono soltanto io e il buio sotto di me.
Avanzo lentamente, poi salgo in piedi sul cornicione.
Fa freddo.
Guardo l’oscurità sotto i miei piedi, fa davvero paura da quassù, ma ormai ho deciso e non posso più tornare indietro.
Sporgo un piede nel vuoto, è una sensazione assurda.
Mi volto, sperando di vederti comparire mentre intoni “Spring Nicht” solo per me.
Ma questa volta non ci sei tu a salvarmi, perché tu mi hai lasciato, mi hai mentito.
Me l’avevi promesso ricordi? Staremo sempre insieme, per sempre.
E io che come uno stupido ci avevo creduto, ma “per sempre” non esiste.
Ora ci sono io, da solo nella notte, senza di te.
“Le luci non ti guideranno, ti stanno solo tradendo” un’altra bugia.
Non c’è nessuna fottutissima luce accesa per me stanotte, nessuno rivolto col naso all’insù a pregare per me, nessuno a cui importi della mia vita. Ma in fondo che mi aspettavo? Siamo pur sempre alla periferia di Berlino, in una zona disabitata da tempo.
Ho paura.
Vorrei che tutto questo fosse solo uno stupido incubo.
Un ultimo sguardo alle mie spalle, poi mi lascio cadere nel vuoto.
Come hai fatto tu, in quella scena ormai oltremodo criticata di Spring nicht, alla fine del video.
L’unica differenza è che questa volta non ci sono effetti speciali, non c’è un’inquadratura dal basso a farmi sembrare così in alto e non c’è nessun materasso alla fine di questa discesa che mi sembra infinita.
Sento il sibilo del vento nelle orecchie, il vuoto intorno a me, l’oscurità.
Vedo l’asfalto avvicinarsi sempre di più, poi mi schianto a terra.
Ho la guancia premuta contro l’asfalto ghiacciato, ma non sento dolore.
Anzi, sono felice, perché finalmente sento che mi sto riavvicinando a te.

Ormai nulla ha più importanza... basta solo che siamo insieme.
  
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