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Autore: Miss Trent    11/11/2009    8 recensioni
(chiedo scusa per il titolo T.T)
"Il suo soldato si era messo il fucile in spalla e si era chinato a scostarne i lembi, rivelando un bambino di pochi mesi che forse per miracolo era rimasto illeso. Dragunov alzò un sopracciglio.
– Che cos'è, Andreev? – chiese prima di rendersi conto di aver fatto una domanda abbastanza stupida. – Comandante, è un bambino, signore. Anzi, una bambina. –"
Dedicata a EvilCassy.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sergei Dragunov
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 fucili e biberon (divertissement)

Oneshot senza alcuna pretesa nata da un "colpo d'ispirazione" fortuito una domenica mattina appena sveglia.
Dedicata a EvilCassy, che grazie alla nostra conversazione su Sergei e i bambini ha portato a galla quest'idea. Ti stimo sorella! :)
Oh, qui Sergei parla proprio tanto per i suoi standard. Spero comunque di non essere andata troppo OOC^^


fucili e biberon
(divertissement)


   Sergei Dragunov diede ordine di avanzare. In mezzo ai resti della città bombardata dagli aerei di Jin Kazama, dieci uomini dell'esercito russo camminavano a ranghi serrati, i fucili pronti, con il loro comandante alla testa a farsi largo tra le macerie. Ora era loro compito pattugliare la zona, per evitare lo sciacallaggio e mantenerla sotto il loro controllo.
   Per quanto assurda potesse essere quella guerra, provocata da un pazzo, Dragunov si trovava nel suo elemento. Era nato per fare il soldato, e i suoi uomini lo stimavano anche se era un comandante severo. Severo ma dal forte senso del dovere.
   La divisione avanzava nel silenzio innaturale di quella città fantasma, interrotto soltanto dal crepitìo di piccole fiammelle – residui del fuoco delle esplosioni – e dal vento che iniziava a spirare più forte. Le nuvole che stavano addensandosi in cumuli scuri indicavano che probabilmente avrebbe piovuto. Non c'erano più civili, scappati poco prima del bombardamento o rimasti sotto il fuoco nemico, e la sola presenza umana in quel paesaggio desolato erano proprio loro.
   Un rumore diverso da tutti gli altri attirò l'attenzione degli uomini – un lamento, sembrava più un gatto. Uno dei soldati si avvicinò alla fonte del suono, scostando schegge di legno e pezzi di cemento. Anche il comandante si avvicinò, e vide un fagotto che si lamentava e si muoveva. Il suo soldato si era messo il fucile in spalla e si era chinato a scostarne i lembi, rivelando un bambino di pochi mesi che forse per miracolo era rimasto illeso. Dragunov alzò un sopracciglio.
   – Che cos'è, Andreev? – chiese prima di rendersi conto di aver fatto una domanda abbastanza stupida.
   – Comandante, è un bambino, signore. Anzi, una bambina. – rispose il militare accorgendosi del pagliaccetto rosa. La piccola non piangeva più, anzi li guardava con interesse, agitando le manine.
   Andreev le sorrise intenerito, allungando le braccia per prenderla. All'ultimo momento si trattenne, girandosi verso Dragunov.
   – Posso, signore? – chiese.
   Dragunov fu colto alla sprovvista – tutto si sarebbe aspettato, meno che un neonato. Guardò Andreev, guardò la piccola, poi il resto dei suoi uomini.
   Non aveva la minima idea di cosa significasse avere a che fare con un neonato. Lui odiava i bambini.
   – Se posso permettermi. Non ha nessuno, signore. Morirà. – il soldato era serio, anche se parlava con rispetto.
   Seguì un silenzio greve, rotto soltanto dallo scalpiccìo della bambina nelle sue coperte.
   Alla fine Dragunov acconsentì, seppur controvoglia. Il suo soldato non aveva torto, ma comunque non appena sarebbero tornati alla base doveva trovare qualcuno a cui affidare quel coso.
   Andreev prese in braccio il fagottino, che ora sorrideva in direzione di nove facce sudate e sporche di terra.
   – Rientriamo – ordinò il comandante.

   Stesa su una brandina, la piccola dispensava sorrisi e versetti a destra e a manca. I soldati la guardavano senza sapere esattamente che fare.
   Uno di loro, Kalinin, era diventato padre del piccolo Vlad proprio qualche mese prima, ma fino a quel momento era stato sempre lontano da casa e perciò non poteva essere molto d'aiuto sull'argomento se non con quello che la moglie gli raccontava per telefono.
   Dragunov arrivò qualche minuto dopo.
   – Allora? Che fate tutti qui? – esclamò vedendo il gruppetto stretto intorno alla branda. Tutti tornarono obbedienti ai loro posti, lasciando Kalinin vicino a quello che era il suo materasso.
   – Questa sera verrà qualcuno a portarla via, ma nel frattempo sono io il responsabile. – come se non bastasse, pensò. – Sta dando noie? – chiese a Kalinin.
   – No, signore, non si è lamentata. Anche se credo che tra poco comincerà ad avere fame. –
   Fantastico, ora doveva anche pensare a come nutrire una mocciosa.
   – Cosa mangia di preciso un bambino? – domandò, sentendosi stupido per la seconda volta. Dannazione.
   – Latte, comandante. Ho un figlio di quest'età, mia moglie lo allatta con un biberon. –
   Dragunov rimase pensoso. Un comandante dovrebbe sapere sempre cosa fare, anche se quella era una situazione alquanto insolita per lui.
   – Peccato che qui non abbiamo né donne né biberon. Andreev, vai a prendere il latte in polvere. Radchenko, trova un guanto di lattice. – ordinò infine.

   Come aveva detto Kalinin, neanche mezz'ora dopo la bimba cominciò a piangere. Anzi, 'piangere' era forse un po' riduttivo. Quella cosetta insignificante era capace di trapanare il cervello anche a un sordo – sembrava impossibile che una voce del genere potesse uscire da un corpo così piccolo, ed era indubbio che strillasse perché aveva fame. Andreev non era ancora tornato, e Radchenko si stava chiedendo a cosa servisse un guanto di lattice quando c'era una neonata urlante.
   – È per fare il biberon, cretino – l'aveva apostrofato Kalinin senza farsi sentire da Dragunov, che aveva trovato una bottiglia di birra vuota e l'aveva sciacquata.
   – Dov'è finito Andreev? Kalinin, tua moglie ti ha detto anche come si spengono quando piangono? – sbottò con una nota dura nella voce.
   – Ha fame, ha solo bisogno di mangiare, signore. Credo. –
   In quel momento entrò un Andreev abbastanza trafelato, con un pacchetto verde dell'esercito in mano.
   – Chiedo scusa comandante, signore. La dispensa era chiusa e il cuoco era via. –
   – Era ora. Riempi questa d'acqua e torna qui. Veloce, chiaro? Kalinin, falla smettere! – Dragunov cominciava a non sopportare tutto quel chiasso.
   Kalinin si avvicinò un po' incerto alla piccola e iniziò a cercare di distrarla con due moschettoni che tintinnavano tra loro. Per un attimo lei sembrò calmarsi, poi ricominciò esattamente come prima.
   Fortunatamente Andreev aveva trovato dell'acqua ed era riuscito a preparare il latte in polvere.
   – Vediamo se riesce a stare zitta – disse il comandante. – Radchenko, questo guanto di lattice? –
   – Eccolo – rispose il soldato che nel frattempo (su suggerimento di Kalinin) aveva tagliato un dito dal guanto e ci aveva fatto tre piccoli fori sulla punta. Poco dopo, grazie al nastro adesivo, il biberon di fortuna era pronto.
   Kalinin si sedette sulla brandina e prese la bimba in braccio, mentre Andreev le porgeva la tettarella.
   Non appena sentì il sapore del latte la piccola iniziò a poppare, smettendo finalmente di piangere. Quasi tutti i soldati tirarono un sospiro di sollievo.
   – Avevi proprio fame, eh? – disse Andreev quando, meno di dieci minuti dopo, il biberon fu svuotato. La bambina rispose battendo le manine e sorridendogli.
   – Questa non è una bambina, è un demonio – concluse Dragunov dall'altro lato della stanza scuotendo la testa.
   – Se da problemi chiamatemi, ora devo andare. – aggiunse uscendo. I suoi soldati lo salutarono scattando in piedi.
   – Sissignore. –

   Era distrutto dopo una giornata del genere. Steso sul suo materasso stava cercando di riposare dopo aver relazionato la giornata al comando – non aveva un istante di tregua da otto giorni a quella parte e per giunta ci si era messa anche la storia della mocciosa.
   Immerso in quei pensieri, avvertì appena la voce tentennante di Radchenko che lo chiamava.
   – Ehm, comandante. –
   – Che c'è ancora? –
   – La bambina ha evacuato. –
   – Che cosa? –
   – Si insomma...ha sporcato il pannolino. –
   No. Non era possibile. Radchenko probabilmente credette che il suo comandante sarebbe esploso da un momento all'altro, cosa che però non avvenne. Con il suo tipico aplomb, Dragunov si limitò ad un semplice – E allora? –
   – Non abbiamo altri pannolini, signore. –

   La scena che si presentava poco dopo era al limite del tragicomico. Quattro uomini intorno a una neonata – il resto della squadra impegnato in altri doveri sul campo – che non avevano la minima idea di come si cambia un bambino.
   – Sicuri non sia radioattiva? – disse a un certo punto Andreev tappandosi il naso.
   – Andreev, non è momento. – Dragunov lo fulminò con lo sguardo.
   – Potremmo usare un asciugamano – suggerì Radchenko.
   – Prima però dobbiamo lavarla – disse Kalinin – mia moglie mi racconta che usa una vaschetta con acqua tiepida. – aggiunse in fretta vedendo le facce degli altri.
   La piccola sembrava divertirsi un mondo. Sgambettava e muoveva le braccine in direzione dei quattro che la guardavano chi divertito, chi contrariato. Dragunov fissò i suoi soldati.
   – Vaschetta con acqua tiepida, allora. – fece leggermente esasperato.
   Radchenko corse a cercarne una. Quando tornò trovò il suo comandante che imprecava a denti stretti mentre raccoglieva il pannolino sporco e lo buttava via. No, decisamente non era contento.
   A fatica, anche quel bagnetto improvvisato riuscì. La bimba sembrava contenta di meno lo erano Andreev e Kalinin, i quali avevano passato cinque minuti a sudare anche nella paura di farle male mentre, rispettivamente, il primo la sosteneva e il secondo si occupava di lavarla. Il nuovo pannolino era un asciugamano, che dopo un po' di tentativi era stato finalmente assicurato con una spilla. Non era esattamente un capolavoro, ma poteva andare. Ora avvolta in una coperta marrone, la piccolina 'parlava' a modo suo, indicando il soffitto e facendo versi comprensibili solo a lei.
   – Dovremmo addormentarla? – suggerì Andreev poco dopo.    – Sarebbe un'ottima idea, Andreev. – per Dragunov la cosa si stava rivelando piuttosto irritante, tanto che voleva soltanto che quella sera arrivasse al più presto.
   Un volenteroso Andreev si diresse verso la bimba e la prese in braccio, cominciando a cullarla. O meglio, sballottolarla con la grazia di un pachiderma. La reazione non tardò ad arrivare, ossia un principio di pianto spaccatimpani.
   – È una bambina, non un cocktail – ringhiò Dragunov. – Andate a dare il cambio agli altri. – ordinò poi.
   Andreev lo guardò esitante, poi gli consegnò la neonata e uscì.
   Con una bambina in braccio, Dragunov pensò che essere un comandante significava anche essere pronto davvero a tutto. Lei lo guardava divertita, tentando con la manina di tastargli il naso. La sua proverbiale calma era messa alla prova.

   Passarono diversi minuti, ma la bimba non accennava a chiudere gli occhi sembrava trovare molto interessante la piastrina al collo del soldato, che sospirando si sedette sulla branda.
   Vedi di addormentarti, mocciosetta.
   Senza più sapere che fare, Dragunov cominciò a cantare sottovoce una vecchia canzone russa. La voce scura e profonda non spaventò la piccola, anzi. Come sotto un incantesimo, fece un grande sbadiglio spalancando la minuscola bocca, mentre gli occhi stavano per chiudersi. Di lì a cinque minuti dormiva tranquilla, i pugnetti stretti vicino al viso.
   Una scena come quella non si vedeva tutti i giorni, e probabilmente non si sarebbe vista più.

   Dragunov finì di parlare via radio con il comando e tornò dove i suoi soldati, raccolti intorno alla branda di Kalinin, stavano facendo giocare la piccola. Non appena lei lo vide fece un gran sorriso, mostrando i soli due dentini, e iniziò ad agitare le piccole braccia nella sua direzione.
   – Tra un quarto d'ora verranno a prenderla. Non possono arrivare qui, perciò qualcuno di voi dovrà venire con me. Andreev, Radchenko – disse facendo segno ai due, che si alzarono per obbedire.
   – Voi rimanete di guardia qui. – ordinò agli altri.
   Fucile in spalla, i tre soldati uscirono nello scenario desolato. Il punto di incontro era a due chilometri da li.
   La piccola era in braccio a Kalinin, avvolta nelle sue coperte, ma l'impatto con il vento fu comunque forte, tanto che iniziò a piangere. Kalinin la strinse di più, coprendola completamente.
   – Ma non riesce a stare zitta per più di cinque minuti? – mormorò stancamente il comandante.
   – Forse non le piace stare in braccio a me...mia moglie mi ha detto che Vlad non sopporta se suo nonno lo prende in braccio, e ogni volta piange come un disperato. – rispose Kalinin attento a non mettere il piede in fallo sulle macerie.
   – Posso provare a tenerla io! – si offrì Andreev, guadagnandosi un'occhiataccia di Dragunov, che non aveva dimenticato come il suo soldato fosse carente in termini di grazia nel cullare gli infanti.
   – Tu hai già dato. – disse fermandosi e voltandosi verso Kalinin. La bimba si lamentava ancora nel fagotto di coperte, neanche la stessero tenendo appesa per le caviglie. Senza dire nulla, Dragunov la prese dalle braccia di Kalinin.
   – O ti calmi o ti lascio dove ti abbiamo trovato. – fece poi con voce molto tranquilla. Anche se sapeva che non lo poteva capire, la frase detta così sembrò comunque avere qualche effetto sulla piccola, che smise di piangere poco dopo.
   Meglio così pensò Dragunov, senza accorgersi delle facce stupite dei suoi soldati dietro di lui.
   Erano circa a metà strada, il sole cominciava ad abbassarsi sulla linea dell'orizzonte. I tre uomini camminavano in silenzio, solo la bambina ogni tanto faceva piccoli versi ora che aveva ricominciato a giocherellare con la piastrina di Dragunov.
   – Posso fare una domanda, comandante? – disse a un certo punto Andreev.
   – Si. –
   – Dove la porteranno? –
   – La croce rossa si prenderà cura di lei. – rispose Dragunov.
   Andreev sembrò valutare se fare un'altra domanda o meno, ma alla fine scelse di tacere.
   Un tonfo li mise in guardia. Rivolti i fucili in direzione del rumore, si accorsero che era solo un gatto che aveva fatto franare un piccolo cumulo di mattoni. L'animale passò davanti a loro guardandoli altezzoso, poi sparì dietro un altra collinetta di terra. Dragunov imprecò sottovoce mentre i suoi soldati abbassavano le armi.
   A qualche metro di distanza c'era una jeep della croce rossa che altrimenti non avrebbe potuto farsi strada tra le macerie. Lì vicino due uomini, che Dragunov riconobbe come suoi superiori, una donna e una ragazza - queste ultime con la divisa da infermiere, erano in attesa.
   Quando i due gruppi si trovarono uno di fronte all'altro i soldati fecero il saluto militare.
   – Comandante Sergei Dragunov. A rapporto. –
   I superiori fecero un cenno, le infermiere gli andarono incontro. Con un sorriso la più giovane si sporse per prendere il fagottino di coperte - aveva capelli rossi e il viso stanco di chi ha lavorato molte ore di seguito. L'altra donna sembrava stanca quanto lei.
   – Grazie per averla portata qui – disse la ragazza in un russo non proprio perfetto.
   Dragunov non rispose, limitandosi ad alzare le spalle e consegnarle la bambina. Ora che era in braccio all'infermiera la piccola lo guardava con gli occhi spalancati, tanto che sembrava sul punto di piangere di nuovo mentre tendeva la manina verso di lui.
   – Passerotto, ti eri affezionata? – le disse l'infermiera guardando prima lei poi Dragunov. Lui non disse nulla, ma Andreev e Kalinin avevano ammorbidito la loro espressione.
   – Sono sicura che starà benissimo con noi. Un nome ce l'ha? – aggiunse in direzione dei soldati.
   Dragunov scosse la testa. – Non ci abbiamo pensato. –
   – Anastasia – fece Andreev senza pensarci. Quando il comandante si girò a guardarlo, pensò di aver detto un'eresia.
   – Anastasia è un bellissimo nome! Ti piace? – esclamò la ragazza rivolta alla bambina.
   Un colpo di tosse dell'infermiera più grande la avvisò che dovevano andare.
   – Oh bè...grazie di tutto. Sono sicura che anche lei se potesse lo direbbe. –
   – Si, diciamo che ci ha ringraziato a modo suo. – disse Dragunov. Andreev e Kalinin sorrisero sotto i baffi.
   Con il saluto militare i tre soldati si congedarono dai superiori e dalle infermiere, che salirono sulla jeep e si allontanarono.
   Voltandosi per tornare al campo, Kalinin vide il suo comandante alzare appena gli angoli della bocca.

  
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