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Autore: francy91    12/11/2009    1 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Salve. Specifico solo che la malattia citata in questo capitolo, la FFI, esiste davvero e comporta l’impossibilità di dormire per lunghi periodi (fino ai sei mesi) e porta inevitabilmente alla morte. Il soggetto affetto da questa patologia vive di allucinazioni, spossatezza lacerante e continua, ma non può dormire – esperienza che non augurerei a nessuno (o forse a qualcuno sì).

Buona lettura.

 

 

La nottola diurna

 

Non è una malattia, le dissero. Certo, certo che non lo era: era morta prima ancora di nascere.

Dana era stata scelta a caso fra i bambini che sarebbero nati nel 2087 – non che ne fossero rimasti molti, per la maggior parte erano stati macellati dai morbi diffusi dalle multinazionali farmaceutiche, dai virus-insetti creati da Lev Cvotyshova e dai ricercatori finanziati dal Ministero della Sanità ucraino, sotto l’ordine di Utako Kejimoto, ministro degli affari esteri di Dikaia. In verità, dire che Dana fu scelta a caso è un errore di lacerante profondità: le schede cliniche di ognuno dei genitori dei candidati e delle loro rispettive famiglie furono accuratamente esaminate dalla squadra dell’NRO statunitense, che, come si è detto, soffocò parzialmente il patriottismo con cui gli Dèi giapponesi (da Kira I all’attuale Kira IX) avevano promosso non nei confronti di Dikaia, bensì dell’antico Impero del Giappone, indifferentemente debole e arrendevole come prima della rivoluzione di Kira.

Dana fu l’unico feto considerato totalmente sano, senza alcun pericolo di contrarre malattie genetiche in una terra che per i malati riservava un ricovero eterno su un letto di cadaveri. Fu questa, dunque, la sua sfortuna: era ancora un’informe gelatina nel suo fragile mondo di placenta quando fu deciso che sarebbe diventata Boia.

Non sapeva che i lisosomi stavano ponendo la croce sulla sua tomba, divorando le membrane interdigitali di quei pochi centimetri di vita, di suoni taciuti, di occhi chiusi e ignoranti, di piedini zuppi di umori fecondi. Era quella Dana: un viso fluorescente sullo schermo di un ufficio dell’Ospedale di Stato di Kakyo.

E ora, signori miei, che testimoniate questa mia confessione rea e rancorosa, entra in scena colui che vi parla, che ascoltate con insaziabile sete, che vi tiene in braccio e vi fa un po’ male con le sue mani ossute, ma non importa, perché voi state bene fra le mie braccia. Voi mi volete bene, lo so, e io vi odio. Vi odio perché state bevendo da me tutto ciò che so, mi salassate senza pietà, attendete che io termini il mio racconto per poi dar fuoco alla mia lingua. Per voi sarà tutto come prima, mentre io sentirò il sapore amaro di bruciato sulle papille gustative.

D’accordo, inchioderò il camice al muro, impiccherò lo stetoscopio, amputerò le siringhe, perché non sono quelle le mie armi. Io non sparo, non soffoco, non avveleno. Io penso, dunque uccido.

La prima volta che incontrai Dana ero un grasso genetista, laureato in psicologia infantile nel tempo libero. Un grasso genetista e un grasso psicologo, insomma, mentre lei pullulava di corpuscoli in un utero umidiccio e unto. Il mio singolare modo di salutarla fu aprire uno spiraglio gelido e accecante nel suo buio e cocente letto di carne, trasferendola in provetta. Eccola lì, mentre si riproduce nel tepore di un tubo, eccola mentre muove una manina forse ancora palmata…

Mese per mese, la nutrii come un criceto e fui tentato di effettuare qualche esperimento sulla possibilità di anticipare il periodo di fecondità dell’utero femminile, fino a renderlo fertile non dalla nascita, bensì anche da prima, dal periodo fetale! Quanta esaltazione provai e fui costretto a reprimere in quei macabri mesi di piastrelle bianche, di leninismo intellettuale, di notti quotidianemante abbaglianti, di ronzii e cifre sonnolenti.

Fu in prossimità del settimo mese che utilizzai le cellule staminali.

Dopo aver modificato il loro materiale genetico, sostituendo un allele recessivo di un particolare gene con uno dominante, misi tali cellule in contatto con il corpo gommoso ed etereo della piccola Dana sfruttando in senso inverso le proprietà delle staminali: come si era venuti a conoscenza già agli inizi del XXI secolo, esse, in prossimità di un particolare tessuto, si mutavano nello stesso. Dunque, come ho accennato, io invertii tale proprietà delle cellule staminali, in modo che qualsiasi tessuto, in contatto con loro, avrebbe assunto la loro stessa natura.

Il primo gene che modificai fu quello che determinava la Fatal Familial Insomnia (FFI) e, successivamente, imposi all’argenteo corpicino, che, cieco, mi fissava, una costante introduzione di ormoni potenzianti l’attività mentale e fisica, in modo da anticipare la sua nascita e da non causarle la morte per FFI.

Quando Dana fu cotta a puntino nella provetta, il suo capo era perfettamente liscio e glabro. Appena “nacque”, ricordo, le sfiorai la fontanella, soffice e fatale, le premetti le dita su quella anteriore, la più grande, mentre Dana apriva gli occhietti marroni.

No, non fraintendete: non fu tenerezza, né senso paterno. Fu clemenza, consapevolezza del mio potere. Il regno di Kira non era mai stato governato dai politici, dai giornalisti, dagli imprenditori. No. Il regno di Kira era degli scienziati e degli Dèi. Kira era stato l’unico, sì, l’unico in assoluto a coniugare definitivamente scienza e dio; Kira non era solo un giustiziere, un abile statista, uno straordinario prodigio. Kira era… giusto. Semplicemente.

Gli effetti della FFI su Dana furono immediati e, l’11 Novembre del 2087, nacque la seconda Boia del governo di Kira VIII, colei che nei registri di Dikaia assunse il nome di Esperimento Lithium4-0103-5728-2092-8483-7381-92, ma sull’etichetta della sua provetta avevo scarabocchiato DANA e l’avrei chiamata sempre così. Dana Ørssen.

 

°°°

Dana Ørssen. Fu così che venni chiamata per i miei undici anni di vita da Ivano Glissani.

Non so nient’altro, a parte qualche miliardo di nomi e di visi.

Una sola voce, a parte la mia.

E poi… Poi non so nient’altro.

Ah, no: qualcos’altro c’è. So che Ivano mi ha cresciuta e che lui fa cose diverse rispetto a me. Lui dorme, per esempio.

Poi, so che gli scienziati cercano di sfruttare le malattie in modo intelligente e parsimonioso; io non sono malata, mi hanno detto. Ops, mi ha detto. No, non sono malata, perché Ivano dorme e io no. Il mio è un vantaggio, perché, mi dice, il resto degli uomini passa quasi un terzo della propria vita dormendo. Io no: io non spreco nemmeno un’ora, dice lui, e senza rischi, perché le vitamine e gli ormoni che assumo mi riabilitano all’istante. Una volta gli ho chiesto: “E nel resto della loro vita, cosa fanno?”. Non mi ha risposto, mi ha solo detto che ognuno nasce per qualcosa: lui, ad esempio, è nato per fare ricerche e per farmi nascere. Non capivo.

Poi mi ha spiegato che anch’io sono nata per qualcosa, il che mi ha sbalordita. “Tu”, ha esclamato poggiandomi una mano rugosa sulla spalla, “sei nata per scrivere. Capisci?”. Capivo.

Questo significava che scrivere era una mia specialità e che gli altri non lo facevano. Io scrivevo, scrivevo da quando… Da quanto? Non ricordo. Ivano mi ha detto che chi nasce per fare qualcosa, la fa da sempre e per sempre. Io scrivo da quando sono nata, mi ha spiegato. Non avevo ben chiaro come sentirmi, quindi continuai a scrivere, a guardare lo schermo e scrivere, a fissare Ivano e scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere, a lamentarmi del mal di schiena e scrivere, a prendere pastiglie e scrivere.

Non sapevo cosa fossi, come fossi, benché Ivano mi indicasse i capelli asserendo che fossero corti e castani. “Corti? Che significa?”, gli aveva chiesto. “Che… che non sono lunghi”, aveva esitato. “Cioè?”. Avevo commesso l’errore di poggiare la penna sul foglio e di stiracchiarmi. Mi bastò un suo sguardo gelido per riprendere subito a guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere… sempre.

Potevo fare tutto ciò che volevo, mi aveva spiegato molto tempo prima, a patto che continuassi a scrivere.

“Io ho i capelli corti, per esempio. Ma i miei sono grigi, mentre i tuoi sono del colore di… di questo tavolo”, affermò poggiando il palmo sul piano, accanto al Quaderno e alla mia mano, piccola e sudata. Annuii.

Donnie Rotten, Emilia Pennetta, Jakobo Unkani, Nicholas Coupliniatos, Moriko Kinoshiyo, Rafael De Fiona, Frie Suchtze, Ina Axhosa, Vincent Fleur…

Frie Suchtze, nella foto, aveva i capelli lunghi, notai. Ivano annuì. “I suoi capelli sono biondi; i tuoi sono come quelli di Vincent Fleur.”

“Sono belli”, sorrisi.

Spesso gli avevo chiesto perché dovessi scrivere: sì, ero nata per quello, ma perché?

“Ne abbiamo bisogno. Il mondo… No, cioè, noi due ne abbiamo bisogno, perché ci sono persone nate per fare del male e noi dobbiamo eliminarle. E sai perché? Perché siamo nati anche per questo. È semplice”. No, non mi convinceva affatto, ma non mi potevo permettere di non credere a Ivano.

“Vedi, ci sono persone che impediscono alle altre di fare ciò per cui sono nati. Non lo fanno per loro volontà… Ecco, questi individui lo fanno perché sono nati così, insomma. È un dovere. Tu devi scrivere, io devo educarti, loro devono distruggere i nostri propositi, noi, insieme, dobbiamo eliminarli.”

“E questo cosa c’entra con il fatto che io debba scrivere i loro nomi guardandoli in faccia?”. La mia voce trillò fra le pareti e mi si aggrappò sulle spalle, arrampicandosi timidamente.

“Non lo so”, rispose. Scoppiai quasi a ridere scagliando via la penna. Ivano rispondeva sempre alle mie domande, non era mai schivo ed evasivo. Rispondeva sempre, sebbene le sue repliche fossero assurde e io me ne accorgevo, pur non sapendo.

Non lo sapevo, non sapevo cosa c’entrassi io in tutto quel piano di eliminazioni e predestinazioni e, sinceramente, non mi importava: mi andava bene anche solo scrivere, guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ascoltare la sua voce e scrivere, lamentarmi del mal di schiena e scrivere, prendere pastiglie e scrivere.

Scrivere.

Ultimamente le nostre giornate erano silenziose e lugubri: Ivano sonnecchiava guardando la penna muoversi, preparandosi a porgermene un'altra in caso che la mia terminasse. Un attimo di pausa, impercettibile e stridulo. A tre anni dalla mia nascita avevo già capito che il suo scopo era rendermi occulto il riposo, in modo che la mia autocoscienza non urtasse contro lo specchio. Scrivere, scrivere e nient’altro.

“Da quanto tempo sei vivo?”, gli avevo domandato quando ancora non riuscivo a tenere bene la penna in mano. “Quarantasei anni.”

“È tanto?”. Avevo sgranato gli occhi per la curiosità e i pixel dello schermo si erano sciolti insieme, fusi nella mia cornea. “I tuoi anni per ventitré”. Le mie pupille, se possibile, si restrinsero. Sentii quasi dolore. “E io vivrò così tanto?”.

“No”.

Rimasi sconvolta da quella risposta e non gli posi più domande di quel tipo. Ero avvezza alle diversità fra me e Ivano, ma quella… proprio non riuscivo a sopportarla.

Che vita era quella? Non sapevo dove mi trovassi, cosa fossi, chi fosse Ivano per me, come avessi fatto a trascorrere undici anni nutrendomi di pastiglie, mentre lui sbucciava pesche, disossava polli, soffiava su risotti bollenti, spolpava lische di pesce. E io masticavo dischetti amari e plastici. Perché? No, quello lo sapevo. “Tu non capisci che sei fortunata: la gente sa tutto su sé stessa, a parte il motivo per cui è al mondo. Muore per saperlo, fino a perdere quel minimo di consapevolezza che ha. Tu sei qui e ora per salvare te e me, non la gente. Mettila su questo piano: se tu non scrivessi centinaia di nomi al giorno, io non sarei con te. Non saremmo insieme.”

E quello, giuro, mi atterriva a morte. Benché le sue affermazioni fossero minimizzazioni riduttive – i nomi che annotavo erano migliaia – no, io non potevo lasciarlo. Ivano… Ivano era mio padre, il mio maestro, la mia finestra, le mie scale – sebbene non sapessi bene cosa fossero questi ultimi due oggetti, dato che non li avevo mai visti –, il mio specchio rotto – altrettanto sconosciuto ai miei occhi. Ivano mi aveva acquietata in quell’anno fra quelli che lui aveva chiamato menarca e menopausa. Mi aveva abbracciata stringendomi le spalle ricurve, mentre scrivevo e morivo, lì, sotto i pantaloni. Mi bruciava, mi premeva… Era orribile. E lui mi faceva delle cose… Che non ha più fatto.

“Stai meglio?”, mi chiedeva ogni volta che sentivo, sentivo quelle bizzarre e sofferenti vibrazioni. Avevo quattro anni, ricordo. Contavo le pagine del quaderno da quando Ivano si svegliava al momento in cui si addormentava con la testa poggiata al tavolo. Era quello che Ivano chiamava giorno, supponevo. Ogni giorno occupava circa quattrocentocinquantadue pagine.

Non ricordo, sinceramente, un attimo della mia vita in cui Ivano si fosse allontanato da me; certo, dormiva, ma controllava sempre che scrivessi almeno duecento pagine durante quelle pause. Mentre la sue testa grigia posava sulle braccia incrociate, io scrivevo e lo guardavo. Una volta gli accarezzai una tempia. Fu meraviglioso.

E, sì, mi sentivo meglio quando mi sfiorava quella specie di botte che mi sosteneva il collo, quella parte morbida sotto la pancia, quella curvetta compressa fra le cosce molli e flosce. E non riuscivo a scrivere con chiarezza, mi si appannava lo sguardo, ma non m’importava, continuavo a registrare volti e trascrivere nomi: non volevo che smettesse per rimproverarmi. Non volevo che smettesse.

 

°°°

Non doveva smettere.

Ero orgoglioso di Dana, della sua pazienza e del suo coraggio; non faceva troppe domande, soprattutto negli ultimi tempi, e aveva sopportato bene le dosi di ormoni somministratele per anticipare il menarca e la menopausa, in modo che non intaccassero il suo corpo nel periodo adolescenziale, quando il progesterone avrebbe potuto reagire contro gli ormoni che assumeva. La sua breve pubertà non le aveva cambiato l’aspetto in maniera drastica: a quattro anni il seno crebbe poco, mentre il resto del corpo ingrassò, soprattutto in prossimità dei fianchi e dell’interno coscia. Il sangue mestruale fu il problema principale, all’inizio, ma il dottor Xavier Surinho, con cui ero sempre stato in contatto mediante le fibre ottiche, mi consigliò di utilizzare lo stesso sistema creato per raccogliere l’urina: una lavanda turbinante estremamente potente e precisa che risucchiava il liquido denso in modo esaurientemente efficiente.

Sapevo che sarebbe comparso l’impulso sessuale, che l’avrebbe distratta. Signori, non datemi del perverso, non mi sembra il caso. Dovevo curarla in tal modo, in quanto gli inibitori dell’istinto sessuale erano ancora sotto sperimentazione e i risultati ottenuti non erano esaustivi. Il periodo di fertilità sarebbe durato un solo anno e toccarla non mi dispiaceva: era bella, pallida e malaticcia, flaccida e… tutta pelle. Era una bimba intelligente, adulta, moderata, che sapeva quando reprimersi e fermarsi, ma il sesso non rientrava nelle coercizioni umane. Non ancora, almeno.

Avvolgerle la vita era come governare Dikaia: ero un privilegiato e, signori, ne godevo fino all’osso. Inoltre, nonostante avessi condotto decine di esperimenti su esseri umani totalmente isolati dalla società sin dalla nascita, per comprendere quale fosse effettivamente l’origine dei comportamenti devianti e correggerli, Dana stimolava continuamente il mio desiderio di forzare le pareti, elasticizzarle e perforarle: di varcare i limiti della conoscenza, nonché di collaborare per cancellare quel mondo brulicante di individui latori delle peggiori intenzioni, stolti, maliziosi, ipocriti, passivi, vanitosi, eccessivi sia nelle attività corporali che in quelle cerebrali, presuntuosi e arroganti. O, almeno, il mio obiettivo era rettificare tali naturali deviazioni.

Poggiai la fronte al palmo della mano e strinsi l’apparecchio delle fibre ottiche in tasca, premendo il secondo tasto della quarta colonna.

“Sono le: quindici e trentanove minuti”, recitò la solita, accomodante voce femminile. Premetti il tasto successivo.

“Ti trovi a: Giappone, regione di Kyushu, prefettura di Okinawa, città di Naha, coordinate: 26°12′″di latitudine Nord, 127°40′″ di longitudine Est; superficie di 39,23 kilometri quadrati, popolazione di 532 individui. Sede del Ministero della Giustizia, piano sotterraneo meno otto, reparto cinque, corridoio ventiquattro, stanza uno. Se si desidera conoscere le condizioni atmosferiche, premere il tasto viola.”

“Piogge diffuse su tutto il territorio di Naha, con improbabili schiarite. Innalzamento delle temperature. Percentuale di umidità nell’aria: 91%. Press…”

Spensi l’apparecchio. Era quello che mi interessava sapere.

Le condizioni atmosferiche erano ideali per il mio progetto: il virus si sarebbe diffuso in maniera sistematica, attaccando il talamo e l’ipotalamo sottoforma di vaccino per qualche malattia stagionale. Il fago XD-360 sarebbe penetrato nel tessuto cerebrale attraverso il DNA e, se l’esperimento fosse riuscito, i Boia non sarebbero più serviti a nulla: la stoltezza, la stupidità, il crimine avrebbero abbattuto coloro che ne erano gli artefici. Autocombustione.

No, signori, no! So cosa state pensando – altrimenti i miei sette anni di corsi e specializzazioni in psicologia sarebbero stati vani. No, ascoltatemi bene: la vita di Dana mi era cara, ma non è per proteggerla che ho creato il suddetto virus. Non date sfogo – vi prego – ai vostri animi romantici e passionali ora.

Naturalmente, l’aiuto di Xavier si era rivelato fondamentale per lo studio della diffusione delle comuni patologie virali e io mi ero sempre premurato di farglielo notare, benché il progetto fosse ancora in fase di preparazione. Ma, ormai, era questione di settimane.

Mi sfilai l’auricolare dall’orecchio per un attimo, osservando Dana e i suoi unti capelli appiccicati alla fronte e al collo. Avrei dovuto tagliarglieli.

E lei? Cos’avrebbe fatto Dana? Se si fosse verificato un problema la cui risoluzione esigesse la mia presenza, io cos’avrei fatto? L’avrei lasciata… sola? Seppur per poche ore? Il suo corpicino dolce e stantio inchiodato a quella sedia… solo. La sola immaginazione della scena mi avviluppò nel suo nastro di terrore e delirio. Mai. Mai l’avevo abbandonata e mai l’avrei fatto, a costo… a costo di… sacrificare tutti i miei sforzi? No, quello era troppo.

L’avrei uccisa.

Liberata e uccisa, in modo che conoscesse almeno ciò che l’aveva incatenata per undici anni. L’avrei sollevata, le avrei insegnato a camminare come lei, da me, aveva imparato a parlare e a scrivere. Scrivere.

Non avrebbe più scritto, solo per qualche giorno. Poi, sarebbe morta. Uccisa. Purtroppo, per via della patologia che io stesso le avevo iniettato, avrebbe sofferto, perché non sarebbe morta nel sonno. Forse… un gas? Ma sì, poteva andar bene. Come lo chiamavano lì in Dikaia? Ah, seppuku.

Ucciderò gli stolti che le hanno fatto questo. Ucciderò gli stolti, non per la giustizia, non per misurare la mia genialità, non per vendetta, non per essere il dio di un nuovo mondo. Perché non volevo più registrare le loro figure al mio passaggio, perché non volevo più vederli, perché preferivo che non fossero mai nati.

Perché non potevano vivere.

E dovevano morire.

 

 

 

Perché non potevano vivere.

E dovevano morire.

Perché non volevo più vederli… Le loro figure… Ucciderò gli stolti che le… Al mio passaggio… Perché preferivo che non fossero mai nati… Ucciderò gli stolti.

Oh, sì che lo farò.

   
 
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