Salve. Specifico solo che la
malattia citata in questo capitolo, la FFI, esiste davvero e comporta
l’impossibilità di dormire per lunghi periodi (fino ai sei mesi) e porta
inevitabilmente alla morte. Il soggetto affetto da questa patologia vive di
allucinazioni, spossatezza lacerante e continua, ma non può dormire – esperienza
che non augurerei a nessuno (o forse a qualcuno sì).
Buona lettura.
La nottola diurna
Non è una malattia, le dissero. Certo, certo che non lo era: era morta prima
ancora di nascere.
Dana era stata scelta a caso fra i bambini che sarebbero nati nel 2087 – non che
ne fossero rimasti molti, per la maggior parte erano stati macellati dai morbi
diffusi dalle multinazionali farmaceutiche, dai virus-insetti creati da Lev
Cvotyshova e dai ricercatori finanziati dal Ministero della Sanità ucraino,
sotto l’ordine di Utako Kejimoto, ministro degli affari esteri di Dikaia. In
verità, dire che Dana fu scelta a caso è un errore di lacerante profondità: le
schede cliniche di ognuno dei genitori dei candidati e delle loro rispettive
famiglie furono accuratamente esaminate dalla squadra dell’NRO statunitense,
che, come si è detto, soffocò parzialmente il patriottismo con cui gli Dèi
giapponesi (da Kira I all’attuale Kira IX) avevano promosso non nei confronti di
Dikaia, bensì dell’antico Impero del Giappone, indifferentemente debole e
arrendevole come prima della rivoluzione di Kira.
Dana fu l’unico feto considerato totalmente sano, senza alcun pericolo di
contrarre malattie genetiche in una terra che per i malati riservava un ricovero
eterno su un letto di cadaveri. Fu questa, dunque, la sua sfortuna: era ancora
un’informe gelatina nel suo fragile mondo di placenta quando fu deciso che
sarebbe diventata Boia.
Non sapeva che i lisosomi stavano ponendo la croce sulla sua tomba, divorando le
membrane interdigitali di quei pochi centimetri di vita, di suoni taciuti, di
occhi chiusi e ignoranti, di piedini zuppi di umori fecondi. Era quella Dana: un
viso fluorescente sullo schermo di un ufficio dell’Ospedale di Stato di Kakyo.
E ora, signori miei, che testimoniate questa mia confessione rea e rancorosa,
entra in scena colui che vi parla, che ascoltate con insaziabile sete, che vi
tiene in braccio e vi fa un po’ male con le sue mani ossute, ma non importa,
perché voi state bene fra le mie braccia. Voi mi volete bene, lo so, e io vi
odio. Vi odio perché state bevendo da me tutto ciò che so, mi salassate senza
pietà, attendete che io termini il mio racconto per poi dar fuoco alla mia
lingua. Per voi sarà tutto come prima, mentre io sentirò il sapore amaro di
bruciato sulle papille gustative.
D’accordo, inchioderò il camice al muro, impiccherò lo stetoscopio, amputerò le
siringhe, perché non sono quelle le mie armi. Io non sparo, non soffoco, non
avveleno. Io penso, dunque uccido.
La prima volta che incontrai Dana ero un grasso genetista, laureato in
psicologia infantile nel tempo libero. Un grasso genetista e un grasso
psicologo, insomma, mentre lei pullulava di corpuscoli in un utero umidiccio e
unto. Il mio singolare modo di salutarla fu aprire uno spiraglio gelido e
accecante nel suo buio e cocente letto di carne, trasferendola in provetta.
Eccola lì, mentre si riproduce nel tepore di un tubo, eccola mentre muove una
manina forse ancora palmata…
Mese per mese, la nutrii come un criceto e fui tentato di effettuare qualche
esperimento sulla possibilità di anticipare il periodo di fecondità dell’utero
femminile, fino a renderlo fertile non dalla nascita, bensì anche da prima, dal
periodo fetale! Quanta esaltazione provai e fui costretto a reprimere in quei
macabri mesi di piastrelle bianche, di leninismo intellettuale, di notti
quotidianemante abbaglianti, di ronzii e cifre sonnolenti.
Fu in prossimità del settimo mese che utilizzai le cellule staminali.
Dopo aver modificato il loro materiale genetico, sostituendo un allele recessivo
di un particolare gene con uno dominante, misi tali cellule in contatto con il
corpo gommoso ed etereo della piccola Dana sfruttando in senso inverso le
proprietà delle staminali: come si era venuti a conoscenza già agli inizi del
XXI secolo, esse, in prossimità di un particolare tessuto, si mutavano nello
stesso. Dunque, come ho accennato, io invertii tale proprietà delle cellule
staminali, in modo che qualsiasi tessuto, in contatto con loro, avrebbe assunto
la loro stessa natura.
Il primo gene che modificai fu quello che determinava la Fatal Familial Insomnia
(FFI) e, successivamente, imposi all’argenteo corpicino, che, cieco, mi fissava,
una costante introduzione di ormoni potenzianti l’attività mentale e fisica, in
modo da anticipare la sua nascita e da non causarle la morte per FFI.
Quando Dana fu cotta a puntino nella provetta, il suo capo era perfettamente
liscio e glabro. Appena “nacque”, ricordo, le sfiorai la fontanella, soffice e
fatale, le premetti le dita su quella anteriore, la più grande, mentre Dana
apriva gli occhietti marroni.
No, non fraintendete: non fu tenerezza, né senso paterno. Fu clemenza,
consapevolezza del mio potere. Il regno di Kira non era mai stato governato dai
politici, dai giornalisti, dagli imprenditori. No. Il regno di Kira era degli
scienziati e degli Dèi. Kira era stato l’unico, sì, l’unico in assoluto a
coniugare definitivamente scienza e dio; Kira non era solo un giustiziere, un
abile statista, uno straordinario prodigio. Kira era… giusto. Semplicemente.
Gli effetti della FFI su Dana furono immediati e, l’11 Novembre del 2087, nacque
la seconda Boia del governo di Kira VIII, colei che nei registri di Dikaia
assunse il nome di
Esperimento Lithium4-0103-5728-2092-8483-7381-92,
ma sull’etichetta della sua provetta avevo scarabocchiato DANA
e l’avrei chiamata sempre così. Dana Ørssen.
°°°
Dana Ørssen. Fu così che venni chiamata per i miei undici anni di vita da Ivano
Glissani.
Non so nient’altro, a parte qualche miliardo di nomi e di visi.
Una sola voce, a parte la mia.
E poi… Poi non so nient’altro.
Ah, no: qualcos’altro c’è. So che Ivano mi ha cresciuta e che lui fa cose
diverse rispetto a me. Lui dorme, per esempio.
Poi, so che gli scienziati cercano di sfruttare le malattie in modo intelligente
e parsimonioso; io non sono malata, mi hanno detto. Ops, mi
ha detto. No, non sono malata, perché
Ivano dorme e io no. Il mio è un vantaggio, perché, mi dice, il resto degli
uomini passa quasi un terzo della propria vita dormendo. Io no: io non spreco
nemmeno un’ora, dice lui, e senza rischi, perché le vitamine e gli ormoni che
assumo mi riabilitano all’istante. Una volta gli ho chiesto: “E nel resto della
loro vita, cosa fanno?”. Non mi ha risposto, mi ha solo detto che ognuno nasce
per qualcosa: lui, ad esempio, è nato per fare ricerche e per farmi nascere. Non
capivo.
Poi mi ha spiegato che anch’io sono nata per qualcosa, il che mi ha sbalordita.
“Tu”, ha esclamato poggiandomi una mano rugosa sulla spalla, “sei nata per
scrivere. Capisci?”. Capivo.
Questo significava che scrivere era una mia specialità e che gli altri non lo
facevano. Io scrivevo, scrivevo da quando… Da quanto? Non ricordo. Ivano mi ha
detto che chi nasce per fare qualcosa, la fa da sempre e per sempre. Io scrivo
da quando sono nata, mi ha spiegato. Non avevo ben chiaro come sentirmi, quindi
continuai a scrivere, a guardare lo schermo e scrivere, a fissare Ivano e
scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere, a lamentarmi del mal di schiena e
scrivere, a prendere pastiglie e scrivere.
Non sapevo cosa fossi, come fossi, benché Ivano mi indicasse i capelli asserendo
che fossero corti e castani. “Corti? Che significa?”, gli aveva chiesto. “Che…
che non sono lunghi”, aveva esitato. “Cioè?”. Avevo commesso l’errore di
poggiare la penna sul foglio e di stiracchiarmi. Mi bastò un suo sguardo gelido
per riprendere subito a guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e
scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere… sempre.
Potevo fare tutto ciò che volevo, mi aveva spiegato molto tempo prima, a patto
che continuassi a scrivere.
“Io ho i capelli corti, per esempio. Ma i miei sono grigi, mentre i tuoi sono
del colore di… di questo tavolo”, affermò poggiando il palmo sul piano, accanto
al Quaderno e alla mia mano, piccola e sudata. Annuii.
Donnie Rotten, Emilia Pennetta, Jakobo Unkani, Nicholas Coupliniatos, Moriko
Kinoshiyo, Rafael De Fiona, Frie Suchtze, Ina Axhosa, Vincent Fleur…
Frie Suchtze, nella foto, aveva i capelli lunghi, notai. Ivano annuì. “I suoi
capelli sono biondi; i tuoi sono come quelli di Vincent Fleur.”
“Sono belli”, sorrisi.
Spesso gli avevo chiesto perché dovessi scrivere: sì, ero nata per quello, ma
perché?
“Ne abbiamo bisogno. Il mondo… No, cioè, noi due ne abbiamo bisogno, perché ci
sono persone nate per fare del male e noi dobbiamo eliminarle. E sai perché?
Perché siamo nati anche per questo. È semplice”. No, non mi convinceva affatto,
ma non mi potevo permettere di non credere a Ivano.
“Vedi, ci sono persone che impediscono alle altre di fare ciò per cui sono nati.
Non lo fanno per loro volontà… Ecco, questi individui lo fanno perché sono nati
così, insomma. È un dovere. Tu devi scrivere, io devo educarti, loro devono
distruggere i nostri propositi, noi, insieme, dobbiamo eliminarli.”
“E questo cosa c’entra con il fatto che io debba scrivere i loro nomi
guardandoli in faccia?”. La mia voce trillò fra le pareti e mi si aggrappò sulle
spalle, arrampicandosi timidamente.
“Non lo so”, rispose. Scoppiai quasi a ridere scagliando via la penna. Ivano
rispondeva sempre alle mie domande, non era mai schivo ed evasivo. Rispondeva
sempre, sebbene le sue repliche fossero assurde e io me ne accorgevo, pur non
sapendo.
Non lo sapevo, non sapevo cosa c’entrassi io in tutto quel piano di eliminazioni
e predestinazioni e, sinceramente, non mi importava: mi andava bene anche solo
scrivere, guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ascoltare la
sua voce e scrivere, lamentarmi del mal di schiena e scrivere, prendere
pastiglie e scrivere.
Scrivere.
Ultimamente le nostre giornate erano silenziose e lugubri: Ivano sonnecchiava
guardando la penna muoversi, preparandosi a porgermene un'altra in caso che la
mia terminasse. Un attimo di pausa, impercettibile e stridulo. A tre anni dalla
mia nascita avevo già capito che il suo scopo era rendermi occulto il riposo, in
modo che la mia autocoscienza non urtasse contro lo specchio. Scrivere, scrivere
e nient’altro.
“Da quanto tempo sei vivo?”, gli avevo domandato quando ancora non riuscivo a
tenere bene la penna in mano. “Quarantasei anni.”
“È tanto?”. Avevo sgranato gli occhi per la curiosità e i pixel dello schermo si
erano sciolti insieme, fusi nella mia cornea. “I tuoi anni per ventitré”. Le mie
pupille, se possibile, si restrinsero. Sentii quasi dolore. “E io vivrò così
tanto?”.
“No”.
Rimasi sconvolta da quella risposta e non gli posi più domande di quel tipo. Ero
avvezza alle diversità fra me e Ivano, ma quella… proprio non riuscivo a
sopportarla.
Che vita era quella? Non sapevo dove mi trovassi, cosa fossi, chi fosse Ivano
per me, come avessi fatto a trascorrere undici anni nutrendomi di pastiglie,
mentre lui sbucciava pesche, disossava polli, soffiava su risotti bollenti,
spolpava lische di pesce. E io masticavo dischetti amari e plastici. Perché? No,
quello lo sapevo. “Tu non capisci che sei fortunata: la gente sa tutto su sé
stessa, a parte il motivo per cui è al mondo. Muore per saperlo, fino a perdere
quel minimo di consapevolezza che ha. Tu sei qui e ora per salvare te e me, non
la gente. Mettila su questo piano: se tu non scrivessi centinaia di nomi al
giorno, io non sarei con te. Non saremmo insieme.”
E quello, giuro, mi atterriva a morte. Benché le sue affermazioni fossero
minimizzazioni riduttive – i nomi che annotavo erano migliaia – no, io non
potevo lasciarlo. Ivano… Ivano era mio padre, il mio maestro, la mia finestra,
le mie scale – sebbene non sapessi bene cosa fossero questi ultimi due oggetti,
dato che non li avevo mai visti –, il mio specchio rotto – altrettanto
sconosciuto ai miei occhi. Ivano mi aveva acquietata in quell’anno fra quelli
che lui aveva chiamato menarca e menopausa. Mi aveva abbracciata stringendomi le
spalle ricurve, mentre scrivevo e morivo, lì, sotto i pantaloni. Mi bruciava, mi
premeva… Era orribile. E lui mi faceva delle cose… Che non ha più fatto.
“Stai meglio?”, mi chiedeva ogni volta che sentivo, sentivo quelle bizzarre e
sofferenti vibrazioni. Avevo quattro anni, ricordo. Contavo le pagine del
quaderno da quando Ivano si svegliava al momento in cui si addormentava con la
testa poggiata al tavolo. Era quello che Ivano chiamava giorno, supponevo. Ogni
giorno occupava circa quattrocentocinquantadue pagine.
Non ricordo, sinceramente, un attimo della mia vita in cui Ivano si fosse
allontanato da me; certo, dormiva, ma controllava sempre che scrivessi almeno
duecento pagine durante quelle pause. Mentre la sue testa grigia posava sulle
braccia incrociate, io scrivevo e lo guardavo. Una volta gli accarezzai una
tempia. Fu meraviglioso.
E, sì, mi sentivo meglio quando mi sfiorava quella specie di botte che mi
sosteneva il collo, quella parte morbida sotto la pancia, quella curvetta
compressa fra le cosce molli e flosce. E non riuscivo a scrivere con chiarezza,
mi si appannava lo sguardo, ma non m’importava, continuavo a registrare volti e
trascrivere nomi: non volevo che smettesse per rimproverarmi. Non volevo che
smettesse.
°°°
Non doveva smettere.
Ero orgoglioso di Dana, della sua pazienza e del suo coraggio; non faceva troppe
domande, soprattutto negli ultimi tempi, e aveva sopportato bene le dosi di
ormoni somministratele per anticipare il menarca e la menopausa, in modo che non
intaccassero il suo corpo nel periodo adolescenziale, quando il progesterone
avrebbe potuto reagire contro gli ormoni che assumeva. La sua breve pubertà non
le aveva cambiato l’aspetto in maniera drastica: a quattro anni il seno crebbe
poco, mentre il resto del corpo ingrassò, soprattutto in prossimità dei fianchi
e dell’interno coscia. Il sangue mestruale fu il problema principale,
all’inizio, ma il dottor Xavier Surinho, con cui ero sempre stato in contatto
mediante le fibre ottiche, mi consigliò di utilizzare lo stesso sistema creato
per raccogliere l’urina: una lavanda turbinante estremamente potente e precisa
che risucchiava il liquido denso in modo esaurientemente efficiente.
Sapevo che sarebbe comparso l’impulso sessuale, che l’avrebbe distratta.
Signori, non datemi del perverso, non mi sembra il caso. Dovevo curarla in tal
modo, in quanto gli inibitori dell’istinto sessuale erano ancora sotto
sperimentazione e i risultati ottenuti non erano esaustivi. Il periodo di
fertilità sarebbe durato un solo anno e toccarla non mi dispiaceva: era bella,
pallida e malaticcia, flaccida e… tutta pelle. Era una bimba intelligente,
adulta, moderata, che sapeva quando reprimersi e fermarsi, ma il sesso non
rientrava nelle coercizioni umane. Non ancora, almeno.
Avvolgerle la vita era come governare Dikaia: ero un privilegiato e, signori, ne
godevo fino all’osso. Inoltre, nonostante avessi condotto decine di esperimenti
su esseri umani totalmente isolati dalla società sin dalla nascita, per
comprendere quale fosse effettivamente l’origine dei comportamenti devianti e
correggerli, Dana stimolava continuamente il mio desiderio di forzare le pareti,
elasticizzarle e perforarle: di varcare i limiti della conoscenza, nonché di
collaborare per cancellare quel mondo brulicante di individui latori delle
peggiori intenzioni, stolti, maliziosi, ipocriti, passivi, vanitosi, eccessivi
sia nelle attività corporali che in quelle cerebrali, presuntuosi e arroganti.
O, almeno, il mio obiettivo era rettificare tali naturali deviazioni.
Poggiai la fronte al palmo della mano e strinsi l’apparecchio delle fibre
ottiche in tasca, premendo il secondo tasto della quarta colonna.
“Sono le: quindici e trentanove minuti”, recitò la solita, accomodante voce
femminile. Premetti il tasto successivo.
“Ti trovi a: Giappone, regione di Kyushu, prefettura di Okinawa, città di Naha,
coordinate:
26°12′″di latitudine Nord,
127°40′″ di
longitudine Est; superficie di 39,23 kilometri quadrati, popolazione di 532
individui.
Sede del Ministero della Giustizia,
piano sotterraneo meno otto, reparto cinque, corridoio ventiquattro, stanza uno.
Se si desidera conoscere le condizioni atmosferiche, premere il tasto viola.”
“Piogge diffuse su tutto il territorio di Naha, con improbabili schiarite.
Innalzamento delle temperature. Percentuale di umidità nell’aria: 91%. Press…”
Spensi l’apparecchio. Era quello che mi interessava sapere.
Le condizioni atmosferiche erano ideali per il mio progetto: il virus si sarebbe
diffuso in maniera sistematica, attaccando il talamo e l’ipotalamo sottoforma di
vaccino per qualche malattia stagionale. Il fago XD-360 sarebbe penetrato nel
tessuto cerebrale attraverso il DNA e, se l’esperimento fosse riuscito, i Boia
non sarebbero più serviti a nulla: la stoltezza, la stupidità, il crimine
avrebbero abbattuto coloro che ne erano gli artefici. Autocombustione.
No, signori, no! So cosa state pensando – altrimenti i miei sette anni di corsi
e specializzazioni in psicologia sarebbero stati vani. No, ascoltatemi bene: la
vita di Dana mi era cara, ma non è per proteggerla che ho creato il suddetto
virus. Non date sfogo – vi prego – ai vostri animi romantici e passionali ora.
Naturalmente, l’aiuto di Xavier si era rivelato fondamentale per lo studio della
diffusione delle comuni patologie virali e io mi ero sempre premurato di
farglielo notare, benché il progetto fosse ancora in fase di preparazione. Ma,
ormai, era questione di settimane.
Mi sfilai l’auricolare dall’orecchio per un attimo, osservando Dana e i suoi
unti capelli appiccicati alla fronte e al collo. Avrei dovuto tagliarglieli.
E lei? Cos’avrebbe fatto Dana? Se si fosse verificato un problema la cui
risoluzione esigesse la mia presenza, io cos’avrei fatto? L’avrei lasciata…
sola? Seppur per poche ore? Il suo corpicino dolce e stantio inchiodato a quella
sedia… solo. La sola immaginazione della scena mi avviluppò nel suo nastro di
terrore e delirio. Mai. Mai l’avevo abbandonata e mai l’avrei fatto, a costo… a
costo di… sacrificare tutti i miei sforzi? No, quello era troppo.
L’avrei uccisa.
Liberata e uccisa, in modo che conoscesse almeno ciò che l’aveva incatenata per
undici anni. L’avrei sollevata, le avrei insegnato a camminare come lei, da me,
aveva imparato a parlare e a scrivere. Scrivere.
Non avrebbe più scritto, solo per qualche giorno. Poi, sarebbe morta. Uccisa.
Purtroppo, per via della patologia che io stesso le avevo iniettato, avrebbe
sofferto, perché non sarebbe morta nel sonno. Forse… un gas? Ma sì, poteva andar
bene. Come lo chiamavano lì in Dikaia? Ah, seppuku.
Ucciderò gli stolti che le hanno fatto questo. Ucciderò gli stolti, non per la
giustizia, non per misurare la mia genialità, non per vendetta, non per essere
il dio di un nuovo mondo. Perché non volevo più registrare le loro figure al mio
passaggio, perché non volevo più vederli, perché preferivo che non fossero mai
nati.
Perché non potevano vivere.
E dovevano morire.
Perché non potevano vivere.
E dovevano morire.
Perché non volevo più vederli… Le
loro figure… Ucciderò gli stolti che le… Al mio passaggio… Perché preferivo che
non fossero mai nati… Ucciderò gli stolti.
Oh, sì che lo farò.