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Autore: depy91    13/11/2009    2 recensioni
La fine di un'era e l'inizio di un nuovo impero. Un giovane Heihachi svela il suo vero io.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Heihachi Mishima, Jinpachi Mishima, Wang Jinrei
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cina, Shanghai, mercati generali dell’Huangpu.
Le acque del fiume scorrevano agili, scintillando al sole. Sulle sue sponde migliaia di  persone si accalcavano tra caratteristiche costruzioni in legno, dove commercianti provenienti da tutta la nazione mettevano in mostra i propri tesori. Il brusio delle contrattazioni riempiva l’aria di un sottofondo costante, capannelli di gente sostavano davanti alle merci, per valutarne l’effettiva qualità, esaltata fieramente dal rispettivo venditore. Un sorridente cinquantacinquenne passeggiava, con le mani congiunte dietro la schiena, tra la folla vivace e chiunque lo incontrasse non esitava a rivolgergli un saluto amichevole. Wang Jinrei era da tutti conosciuto come un grande mercante, onesto e rinomato, noto per il buonumore e la sua passione per il sakè, nonché per essere un maestro nello Xing Yi Quan, un antico stile di combattimento cinese. Egli girava il mondo alla ricerca di prodotti rari e preziosi, le migliori stoffe, le spezie più prelibate, vesti raffinate e oggetti affascinanti di ogni sorta caratterizzavano le sue esposizioni, che ogni giorno attiravano un gran numero di clienti. Per quella splendida giornata egli aveva terminato, ancora una volta proficuamente, il suo lavoro e soddisfatto si dirigeva verso casa, ammirando lo spettacolo offerto dai giochi di luce sulle acque increspate del fiume Huangpu. Nella calca di acquirenti si fece largo un ragazzino con il volto parzialmente oscurato dall’ombra del tipico copricapo conico in paglia, a bordo della sua bicicletta. Si trattava di Zhao, il giovane portalettere del quartiere.
“Signor Wang, questa è per lei” annunciò il ragazzo, frenando bruscamente il suo mezzo. Jinrei ricevette la missiva e ringraziò il piccolo Zhao, omaggiandolo di una mancia, che stampò sul viso del fanciullo un’espressione entusiasta. Il mercante lesse il mittente, rimase sorpreso ed incominciò ad accarezzarsi con una mano la barba appuntita che gli incorniciava il volto. Decise di affrettare il passo, colpito da uno strano presentimento. Una volta raggiunta la sua abitazione, Wang si accomodò alla scrivania riccamente intarsiata, scartò la lettera ed iniziò a leggerne il contenuto:

Salute a te amico mio.
Rimpiango ancora la tua piacevole compagnia e le nostre allegre bevute, allietate dallo scoppiettio di un caldo focolare. Sono convinto che i tuoi affari procedano per il meglio e mi auguro che tu possa continuare molto allungo questa tua attività, in cui ti dimostri esperto assoluto, almeno quanto nelle arti marziali. Tuttavia non è solo la nostalgia a spingermi a scriverti, poiché purtroppo i miei timori si sono rivelati fondati. Mio figlio peggiora ogni giorno che passa, divorato lentamente dal germe della malvagità, dell’odio e della sete di potere. Ho paura che l’idea di associarlo a me nella guida delle industrie di famiglia abbia finito per incoraggiare il suo lato torbido. Non so cosa pensare, avrei davvero bisogno di una delle nostre colorite discussioni suggerite dagli influssi dell’alcol.  Heihachi sta certamente tramando qualcosa e farò di tutto per fermarlo, ma se non dovessi riuscire nel mio intento, a te, mio caro Jinrei, in onore dell’amicizia che ci lega da anni,  chiedo di prendere il mio posto e perseverare nell’obiettivo di purificare il sangue Mishima dall’oscuro morbo che l’ha infettato. Sono certo di potermi fidare ciecamente. Con affetto,
Jinpachi Mishima.

Terminata la lettura, Wang rivolse con apprensione lo sguardo alla finestra, da cui trasparivano lame lucenti. Il mondo continuamente viene infangato dai mali commessi dall’uomo, eppure il sole continuava a splendere. C’era ancora speranza per le sorti del clan Mishima, Jinrei ne era convinto. Di sicuro non avrebbe abbandonato il suo vecchio amico ed avrebbe accolto il suo grido d’aiuto.

Giappone, Tokyo, palazzo Mishima, due anni prima.
Imponenti colonnati reggevano robusti soffitti lignei. Le pareti mobili in carta di riso e i numerosi ritratti orientali degli avi ricordavano ai visitatori dell’edificio le antiche origini del clan, che ospitava già da lustri.
I passi di un uomo risuonavano negli ampi corridoi, interrompendo la quiete vigente in quei luoghi austeri. Vesti pregiate avvolgevano il suo fisico massiccio, forgiato dalla fatica di mille combattimenti, uno sguardo severo sormontato da folte sopracciglia ammirava il giardino rigoglioso, di cui si poteva godere dal portico adiacente. Sarebbe stato impossibile trovare qualcuno in Giappone, che non avesse sentito parlare almeno una volta del grande Jinpachi Mishima, uno dei più famosi esperti di arti marziali del mondo e di certo tra i più potenti. Egli discendeva da un’onorevole e ricca stirpe di guerrieri, che affondava le sue radici in epoche lontanissime. I suoi antenati avevano sempre dato prova di immenso valore sul campo di battaglia e di raro acume nella cura del patrimonio familiare, raggranellando col passare delle generazioni infinite ricchezze. Jinpachi aveva raccolto l’eredità del clan e ne incrementò a dismisura i possedimenti attraverso attenti investimenti, costituendo un impero finanziario ineguagliabile, ma non per questo trascurò lo spirito combattivo che da sempre distingueva i Mishima. Aveva ormai cinquantaquattro anni e sua moglie, l’unica donna che egli avesse mai amato, era deceduta durante il parto del loro unico figlio. L’affranto sposo diede al pargolo il nome che, insieme all’amata, avevano scelto quando ancora il piccolo era soltanto un agognato desiderio. Lo chiamò dunque Heihachi e di lui, della sua educazione, della sua crescita, Jinpachi si occupò personalmente, trasformando quel bambino in un uomo, sano e forte. Sottopose il ragazzo agli estenuanti allenamenti necessari per l’acquisizione dei principi del karate in stile Mishima, tramandato di generazione in generazione. Ben presto Heihachi divenne un mirabile combattente, degno di suo padre, dimostrando un’innata propensione alle arti marziali. Jinpachi ne era fiero. Quel giorno ricorreva un evento importante, suo figlio compieva il suo ventitreesimo compleanno, ed egli aveva in serbo per lui un dono di indubbio valore.
Il lungo corridoio volgeva al termine, Jinpachi scostò la parete scorrevole e fece il suo ingresso in un’ampia sala, nella quale era in corso la sontuosa festa in onore dell’erede dei Mishima. Gli invitati accolsero l’arrivo del genitore con un fragoroso applauso, Jinpachi diede il suo benvenuto a tutti i presenti e si apprestò a raggiungere Heihachi. Egli, vestito del suo splendido kimono cerimoniale, stava intrattenendo alcuni ospiti, Jinpachi si scusò con loro e chiamò in disparte il giovane figlio, che esordì dicendo: “Ben arrivato, padre, ti ascolto”. Poggiando affettuosamente una mano sulla spalla dell’erede, l’uomo annunciò: “Figliolo, sono venuto per consegnarti il mio regalo, ma non si tratta di un semplice oggetto, bensì di qualcosa di molto più grande. Sei ormai adulto e caparbio abbastanza per affiancarti a me nel reggere le redini della Zaibatsu. Ho deciso di eleggerti mio dirigente associato, affinché un giorno, quando io non sarò più qui a consigliarti, tu possa prendere il mio posto. Accetti la mia proposta?”. Heihachi, visibilmente emozionato per quanto aveva ascoltato, non poté che dare il proprio consenso ad un simile atto di fiducia, subito seguito dall’annuncio ufficiale di Jinpachi, che rivolgendosi alle persone in sala, informò tutti delle nuove direttive in azienda. Un altro applauso, ancora più intenso, empì l’atmosfera d’allegria, che permase per il resto della serata di festeggiamenti.
Nei giorni successivi, Heihachi fu introdotto alle nuove mansioni di amministratore dei beni familiari. Sorprendentemente il giovane Mishima mostrava un precoce fiuto per gli affari, arrivando in poco tempo ad individuare e suggerire gli investimenti potenzialmente più vantaggiosi, estendendo il raggio d’interesse della Zaibatsu ben oltre lo sfruttamento intensivo delle piantagioni di cereali o del piano industriale piuttosto antiquato dell’azienda. Heihachi si stava rivelando un ottimo acquisto per la società, inoltre la sua passione per le arti marziali non accennava a scemare e i suoi avversari, uno dopo l’altro, cadevano sopraffatti ai suoi piedi. Jinpachi si sentiva orgoglioso, suo figlio si sarebbe dimostrato un valido successore ed un guerriero ancor più esperto, in lui riponeva tutta la sua fiducia. Il tempo trascorreva senza posa, come l’acqua tumultuosa di un torrente, la Mishima Zaibatsu aveva raggiunto un valore di mercato mai eguagliato in passato e ciò era dovuto in gran parte all’attività di Heihachi, divenuto oramai un navigato conduttore d’azienda. L’affidabilità conseguita con l’impegno gli valsero una notevole autonomia di governo. Egli poteva intraprendere qualsiasi progetto ritenuto proficuo, ma nulla doveva avere inizio senza il consenso di Jinpachi, anche se sempre più di rado prendeva in mano le sorti della società, lasciando al figlio i compiti principali e dedicandosi quasi esclusivamente ai suoi massacranti esercizi di potenziamento psico-fisico. Il sole splendeva alto in cielo, l’austero patriarca fissava l’orizzonte dalla cima di una scarpata, da cui si apriva un suggestivo paesaggio, dominato da ettari di foresta. Jinpachi aveva a cuore quella landa verdeggiante, poiché proprio all’ombra di uno di quegli alberi imponenti riposava la salma della sua indimenticata sposa. In suo onore egli aveva dato disposizione di erigere al centro della distesa boschiva, un elegante tempio tradizionale ad imperitura memoria del loro intimo legame. Il cantiere dell’edificio sacro era ancora attivo, ma dalla sommità del promontorio era già possibile intuire quale sarebbe stato l’affascinante aspetto definitivo. Sperduto nei mari della contemplazione, Jinpachi non si avvide di non essere più il solo a godere della vista mozzafiato. Alle sue spalle una voce si impose sul silenzio persistente della vallata, interrotto di tanto in tanto dal verso di un’aquila in lontananza: “Padre, ti ho cercato ovunque, ho qualcosa da mostrarti”. Senza neppure voltarsi,  Jinpachi tese un braccio in direzione del tempio e quasi ignorando le parole del figlio, lo invitò a guardare e disse: ”Ho fatto costruire l’Honmaru affinché io non possa mai dimenticare chi sono veramente, un semplice uomo. Da sempre vivo nell’abbondanza di ogni cosa, ma ho iniziato a comprendere cosa fosse la vera ricchezza soltanto dopo aver conosciuto tua madre. Ella mi indicò la via, che io ero troppo stolto per scorgere, poiché accecato dal mio ego e dalla stupida pretesa di vivere al di sopra degli altri. Ricorda, figlio mio, ricchezza e potere possono rendere la strada meno tortuosa, ma qualora si dimentichi di essere prima di ogni altra cosa un essere umano, capace di provare sentimenti puri, si è destinati ad affogare inesorabilmente nelle oscure acque della sofferenza”. Heihachi fu profondamente sorpreso nell’udire simili frasi, da colui che sin dalla fanciullezza lo aveva educato a non tremare di fronte a nessuno al mondo, a rialzarsi dopo una sconfitta, ma soprattutto a fare in modo che tale insuccesso non possa mai accadere. Eppure adesso lo aveva davanti agli occhi, quel genitore severo e restio ad eclatanti gesti d’affetto stava riaprendo una vecchia ferita, mai completamente risanata, invitando suo figlio a non commettere i suoi stessi errori. Diede una veloce occhiata all’Honmaru, ma a quanto pareva ammirare le bellezze di quel paesaggio non era tra i suoi programmi. Infatti si preoccupò di abbandonare l’argomento sollevato da suo padre e di riportare la discussione su quanto aveva in mente di proporre: “Ascoltami, non te ne pentirai. Ho già preso i giusti contatti per realizzare un’idea balenatami in testa da diverso tempo. Ho intenzione di conferire un volto nuovo alla Zaibatsu, rivoluzionando la sua sfera di interesse ed aprendo le porte ad un futuro roseo”. Jinpachi avrebbe preferito abbandonarsi ancora per un po’ ai suoi ricordi, ma l’entusiasmo del figlio meritava risposta, sebbene l’accenno ad un mutamento radicale in azienda lo aveva alquanto interdetto. Dunque diede un’occhiata alle carte consegnategli da Heihachi, ma mai avrebbe voluto e potuto credere a quanto stava leggendo. Si trattava infatti di progetti militari per la realizzazione di un’arma innovativa, che avrebbe sostituito il soldato comune con un automa, dotato di un cervello programmabile e pertanto infallibile ai fini della missione affidatagli. La perfetta macchina da guerra all’attuale stato di prototipo, di cui erano riportati disegni illustrativi e descrizioni insistenti sul suo potere distruttivo, era stata battezzata Type “J” dal suo ideatore, l’eminente scienziato russo G. Boskonovitch. Jinpachi discostò lentamente lo sguardo dai documenti e lo rivolse al figlio senza dir nulla, egli sentiva che qualcosa non stava andando come lui aveva sperato, dopo tanti anni poteva riconoscere quella terribile pretesa di onnipotenza, da cui si era faticosamente liberato grazie alla sua amata, ma stavolta non era lui a soffrirne, bensì suo figlio Heihachi. Quest’ultimo, intuendo che il padre non avesse accolto il progetto con il suo stesso entusiasmo, assicurò: “Ci pensi? Finanziando questo prototipo, allargheremo il nostro mercato sul traffico di armamenti, potremo contrattare con il mondo intero alle nostre condizioni. E questo è soltanto l’inizio, perché ho…”. Non fu in grado di terminare quanto aveva da dire poiché il perentorio rifiuto di Jinpachi, lo interruppe. Il cinquantacinquenne voltò le spalle al figlio e accennò ad andare, ma Heihachi lo fermò esclamando: “Come osi trattarmi in questo modo dopo tutto quello che ho fatto per la nostra società? Se tu non hai più a cuore gli interessi della Mishima Zaibatsu vorrà dire che me ne occuperò personalmente e senza richiedere il tuo apporto. Non sono più il tuo caro bambino debole e manipolabile, sono un uomo adesso ed esigo il dovuto rispetto da parte tua, padre!”. Il leggendario lottatore riprese il suo cammino a testa bassa, senza degnare Heihachi di alcuna risposta. Furono per lui notti di tormento interiore le successive, poiché sentiva il suo rapporto con Heihachi affievolirsi di giorno in giorno, mentre la superbia del figlio stava assumendo via via tinte sempre più fosche. I collaboratori alla dirigenza e i principali investitori della società di famiglia eclissarono progressivamente la loro vecchia guida, convinti dall’intraprendenza del nuovo arrivato e dalla corruzione del suo denaro. Il volto della Mishima Zaibatsu stava cambiando molto più rapidamente di quanto Jinpachi aveva temuto. Avendo ormai perso il suo peso in azienda, ma soprattutto il suo ascendente sull’erede, cadde in un profondo stato di frustrazione, iniziò a frequentare sempre meno le sedi della società, per la quale così fortemente si era impegnato, schiacciato dalla delusione del suo fallimento come padre. Per mesi di lui non si seppe nulla, né più il pavimento delle grandi arene, dove egli aveva dimostrato di essere il migliore tra i combattenti, veniva calpestato dal suo piede fiero. Ritiratosi in una delle sue proprietà, costruita sui fianchi rocciosi di una montagna nipponica, trascorreva le sue giornate immerso nella meditazione e in faticosi allenamenti. Heihachi aveva oramai il pieno controllo dei beni del clan Mishima, nulla ostacolava i suoi progetti.
Quella notte Jinpachi era di ritorno dall’ennesima estenuante seduta d’addestramento e, sfinito, si era abbandonato tra le lenzuola del suo letto e il torpore lo aveva sopraffatto quasi subito. Non fu un sonno tranquillo, un’orribile scena popolava i suoi sogni, colmando il suo cuore di oscuri presentimenti: suo figlio, circondato da un’immensa distesa in fiamme, rideva beffardamente e senza sosta. Le sue mani grondavano sangue. Destatosi di soprassalto, ancora intimamente turbato, Jinpachi comprese che quell’icubo doveva trattarsi di un terribile presagio, tuttavia necessitava di una prova e sapeva esattamente come ottenerla. Quella stessa notte raggiunse, dopo la lunga assenza, il palazzo Mishima, sede della Zaibatsu. Jinpachi conosceva perfettamente ogni meandro della struttura e naturalmente era certo che corpi di guardia stessero sorvegliando l’area. A quanto sembrava Heihachi aveva intensificato notevolmente i sistemi di sicurezza per l’aula d’archivio della corporation, ulterire ragione di sospetto per Jinpachi. Abbattute facilmente le guardie all’ingresso, la leggenda delle arti marziali si intrufolò nell’archivio. Ciò che scovò lo lasciò senza parole. Contratti di finanziamento per ingenti produzioni belliche, rapporti scientifici riguardanti esperimenti di mutazione genetica su animali ed esseri umani, programmi per l’istituzione di un vero e proprio esercito segreto di sodati scelti, al servizio di Heihachi, una squadra d’assalto che sarebbe stata utilizzata per il raggiungimento di loschi fini, nome in codice: Tekken Force. Sebbene quanto aveva già scoperto fosse sufficiente ad avvalorare gli incubi di Jinpachi, egli rimase ad indagare ancore per qualche ora. Ancor più furtivamente della prima volta, più sconvolto che mai, si allontanò dall’edificio per ritornare alla sua dimora. Qui, pervaso da un dolore interiore lancinante, non essendo più in grado di sopportare da solo l’ingombrante fardello della sofferenza, decise di chiedere aiuto all’unica persona di cui poteva ancora fidarsi. Strinse una penna tra le dita e prese a scrivere una lettera indirizzata al suo amico più caro, di cui da troppo tempo non aveva notizia, Wang Jinrei. Il tenebroso volto della notte non accennava a cedere il passo al bagliore del mattino e soltanto un luogo esisteva dove Jinpachi avrebbe potuto concludere quella terribile giornata. Accompagnato dal chiarore delle stelle, egli s’addentrò nella foresta dei ricordi e raggiunse l’antro dell’Honmaru, la cui costruzione era stata da poco tempo ultimata. La luce fioca e tremolante delle candele scandiva le maestose pareti della sala principale, dominata dallo sguardo vigile di una statua aurea del Buddha. Fuori le prime gocce di pioggia cadevano sull’erba del bosco, dando luogo ad un delicato concerto di suoni. Il rombo di una folgore squarciò il silenzio, lo scricchiolio del portale di ingresso al tempio indicava che qualcuno lo aveva appena attraversato. Il calpestio di alcuni passi echeggiò nella grande aula, dove Jinpachi stava meditando accovacciato alla base dell’imponente statua. Un altro tuono, di nuovo la quiete, bruscamente interrotta da una voce: “Sapevo di trovarti qui”. Jinpachi aprì gli occhi e continuando a dare le spalle all’intruso domandò con tono fermo e deciso: “Cosa vuoi, Heihachi? Non ho più nulla che ti interessi ormai, cos’altro cerchi di sottrarmi stavolta?”. Ancora dei passi, Jinpachi poteva percepire il calore del corpo di suo figlio alle sue spalle, quest’ultimo affermò: “Sei stato visto uscire dall’archivio, so quello che hai letto”. Jinpachi sospirò, prima che l’erede continuasse dicendo: “Ogni cosa al mondo deve cambiare prima o poi, perché non lo accetti? Tuo figlio è destinato a voltare pagina, dovresti esserne fiero ed invece ficchi il naso nei miei piani, intrufolandoti di soppiatto nella sede della società, che tu stesso hai guidato per metà della tua vita. Sei patetico”. “Patetico?” rispose suo padre “Patetico è il folle che crede di oltrepassare i limiti stabiliti dalla libertà altrui, per imporre la propria. L’egoismo e la brama di potere finiranno col divorarti, finché ti sarà impossibile tornare indietro”.  Un ghigno, delineatosi sul volto di Heihachi, preannunciò la sua risata beffarda, ma, come se un pessimo pensiero avesse attraversato d’un tratto la sua mente, assunse nuovamente un’espressione seria e arcigna, poi con un gesto fulmineo afferrò la spalla del genitore e lo strattonò, affinché i loro sguardi si incrociassero. Fiammeggianti di insana fermezza, i suoi occhi fissarono a pochi centimetri quelli di Jinpachi, infine pronunciò queste parole, digrignando i denti come un lupo famelico: “Io non ho alcuna intenzione di tornare indietro”. Il suo interlocutore si liberò dunque dalla presa del figlio, si issò finalmente in piedi e inaspettatamente annunciò: “Allora non mi lasci altra scelta, se i miei consigli non sortiscono alcun effetto sul tuo cuore ormai logorato dalla brama di potere, sarò costretto ad estirpare il problema all’origine, cosicché un futuro, come tu lo hai immaginato, non conosca mai la luce del sole”. Heihachi si accese di acuta indignazione per il tradimento del padre, per cui, posizionandosi nella tradizionale guardia del Mishima-riu, si preparò a scontrarsi proprio con la persona da cui aveva appreso quell’antico stile di combattimento anni orsono, ma prima che la battaglia infuriasse non resistette a minacciare il suo avversario: “Se questo è quello che vuoi, padre, sappi che non intendo deluderti. Potrai renderti conto di come un vecchio, spinto da antiquati sentimenti così nobili e puri, debba necessariamente finire schiacciato dal pesante passo del progresso. Hai scelto di intralciare il mio cammino, perirai per mano di colui che tu stesso hai generato”. Jinpachi, colmo di afflizione, prima di predisporsi in assetto da incontro, espresse così il suo rammarico : “La tua insolenza verrà punita gravemente, non avrei mai voluto arrivare a questo punto, ma non mi lasci altra scelta. Combatti, figlio degenere!”. In ogni angolo della grande sala tuonava l’eco dei loro colpi micidiali, l’esteso soffitto ligneo tremava eccitato dalle tecniche dei possenti guerrieri. L’effige dorata del Buddha assisteva muta, mentre fuori divampava il temporale. Padre e figlio rinnegavano il loro legame di sangue in nome di opposti ideali, due generazioni decise a cancellarsi l’un l’altra. Non era questo quello che Jinpachi si augurava, ma se l’unico modo per preservare l’animo di Heihachi dalle tenebre e la Mishima Zaibatsu da deplorevoli stravolgimenti, allora egli non si sarebbe tirato indietro di fronte a niente e nessuno, nemmeno davanti al solo segno vivente della sua amata sposa. Una folle corsa al dominio incontrastato di tutti i beni di famiglia e della vita di troppe persone innocenti aveva accecato la coscienza di Heihachi, il quale ormai vedeva in suo padre soltanto uno scomodo ostacolo al raggiungimento dei suoi loschi scopi. Jinpachi constatò amaramente i progressi del discepolo, che, nel pieno del vigore giovanile e forte delle proprie doti innate, si batteva come una belva feroce ed appariva inarrestabile. Tuttavia l’ingombrante esperienza di Jinpachi gli permetteva di intuire le mosse dell’avversario appena un attimo prima che esse giungessero a segno, ma difendersi indeterminatamente non era certo una valida strategia, soprattutto contro l’astro emergente delle arti marziali. I titani continuavano a scambiarsi potenti attacchi, ignorando la sacralità dell’Honmaru, macchiata da tanta violenza. Travolto dalla insostenibile forza di Heihachi, ulteriormente accresciuta dal desiderio di vendetta per il tradimento infertogli dal suo stesso padre, quest’ultimo sentiva velocemente svanire le proprie energie. Cercando di difendersi, Jinpachi indietreggiò di qualche passo, finché Heihachi non scagliò dietro le sue caviglie un candelabro metallico, sfoderando un agile calcio. La leggenda delle arti marziali incespicò, finendo al suolo. Respirando affannosamente, Jinpachi sollevò lo sguardo per incontrare quello di suo figlio, il quale, dall’alto della sua superiorità fisica, insinuò: “Ecco in cosa ti hanno trasformato i tuoi stupidi sentimenti, in un vecchio. Non riesci più ad assaporare il gusto seducente del sangue del tuo avversario quando, sfiancato, ti supplica clemenza, non provi più la sensazione inebriante della vittoria schiacciante. Quello che tu chiami rispetto è solo una romantica definizione della tua debolezza. Guardati, steso a terra sfinito, come un nessuno qualunque. Dov’è finito il grande combattente senza pietà che mi ha messo al mondo?”. Jinpachi si rimise in piedi con fare maestoso, il suo volto era contratto, i suoi muscoli in tensione e senza che Heihachi potesse prevederlo, egli lo colpì con un sonoro pugno al viso, per poi esclamare: “Biasimi me perché preservo la dignità degli sconfitti. Essere un campione non vuol dire soltanto vincere surclassando gli altri, ma pietà e rispetto contraddistinguono un vero guerriero. In questi anni mi ero illuso di avertelo insegnato, ma mi sbagliavo ed ora ne pago le conseguenze. Avanti, figlio mio, finisci questo vecchio se ne sei capace!”. La sfida si rinfocolò ancora più accesa. Urla, sbraiti, gemiti, moltiplicati dall’eco nell’ampia sala, rendevano l’atmosfera simile a quella di una bolgia infernale, ma in realtà le fiamme che incendiavano i cuori dei combattenti erano tutt’altro che imperiture, poiché ognuno lottava con l’unico scopo di eliminare definitivamente l’altro. Soltanto un Mishima sarebbe sopravvissuto. L’epilogo della dura contesa era vicino, un intenso soffio di vento spalancò il portale della sala e ululando spense le torce, privando dell’illuminazione l’ala del tempio, dove avveniva lo scontro, che in un attimo piombò nell’oscurità. Cadenzati come battiti cardiaci, i lampi svelavano per pochi istanti le sagome dei combattenti, per nulla distratti dall’improvvisa mancanza di luce. Qualcosa tuttavia accade, una serie di tuoni segnarono il cielo e il loro breve chiarore permise di scorgere Heihachi franare a terra, poi rialzarsi subito per schivare un colpo di Jinpachi, infine unire i palmi delle mani, accostandoli al fianco destro. I suoi occhi si accesero di ferocia, le sue labbra mostrarono i denti e nell’impeto del suo colpo decisivo, l’aria attorno a lui sembrò coagularsi in una scarica elettrica. La tecnica andò a segno, Jinpachi potè ascoltare suo figlio sussurrargli all’orecchio: “Se pensi che per te questa sia la fine, sappi che si tratta soltanto dell’inizio della tua condanna”, infine stramazzò al suolo, esalando un impercettibile gemito.

Giappone, Tokyo, una settimana dopo.
Era trascorso molto tempo da quando questa terra lo aveva accolto l’ultima volta. Wang Jinrei aveva ascoltato le suppliche del suo caro amico ed aveva deciso di offrirgli il proprio sostegno. Purtroppo però, al suo arrivo tutti i giornali riportavano ancora la sconvolgente notizia dell’improvvisa morte del grande magnate giapponese, proprietario della Mishima Zaibatsu, scomparso in circostanze misteriose, e della conseguente cessione della società al parente più prossimo al defunto, suo figlio Heihachi. Travolto da un frastornante dolore interiore, come se avesse perso con l’amico fraterno persino una parte della propria anima, Jinrei fu subito pervaso da un tremendo sospetto. Si informò presso la gente del luogo su dove la tomba di Jinpachi fosse stata allocata, seguì le indicazioni e giunse in prossimità di un alto promontorio. Davanti a Wang una semplice roccia lapidea, recante inciso a caratteri orientali il nome del compagno d’allegre bevute, si stagliava sull’inebriante sfondo della grande foresta, il luogo più caro in assoluto per Jinpachi . Di fronte a tale vista Wang crollò sulle ginocchia e si abbandonò ad un tenero pianto colmo d’affetto. L’insistente sospetto balzò nuovamente alla mente del mercante, che temeva ormai sempre più decisamente, che Heihachi avesse commesso un terribile gesto. Il Cinese giurò dunque sulla tomba dell’amico che avrebbe tentato con ogni mezzo di restituire alla stirpe Mishima la sua dignità originale, vendicando Jinpachi anche direttamente, se ve ne fosse presentata la necessità.
Intanto l’inimmaginabile stava avvenendo a poca distanza da quel luogo di ricordi e promesse. Nel cuore della foresta, al di sotto delle fondazioni dell’Honmaru, qualcuno giaceva sospeso ad un’enorme colonna, legato mani e piedi al pilastro mediante robuste catene metalliche. Il suo corpo era denutrito, i suoi occhi scavati in un volto smunto, ma ciononostante da quello sguardo traspariva ancora il piglio di un vero guerriero. Sibilante come il verso di un serpente, una voce emerse dal vuoto di quell’orribile prigione: “Svegliati, Jinpachi – ripeteva – Svegliati!”. Il logorato lottatore leggendario dischiuse gli occhi, ma dacanti a sé non trovò nessuno, come invece s’attendeva. Intimorito e con voce affaticata domandò: “Chi sei, che cosa vuoi da me?”. La voce misteriosa riprese il suo discorso con tono ancor più infido: “Jinpachi, il magnifico combattente, battuto da suo figlio ed esposto come un trofeo sotto il suo amato tempio per il resto dei suoi giorni. Tutti ti credono morto ed invece marcisci in questa umida topaia, senza neppure la consolazione del tepore solare. Quale onta per un uomo del tuo valore”. Udite queste parole, il prigioniero chiese stupefatto: “Come fai a conoscere tutto ciò? Chi ti manda? Dimmi qual è il tuo nome”, ed ancora una volta la voce rispose prontamente: “Io sono la tua unica speranza di resurrezione. I miei poteri possono riportare il tuo corpo, così malridotto e invecchiato, al suo antico splendore, ma non mi limiterò a questo soltanto. Io ti donerò una potenza tale, che niente e nessuno potrà più opporsi alla tua rivalsa e tu riuscirai in questo modo a porre fine all’epoca di terrore che attende questo mondo, insidiato dai piani di Heihachi. In cambio ti chiedo solo un pegno”, seguì una breve pausa che all’orecchio di Jinpachi parve interminabile, poi riprese: “Voglio la tua anima”. Infuriato, il lottatore scattò impulsivamente a muoversi, ma le catene che gli costringevano i polsi lo limitavano fortemente. Ruotando il capo in ogni direzione come per rintracciare la fonte di quella folle voce, esclamò: “Tu sei il diavolo, o forse anche peggio. Ho faticato moltissimo per liberarmi dei miei insani desideri d’onnipotenza e tu non mi ricondurrai sulla via del male”. Una lugubre risata echeggiò nell’angusto tugurio sotterraneo, finché quella perfida voce non continuò a parlare: “Rifletti, chi credi che potrà fermare l’avanzata di Heihachi ora che tu vieni consumato lentamente dal tempo in attesa della morte, chi credi che ostacolerà il suo cammino? Soltanto tu ne sei in grado, ma non senza il mio aiuto. Accoglimi nel tuo cuore saturo di collera, lasciati conquistare dai tuoi impulsi più profondi, permettimi di aprirti gli occhi, di mostrarti il tuo reale potere!”. Jinpachi emise un lungo sospiro, seguito da un silenzio pieno di sofferenza. La decisione spettava a lui soltanto e di certo la demoniaca presenza non aveva tutti i torti. Avrebbe ceduto la sua anima ma con l’unico scopo di depurare nuovamente il glorioso sangue Mishima. Aveva fatto la sua scelta e senza neppure avere il tempo tradurla in parole, un’incredibile energia fluì come un’onda distruttiva dentro di lui. Un nuovo vigore empì le sue membra, una ritrovata fiducia guidava il suo pensiero, una potenza inaudita covava nel cuore. Un torpore improvviso lo investì e d’un tratto cadde in un sonno profondo, mentre la voce assicurava: “Pazienta, Jinpachi, il tuo momento arriverà, stanne certo”.
Cinquanta lunghi anni trascorsero prima che il pavimento dell’Honmaru tremasse ancora una volta.
  
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