Salve. Vi avverto: tutte le
scorrettezze grammaticali e le aberrazioni linguistiche (compresi gli errori di
battitura), se scritte in caratteri diversi da quelli normalmente utilizzati
nella narrazione, sono volontari (o frutto di uno spietato autolesionismo).
Inoltre, devo delle spiegazioni al
mio caro (e unico, ma, come vedrete, non lo dico mariagrazianamente) recensore,
Bael: innanzi tutto, la mia concezione di metafora è sfasata e incoerente, ma io
uso questo accorgimento proprio per distrarre o, meglio, per deviare il continuo
(e forse anche monotono) svolgimento narrativo, per “staccare”, insomma. Spero
che Susanna e Mariagrazia ti piacciano anche in questo capitolo, benché la loro
amicizia non sia molto manifesta, almeno qui. Vedrai, ma ti prego di non
fraintendere: il loro non è un rapporto casuale o di convenienza; si chiarirà
con il tempo. Ti ringrazio per le tue recensioni, sono davvero piacevoli,
complete e divertenti!
Poi, dal prossimo capitolo credo di
schiacciare l’interruttore “Azione”, sul cui tasto fino ad ora si è posato uno
spesso velo di polvere. Le incoerenze narrative sono delle brutte belve!
Infine, due precisazioni: capirete
leggendo che il titolo del capitolo era alquanto scontato (nonché nauseante, se
riuscirete ad arrivare al termine della pagina senza maturare un intenso istinto
omicida di martiniana memoria XD); inoltre, la frase citata nel capitolo,
riportata a penna su una sedia, proviene da
Mama dei My Chemical Romance.
Buona lettura.
Cenere
Non riuscii proprio a ricordarmi
come fossi arrivato in bagno.
E da quant’è che mi sto facendo una sega?
Sentivo la fronte gelida,
cristallizzata in un limpido torpore.
Liscio…
Le mattonelle.
Il bagno.
La porta difettosa.
La luc…
Cazzo, la porta!
Quel sottile rettangolo verde opaco
era socchiuso.
Cazzo cazzo cazzo cazzo!
Per fortuna i corridoi erano
deserti.
Nessuno aspettava che si liberasse
una cabina.
Nessuno si lavava le mani con il
sapone annacquato della scuola.
Come ero potuto rimanere mezzo nudo
con la porta semichiusa?
Senza staccare la fronte dalla
mattonella celeste, afferrai la maniglia e feci schioccare la porta sullo
stipite, come una frusta. Continuai a stringere la gelida maniglia.
Leccai languidamente con lo sguardo
il cerchietto metallico dello scarico, le scritte sulla superficie ruvida della
porta:
Sukkiamelooo!
laura c. è una
troia by robertok
ANTIFA FINO ALLA MORTE
Caterina 6
bona
09/04/06
rossella, io + te = 3msc
CHIAMAMI TI
FARO’ UN POMPINO GRATIS 3412526335
Inter merdaaa!!!!!!!!!! by zebra 94xxx
Vendo kitarra akustika usata buone kondizioni 130 euro no skerzo kiamami
3379679584
Cominciai ad ansimare prima di
iniziare, come facevo sempre.
Il pavimento bagnato tramontò sotto
le mie palpebre. Polvere e vento. O polvere al vento?
Ah.
Frammenti di foglie, forse. Foglie
cadute. Ma è quasi estate, non cadono le
foglie! Qualcosa doveva essere: la polvere non nasce così, all’improvviso.
Peli, piccoli gomitoli di peli, di
gatti e di cani, di pubi e capelli. No, no, no, nononono,
Non va!
Ah…
Il rumore mi disgustava, ma era
meraviglioso solo perché lo producevo io.
Sangue, sangue,
sangue che si muove. Scorre, fruscia, fluisce, mesce, scande, scende,
scivola, scia… Scia di polvere sul pavimento pisciato.
Polvere, ancora polvere?
Di che cazzo è fatta la polvere? ‘Fanculo alle mie domande del cazzo.
Polline. Api. Friniscono, frullano,
vibraaa…no. Polline, fiori, petali tremano al vento e… Cazzo!
Ah!
È il vento che porta la polvere? No,
polvere e vento. La congiura delle polveri, come
V per vendetta. Polvere e vento. E
fuoco nel Parlamento. Urla, urla ridicole. Lagne. E fuoco dappertutto. Legna
bagnata che brucia. E fuoco sulla polvere. E polvere sul fuoco e vento infuocato
e polvere di vento e fuoco ventoso e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e
fuoco e fuoco e fuoco…
Aaah…
E polvere bagnata e acqua in
polvere! E pioggia di vento e vento liquido! Liquido… Fuoco liquido, spugnoso,
denso e spumeggiante, dolce fuoco effervescente, corposo e leeento, magma
amalgamato, torrente di crema… Infuocata. E… E… E no, nonono, acqua no… E
polvere di fuoco. È polvere di fuoco. È polvere. È fuoco.
È cenere.
AAAAAAAAAH!
Rauco, come se avessi ingoiato
sacchi di polvere. Cenere bollente.
Cenere!
Ecco, cenere. Polvere di fuoco:
cenere.
Ecco. E-ecco, sì.
Riaprii gli occhi e strinsi di più
la maniglia, sibilando.
Espirai pesantemente.
Percepii il sudore sulla fronte solo
quando la sentii tesa per l’attrito contro la parete. Incastrai l’unghia
dell’indice nella fessura fra una piastrella umida e ghiacciata e l’altra e
grattai via lo sporco.
Stridette.
Mi dolevano le orecchie e i tendini
dell’avambraccio destro sussultavano appena stendevo il braccio.
Mi accovacciai poggiando la parte
superiore della testa e i palmi sudati sulle piastrelle, cercando di asciugarmi
le mani sulla parete bagnata.
Richiusi gli occhi.
Cenere.
Mi sentivo come drogato, allucinato:
colori abbaglianti, sensazioni amplificate, urla metalliche, narici infiammate,
come se respirassi cenere.
Non riuscii a calcolare quanto tempo
trascorse prima che mi sollevassi e capissi. Come le campane, superai il mio
stesso pensiero, concentrandomi su quello successivo prima ancora di aver
formulato il precedente. Può succedere,
può succedere che non esistano più! La fan fiction, il capitolo quattro… Senza
manie di grandezza, posso eliminarli tutti. Non si tratta di fingere che non
esistano, io posso ELIMINARLI.
Non avrebbero avuto più nome, viso,
voce, vista, appartenenza, azione, storia, sensazione… Neanche la più elementare
intuizione.
Senza geni, senza rivalità
megalomani, nessuna vendetta, nessun piano narcisistico.
Eliminarli.
Non vederli mai più, non ascoltare
le loro lagne sullo sfondo di cieli color cenere, il suono dei tacchi
sull’asfalto, i risolini, pareti brulicanti di aspiranti parassiti, soffocamenti
di finestre chiuse, arie fumose e vetri appannati, sbarre, sbarre alle finestre,
alle sedie, ai banchi, alla lavagna… Silenzio.
Un nuovo mondo, piccolo ma nuovo.
Ma quale nuovo mondo!
No, d’accordo: non era una
spedizione punitiva contro le folle di giovani diversi da me che si accalcavano
nei loro accampamenti, come tanti leziosi Hänsel
e Gretel che leccano pomelli e appendiabiti.
Non era la pace umana universale che
cercavo: era la mia; il mio piacere. Spingerli uno per uno dal punto più alto
dei binari delle montagne russe, ognuno nel suo carrellino, verso un tunnel,
magari verso un forno crematorio. Risi.
No, neanche questo era esatto: non
era il gesto soddisfacente, ma il risultato: morti, spenti, mai esistiti. Chi
avrebbe mai potuto asserire che, una volta, molto o poco tempo prima, fossero
vissuti? Prove non ce ne sarebbero state. No no, tutto pulito.
La cerniera dei jeans fluì
tranquillamente e la cintura scorse flessuosa fra i passanti. La fibbia era
ghiacciata e mi gelava la pancia; puzzava di sangue.
Sarà l’odore del metallo.
Mi riordinai i capelli canticchiando
a bocca chiusa una strana melodia che, mi accorsi in seguito, altro non era che
Unforgiven II dei Metallica.
Come lay beside me
This won’t hurt I swear
She loves me not
She loves me still
But she’ll never love again
Tutto fottutamente pulito e non li
avrei più visti, mai più. Mai più. Sembrava una frase da Ugo Foscolo:
Ne più mai toccherò le sacre sponde… O era
“Né mai più”? Oppure Primo Levi, Se
questo è un uomo. Non bastava lavorare nel fango, collezionare vermi e
sporcizia, uccidere per un pezzo di pane, non scaldarsi davanti al focolare
domestico, darsi al martirio perenne per dubitare se questo o quello fosse un
uomo: la dignità era cenere in un setaccio dai buchi troppo larghi.
She lay beside me
But she’ll be there when I’m gone
Black heart starring darker still
But she’ll be there when I’m gone
Yes she’ll be there when I’m gone
Dead sure she’ll be there!
La dignità sfuma di botto, come porte pesanti. Sbattono e lo schiocco implode.
“Voi non avete capito niente!
Ragazzi, regolatevi, fra dieci giorni avete gli esami e io non voglio fare
figure portandovi con il sei quando la sufficienza vi repelle completamente!”
Che dignità può avere una ragazza che si svende per evitare la demolizione?
“Prof, per favore, non mi mandi
fuori… Dài, prof, veramente! E che cazzo, però… Stavano parlando tutti, perché
punite solo me?”
Che dignità può avere un ragazzo che strascica i piedi nella melma per vedere
quanto si sporcano?
“Raga’, queste patatine sanno di
merda… Ma che cazzo ci mettono nel distributore, gli avanzi di tre anni fa?!”
La dignità è usare bene sé stessi.
“Ora pure le femmine hanno il
pisello? Com’è che il bagno delle ragazze è tutto pisciato?! Ma tutto in questa
scuola capita, io non lo so…”
Il proprio corpo, la propria mente. Usarsi in modo intelligente e utile.
“Sono tutti occupati i bagni?”
Utili a sé stessi, perché, in fondo, viviamo per quello.
“Penso di sì… Forse quello è
libero.”
Spinsi definitivamente via la porta
solo quando mi resi conto che aveva strillato la campanelle e le urla si
accavallavano, una in groppa all’altra, galoppavano, frenetiche, di classe in
classe, di corridoio in corridoio, di gola in gola.
Io… io non ce la faccio. Non riesco a vivere sapendo che sono vivi, che la loro
pelle potrebbe sfiorarmi, le nostre ceneri mischiarsi, i nostri capelli
annodarsi insieme, gli uni agli altri.
Non avevo mai inteso così
profondamente il mio odio nei loro confronti: ovattato, pacato, monotono, come
attutito da un cuscino, come se ci fossimo trovati in un letto enorme, l’uno
sopra l’altro, raggomitolati, rotolanti su migliaia di cuscini e materassi, uno
sopra l’altro. Come cadaveri.
Tanto fra un po’ mi passa.
E poi era l’ultimo giorno di scuola: non li avrei visti per tre mesi, sarei
dovuto essere felice.
Ma no, no, no, no! Perché mi
illudevo? Non era questione di vicinanza o lontananza: si trattava della
semplice esistenza.
Mi sarebbe passato comunque
quell’entusiasmo: era troppo, non riuscivo a sopportare quella mancanza di
apatia. Sì, magari dopo mi sfogo un po’
giocando alla Play Station 3, magari a… Anzi, no! Ho portato la PSP.
Quando tornai in classe, mi accorsi
che l’aula era ancora vuota: probabilmente erano ancora tutti in laboratorio.
Un’atmosfera surreale mi strappò via dal mondo, luce su luce, grigio su grigio,
notte su notte. È così bella un’aula
vuota. Provavo la stessa sensazione che infonde un teatro deserto, un palco
ticchettante di piedi invisibili, rombante di canti muti, cangiante di colori
insipidi; una sala di danza, il parquet ammaccato da scarpette vaghe, le pareti
specchiate che riflettono sé stesse all’infinito… e altro, la frenesia dell’eco
di una radio spenta all’improvviso o di un CD che sta per girare nel lettore… Un
letto sfatto impregnato di saliva, sudore, capelli, unghie e fantasie, le piaghe
grinzose delle lenzuola accoccolate sulla sagoma di un corpo in un materasso.
Sarebbe bello se rimanesse tutto così.
Carte sui banchi, legno colorato,
ferro, cemente, mattonelle e nostalgia. No, non nostalgia: non mi mancava nulla
di passato, semmai ero lieto che fosse trascorso. Cos’era? Malinconia? No, non
mi ero addormentato in mare – era questa la sensazione che mi allagava il
cervello quando pensavo alla malinconia. E
non si tratta di questo.
Camminai lentamente fra i banchi,
osservai i bicchierini di caffè dal fondo bruno per i residui di bevanda
rimasti, la striscia nera del banco impiastricciata di bianchetto; decifrai un
Camilla in caratteri gotici e, su un
altro banco, L, nella calligrafia
speciale del manga, seguito da IGHT.
Mi concentrai sulla superficie marroncino della sedia incastrata fra le gambe
del banco e notai un tratto fino sullo schienale:
Well, Mother, what the war did to my legs and to my
tongue
You should’ve raised a baby girl
I should’ve been a better son
Un diario spalancato su un banco, il
segno tenuto da una penna; schiacciai le pagine che si aprivano a ventaglio per
leggere una scritta che avevo intravisto attraverso la coda di pavone della
carta: Oggi, un’altra affollata solitudine
di scuola: l’ultima. E penso a quando mi riporterà la scarpetta quel principe
bastardo contro cui l’ho scagliata. Riccioli intrecciati con un pennarello
doppio e arancione.
Boccette e giornali di moda su un
altro sottobanco rivestito di chewing-gum. Mi morsi un polpastrello e raccolsi
una bottiglietta di profumo a forma di spirale che confluiva in una sfera
dentata blu cobalto, facendola scivolare sulla superficie liscia del banco.
Frusciò nel silenzio cimiteriale della classe.
I resti di corpi mai esistiti
(mai esistiti mai esistiti mai esistiti mai esistiti)
rendevano quell’arido squallore una
viscida fanghiglia, appiccicosa e umana:
auricolari imbrigliate, incisioni nel legno, libri spiegazzati, astucci
rovesciati, sciarpe esanimi, gocce e aloni, puzza di disinfettante.
Passai il dito su un’iscrizione di chissà quale epoca, seguendone i contorni distrattamente, senza accorgermi di cosa fosse. Grattai via i trucioli di gomma imprigionativi con l’unghia.
y – y0 = m (x – xo)
decifrai alla fine.
Tante gracili grucce spoglie, magari
qualcuna era protetta da un velo di plastica trasparente, ma era evidente che
anche quelle erano nude; ossa, ossa gettate su marciapiedi umidi, coperti di
gomme da masticare indurite.
Non c’erano più.
Non esistevano.
E, sì, era splendido.
Era come respirare polvere
soporifera o cocaina: era tutto perfetto e se fosse rimasto così…?
Tremai.
Era come...
Chiusi gli occhi.
Come se…
Come se fossi su uno scolapasta gigante,
in altomare, e vedessi da lontano L’isola che non c’è, il punto più alto
dell’isola… E ci sto arrivando, cazzo, ci sto arrivando, remo con le mani, ma ci
arrivo. E gli squali non mi prenderanno, non esisteranno perché io vorrò così.
Era un’idea pazzesca: ucciderli
tutti? Tutta la classe? Tranne me, ovviamente: e i sospetti piomberanno su di
me. Come, poi? Come ucciderli? Prenderli uno per uno, sottoporli ad una tortura
diversa e straziante, facendomi chiamare The Punisher…?
No, eliminarli.
Non sarebbero più esistiti.
La sofferenza era sempre un
sensazione che faceva capo all’esistenza e, no, no no no, non l’avrebbero avuta.
Annullamente.
Le vostre tracce non incresperanno l’acqua.
Che pensiero assurdo. Eppure sorrisi
per averlo formulato.
Azzeramento.
Niente, il nulla. Il Mu, avrebbe
commentato Ryuk.
Oh, ma certo! Voglio uccidere ventitré tizi e non ho nessun dio dalla mia parte…
Non ce l’avrebbe fatta Light, figuriamoci io.
La solita crisi, sempre la solita
crisi: pensare rendeva incoerenti, l’avevo sempre sostenuto.
No, l’avrei fatto: senza alibi,
senza dèi, senza genialità li uccido.
Li uccido tutti quanti insieme,
avvelenandoli come parassiti con… con… con diserbanti o… che ne so…?
Lasciai perdere: non avevo bisogno
di ufficializzare nulla, né di spiegare la mia decisione: l’avrei fatto e basta,
a costo di ammuffire in una cella umida e ghiacciata. Mi bastava che morissero,
che i loro germi andassero in malora con loro.
Urtai l’angolo di un banco con la
coscia.
“Good morning!... Ehi, Blackhand,
dov’è il resto della classe?”. Sussultai.
Solo la professoressa d’inglese
storpiava il mio cognome in quel modo: la Rosangeli posò la cartella di pelle
bruna sulla cattedra e infranse in mille pezzi quella rabbiosa, indomita
malinconia. Non la odiai per questo, come non sia odia la propria mamma per
averci vomitati in quel deserto gremito che è il mondo.
“Oh, ehm…”, esitai spaesato. “Sono
nel laboratorio d’informatica col professor Recchia, ma penso che torneranno
presto, perché…”
“Okay. È che devo interrogare ancora
tre persone, ti rendi conto? E poi devo definire il voto ad altri”, sbuffò
aprendo la cartella con uno scatto. Il viso rugoso coperto dai capelli biondi
sembrava quasi piacevole – o forse era la suggestione del mio umore
particolarmente positivo.
“A proposito, tu sei preparato per
oggi?”
“Eh?”, biascicai con voce roca. Mi
schiarii la gola e feci per continuare.
“Hai un sei e mezzo, un otto e un
sei più e, sinceramente, vorrei metterti proprio otto ai quadri, però devi
venire all’interrogazione”. Scorreva il registro con una matita consumata e
dalla punta quasi piatta.
“No, meglio di no. Cioè… Non ho
studiato”, sbottai; riposi la boccetta di profumo dove si trovava prima e mi
avviai verso il mio banco, scavalcando zaini tristemente bivaccati sul pavimento
come cadaveri.
“E allora ti metto sette ai quadri,
non posso mica inventarmi i voti, eh, sorry”, esclamò come se fosse stata offesa
nella sua intima dignità di essere umano.
Mi strinsi nelle spalle con
un’espressione sarcastica, augurandomi che non mi stesse guardando; mi sedetti
trascinando la sedia.
Light, di profilo, ghignava
esultante e beffardo su un quadrato d’inchiostro.
Non mi serve un Death Note per impazzire.
Sì, era tutto pazzesco e folle,
un’idea matta, inaudita.
Fenomenale e prodigiosa.
Straordinaria.
E confortante.
Non m’importa, non m’importa niente! Vi fotterò tutti, renderò la mia vita
migliore. E la vostra sarà un effimero cumulo di ceneri.
***
La cenere della sigaretta di
Raffaele cadde sulla tastiera nera e si accumulò fra
Invio e
ò.
Era lui?
No, non era lui.
Non ha il segno del tacco. Anzi, no, della punta: non mi sognerei mai di
indossare scarpe col tacco!
Ma figuriamoci se poteva essere il
tecnico del laboratorio d’informatica. Sospirai e fissai la mano di Susanna sul
mouse.
“Raga’, muovetevi, se no la
Rosangeli s’incazza, su!”, sbraitò Recchia. Lo ignorammo tutti.
Oh, Dio! Lo sapevo, questo è uno di quei giorni in
cui rivedo Notting Hill e Romeo +
Giulietta fino alla nausea! No, in realtà non mi dispiaceva
naufragar in questo mare, era
dolce. Così dolce… Ah, già, avrei
anche sfogliato il libro d’italiano di mio fratello cercando la voce di
Leopardi.
Ho sbagliato epoca.
Sarei stata un’ottima Silvia per lui, una sanguinaria Fanny all’occorrenza; gli
avrei circondato le spalle mentre si dedicava al suo studio
matto e disperatissimo, avrei raccolto le sue
sudate carte, l’avrei difeso dalla madre bigotta, aiutato a fuggire
dalla stantia Recanati, saremmo corsi via insieme in una brumosa notte di
novembre, lontano, lontano… Ci avrebbero maledetti e, cazzo, avrebbero avuto
ragione! Gli avrei strappato la penna di mano e l’avrei stretto a me, lo avrei
ispirato e irritato stropicciandogli le poesie, gettandolo fra i rovi,
baciandolo fra spighe di grano che si sarebbero chiuse su di noi…
E tutti giorni sarà attesa per il seguente, perché ci sembrerà migliore,
anche se non lo sarà; non ci saranno sere del dì di festa,
solo sabati, sabati, migliaia e migliaia di sabati! Sabbatiche malinconie
reciproche, capricciose e belle, e le colombe di Saffo sorveglieranno i nostri
corpi avvinghiati e disperati.
Mmm, magari avrei potuto usare
quelle immagini per una fanfiction. Sbuffai.
Quando la smetterò di cercare uno spasimante in ogni individuo che mi si
presenti davanti? Ora mi interesso anche ai morti, e brava alla necrofila!
Ritornai a ripetere la lezione
d’inglese.
The sole
trader, as known as proprietorship, is a type of business owned and run by one
individual and doesn’t imply legal distinction between the owner and the
business; it’s called sole because the owner…
Se ora fossi in un liceo classico starei ripetendo Shakespeare, non questa merda,
pensai amaramente appena mi accorsi di leggere solo per inerzia. Sbuffai: non
avevo il coraggio di chiudere il libro e lasciar semplicemente perdere.
“Sempre a sospirare oggi?”, si
lamentò Susanna. La ignorai: detestavo la sua lunatica incostanza.
Insomma, o mi mandi a fare in culo una volta per tutte, o accetti le mie
idee. Mi innervosiva.
Sorrise.
Ecco, appunto.
“Che c’è?”, indagò distrattamente.
Fissai i contorni dei suoi occhi
truccati e mi vergognai di invidiarla, mi vergognai fino ad arrossire,
probabilmente.
“Hai una nuova recensione,
comunque.”
“Davvero?”. La schermata di EFP mi
accecò; sbattei gli occhi e mi avvicinai al monitor facendo scricchiolare la
sedia.
Susanna si protese verso di me
fissandomi intensamente – non la guardavo, ma mi sentivo rivestita della sua
attenzione; non era una sensazione piacevole, in effetti – e sussurrò con
evidente sarcasmo.
“Sai cosa dice quella grande saggia
di mia madre? Sospir cuor mio, ragion tu hai: aver l’amante e non vederlo mai.
Proprio patetica, ma è una frase che ti si addice in questo caso, no?”.
In quel momento la odiavo, la odiavo
come un corpo estraneo penetrato nel mio sangue… Mi dava fastidio.
Che cazzo vuole? Prima mi offende dicendo che sono ingenua, si illude di
essere uno schifo di serial killer, e poi fa la simpaticona, come se potesse
spazzar via tutto così. Ma vaffanculo!
“Che intendi dire?”. Sorrisi,
nonostante i miei pensieri: meglio non discutere troppo con lei, precipitare
sembrava così semplice.
“So cosa stai pensando.”
Grazie, ora sì che mi illumini.
La sua voce solenne mi spaventò
impercettibilmente; cominciai a disegnare stelline e occhi in stile manga fra un
paragrafo e l’altro del libro d’inglese.
“Sospiri perché ti piace Recchia,
vero? Eh, lo so, anch’io ho avuto una cotta per lui al pri…”
“Ma sta’ zitta! Sembra Babbo Natale
versione barbone-della-stazione!”.
Sospirai, ma stavolta mentalmente:
sì, sorrisi al suo sorriso e la fisai ancora, la dimenticai e la recuperai in un
secondo; pensai a quanto la detestavo.
Come cazzo farei senza Susanna?
Il mio sorriso si spalancò e non
capivo se fosse dettato da una prudente ipocrisia oppure dalla sincera
sconsideratezza.
“Ti adoro quando fai così”, le
confessai seria.
“Solo quando faccio così?!”. Si
finse offesa e altezzosa.
Solo quando non fai il serial killer giustiziere.
“Ma no, ti adoro sempre!”. Poggiai
la testa sulla sue spalla e lessi la recensione che mi indicò.
Recensioni per “Dead boy’s
poem – Light’s prayer”
Recensione di Samyra [Contatta]
del 09/06/09 – 00:42PM al capitolo 1: Dead boy’s
poem – Light’s prayer – Firmata
Wow, bella songfic, davvero ^^ appena ho finito di leggere la tua longfic mi
sono subito gettata sulle oneshot… Dopo tante ficcy su L, finalmente una sul
dio… XD Va bè sono di parte, ke ci vuoi fare! Cmq, la scelta della canzone dei
Nightwish come putno di partenza è geniale, soprattutto il pezzo: “created a
kingdom, reached for the wisdom, failed in becoming a God”… *_____________* che
pena x Light, è stato orribile… soprattutto la puntata di ieri sera, ma non
usciamo dall’argomento, se no le amministratrici mi eliminano la recensione come
hanno fatto l’altra votla, grrr… è_é dicevo, la ficcy è molto struggente, mi ha
colpito molto… quasi quasi mi mettevo a piangere!!! va bè lascia stare, sono
melodrammatica (o mello-drammatica in questo caso! XD) (suicidati! Ndte) (eh,
hai ragione… sarebbe un bene x la società! ndLight)… Va bè, spero di leggere
presto qualche altra cosa di tuo… chao chao ^^
“Ma chi è ‘sta cogliona?”, mormorò
Susanna soffocando una risata in un grugnito.
La colpii lievemente alla spalla. “E
dài, quanto sei cattiva! È stata molto sincera…”
Sei recensioni in meno di dodici ore, che bello!
“Be’, su questo non ho dubbi, però…
Insomma, questi fenomeni da baraccone mi stanno un po’ sul cazzo”, soffiò
Susanna. “Ma almeno danno un po’ di vita ad EFP.”
Ridemmo insieme.
“Figurati, tanto non me ne frega
niente delle recensioni. Sai che per me l’importante è scrivere”, esclamai.
Sei recensioni! Dovrei scrivere un’altra long-fic. Qualcosa m’inventerò,
l’importante è avere i lettori in pugno.
“Fai bene. È difficile trovare dei
recensori veramente bravi.”
E pensare che alla prima oneshot che ho scritto hanno recensito solo due persone
in due anni e mezzo.
“E tu che mi dici?”, le chiesi.
Mi fissò: la pelle bianca delle
guance era solleticata da qualche ricciolo floscio e sensuale, il mento poggiava
sulle nocche della mano destra, gesto che rendeva la sua posizione elegante e
superba. Aggrottò la fronte, come per domandarmi cosa intendessi dire.
“Le recensioni, intendo. Cioè…
Qualcuno ti ha lasciato qualche commento all’ultimo capitolo della storia?”,
chiarii.
Il professor Recchia si stava
avvicinando alla nostra postazione elettronica con aria minacciosa; mi guardai
intorno: solo io e Susanna eravamo ancora sedute, gli altri si avviavano verso
il corridoio stiracchiandosi e schiamazzando. Grattai il pavimento con la sedia
e raccolsi il libro d’inglese. Speriamo di
farcela a ripetere in classe prima che arrivi la Rosangeli.
Imitandomi, Susanna fece schioccare
le dita indolenzite.
“The
Electric Metempsychosis, dici?”