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Autore: francy91    19/11/2009    3 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Salve. Vi avverto: tutte le scorrettezze grammaticali e le aberrazioni linguistiche (compresi gli errori di battitura), se scritte in caratteri diversi da quelli normalmente utilizzati nella narrazione, sono volontari (o frutto di uno spietato autolesionismo).

Inoltre, devo delle spiegazioni al mio caro (e unico, ma, come vedrete, non lo dico mariagrazianamente) recensore, Bael: innanzi tutto, la mia concezione di metafora è sfasata e incoerente, ma io uso questo accorgimento proprio per distrarre o, meglio, per deviare il continuo (e forse anche monotono) svolgimento narrativo, per “staccare”, insomma. Spero che Susanna e Mariagrazia ti piacciano anche in questo capitolo, benché la loro amicizia non sia molto manifesta, almeno qui. Vedrai, ma ti prego di non fraintendere: il loro non è un rapporto casuale o di convenienza; si chiarirà con il tempo. Ti ringrazio per le tue recensioni, sono davvero piacevoli, complete e divertenti!

Poi, dal prossimo capitolo credo di schiacciare l’interruttore “Azione”, sul cui tasto fino ad ora si è posato uno spesso velo di polvere. Le incoerenze narrative sono delle brutte belve!

Infine, due precisazioni: capirete leggendo che il titolo del capitolo era alquanto scontato (nonché nauseante, se riuscirete ad arrivare al termine della pagina senza maturare un intenso istinto omicida di martiniana memoria XD); inoltre, la frase citata nel capitolo, riportata a penna su una sedia, proviene da Mama dei My Chemical Romance.

Buona lettura.

 

Cenere

 

Non riuscii proprio a ricordarmi come fossi arrivato in bagno.

E da quant’è che mi sto facendo una sega?

Sentivo la fronte gelida, cristallizzata in un limpido torpore.

Liscio…

Le mattonelle.

Il bagno.

La porta difettosa.

La luc…

Cazzo, la porta!

Quel sottile rettangolo verde opaco era socchiuso.

Cazzo cazzo cazzo cazzo!

Per fortuna i corridoi erano deserti.

Nessuno aspettava che si liberasse una cabina.

Nessuno si lavava le mani con il sapone annacquato della scuola.

Come ero potuto rimanere mezzo nudo con la porta semichiusa?

Senza staccare la fronte dalla mattonella celeste, afferrai la maniglia e feci schioccare la porta sullo stipite, come una frusta. Continuai a stringere la gelida maniglia.

Leccai languidamente con lo sguardo il cerchietto metallico dello scarico, le scritte sulla superficie ruvida della porta:

 

Sukkiamelooo!

laura c. è una troia by robertok

ANTIFA FINO ALLA MORTE

Caterina 6 bona

09/04/06 rossella, io + te = 3msc

CHIAMAMI TI FARO’ UN POMPINO GRATIS 3412526335

Inter merdaaa!!!!!!!!!! by zebra 94xxx

Vendo kitarra akustika usata buone kondizioni 130 euro no skerzo kiamami 3379679584

 

Cominciai ad ansimare prima di iniziare, come facevo sempre.

Il pavimento bagnato tramontò sotto le mie palpebre. Polvere e vento. O polvere al vento?

Ah.

Frammenti di foglie, forse. Foglie cadute. Ma è quasi estate, non cadono le foglie! Qualcosa doveva essere: la polvere non nasce così, all’improvviso.

Peli, piccoli gomitoli di peli, di gatti e di cani, di pubi e capelli. No, no, no, nononono, Non va!

Ah…

Il rumore mi disgustava, ma era meraviglioso solo perché lo producevo io.

Sangue, sangue, sangue che si muove. Scorre, fruscia, fluisce, mesce, scande, scende, scivola, scia… Scia di polvere sul pavimento pisciato.

Polvere, ancora polvere? Di che cazzo è fatta la polvere? ‘Fanculo alle mie domande del cazzo.

Polline. Api. Friniscono, frullano, vibraaa…no. Polline, fiori, petali tremano al vento e… Cazzo!

Ah!

È il vento che porta la polvere? No, polvere e vento. La congiura delle polveri, come V per vendetta. Polvere e vento. E fuoco nel Parlamento. Urla, urla ridicole. Lagne. E fuoco dappertutto. Legna bagnata che brucia. E fuoco sulla polvere. E polvere sul fuoco e vento infuocato e polvere di vento e fuoco ventoso e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco…

Aaah…

E polvere bagnata e acqua in polvere! E pioggia di vento e vento liquido! Liquido… Fuoco liquido, spugnoso, denso e spumeggiante, dolce fuoco effervescente, corposo e leeento, magma amalgamato, torrente di crema… Infuocata. E… E… E no, nonono, acqua no… E polvere di fuoco. È polvere di fuoco. È polvere. È fuoco.

È cenere.

AAAAAAAAAH!

Rauco, come se avessi ingoiato sacchi di polvere. Cenere bollente.

Cenere!

Ecco, cenere. Polvere di fuoco: cenere.

Ecco. E-ecco, sì.

Riaprii gli occhi e strinsi di più la maniglia, sibilando.

Espirai pesantemente.

Percepii il sudore sulla fronte solo quando la sentii tesa per l’attrito contro la parete. Incastrai l’unghia dell’indice nella fessura fra una piastrella umida e ghiacciata e l’altra e grattai via lo sporco.

Stridette.

Mi dolevano le orecchie e i tendini dell’avambraccio destro sussultavano appena stendevo il braccio.

Mi accovacciai poggiando la parte superiore della testa e i palmi sudati sulle piastrelle, cercando di asciugarmi le mani sulla parete bagnata.

Richiusi gli occhi.

Cenere.

Mi sentivo come drogato, allucinato: colori abbaglianti, sensazioni amplificate, urla metalliche, narici infiammate, come se respirassi cenere.

Non riuscii a calcolare quanto tempo trascorse prima che mi sollevassi e capissi. Come le campane, superai il mio stesso pensiero, concentrandomi su quello successivo prima ancora di aver formulato il precedente. Può succedere, può succedere che non esistano più! La fan fiction, il capitolo quattro… Senza manie di grandezza, posso eliminarli tutti. Non si tratta di fingere che non esistano, io posso ELIMINARLI.

Non avrebbero avuto più nome, viso, voce, vista, appartenenza, azione, storia, sensazione… Neanche la più elementare intuizione.

Senza geni, senza rivalità megalomani, nessuna vendetta, nessun piano narcisistico.

Eliminarli.

Non vederli mai più, non ascoltare le loro lagne sullo sfondo di cieli color cenere, il suono dei tacchi sull’asfalto, i risolini, pareti brulicanti di aspiranti parassiti, soffocamenti di finestre chiuse, arie fumose e vetri appannati, sbarre, sbarre alle finestre, alle sedie, ai banchi, alla lavagna… Silenzio.

Un nuovo mondo, piccolo ma nuovo.

Ma quale nuovo mondo!

No, d’accordo: non era una spedizione punitiva contro le folle di giovani diversi da me che si accalcavano nei loro accampamenti, come tanti leziosi Hänsel e Gretel che leccano pomelli e appendiabiti.

Non era la pace umana universale che cercavo: era la mia; il mio piacere. Spingerli uno per uno dal punto più alto dei binari delle montagne russe, ognuno nel suo carrellino, verso un tunnel, magari verso un forno crematorio. Risi.

No, neanche questo era esatto: non era il gesto soddisfacente, ma il risultato: morti, spenti, mai esistiti. Chi avrebbe mai potuto asserire che, una volta, molto o poco tempo prima, fossero vissuti? Prove non ce ne sarebbero state. No no, tutto pulito.

La cerniera dei jeans fluì tranquillamente e la cintura scorse flessuosa fra i passanti. La fibbia era ghiacciata e mi gelava la pancia; puzzava di sangue. Sarà l’odore del metallo.

Mi riordinai i capelli canticchiando a bocca chiusa una strana melodia che, mi accorsi in seguito, altro non era che Unforgiven II dei Metallica.

 

Come lay beside me

This won’t hurt I swear

She loves me not

She loves me still

But she’ll never love again

 

Tutto fottutamente pulito e non li avrei più visti, mai più. Mai più. Sembrava una frase da Ugo Foscolo: Ne più mai toccherò le sacre sponde… O era “Né mai più”? Oppure Primo Levi, Se questo è un uomo. Non bastava lavorare nel fango, collezionare vermi e sporcizia, uccidere per un pezzo di pane, non scaldarsi davanti al focolare domestico, darsi al martirio perenne per dubitare se questo o quello fosse un uomo: la dignità era cenere in un setaccio dai buchi troppo larghi.

 

She lay beside me

But she’ll be there when I’m gone

Black heart starring darker still

But she’ll be there when I’m gone

Yes she’ll be there when I’m gone

Dead sure she’ll be there!

 

La dignità sfuma di botto, come porte pesanti. Sbattono e lo schiocco implode.

“Voi non avete capito niente! Ragazzi, regolatevi, fra dieci giorni avete gli esami e io non voglio fare figure portandovi con il sei quando la sufficienza vi repelle completamente!”

Che dignità può avere una ragazza che si svende per evitare la demolizione?

“Prof, per favore, non mi mandi fuori… Dài, prof, veramente! E che cazzo, però… Stavano parlando tutti, perché punite solo me?”

Che dignità può avere un ragazzo che strascica i piedi nella melma per vedere quanto si sporcano?

“Raga’, queste patatine sanno di merda… Ma che cazzo ci mettono nel distributore, gli avanzi di tre anni fa?!”

La dignità è usare bene sé stessi.

“Ora pure le femmine hanno il pisello? Com’è che il bagno delle ragazze è tutto pisciato?! Ma tutto in questa scuola capita, io non lo so…”

Il proprio corpo, la propria mente. Usarsi in modo intelligente e utile.

“Sono tutti occupati i bagni?”

Utili a sé stessi, perché, in fondo, viviamo per quello.

“Penso di sì… Forse quello è libero.”

Spinsi definitivamente via la porta solo quando mi resi conto che aveva strillato la campanelle e le urla si accavallavano, una in groppa all’altra, galoppavano, frenetiche, di classe in classe, di corridoio in corridoio, di gola in gola.

Io… io non ce la faccio. Non riesco a vivere sapendo che sono vivi, che la loro pelle potrebbe sfiorarmi, le nostre ceneri mischiarsi, i nostri capelli annodarsi insieme, gli uni agli altri.

Non avevo mai inteso così profondamente il mio odio nei loro confronti: ovattato, pacato, monotono, come attutito da un cuscino, come se ci fossimo trovati in un letto enorme, l’uno sopra l’altro, raggomitolati, rotolanti su migliaia di cuscini e materassi, uno sopra l’altro. Come cadaveri.

Tanto fra un po’ mi passa. E poi era l’ultimo giorno di scuola: non li avrei visti per tre mesi, sarei dovuto essere felice.

Ma no, no, no, no! Perché mi illudevo? Non era questione di vicinanza o lontananza: si trattava della semplice esistenza.

Mi sarebbe passato comunque quell’entusiasmo: era troppo, non riuscivo a sopportare quella mancanza di apatia. Sì, magari dopo mi sfogo un po’ giocando alla Play Station 3, magari a… Anzi, no! Ho portato la PSP.

Quando tornai in classe, mi accorsi che l’aula era ancora vuota: probabilmente erano ancora tutti in laboratorio. Un’atmosfera surreale mi strappò via dal mondo, luce su luce, grigio su grigio, notte su notte. È così bella un’aula vuota. Provavo la stessa sensazione che infonde un teatro deserto, un palco ticchettante di piedi invisibili, rombante di canti muti, cangiante di colori insipidi; una sala di danza, il parquet ammaccato da scarpette vaghe, le pareti specchiate che riflettono sé stesse all’infinito… e altro, la frenesia dell’eco di una radio spenta all’improvviso o di un CD che sta per girare nel lettore… Un letto sfatto impregnato di saliva, sudore, capelli, unghie e fantasie, le piaghe grinzose delle lenzuola accoccolate sulla sagoma di un corpo in un materasso.

Sarebbe bello se rimanesse tutto così. Carte sui banchi, legno colorato, ferro, cemente, mattonelle e nostalgia. No, non nostalgia: non mi mancava nulla di passato, semmai ero lieto che fosse trascorso. Cos’era? Malinconia? No, non mi ero addormentato in mare – era questa la sensazione che mi allagava il cervello quando pensavo alla malinconia. E non si tratta di questo.

Camminai lentamente fra i banchi, osservai i bicchierini di caffè dal fondo bruno per i residui di bevanda rimasti, la striscia nera del banco impiastricciata di bianchetto; decifrai un Camilla in caratteri gotici e, su un altro banco, L, nella calligrafia speciale del manga, seguito da IGHT. Mi concentrai sulla superficie marroncino della sedia incastrata fra le gambe del banco e notai un tratto fino sullo schienale:

 

Well, Mother, what the war did to my legs and to my tongue

You should’ve raised a baby girl

I should’ve been a better son

 

Un diario spalancato su un banco, il segno tenuto da una penna; schiacciai le pagine che si aprivano a ventaglio per leggere una scritta che avevo intravisto attraverso la coda di pavone della carta: Oggi, un’altra affollata solitudine di scuola: l’ultima. E penso a quando mi riporterà la scarpetta quel principe bastardo contro cui l’ho scagliata. Riccioli intrecciati con un pennarello doppio e arancione.

Boccette e giornali di moda su un altro sottobanco rivestito di chewing-gum. Mi morsi un polpastrello e raccolsi una bottiglietta di profumo a forma di spirale che confluiva in una sfera dentata blu cobalto, facendola scivolare sulla superficie liscia del banco. Frusciò nel silenzio cimiteriale della classe.

I resti di corpi mai esistiti

(mai esistiti mai esistiti mai esistiti mai esistiti)

rendevano quell’arido squallore una viscida fanghiglia, appiccicosa e umana: auricolari imbrigliate, incisioni nel legno, libri spiegazzati, astucci rovesciati, sciarpe esanimi, gocce e aloni, puzza di disinfettante.

Passai il dito su un’iscrizione di chissà quale epoca, seguendone i contorni distrattamente, senza accorgermi di cosa fosse. Grattai via i trucioli di gomma imprigionativi con l’unghia.

 

y – y0 = m (x – xo)

decifrai alla fine.

Tante gracili grucce spoglie, magari qualcuna era protetta da un velo di plastica trasparente, ma era evidente che anche quelle erano nude; ossa, ossa gettate su marciapiedi umidi, coperti di gomme da masticare indurite.

Non c’erano più.

Non esistevano.

E, sì, era splendido.

Era come respirare polvere soporifera o cocaina: era tutto perfetto e se fosse rimasto così…?

Tremai.

Era come...

Chiusi gli occhi.

Come se… Come se fossi su uno scolapasta gigante, in altomare, e vedessi da lontano L’isola che non c’è, il punto più alto dell’isola… E ci sto arrivando, cazzo, ci sto arrivando, remo con le mani, ma ci arrivo. E gli squali non mi prenderanno, non esisteranno perché io vorrò così.

Era un’idea pazzesca: ucciderli tutti? Tutta la classe? Tranne me, ovviamente: e i sospetti piomberanno su di me. Come, poi? Come ucciderli? Prenderli uno per uno, sottoporli ad una tortura diversa e straziante, facendomi chiamare The Punisher…?

No, eliminarli.

Non sarebbero più esistiti.

La sofferenza era sempre un sensazione che faceva capo all’esistenza e, no, no no no, non l’avrebbero avuta.

Annullamente.

Le vostre tracce non incresperanno l’acqua.

Che pensiero assurdo. Eppure sorrisi per averlo formulato.

Azzeramento.

Niente, il nulla. Il Mu, avrebbe commentato Ryuk.

Oh, ma certo! Voglio uccidere ventitré tizi e non ho nessun dio dalla mia parte… Non ce l’avrebbe fatta Light, figuriamoci io.

La solita crisi, sempre la solita crisi: pensare rendeva incoerenti, l’avevo sempre sostenuto.

No, l’avrei fatto: senza alibi, senza dèi, senza genialità li uccido. Li uccido tutti quanti insieme, avvelenandoli come parassiti con… con… con diserbanti o… che ne so…?

Lasciai perdere: non avevo bisogno di ufficializzare nulla, né di spiegare la mia decisione: l’avrei fatto e basta, a costo di ammuffire in una cella umida e ghiacciata. Mi bastava che morissero, che i loro germi andassero in malora con loro.

Urtai l’angolo di un banco con la coscia.

“Good morning!... Ehi, Blackhand, dov’è il resto della classe?”. Sussultai.

Solo la professoressa d’inglese storpiava il mio cognome in quel modo: la Rosangeli posò la cartella di pelle bruna sulla cattedra e infranse in mille pezzi quella rabbiosa, indomita malinconia. Non la odiai per questo, come non sia odia la propria mamma per averci vomitati in quel deserto gremito che è il mondo.

“Oh, ehm…”, esitai spaesato. “Sono nel laboratorio d’informatica col professor Recchia, ma penso che torneranno presto, perché…”

“Okay. È che devo interrogare ancora tre persone, ti rendi conto? E poi devo definire il voto ad altri”, sbuffò aprendo la cartella con uno scatto. Il viso rugoso coperto dai capelli biondi sembrava quasi piacevole – o forse era la suggestione del mio umore particolarmente positivo.

“A proposito, tu sei preparato per oggi?”

“Eh?”, biascicai con voce roca. Mi schiarii la gola e feci per continuare.

“Hai un sei e mezzo, un otto e un sei più e, sinceramente, vorrei metterti proprio otto ai quadri, però devi venire all’interrogazione”. Scorreva il registro con una matita consumata e dalla punta quasi piatta.

“No, meglio di no. Cioè… Non ho studiato”, sbottai; riposi la boccetta di profumo dove si trovava prima e mi avviai verso il mio banco, scavalcando zaini tristemente bivaccati sul pavimento come cadaveri.

“E allora ti metto sette ai quadri, non posso mica inventarmi i voti, eh, sorry”, esclamò come se fosse stata offesa nella sua intima dignità di essere umano.

Mi strinsi nelle spalle con un’espressione sarcastica, augurandomi che non mi stesse guardando; mi sedetti trascinando la sedia.

Light, di profilo, ghignava esultante e beffardo su un quadrato d’inchiostro.

Non mi serve un Death Note per impazzire.

Sì, era tutto pazzesco e folle, un’idea matta, inaudita.

Fenomenale e prodigiosa.

Straordinaria.

E confortante.

Non m’importa, non m’importa niente! Vi fotterò tutti, renderò la mia vita migliore. E la vostra sarà un effimero cumulo di ceneri.

 

***

La cenere della sigaretta di Raffaele cadde sulla tastiera nera e si accumulò fra Invio e ò.

Era lui?

No, non era lui.

Non ha il segno del tacco. Anzi, no, della punta: non mi sognerei mai di indossare scarpe col tacco!

Ma figuriamoci se poteva essere il tecnico del laboratorio d’informatica. Sospirai e fissai la mano di Susanna sul mouse.

“Raga’, muovetevi, se no la Rosangeli s’incazza, su!”, sbraitò Recchia. Lo ignorammo tutti.

Oh, Dio! Lo sapevo, questo è uno di quei giorni in cui rivedo Notting Hill e Romeo + Giulietta fino alla nausea! No, in realtà non mi dispiaceva naufragar in questo mare, era dolce. Così dolce… Ah, già, avrei anche sfogliato il libro d’italiano di mio fratello cercando la voce di Leopardi.

Ho sbagliato epoca. Sarei stata un’ottima Silvia per lui, una sanguinaria Fanny all’occorrenza; gli avrei circondato le spalle mentre si dedicava al suo studio matto e disperatissimo, avrei raccolto le sue sudate carte, l’avrei difeso dalla madre bigotta, aiutato a fuggire dalla stantia Recanati, saremmo corsi via insieme in una brumosa notte di novembre, lontano, lontano… Ci avrebbero maledetti e, cazzo, avrebbero avuto ragione! Gli avrei strappato la penna di mano e l’avrei stretto a me, lo avrei ispirato e irritato stropicciandogli le poesie, gettandolo fra i rovi, baciandolo fra spighe di grano che si sarebbero chiuse su di noi… E tutti giorni sarà attesa per il seguente, perché ci sembrerà migliore, anche se non lo sarà; non ci saranno sere del dì di festa, solo sabati, sabati, migliaia e migliaia di sabati! Sabbatiche malinconie reciproche, capricciose e belle, e le colombe di Saffo sorveglieranno i nostri corpi avvinghiati e disperati.

Mmm, magari avrei potuto usare quelle immagini per una fanfiction. Sbuffai.

Quando la smetterò di cercare uno spasimante in ogni individuo che mi si presenti davanti? Ora mi interesso anche ai morti, e brava alla necrofila!

Ritornai a ripetere la lezione d’inglese. The sole trader, as known as proprietorship, is a type of business owned and run by one individual and doesn’t imply legal distinction between the owner and the business; it’s called sole because the owner…

Se ora fossi in un liceo classico starei ripetendo Shakespeare, non questa merda, pensai amaramente appena mi accorsi di leggere solo per inerzia. Sbuffai: non avevo il coraggio di chiudere il libro e lasciar semplicemente perdere.

“Sempre a sospirare oggi?”, si lamentò Susanna. La ignorai: detestavo la sua lunatica incostanza. Insomma, o mi mandi a fare in culo una volta per tutte, o accetti le mie idee. Mi innervosiva.

Sorrise.

Ecco, appunto.

“Che c’è?”, indagò distrattamente.

Fissai i contorni dei suoi occhi truccati e mi vergognai di invidiarla, mi vergognai fino ad arrossire, probabilmente.

“Hai una nuova recensione, comunque.”

“Davvero?”. La schermata di EFP mi accecò; sbattei gli occhi e mi avvicinai al monitor facendo scricchiolare la sedia.

Susanna si protese verso di me fissandomi intensamente – non la guardavo, ma mi sentivo rivestita della sua attenzione; non era una sensazione piacevole, in effetti – e sussurrò con evidente sarcasmo.

“Sai cosa dice quella grande saggia di mia madre? Sospir cuor mio, ragion tu hai: aver l’amante e non vederlo mai. Proprio patetica, ma è una frase che ti si addice in questo caso, no?”.

In quel momento la odiavo, la odiavo come un corpo estraneo penetrato nel mio sangue… Mi dava fastidio. Che cazzo vuole? Prima mi offende dicendo che sono ingenua, si illude di essere uno schifo di serial killer, e poi fa la simpaticona, come se potesse spazzar via tutto così. Ma vaffanculo!

“Che intendi dire?”. Sorrisi, nonostante i miei pensieri: meglio non discutere troppo con lei, precipitare sembrava così semplice.

“So cosa stai pensando.”

Grazie, ora sì che mi illumini.

La sua voce solenne mi spaventò impercettibilmente; cominciai a disegnare stelline e occhi in stile manga fra un paragrafo e l’altro del libro d’inglese.

“Sospiri perché ti piace Recchia, vero? Eh, lo so, anch’io ho avuto una cotta per lui al pri…”

“Ma sta’ zitta! Sembra Babbo Natale versione barbone-della-stazione!”.

Sospirai, ma stavolta mentalmente: sì, sorrisi al suo sorriso e la fisai ancora, la dimenticai e la recuperai in un secondo; pensai a quanto la detestavo. Come cazzo farei senza Susanna?

Il mio sorriso si spalancò e non capivo se fosse dettato da una prudente ipocrisia oppure dalla sincera sconsideratezza.

“Ti adoro quando fai così”, le confessai seria.

“Solo quando faccio così?!”. Si finse offesa e altezzosa.

Solo quando non fai il serial killer giustiziere.

“Ma no, ti adoro sempre!”. Poggiai la testa sulla sue spalla e lessi la recensione che mi indicò.

 

Recensioni per “Dead boy’s poem – Light’s prayer

 

 

Recensione di Samyra [Contatta] del 09/06/09 – 00:42PM al capitolo 1: Dead boy’s poem – Light’s prayer – Firmata

Wow, bella songfic, davvero ^^ appena ho finito di leggere la tua longfic mi sono subito gettata sulle oneshot… Dopo tante ficcy su L, finalmente una sul dio… XD Va bè sono di parte, ke ci vuoi fare! Cmq, la scelta della canzone dei Nightwish come putno di partenza è geniale, soprattutto il pezzo: “created a kingdom, reached for the wisdom, failed in becoming a God”… *_____________* che pena x Light, è stato orribile… soprattutto la puntata di ieri sera, ma non usciamo dall’argomento, se no le amministratrici mi eliminano la recensione come hanno fatto l’altra votla, grrr… è_é dicevo, la ficcy è molto struggente, mi ha colpito molto… quasi quasi mi mettevo a piangere!!! va bè lascia stare, sono melodrammatica (o mello-drammatica in questo caso! XD) (suicidati! Ndte) (eh, hai ragione… sarebbe un bene x la società! ndLight)… Va bè, spero di leggere presto qualche altra cosa di tuo… chao chao ^^

 

 

“Ma chi è ‘sta cogliona?”, mormorò Susanna soffocando una risata in un grugnito.

La colpii lievemente alla spalla. “E dài, quanto sei cattiva! È stata molto sincera…”

Sei recensioni in meno di dodici ore, che bello!

“Be’, su questo non ho dubbi, però… Insomma, questi fenomeni da baraccone mi stanno un po’ sul cazzo”, soffiò Susanna. “Ma almeno danno un po’ di vita ad EFP.”

Ridemmo insieme.

“Figurati, tanto non me ne frega niente delle recensioni. Sai che per me l’importante è scrivere”, esclamai.

Sei recensioni! Dovrei scrivere un’altra long-fic. Qualcosa m’inventerò, l’importante è avere i lettori in pugno.

“Fai bene. È difficile trovare dei recensori veramente bravi.”

E pensare che alla prima oneshot che ho scritto hanno recensito solo due persone in due anni e mezzo.

“E tu che mi dici?”, le chiesi.

Mi fissò: la pelle bianca delle guance era solleticata da qualche ricciolo floscio e sensuale, il mento poggiava sulle nocche della mano destra, gesto che rendeva la sua posizione elegante e superba. Aggrottò la fronte, come per domandarmi cosa intendessi dire.

“Le recensioni, intendo. Cioè… Qualcuno ti ha lasciato qualche commento all’ultimo capitolo della storia?”, chiarii.

Il professor Recchia si stava avvicinando alla nostra postazione elettronica con aria minacciosa; mi guardai intorno: solo io e Susanna eravamo ancora sedute, gli altri si avviavano verso il corridoio stiracchiandosi e schiamazzando. Grattai il pavimento con la sedia e raccolsi il libro d’inglese. Speriamo di farcela a ripetere in classe prima che arrivi la Rosangeli.

Imitandomi, Susanna fece schioccare le dita indolenzite.

The Electric Metempsychosis, dici?”

 

 

   
 
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