“«Questa
è la
segreteria telefonica di Edward» «E
Bella» - «Non dimenticatevi di Lilla!»
«Emmett smettila, mia figlia non avrà il nome di
un cane!» -
«Probabilmente volevate parlare con noi»
«Ma al momento siamo impegnati» -
«…E sì! A fare chissà
cosa… uh-uh… povera
Lilla!» Un ringhio - «Lasciate un messaggio dopo il
bip, e non preoccupatevi,
Edward non farà troppo male a suo fratello… ci
penserò io!»”.
«Bella,
Bella?
Sono io, Reneè! Ma che razza di segreteria telefonica hai?!
È bellissima, la
voglio anch’io!».
Corsi velocemente dalla camera da
letto fino al
soggiorno, afferrando la cornetta prima che mia madre potesse perdersi
in uno
dei suoi soliloqui. «Mamma» risposi con il fiatone.
«Oh,
Bella,
tesoro! Quanto tempo che non ti sento, sono stata così in
apprensione!». Da
notare il fatto che ci chiamavamo puntualmente ogni giorno. «Come sta la mia nipotina, è cresciuta?
Si
vede la pancia? E Edward? Dimmi, come sta lui? Avete comprato tutto
quello che
serve per la bimba? Lo sai vero che c’è bisogno di
tante cose!? Esme? Carlisle?
Vi stanno dando una mano? E Charlie? Ha tolto il gesso oggi? Hai fatto
l’ecografia? È bella la bambina? Oh…
sicuramente sarà bellissima…».
Sorrisi, vedendo Edward comparire
davanti a me, e
lasciando che mia madre continuasse con la sua serie di domande
insensate. Feci
una smorfia, sollevando gli occhi al cielo, e fui contenta di vederlo
sorridere. Potevo essere certa che quel sorriso fosse autentico, e
considerando
la paura che avevo di vederlo nei suoi momenti tristi, tentavo in ogni
modo di saziarmi
di quelli felici.
«Bella! Vieni qui, devo
finire con te!» mi chiamò
Alice dalla nostra camera da letto.
Edward mi sorrise, porgendomi una
mano con la chiara
intenzione di farsi passare la cornetta.
Mimai un “grazie”
con le labbra prima di passargliela e lasciargli un bacio leggero.
Era arrivato il grande e atteso
giorno di Halloween.
Come promesso a mio padre, saremmo andati alla festa in paese. Subito
dopo aver
accettato, avevo notato in Edward una certa tensione a quella
prospettiva, come
se per un attimo la tristezza che mi era parso di vedere fosse
riemersa, libera
dal suo controllo. Al contrario, io, avevo le idee ben chiare. Avevo
già
chiesto ad Alice, quando mi aveva costretta ad andare insieme a fare
shopping
per la bambina, di dividere sostanzialmente in due tipologie gli abiti
che
avrebbe dovuto acquistare per me.
Quelli da mettere in
università, decisamente sobri e
che nascondessero quanto più la mia pancia, considerando che
fino all’ultimo
avrei voluto mantenere il segreto, come d’altronde avevo
già fatto con Amber e
il professor Philip.
Gli altri, invece, che urlassero quanto fossi incinta e orgogliosa di
essere mamma. Beh, quasi
mamma. In sostanza, volevo sfoggiare la mia piccola pancia, il mio seno
grosso
e il mio smisurato sedere in modo che nessuno avesse di che parlarmi
alle
spalle.
«Alice! Ma cosa mi hai
messo?» chiesi, osservandomi
allo specchio.
Lei batté un piede a
terra, sbuffando. «Sei
semplicemente deliziosa. Mi hai detto che doveva vedersi la pancia!
Beh, si
vede! Non è colpa mia se era troppo piccola
perché potesse notarsi, l’ho dovuta
mettere in risalto!».
Rotei gli occhi al cielo, uscendo
infastidita dalla
stanza.
Notai perfettamente Edward, appena
dietro la penisola
della cucina, soffocare una risata sotto i baffi non appena mi vide.
Gli indirizzai un dito contro.
«Smettila» lo
minacciai, puntando i piedi a terra.
A quel punto scoppiò in
una fragorosa risata, seguita
da una folata di vento e un baciamano. «Tesoro,
sei…» strinse le labbra,
contraendole per non ridere ancora «deliziosa».
Lo fissai di sottecchi.
«Sembro una meringa formato
gigante» protestai poi, stizzita, osservando
com’ero vestita. Avevo dei
semplici e comodi jeans, su mia richiesta, e fin qui tutto bene. Le
scarpe si
poteva dire fossero simili a delle pantofole e sarebbero state perfette
se non
fosse stato per gli enormi pon
pon
che vi troneggiavano sopra! E poi, la maglietta… era
così ridicola!
Edward infilò una mano
sotto l’enorme quantità di
tulle, arrivando fino all’elastico che mi stringeva sotto il
seno dando alla
maglia uno “stile impero”.
«Questa
maglietta è perfetta per accarezzare la
bambina…» sussurrò con un sorriso.
«I
jeans ti sono sempre piaciuti e le scarpe sono comodissime».
«E che mi dici del
fermacapelli?».
Nuovamente, sul suo viso apparve la
smorfia curiosa
che faceva quando tentava di non lasciarsi andare alle risate.
«Bella, è
Halloween! Chi vuoi che noti un cerchietto pieno di piume, glitter
e… strass!?».
«Già, chi vuoi
che lo noti?» chiese Alice, comparendo
in un lampo davanti a me. Sentii in un istante le mani fredde sulle mie
guance
e il sapore amarognolo del rossetto sulle labbra. «Un bacio,
ci vediamo
piccioncini!».
Non appena realizzai, con il mio
lento cervello umano,
quello che era avvenuto, mi voltai, intontita, verso lo specchio.
«Alice!
Somiglio a un vampiro alla luce del sole! Erano proprio necessari i brillantin-» mi
bloccai, voltandomi verso Edward e
scoppiando a ridere.
Lui sbuffò, togliendosi
il cerchietto con le antenne
da grillo parlante.
«E no mio caro! Io sono
la fatina e tu sei il grillo,
avanti, su, indossa il tuo costume!».
«Non ci penso
neppure» disse scappando via in una
risata.
Provai ad afferrarlo, ma,
ovviamente, mi ritrovai con
un pugno di mosche in mano. «Vampiri» sibilai.
Fortunatamente, mentre lui era
troppo impegnato a fare
a pezzi se sue antenne verdi, potei liberamente attingere alle
caramelle
destinate ai bambini che avrebbero bussato alla nostra porta. Non che
realmente
credessi che dei bambini potessero spingersi così lontano
dal paese. Nessuno
avrebbe ammirato le meravigliose candele realizzate con amore da Esme e
Rosalie
con delle zucche. Di sicuro erano le più belle in
circolazione.
Sentii il campanello suonare,
così mi affettai a
nascondere il corpo del reato. Forse avevo mangiato un po’
troppe caramelle.
Appena dieci minuti dopo, durante
un breve viaggio in
macchina in cui non feci altro che protestare per il fatto che fossi
l’unica
travestita da qualcosa, realizzai che eravamo quasi arrivati in paese.
Bloccai
le mie lamentele, voltandomi a fissare Edward.
Notai immediatamente il silenzio.
Non silenzio nel
senso assoluto, considerando che Rosalie e
Emmett, sul
sedile posteriore della Aston Martin, continuavano a chiacchierare
animatamente.
Edward guidava, concentrato sulla
strada. Ad un
qualsiasi umano sarebbe risultato normale, considerando la nebbia fitta
che impediva
la visuale e del pericolo che si correva a causa delle foglie umide e
scivolose, ovunque sull’asfalto. Ma lui non aveva certo
bisogno di concentrasi,
grazie ai suoi sensi super sviluppati da vampiro.
Posai, timorosa, una mano sulla
manica del suo
giaccone.
Si voltò, scattando,
verso di me, come se l’avessi
colto di sorpresa.
Corrugai le sopracciglia.
«Tutto bene?».
Lui mi sorrise, distendendo
immediatamente la sua
espressione. Notai che ora anche Rosalie e
Emmett
stavano ora in silenzio. «Certo».
Annuii, voltando lo sguardo verso
il finestrino. Ero
stata così certa del fatto che rincontrare da vicino gli
abitanti di Forks non
mi avrebbe causato alcun problema, che non mi ero affatto posta il
problema di
Edward. Accidenti, com’ero stata sciocca! Ma non avevo potuto
minimamente
pensare che si preoccupasse di quello che pensava la gente. E
tutt’ora pensavo
che per lui non fosse così importante.
«Edward» feci
una pausa, voltandomi verso di lui «non
è necessario che ci andiamo. Se non ti
va…».
«Ma no Bella, cosa
dici» mi sorrise, ma sapevo
perfettamente, per quanto fosse un ottimo attore, che quel suo sorriso
non era
affatto autentico.
«Bellina, non puoi far
saltare tutto all’aria, il
folletto ti ammazzerebbe!» scherzò Emmett tirando
scherzosamente un pugno sulla
spalla di Edward.
«È
vero» aggiunse Rosalie, con la sua voce composta
«millantava le sue doti di truccatrice e costumista, ci
rimarrebbe molto male».
Io non scostai i miei occhi da
Edward, nuovamente
concentrato sulla strada.
Emmett rise. «E poi siamo
arrivati!».
Vidi le lunghe dita bianche,
splendenti nell’oscurità
della sera, stringersi attorno al volante.
Rosalie e
Emmett scesero
immediatamente dall’auto, forse per fretta, forse, per
lasciarci un po’ soli.
Col cuore che mi batteva veloce per
la preoccupazione,
mi avvicinai a Edward, sentendo i sedili in pelle scricchiolare sotto
di me. Gli
posai una mano sulla guancia marmorea, fissandolo nei suoi profondi e
meravigliosi occhi ambrati. «Edward, possiamo tornare a casa.
Non mi importa di
questa festa e poi» abbassai lo sguardo «sono anche
stanca, tutto il giorno
nelle mani di tua sorella» tentai di sdrammatizzare.
Vidi, con la coda
dell’occhio, la sua mascella
contrarsi.
Sentii il cuore battere velocissimo
nel petto, mentre
il silenzio sordo si spandeva fra noi. Avevo dannatamente paura per i
miliardi
di pensieri che, contemporaneamente, potevano affollare la sua mente da
vampiro.
Quando, dopo un tempo infinito,
spostò il suo sguardo
cercando il mio, aveva un’espressione perfettamente serena.
«Charlie ci sta
aspettando, ma non sono ancora disposto a lasciarti andare».
Lo fissai, attendendo che
continuasse, o che magari
cominciasse a spiegarmi il motivo del suo comportamento.
«Prima voglio un bacio da
mia moglie. Posso?» chiese,
posando una mano sulla mia nuca e avvicinandomi a sé.
Annuii, sospirando e rinunciando a
qualsiasi tipo di
spiegazione.
«Bella, Edward! Siete
arrivati finalmente!» esclamò
mio padre venendoci incontro in un’originalissima divisa da
sceriffo d’altri
tempi.
Smisi di guardarmi intorno,
distogliendo con
disinteresse l’attenzione da tutti gli occhi curiosi, puntati
su di me. Strinsi
più forte la mano di Edward, che, sereno, fece passare un
braccio intorno alla
mia vita, stringendomi a sé. «Ciao
papà, come stai? Sei un figurino».
«Non sono mai stato
meglio. Una liberazione» disse,
indicando la sua gamba senza il gesso.
«Buonasera
Charlie» salutò cordiale mio marito. Poi mi
sorrise, accarezzandomi una guancia bollente e rossa a causa dello
sbalzo di
temperatura fra l’esterno e l’aria riscaldata del
centro comunitario di Forks. «Vuoi
dare a me?» chiese, indicando il mio giaccone.
Lo ringraziai, voltandomi di
schiena in modo che mi
sfilasse con galanteria l’indumento.
Se fino ad un istante prima avevo
costantemente
percepito l’occhio inquisitore di tutti posato su di me, non
appena videro
l’evidenza dei fatti potei distintamente sentire un malcelato
“Ohhh!”.
Sorrisi, soddisfatta, voltandomi
verso Edward e
trovando la sua espressione tranquilla.
All’inizio restammo
perlopiù con mio padre, in
disparte, seduti su alcune sedie addossate in un angolo della grande
sala. Beh,
“grande” era un’esagerazione in confronto
all’ampiezza a cui ero abituata.
Fu una piacevolissima sorpresa
rivedere i volti di
Angela e Ben, buffamente travestiti da Alchimista e Pietra filosofale.
Sì,
pietra filosofale. Infatti
Angela era completamente
avvolta in un vestito ambra lucente. «Bella! Aspetti un
bambino?» chiese con
gli occhi sgranati, saettando con lo sguardo fra il mio viso e la
pancia, su
cui stava posata la mia mano intrecciata a quella di Edward.
Sorrisi. «Sì,
è una femminuccia, nascerà a maggio»
spiegai velocemente.
L’entusiasmo che
dimostrò alla notizia fu palesemente
sincero. Mi raccontò con serenità della sua vita
con Ben, al college, di come
stavano andando gli studi. Parlava generalmente con me, in naturale
disagio nei
confronti di Edward. «Bella» disse infine, a bassa
voce e con discrezione,
prendendomi le mani fra le sue e sedendosi accanto a me. «Mi
dispiace
tantissimo per… quello che è successo. Sono stata
molto in pena per te» mormorò
timorosa, ma sincera. «Ho provato, ogni tanto, a chiamarti.
Ma» il suo sguardo
saettò per un istante su Edward «non sono mai
riuscita a parlarti».
Sorrisi, stringendo le sue mani.
«È stato un brutto
periodo, purtroppo. Ma ora è passato, ed è questo
l’importante».
«Ho portato qualcosa da
bere!» esclamò Ben, tornando
con quattro bicchieri di ponce.
Edward storse in naso.
«Credo sia decisamente
corretto. Penso ci sia più alcol che ponce. - Sono astemio,
sento subito
l’odore dell’alcol», aggiunse, a
beneficio delle loro facce dubbiose. Ovviamente
cedettero subito al tono suadente di Edward.
«Mi dispiace Ben, ma non
posso bere alcolici» mi
scusai, alzandomi in piedi e prendendo Edward per mano. «Noi
andiamo a fare un
giro, mi ha fatto piacere vedervi, ci vediamo!» salutai
contenta.
Mi lasciai convincere da Edward a
ballare per un po’.
In verità ero partita da casa con l’originale
intenzione di non demordere, ma
vedendolo nuovamente felice e sereno non ebbi il coraggio di fare
qualcosa che
lo potesse rattristare.
«Mi spieghi una
cosa?» mi chiese, facendomi
volteggiare.
«Cosa?».
Mi guardò fisso negli
occhi, con un sorrisetto. «Tu,
prima di sposarci, mi hai fatto penare per convincere tutti del fatto
che non
fossi incinta, tirando fuori strane teorie su fantomatici “sguardi”. Ora invece lo urli
alla tua vicina e chiedi ad Alice di
fare in modo che si veda la tua pancia?» chiese sinceramente
confuso.
Arrossii, mordicchiandomi un labbro
e continuando a
dondolarmi, appesa alle sue spalle. «Ora sono orgogliosa di
mia figlia. Una
donna può sempre cambiare idea. È… non
c’è una spiegazione Edward» dissi,
facendo una smorfia «è così e
basta».
Sorrise. «E’
così e basta».
Parlai con molte altre persone di
Forks. Colleghi di
mio padre, amici, conoscenti. Anche Jessica e Mike - vestiti da Jessica
e Roger
Rabbit -, già
a conoscenza del pettegolezzo, non
persero occasione per fare riferimenti più o meno celati.
Non fui del tutto
certa della sincerità delle loro congratulazioni, ma le
accettai comunque di
buon grado.
Mi sembrava che
l’atmosfera fosse molto meno tesa
rispetto a quando eravamo arrivati, e ne ero compiaciuta. Oltre che a
Rosalie e Emmett si
aggiunsero, nel corso della serata, Alice e
Jasper e poi Carlisle con Esme. Ero perfettamente tranquilla con loro
accanto e
mi sembrò che anche Edward sciogliesse definitivamente la
sua tensione. Risi,
spensierata, vedendo Rose e
Emmett dare spettacolo con
un “bacio alla mela”.
«Bella, tesoro, sei un
incanto» si complimentò Esme.
Sorrisi, arrossendo.
«Grazie». Poi mi guardai attorno,
sospettosa. «Sai dov’è
Edward?».
Lei mi sorrise gentile.
«Credo stia parlando con
Carlisle».
«Oh» mormorai
«capisco». Mi persi nuovamente con lo
sguardo nella sala, accarezzandomi la pancia. Sentii un senso di
fastidio
nascere prepotente. Ormai avevo acquisito una certa abilità
nel distinguere le
emozioni della bambina dalle mie. «Esme» chiamai,
voltandomi verso il suo
sguardo cortese e attento «io esco un po’ fuori,
credo che la bambina sia
irritata».
Le sue sopracciglia delicate si
incontrarono un
attimo. «Va tutto bene? Vuoi che venga con te?» mi
chiese calma.
Sorrisi, alzandomi i piedi.
«No, non ti preoccupare.
Credo che per lei ci sia troppo caldo qui dentro, oppure non le piace
l’effetto
che mi fa la musica».
«Va bene»
concesse, seppur titubante.
Uscii fuori dalla grande sala,
prendendo delle boccate
d’aria all’esterno e lasciandomi rassicurare dal
freddo. Rabbrividii,
stringendomi nelle spalle e sentendo un moto di serenità
invadermi da dentro.
Si era già tranquillizzata.
L’aria era
così umida e densa che si potevano vedere
le goccioline sospese per aria, e il forte vento riusciva a far
sollevare le
foglioline appiccicaticce e muovere l’acqua in viso come una
frusta gelata.
Chiusi gli occhi. Ero
così in pace, mi trovavo a mio
agio nel vento freddo e turbinoso che faceva sollevare i veli della mia
maglietta e rabbrividire anche la bambina.
Quando li riaprii, però,
notai qualcosa che fino ad
allora i miei occhi non avevano colto. Sentii il cuore cominciare a
galoppare
nel petto, mentre il respiro veniva smorzato dalla paura e
dall’adrenalina che
mi correva in corpo. Fra le fronde nere e lontane degli alberi vidi le montagne nere muoversi.
Ansimai, terrorizzata, mentre diverse paia di occhi
lucenti si rivelavano al mio sguardo, troppo in alto per
un’altezza umana.
Sobbalzai, sentendo delle mani
afferrarmi saldamente
alle spalle. Mi ritrovai in pochi secondi, con il respiro ancora
accelerato e
una folle paura del cuore, stretta nella salda presa di Edward, che
camminando
velocemente mi riportava nel salone.
Le voci di tutte le persone mi
parvero sorde e
confuse, eppure tranquille, troppo poco importanti per capire cosa
stesse
accadendo. Vidi Esme avvicinarsi a noi, stringendomi per il fianco non
occupato
da Edward. Rosalie, Jasper e
Emmett uscirono con
discrezione, allontanandosi dalla folla. Alice e Carlisle parlavano con
mio
padre, appena sotto il palco.
«Saluta tuo
padre» mi disse Edward, a bassa voce,
avvicinandosi al mio orecchio «velocemente, di’ che
andiamo via, non ti senti
bene».
Carlisle e Alice si allontanarono,
uscendo. Non
riuscii a chiedermi il motivo dell’ordine di Edward, la mia
mente umana stava
elaborando tutto quello che stava accadendo troppo lentamente.
Mi ritrovai davanti a Charlie, che
mi fissava
preoccupato. Mentire non avrebbe dovuto essere così
difficile. «P…papà» sentii
la presa di Edward rafforzarsi e i suoi occhi lanciarmi
un’occhiata di
incoraggiamento. «Noi andiamo via» sussurrai,
tentando di nascondere il tremore
nella voce.
Il suo sguardo si fece ancor
più apprensivo. «È
successo qualcosa?».
Ansimai, ponendomi
anch’io la stessa domanda. Cos’era
successo? Mi voltai in cerca di aiuto, o magari una risposta, verso
Edward, che
fissava il vuoto, immobile. Era teso e preoccupato. Mi voltai, non
sapendo cosa
dire, verso mio padre, leggendo la sua espressione sempre
più ansiosa e
sospettosa.
«Bella non si sente molto
bene» intervenne Esme, con
tono perfettamente controllato e cortese «non credo sia
grave, forse si è
stancata troppo» un sorriso «sarà
comunque meglio andare a casa».
Ovviamente mio padre
acconsentì immediatamente, anzi,
ci invitò lui stesso ad andar via. Velocemente mi ritrovai
all’esterno, con
addosso il giaccone e protetta su entrambi i lati da Esme e Edward. Non
potei
fare a meno di lanciare un’occhiata alle nere fronde erbose
scosse dal vento.
Le montagne erano scomparse.
Non appena fummo lontani da ogni
sguardo, mi sentii
sollevare in aria e in un istante mi ritrovai sul sedile posteriore
dell’Aston
Martin, dove ci aspettavano anche Alice e Carlisle. Esme si sedette
accanto ad
Alice, sul sedile del passeggero.
«Vai» disse
solo Carlisle, un attimo prima che la
macchina partisse ad una folle velocità.
Edward abbandonò un
attimo la rigidità e la tensione
in cui era caduto. Si voltò verso di me, leggendo
chissà cosa sul mio viso. «Come
stai?» chiese, parlando per la prima volta negli ultimi
cinque minuti.
Tentai di ricompormi, umettandomi
le labbra per far
tornare una normale quantità di saliva nella bocca
completamente asciutta. «Sto
bene» mormorai, accarezzandomi la pancia,
«cosa» deglutii
«cos’è successo?».
Carlisle mi accarezzò la
fronte, con un’espressione
tranquilla. «Niente di troppo grave. I licantropi volevano
parlare con te,
dobbiamo capire che intenzioni avessero».
Mi zittii, stringendomi al petto di
Edward. Lasciai
che mi sollevasse e che mi posasse sulle sue gambe, facendomi
appoggiare la
testa nell’incavo del suo collo.
Da quando erano cominciate le serie
tensioni fra i
vampiri e i licantropi, a causa di Jacob, loro si erano sempre
dimostrati dalla
nostra parte, o quantomeno neutrali. Non avevamo trasgredito a nessuna
loro
legge. Io stessa ero stata a commettere
l’omicidio… Non un vampiro, un’umana. Di
cosa avrebbero potuto voler parlare?
Né io né gli
altri riuscivamo a trovare una soluzione.
Le variabili in gioco erano molteplici e i rischi alti. Dovevamo capire
come
poter agire.
«Non sono riuscito a
leggere bene i loro pensieri,
erano troppo distanti» disse Edward concitato, intrecciando
le dita e posandoci
su la fronte.
Esme gli posò una mano
sulla spalla. «Edward, potevano
avere delle buone intenzioni, non dobbiamo allarmarci così
tanto».
Finii di bere la mia camomilla e
andai a sedermi
accanto a mio marito, sul divano. Gli accarezzai i morbidi capelli
ramati,
tentando di rassicurarlo.
Rosalie, compostamente seduta sulle
gambe di Emmett,
non la pensava allo stesso modo. «Mi chiedo, se non avessero
avuto cattive
intenzioni, perché presentarsi in forma di lupo? E
perché si sono avvicinati
mentre lei era sola, senza nessuno di noi accanto?».
«Forse perché
avevano paura di una nostra reazione
esagerata, come di fatto è stata, non pensate?»
chiese Alice.
Sentii la testa Edward scattare,
appena sotto la mia
mano. «Non è stata affatto esagerata, Alice. Era
sola. Ti rendi conto? Non possiamo
permetterci nessuna negligenza, non
finché non sappiamo cosa vogliono»
sbottò.
Alice strinse i denti, serrando i
pugni lungo i
fianchi. «Pensi che non mi sia preoccupata anch’io
per lei? Edward! Andiamo,
non sono io quella che ha delle reazioni esagerate!».
Edward si alzò in piedi,
fulminandola con lo sguardo.
Non l’avevo mai visto così. Jasper si mise subito
fra sua moglie e Edward in
posizione di difesa.
Mi sollevai anch’io,
troppo lenta per la loro velocità
inumana, posando una mano sul petto di Edward con l’intento
di farlo calmare e
costringerlo a sedersi.
«Ragazzi, manteniamo la
calma» li ammonì Carlisle, con
tono misurato.
Alice si allontanò, con
Jasper, fino a trovarsi
nuovamente di fronte al camino, e Edward finalmente cedette ai miei
deboli
tentativi, stringendomi a sé e facendomi sedere nella sua
presa protettiva sul
divano.
Carlisle riprese a parlare.
«Non è successo nulla di
grave, e poi Edward, per quello che hai potuto capire, volevano solo
parlarle,
giusto?».
Suo malgrado Edward
annuì, silenzioso.
«Bene, proviamo a
parlarci, non è il caso di
allarmarsi. Potrebbero spiegarci e comprendere quello che sta
accedendo. È comunque
palese che non avessero cattive intenzioni. Non
c’è motivo di creare tensioni,
se avessero voluto, sola com’era, non ci avrebbero messo
nulla a farle del male».
Sentii la presa di Edward
stringersi maggiormente.
«Rimane però
il fatto che non può andare
all’università finché non avremo con
precisione compreso le loro intenzioni»
disse Jasper.
«No» mormorai, sconsolata.
Gli occhi di tutti i vampiri si
spostarono in un
attimo su di me.
Sospirai, sentendomi tanto una
piccola bambina
immatura che faceva i capricci. Abbassai lo sguardo. «Mi
dispiace».
«Oh, avanti!»
esclamò Emmett con il suo gran vocione.
«Non può mica un branco di licantropi tenere la
nostra Mascotte segregata in
casa! Usate il cervello! Non le faranno mai del male in
pubblico».
Edward fece per parlare, ma Alice
lo bloccò. «Emmett
ha ragione, Edward. I licantropi non si avvicineranno mai a lei
finché è fra
gli umani; il loro più potente istinto è
difenderli. E uno di noi rimarrà
sempre nei paraggi per sicurezza».
Timorosa, sollevai lo sguardo su
Edward, aspettandomi
che iniziasse una nuova sfuriata.
«Va bene»
concesse, stupendomi. «Ma risolviamo questa
storia, il più presto possibile».
Mi tolsi, stanca, la maglietta,
osservando silenziosa
il mio ombelico. Ripensai alla scarica di adrenalina che avevo provato
poche
ore prima. Chissà se anche la bambina l’aveva
avvertita. Ripensandoci, era da
allora che non si faceva nettamente sentire.
Posai una mano sul ventre, facendo
una leggera
pressione. «Piccola? Ci sei?» chiamai in un
sussurro. Accarezzai la pancia,
massaggiandola in attesa di una qualunque risposta e mi preoccupai
quando non
arrivò.
«Tutto bene?»
chiese Edward, entrando in camera.
«Non so»
mormorai preoccupata, alzando lo sguardo. «La
bambina, non sento le sue emozioni».
In un attimo fu davanti a me,
accarezzandomi la
pancia.
Non sentii ancora nessuna risposta.
Eppure
era sempre felice quando Edward l’accarezzava!
«Non ti
preoccupare» mi rassicurò, vedendo la mia
espressione ansiosa e le lacrime al bordo dei miei occhi.
«Adesso chiamiamo
Carlisle, okay?» disse, accarezzandomi il volto.
Annuii, tirando su con il naso.
Carlisle mi visitò,
misurò la pressione, sentì i
battiti della bambina. Edward era accanto a me, sul letto,
accarezzandomi e tentando
di farmi stare tranquilla.
«È tutto
apposto» mi rassicurò infine Carlisle, quando
ebbe finito di visitarmi.
Edward mi aiutò a
mettermi a sedere, passandomi poi la
maglietta del pigiama.
«Il suo cuore batte forte
e sta bene. Penso che per un
po’ non si farà sentire con le sue emozioni
perché tu l’hai inibita con le tue»
mi spiegò cortese, rimettendo a posto lo stetoscopio nella
sua borsa «l’adrenalina
non piace ai bambini. Rilassati, riposa questa notte, e vedrai che
ricomincerai
a sentire le sue emozioni».
«Grazie»
sussurrai, posando la testa sulla spalla di
Edward.
Lui lanciò
un’occhiata al figlio, poi mi sorrise,
prese la borsa e uscì, raggiungendo il resto della famiglia.
Chiusi gli occhi. Avevo un forte
timore. E non per i
licantropi. Nonostante la mia prima emozione, dopo averli visti, fosse
stata la
paura, ragionando a mente fredda avevo realizzato che per me non
costituivano
una minaccia. Sam, così ligio al rispetto delle regole, Quil,
Embry, Seth, il piccolo
e astuto Seth. Non mi
avrebbero mai fatto del male, anche dopo tutto quello che era successo,
ne ero
sicura. Più che altro, ora, provavo solo la
curiosità di scoprire cosa, di
tanto importante, volessero dirmi.
La paura invece era tutta dedicata
alla piccola e a
Edward.
A lei per quella assenza di
emozioni. A Edward… per la
paura che era emersa subitaneamente in lui. Infatti, nonostante fosse
molto
ansioso e premuroso nei miei confronti, solitamente, almeno di fronte a
me,
riusciva a mantenere il sangue freddo necessario e a nascondere il suo
tormento.
«Alice ha
ragione» disse tranquillo, continuando ad
accarezzarmi i capelli e distogliendomi dai miei pensieri.
«Su cosa?»
chiesi confusa.
«Sul fatto che i
licantropi non ti farebbero del
male».
Mi immobilizzai, voltandomi per
fissarlo negli occhi
chiari. «Lo dici per farmi stare tranquilla? Edward, davvero,
non ce n’è
bisogno, io non ho paura di loro. Non c’è bisogno
di mentirmi».
Sul suo volto spuntò un
sorriso divertito. «Cosa ti fa
pensare che io stia mentendo? Dico sul serio Bella»
l’umorismo scomparve, «mi
dispiace di aver avuto quella reazione esagerata, i loro pensieri mi
sono sin
da subito sembrati tranquilli. Ma…».
«Ma?» lo
spronai a continuare.
Sospirò, stringendomi
forte far le sue braccia, molto
più di quanto, spesso, si era concesso di fare.
«Non voglio perderti» mormorò
assente.
Mi lasciai stringere, senza dire
nulla. Quando le mie
labbra si trovarono a contatto col suo collo bianco e freddo ne
approfittarono
per lasciare una scia di baci. In fondo non ero poi così
stanca, e quello
sarebbe stato un ottimo modo per allontanare la tensione, sia mia che
di Edward…
Continuai a baciarlo, con sempre maggior impeto, sulle labbra,
chiarendo le mie
intenzioni. Inoltre, sempre per una serie di infiniti e futilissimi
motivi, era
così tanto tempo che non facevamo
l’amore…
I miei polsi, che fino a pochi
istanti prima erano
poggiati fra i suoi capelli, si trovarono stretti nella presa della sua
mano.
«Bella»
ansimò «c’è tutta la mia
famiglia di là».
Ricominciai a baciarlo con foga,
ridacchiando. «Cosa
importa? La stanza è completamente insonorizzata».
Si staccò nuovamente.
«E se entrasse Emmett?».
Mugolai, aprendogli i primi bottoni
della camicia.
«Alice non glielo lascerebbe mai fare» mormorai
inarcandomi, a cavalcioni su di
lui.
«Bella».
Mi staccai, stupita. Per un istante
pensai a tutti gli
altri casi in cui, per un motivo o per l’altro…
Che pensiero sciocco. Non poteva
essere così.
«O-okay» feci,
titubante, sollevandomi e indossando i
pantaloni del pigiama. «Vado dagli altri» dissi,
guardandomi intorno. Lo fissai
un’ultima volta, seduto compostamente sul letto con
un’espressione serena.
Eppure… No. Non poteva
essere.
Sentii la bambina, curiosa e
sospettosa quanto me.