Un salve particolarmente lieto oggi, visto che questa fanfiction svetta fra le
storie scelte di questa sezione insieme, fra le altre, a
Prometheus di Bael, che ho letto con immenso piacere e ansia.
Dunque, ringrazio coloro che hanno reso possibile tale evento, ossia Mote_Ely e
Bael.
Sono lieta che Atari sia così attratta dalla mia storia e, soprattutto, che si
immedesimi in Martino, perché è proprio questo che mi preme, ossia: io desidero
davvero che lo capiate, che non crediate precipitoso il suo giudizio –
l’immedesimazione è qualcosa di diverso e ambiguo, merita altri tipi di
trattazione.
Rivolgo la stessa gratitudine a Mote_Ely, con l’aggiunta di qualche dettaglio:
mi rallegra che la mia storia accenda in te questo tipo di suggestioni, però ti
consiglio di non fare troppo affidamento su questa fonte. Intendo dire che una
storia può, sì, avere un’utilità ed è compito del lettore cercarla – se c’è – o
desumerla in qualche modo; la mia storia ti ispira e mi fa piacere, lo ripeto,
però sarei felice se ti piacesse solo perché… è lei, per la vicenda in sé, per
la sua identità di storia. Non so se sono stata chiara, ma, comunque, tu sola
sai in che modo ti aggrada questa storia e io ne accetto qualsiasi variante,
quindi ti ringrazio. Quanto a Bael, sì, Martino è davvero buffo, un po’
disadattato anche lui, in realtà. Insomma, non solo i tipi seriosi e
lungimiranti come Light possono spassarsela, no? XD Mi dispiace che Mariagrazia
non ti sia piaciuta: vedi, in seguito si capirà che non è solo una ragazza
depressa, ipocrita e rancorosa. Emergerà sicuramente un suo lato differente
(neanch’io sono di parte). Infine, Susanna è adorabile, lo so bene –
capricciosità a parte XD.
Buona lettura.
Poison de Garce
Era viola e rettangolare, scivolò
sul banco come su una lastra di ghiaccio.
Comincia ad aspettare cn me il giorno +
importante della mia vita… Festeggiamo insieme il mio 17esimo compleanno! 19
giugno, ore 22, discoteca Poison De Garce, via Carlo Cattaneo 11/c, privet n° 2…
Ci divertiremo… Ilaria (:
Come se tutti i compleanni
precedenti, compreso quello, fossero stati festeggiati in funzione del
diciottesimo. Oh, Dio.
Stropicciai il più possibile il
cartoncino e me lo ficcai in tasca.
“Ehi, Ilaria ti ha dato l’invito?”,
mi domandò ansioso Aldo.
Annuii.
Mille irritanti pulsazioni al
diaframma mi avvertirono che ero agitato.
“E ci verrai al suo compleanno? La
discoteca è bellissima, è vicina alla Foresta di Mercadante, quindi è un po’
lontana, verso Bari, ma il padre di Ilaria è un autista di pullman, quindi
potrebbe anche…”
Te l’ho chiesto?!
“Il venti Alessandro ha la prova
scritta d’inglese e io devo accompagnarlo, non posso ritirarmi tardi.” Non avevo
affatto voglia di discutere, quindi utilizzai mio fratello come scusa: in
effetti, gli scritti degli esami di terza media sarebbero terminati il
diciannove, ma Aldo non avrebbe mai potuto saperlo.
“No, Marti’, devi venire
assolutamente!”. Francesco si materializzò alle mie spalle – me ne accorsi prima
con l’olfatto che con il resto dei sensi: l’odore di patatine marce mi fece
arricciare le labbra.
No.
Aspetta, no! Ti prego, non lo dire…
“Perché?”, domandò Aldo fingendosi
confuso e ridendo con le narici da toro.
No! No, è finita.
“Aldo, mi deludi! Perché… No
Martino, no party!”.
Oh mio Dio.
Fui assordato da un boato di risate,
che culminò in una bonaria manata di Francesco sulla mia spalla ricurva. Questa
trita battuta circolava dal primo anno delle superiori e mi perseguitava alla
vigilia di ogni ricorrenza, festa, sciopero, manifestazione e Santo Patrono di
Rotunno che fosse. A che serve ridere?
Tanto morirete tutti.
Fu folle pensarlo e, ciononostante,
ne fui estasiato. Risi a bocca chiusa, ma in modo sorprendentemente naturale.
Aldo mi fissava e rideva, per la
battuta di Francesco, supposi.
Io fissavo Aldo e ridevo, perché
sarebbe morto.
Altro che pullman e feste e
bicchierini di carta e pizzette e nubi di fumo e luci brillanti e malizia e
sesso mascherato da ingenuità.
Magari proprio lì morirai, mentre Khadija, per pietà, ti avrà consentito di
toccarle il culo, o mentre ti divertirai con Francesco nella gara di rutti o di
chi viene per ultimo durante una sega di gruppo, oppure mentre ti fai fare le
peggiori porcate nel pullman da…
Sì.
Sì sì sì!
Sì.
Sì, era perfetto:
Li uccido tutti insieme, autista compreso – tanto è il padre di Ilaria,
faccio un favore ai compagni di scuola dei suoi eventuali rampolli.
Ma sì, non è affatto male come idea: li prenderò tutti insieme, come polli. Sì.
Mentre la voce di Mariagrazia –
ipotizzai – squillava per l’aula, caricando e sparando duecento parole al
secondo, come una mitragliatrice di Call
of Duty, inceppandosi molto spesso, inspirai.
Non mi accorsi delle pozzanghere
tenebrose che ingrigivano l’asfalto, i coperchi dei tombini e le griglie della
fognatura, né dei flotti d’acqua ingurgitati dai canali di scolo sotto i
marciapiedi, ma di una cosa mi resi conto: ero pazzo a voler uccidere tutti i
miei compagni di classe. Pazzo e giusto.
***
Era viola e rettangolare, scivolò
sul mio banco come un insetto e mi colpì il mignolo con l’angolo appuntito.
Spiegazzai l’invito e lo scagliai
nell’astuccio.
“Che palle, un altro schifo di
festa”, sputai con una smorfia.
Mi guardai intorno: la professoressa
Rosangeli stava per interrogarmi, Ilaria saltellava di banco in banco per
distribuire gli inviti; il color prugna dell’extension che le pendeva dalla
tempia destra mi incantò.
“A-ah, infatti”, mormorò Khadija in
tono indolente.
“Ah, senti: se sono in difficoltà e
non hai niente da fare, potresti suggerirmi?”, le chiesi guardandola speranzosa.
I neon le schiarivano la pelle della fronte, mentre il collo sembrava di cuoio,
sfiorato appena dagli orecchini a mezzaluna che riflettevano l’ambiente
grigiastro.
“Sì sì, tranquilla”, sorrise.
“Ah, Khady, questo è per te!”,
squittì Ilaria sventolando un altro invito e mettendo in mostra il polsino rosso
con il disegno di una foglia di marijuana; si curvò sul banco di Khadija: fui
ipnotizzata dall’oscillare di una croce argentata e cosparsa di strass pendente
dal suo collo abbronzato.
“Grazie, tesoro!”, pigolò Khadija
con voce innaturalmente acuta. Si abbracciarono brevemente, sempre sorridenti, e
Ilaria tornò alla sua attività di distribuzione.
Khadija stracciò il bigliettino di
cartone e ne gettò i brandelli in cartella.
Mi venne voglia di dondolare con la
schiena avanti e indietro, come i pazzi di quel documentario sui manicomi che
avevamo visto durante un’assemblea di classe sotto costrizione della Gerardi.
Noia e monotonia intervallate da
guizzi istantanei, come spifferi d’aria, come spruzzi d’acqua salata, come
granelli di polvere in un occhio.
Ho diciassette anni e non ho ancora baciato nessuno e ogni secondo sento la
possibilità che ciò avvenga sfilare via, come in processione, e posso contare i
secondi che trapassano fra le mie dita e mi sembra che quelle degli altri siano
ricoperte di colla, perché per loro il tempo non passa mai, i secondi cadono
frusciando solo quando sono secchi e inservibili.
I miei precipitavano vergini,
tintinnavano come monete in un pozzo asciutto.
Fissai Khadija attraverso la mano
aperta a ventaglio: stava guardando verso la fila destra della classe, dove Aldo
stava salendo in piedi sulla sedia e Martino sfogliava, svogliato, un libro.
“Però potrei andare al compleanno di
Ilaria, solo per divertirmi con Aldo”, sussurrò Khadija senza voltarsi verso di
me, ma focalizzandosi sulla copertina del libro d’inglese.
“Per provocarlo?”. Risi a bassa voce
– non che le sue aspettative fossero così divertenti.
Non rispose: era ovvio.
Che domanda stupida.
Mi accarezzai il ciuffo di capelli
imprigionato dietro l’orecchio e sentii il viso caldo.
Potrei essere io, potrei essere io Aldo. Non è che ci sia poi tutta questa
differenza. Non posso permetterle di trattarlo così.
Già, sarei potuta essere io Aldo: il
solito pensiero insulso, perché mi sentivo in colpa, perché, se qualcuno mi
avesse provocata e presa in giro come Khadija faceva con Aldo, io sarei
impazzita di rabbia. E dovevo fare qualcosa, questo pensavo; ma no, non avrei
fatto nulla, semplicemente nulla.
Tacemmo.
“Be’, Mary Grace, forza! Facciamo
questa interrogazione”. La Rosangeli si sedette sull’angolo della cattedra.
“Ragazzi, silenzio! Altrimenti vi
faccio passare tutta l’estate qua a scuola a studiare diritto
nippo-giamaicano!”. Quella battuta durava ormai da tre anni: tutti la
ignorarono.
La professoressa sospirò e il mento
le si divise in due palline ossute.
“So, talk
about the types of business and their features, okay?
Raga’, shut up, please! Vi boccio
tutti agli scrutini se non abbassate quelle voci starnazzanti che vi ritrovate!
E su, Aldo, stai seduto garbatamente, insomma!”
Urla, urla e battiti. Chiusi gli
occhi e sbuffai; l’aria calda appannò le lenti doppie degli occhiali.
“La vostra compagna è
all’interrogazione, state zitti o almeno prendete il materiale per la lezione…
Martino, dov’è il tuo libro d’inglese? Su, sveglia!”
***
Mi spaventai quando fui sicuro di
aver pronunciato ciò che stavo pensando.
Che cazzo vuoi, vecchia troia succhiacazzi?
Niente sguardi imbarazzati, niente
silenzio tombale, niente risolini timidi.
D’accordo, l’avevo solo pensato.
Il pullman.
Sì, il pullman: avevo deciso di
dargli fuoco, visto che le mie conoscenze quanto alla meccanica erano piuttosto
scarse – quindi manometterne i freni sarebbe risultato estremamente rischioso.
Quando?
Prima della festa, magari. Durante il tragitto.
Oppure no.
Sbuffai, ma ero felice.
Magari muoiono davvero.
Mi sarebbe passata, ne ero certo.
Anzi, meglio non fare nulla per
arginare quell’improvviso entusiasmo: avrebbe potuto generare uno scompiglio più
devastante – non che avessi una così alta considerazione della mia potenza. Ecco
un altro motivo per invidiare Light; sbuffai ancora, ma ero contento. Sì,
contento: non mi fidavo mai dei modelli, che fossero Gesù Cristo o Robin Hood,
erano tutti falsi, nessuno avrebbe potuto vivere senza trucidare il proprio
traditore o prelevare un bel gruzzoletto dal bottino per sistemarsi, comprarsi
un’armatura nuova o un cavallo più lucido e veloce, magari.
Light non era mai stato un esempio
per me – Dio, non sono mica diventato uno
“studente modello” da quando lo conosco. Era solo un personaggio
estremamente umano, con le sue ipocrisie e le sue esaltazioni, con qualche
vizietto, forse (megalomania a parte) e qualche ideale molto singolare. E
impulsivo.
Per attuare ciò che agognavo non era
sufficiente pensare come lui, né agire come lui, perché persino Light avrebbe
considerato incosciente e sbagliato sterminare la propria classe perché
fastidiosa e non fare assolutamente
nulla per non essere scoperto. Be’, espresso in quei termini sembrava davvero
insensato – e magari lo era – e lo sapevo – o forse no. Non aveva alcuna
importanza.
Mi sarebbe sicuramente passata.
Basta aspettare.
Intanto avrei dovuto informarmi
meglio sul luogo della festa e annotare tutti i passeggeri del pullman. Oh, a
proposito: e se non vi avessero partecipato tutti?
Quello sì che era un problema.
Potrei ucciderli uno alla volta, tipo
Saw – l’enigmista, in qualche modo… Magari
procurarsi una pistola non è così difficile. Che follia! No, non avrei fatto
altro che offrire alla polizia, o a chiunque avesse indagato sul caso, il mio
nome scritto in bella grafia sul registro degli indiziati.
No, niente scenario da film
psico-horror, con motoseghe, vergini di ferro, torchi e crocifissioni.
E, no, neanche impalamenti, chiarii.
Avrei potuto eliminare separatamente
coloro che non vi avrebbero partecipato.
Ah, no! Pessima idea, forse anche peggiore dell’altra. Ero confuso: fissai
una vignetta del mio diario senza leggerne il contenuto, mi carezzai la cima
della testa, tastando i miei corti capelli appuntiti e sondandone la
consistenza.
Cercare di imitare Light non mi
sarebbe servito a nulla: Sono più
insensato, motivato e stupido di lui, il confronto non regge. Devo pensare con
la mia testa. Cercai di ingoiare i cliché, i corpi estranei, i demoni, le
simulazioni, le voci, i mormormormormormormormorii…
D’accordo: con la mia testa.
Che cazzo faccio?
Ucciderli separatamente no, abbiamo detto… E neanche uno per uno. Ammettiamo
che… No, dunque… Chi potrebbe mancare?
Non impiegai molto a rifletterci.
Vidi la penna rotolare verso il
bordo del banco e la bloccai con una mano; iniziai a riempire i quadretti del
diario alternando, in modo da scarabocchiare una rozza scacchiera.
Sicuramente Susanna, Mariagrazia e
Pierpaolo non avrebbero partecipato alla festa – non l’avevano mai fatto e,
inoltre, ricordavo a fatica l’ultima occasione in cui avessi scorto Pierpaolo
fra i banchi di scuola, o in qualsiasi altro posto.
D’accordo, solo loro?
Forse Khadija, ma… Sarebbe disposta a
sprecare un pretesto per giocare con Aldo? Si trattava pur sempre di una
discoteca e, a quanto ricordavo, Khadija aveva sempre preso parte a quel tipo di
ricorrenze, almeno durante il biennio. Sì, ricordavo bene i suoi abiti stretti e
quell’aria da richiamo sessuale, come in un documentario di pessimo gusto, con
quegli odori così… così… nauseanti, se non si era fra le prede-pretendenti; non
che questo atteggiamento fosse una sua prerogativa: spesso io e Aldo avevamo
condiviso quelle cacce al tesoro che chiamavano
festicciole solo per prenderli tutti in giro sgranocchiando rustici
e salatini, seduti su sgabelli di plastica bianca accanto a tavoli imbanditi.
Deridevamo il loro bisogno di subordinarsi e arrogarsi il diritto di comandare,
i sorrisi di convenienza e gli occhi arrossati per un’umiliazione volontaria, le
litigiose scorribande notturne verso ciò che di più rivoltante c’era nella
perdizione; e le cosce nude fra i cuscini dei divanetti, le caviglie pelose, il
trucco sbavato, il sudore sotto le ascelle, l’incoscienza indotta, i litri di
alcool spavaldamente ingollati, le pasticche nascoste da unghie colorate e
scagliate sotto la lingua. E, oh, le lingue, tutte così profumate e disgustose.
Oleosi tovaglioli sulle tavole e bicchieri appiccicosi. Io e Aldo li deridevamo
tutti, tutti quanti: quelle erano le uniche feste che mi lasciassero totalmente
soddisfatto.
Già, al biennio.
Aldo.
Trascorsero parecchi secondi prima
che riuscissi a ricordare il soggetto vero
dei miei pensieri.
Ah, Susanna, Mariagrazia e l’Uomo Invisibile.
Era molto facile enumerare cosa non
potessi fare, ma non riuscivo a trovare, a capire a cosa mi potesse portare quel
ragionamento.
D’accordo, ammettiamo che sia sicuro che quei tre non vengano. Andiamo per
gradi: non partecipano, non muoiono.
Mi dispiaceva giungere a quella
conclusione: desideravo rimanere l’unico, veder morire anche loro tre, benché
non fossero ben integrati nella sporcizia dell’ambiente – non ancora e non
esageratamente, almeno.
Susanna e Mariagrazia erano stupide,
frivole e maliziose, donnette da nulla, né pericolose, né lodevoli. Non che
fosse un demerito – l’ignavia era anche una mia pecca e la riconoscevo, ma
individuarla negli altri mi seccava.
Pierpaolo… Mmh.
Chi cazzo è? Ricordavo solo che un cappello con la visiera gli
schiacciava sempre la fronte grassoccia, come se ne nascondesse i rotoli di
ciccia sotto il tessuto; durante il primo anno lo prendevano tutti in giro per i
suoi lobi enormi e pieni, per i foruncoli sulle tempie e sul collo – accadeva a
tutti di essere derisi per i motivi più improponibili, se la classe ne aveva
voglia. E ne aveva sempre. Frequentava le lezioni molto raramente – mi chiedevo
perché non l’avessero ancora bocciato – e ci eravamo rivolti la parola solo una
volta, quando ci incontrammo alla Fiera del Levante, nella Galleria delle
Nazioni. Mi aveva salutato con la manina grassottella e un insipido
Ehi, mentre un bimbo alle mie spalle mi spingeva rischiando di far
scoppiare il suo palloncino blu pieno di sabbia, che frusciava a tintinnava ad
ogni sballottamento.
OK, allora che ci faccio con questi tre?
Su Pierpaolo non avrei potuto
contare, decisamente: contattarlo era impossibile e inoltre… No, sarebbe stato
imbarazzante interpellarlo solo per
quello.
Sbuffai: avrei anche potuto…
Ma certo!
Sì, uniamo l’utile al dilettevole.
Era mio padre che esclamava sempre
quella frase? Pensarlo mi impressionò, chissà perché.
Non mi sarebbe dispiaciuto
poi così tanto lasciarle in vita.
Mi avrebbero aiutato; allora sì che
sarebbe stato tutto più semplice.
Sì.
Le avrei strattonate, spinte a forza
dalla mia parte, avrebbero collaborato con me – ero sicuro che lo volessero.
Sicurissimo.
E poi?
Tirai su col naso impercettibilmente
e cancellai i quadratini riempiti d’inchiostro con il bianchetto. Uno ad uno…
Anzi, tutti insieme, con una lunga striscia spezzata. Li spazzai via.
Come se non fossero mai esistiti.
Ucciderle a parte sarebbe sembrato
sospetto e, se avessero vissuto dopo la macellazione – aveva cominciato a
piacermi quella definizione –, forse mi avrebbero denunciato.
Avevano bisogno di una pesante dose
di violenza psicologica – non che io fossi particolarmente abile in quest’arte.
Ci avrei provato, quantomeno.
Voltai la testa verso Susanna e, un
banco più indietro, Mariagrazia.
Certo che è un bel rischio.
Susanna giocherellava con una gomma
squadrata e una matita consumatissima, immergendone la punta nella superficie
grigiastra della gomma; Mariagrazia spiegazzava la copertina del libro d’inglese
incespicando nelle proprie parole, roteando freneticamente lo sguardo e
dondolandosi lievemente sulla sedia. Ghignai.
Magari ucciderle non sarebbe così rischioso.
***
Era viola e rettangolare, scivolò
sul banco come uno schizzo di smalto, quello che colorava le mie unghie quel
giorno.
L’ultimo giorno di scuola.
Che palle, un po’ ero triste: mi
sarebbe mancato il casino durante le ore di lezione, il cazzeggio tutti insieme,
le ricreazioni passate a rincorrere Valerio Torzetti di quinta B e a scrivere in
bagno
Vale ti lovvooo!!!! Ti voglio scopare, ti amo ti amo ti amo
ti amoooooooo!
E tutte le mattinate passate a
cantare Per te quel che wale è tutto quel
che wale, per me quel che wale è quel che non sei Wale! Come cazzo avrei
fatto??? Proprio ora che Valerio mi aveva notata…
Sì, all’assemblea d’istituto, quando
abbiamo fatto il gioco della bottiglia in palestra, che Giovanni ha gonfiato un
preservativo e ci stavano giocando tutti, poi mi è andato sui capelli e mi sono
incazzata di brutto e Valerio ha detto che tanto ci stava bene sulla mia testa
di cazzo…
Che bella la camicia che aveva,
quella con le cuciture di fuori e le maniche a tre quarti… Era un po’ corta
dietro – o forse i pantaloni erano a vita bassa – e ogni volta che si sedeva si
vedeva tutto un pezzo di schiena, bella abbronzata…
Che cazzo, però, proprio ora doveva
finire la scuola?! Quanto ci siamo
divertiti quest’anno! Quando abbiamo fatto incazzare la Gerardi, che ci ha
mandati tutti dal preside? Bellissimo! E poi Claudia che, per far ingelosire
Vale, mi si strusciava contro insieme a Michele… Meno male che ne avremmo avuti
ancora due di anni così!
Sobbalzai quando sentii il cellulare
vibrare sotto il banco.
amò,stai sentendo la cozza?fra poko
skoppia!!! XD
Lessi il mittente: Alessia; era
seduta proprio dietro Mariagrazia Cozzaglia, o la cozza, come la chiamavamo noi.
Non avevo fatto caso al suo balbettante scroscio di parole.
Che cazzo, calmati un po’, se no ti viene un infarto!
sì,fra un pò skoppierà…xk è 1
skoppiata!!!ahahah :)
Premetti il pulsante centrale e
inviai il messaggio.
Non mi ero mai chiesta come fosse
trascorso l’anno per lei e Susanna: non me ne fregava niente. Insomma, avevano
scelto loro di vivere da emarginate, noi non avevamo fatto mica nulla: se
avessero voluto cambiare vita, l’avrebbero fatto, come Aldo.
Va be’, quello è solo un coglione che cerca di imitarci e non ci riesce…
E poi è orribile! Almeno prima aveva il fascino del complessato, ma ora neanche
quello!
Stavolta non sussultai quando vibrò
il telefonino.
XD XD XD ti lovvo trp! <3 prima qnd
sn andata in bagno ho visto valeee!stava poggiato alla porta della bidelleria e
parlava cn il rappr d’istituto,il fascista…kiedi a klaudia,lei ha sentito qll k
dicevano :P
Aaaah! Valerio era fuori dalla sua
classe! Avrei dovuto approfittare di quell’ultimo giorno, non sapevo se sarei
andata alla festa di Patrizia di quinta B… E se lui non fosse venuto? E se non
l’avessi visto per tutta l’estate? Scoppiai quasi a ridere:
Com’è strano fingere anche nella mia
mente…
“Prof, posso andare in bagno?”,
urlai per coprire i farfuglii di cozza. La Rosangeli indicò la porta appena con
un cenno e io mi alzai, facendo svolazzare la camicetta sui fianchi e
insinuandomi fra i banchi.
“Mariatere’, che vai a pisciare? Mi
prendi i taralli dal distributore? Quelli alla cipolla!”, mi strillò Francesco
nella confusione generale.
“No, devo andare a trovare
Valerio!”, esclamai. Scartai rapidamente il suo banco, sfiorandogli lievemente
le costole con i fianchi, come se fosse un gesto spontaneo. La sua manata fra le
gambe non fu affatto inaspettata.
“Vaffanculo! Perché non fai un po’
la troia con me invece che con quel ricchione?”, piagnucolò Francesco
gesticolando; la Rosangeli non ci ascoltava – o forse fingeva – ed era intenta a
prestare attenzione a Mariagrazia – o forse… fingeva.
Simulai sdegno e continuai ad
attraversare l’aula, veloce e impettita. Quasi giunta all’uscio, incrociai lo
sguardo di Martino e, cazzo, ero sicura di volergli rovesciare il banco e la
sedia e prenderlo a pugni. Non lo
sopporto, porca puttana! No, non mi aveva fatto alcun torto, però… Quella
sua pacatezza, quella sua barbetta che mi pungeva solo a guardarla, quelle sue
spalle curve e quella schiena inarcata…
Che nervi! Sembrava rovinare il paesaggio, come una merda di cane alle
Hawaii. Saremmo stati una classe perfetta senza di lui e senza quelle due
coglione.
Sulla porta mi voltai verso
Francesco e gli feci una linguaccia. “Valerio è molto più vinile di te!”,
strillai.
***
Forse, un giorno, Mariateresa
avrebbe capito che vinile non
significava mascolino; semmai virile.
Mi accorsi della pioggia solo quando
Savino sbraitò:
“Raga’, mi sa che i gavettoni vanno
a puttane!”
L’aria, prima stantia e pesante,
precipitò come piume di un cuscino scoppiato. Ne percepii quasi lo spostamento,
la caduta delicata e soffice.
Avevo impiegato il tempo necessario
per trasformare una pagina di diario in una scacchiera e poi imbiancarla
completamente solo per decidere se ammazzarle o no.
Il verdetto propendeva per il no, in
realtà: la loro utilità non era di secondaria importanza per la macellazione –
fui pervaso da mille ventose che mi risucchiavano l’aria dall’interno, come per
lasciare gli organi interni sottovuoto. Avrei pensato al modo in cui attrarle
verso di me.
Il mio unico problema, in quel
momento, era assistere all’ultima campanella senza prematuri spargimenti di
sangue.