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Autore: keska    06/12/2009    33 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Sbattei le palpebre, tentando di concentrarmi sulla lezione. Avevo già cominciato a pentirmi di aver voluto, a tutti i costi, riprendere gli studi. L’università era a dir poco stancante, e nonostante la psicoanalisi e gli esercizi fatti con Jasper avevo sempre la paura che la bambina potesse fare qualcosa che non avrei saputo gestire. E poi rimanere concentrata così a lungo e riuscire a fare qualcosa di produttivo, dopo aver abbandonato per diverso tempo, non era affatto semplice.

Edward mi aveva incoraggiato, senza forzarmi, a non mollare. Si era reso conto che ci tenevo e non voleva che sacrificassi tutti gli sforzi compiuti sino ad allora. D’altra parte, mi controllava perché non mi stancassi troppo. Era sempre così apprensivo…

Sospirai, rendendomi conto che la spiegazione era andata avanti ad un passo più veloce dei miei appunti. Saltai un paragrafo e ripresi dalle parole del professore, pensando che quello, ancora, era il primo giorno, e che non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Se non a me stessa.

In fondo a breve sarei stata trasformata in una vampira, sarei diventata madre… Perché mi ostinavo a voler continuare l’università?

Forse perché mi gratificava, perché mi faceva sentire qualcuno. Perché nella mia vita ero sempre stata abbastanza brava in “quello”, abbastanza dotata in “quell’altro”. Ma non avevo mai avuto la soddisfazione di sentire commenti positivi non accompagnati da aggettivi come “quasi, abbastanza, discretamente”. E, ad essere sincera, non avevo neppure cercato tali soddisfazioni finché non erano giunte.

Eppure, i miei pensieri, come da una settimana a quella parte, non potevano essere che per Edward. Le cose fra noi andavano bene. Molto. Troppo. Era tutto tanto perfetto, felice, sereno, pieno d’amore, nei sentimenti, quanto vuoto nella sfera… fisica.

Non appena la lezione, la seconda della giornata, finì, potei permettermi di smettere di pensare a mio marito e alla preoccupazione per il suo stato d’animo, schiacciata dalla confusione di studenti che si alzavano dai loro posto per cambiare aula. Mi recai, velocemente, nell’atrio, sollevata di avere un’ora buca. Lì trovai Amber.

Mi salutò calorosamente, abbracciandomi. Avevo indossato una felpa larga, con una zip sul davanti, che mascherava molto bene la piccola pancia. Ad un occhio inconsapevole potevo solo sembrare un po’ ingrassata. Così non fece alcun tipo di commento, anzi, mi invitò ad unirmi a lei.

«Stavo andando in biblioteca per poter organizzare gli appunti! Se vieni con me potrò darti delle dispense sulle lezioni che hai saltato, ti va?». Mi prese per mano, tirandomi verso di lei.

«Certo! Ti ringrazio». Sorrisi, seguendola.

L’ora successiva avremmo avuto lezione di “Conservazione delle opere”, che si svolgeva in biblioteca. Infine, l’ultima ora era quella di “Restauro”.

Amber si offrì di aiutarmi a comprendere dei concetti che, studiando sola a casa, non ero riuscita a schematizzare e utilizzare correttamente. Le sue spiegazioni erano semplici, ma chiare, e soprattutto fatte col chiaro intento di aiutarmi.

Sollevando lo sguardo dai suoi appunti mi parve di scorgere la figura del professor Philip che si affaccendava, con un’andatura troppo veloce per il suo gracile corpo, fra alcuni scaffali con vecchi libri impolverati. Rabbrividii, sentendo i sentimenti di disagio che provenivano dalla bambina. Decisi di non pensarci e risposi al richiamo di Amber, riprendendo a seguire i suoi discorsi.

Dopo mezz’ora avevo ricominciato a pensare che l’idea di riprendere l’università non era poi così pessima, e che sarei potuta riuscire nel mio intento.

«Vedi Bella? Queste sono le opere minori del Manierismo. Qui ci sono i ritratti, alcuni sono conservati nella galleria dell’accademia».

Mi sporsi per vedere oltre le sue dita paffute. «Quale dei tre dobbiamo riprodurre?».

«Questo, vedi?».

Mi alzai in piedi e feci il giro del tavolo, fino a trovarmi accanto a lei. Abbassai il capo sul libro.

Improvvisamente un fortissimo odore di profumo femminile mi fece contrarre lo stomaco. Sollevai di scatto la testa, in una necessaria e veloce ricerca dei bagni pubblici. Mi affrettai a raggiungere l’uscita di emergenza e, subito dopo, infilarmi oltre la porta marrone con il cartello “toilette”.

Le nausee erano sostanzialmente scomparse, ma ancora non riuscivo a sopportare determinati forti odori. Sentii la bambina confusa e disorientata, oltre che infastidita dalla situazione.

«Bella! Bella, cosa succede?» mi chiese Amber spaventata, entrando in bagno con il mio cappotto e la mia sciarpa.

«È tutto apposto Amber» sussurrai sciacquandomi la bocca e portando un po’ d’acqua alla fronte per rinfrescarmi. Ovviamente, ora, nel mio piano di discrezione si era aperta una notevole falla.

Lei, agitata, si avvicinò a me, accarezzandomi, scrutandomi, osservando con paura la mano che avevo portato alla pancia. «Cos’hai? Ti senti male? Cavolo! Non so che fare!». Si guardò attorno, ansiosa, in cerca di un qualunque aiuto.

«Calma, davvero» dissi, tentando di farla ricominciare a respirare normalmente. «Stai calma».

Le mi osservò, sofferente, preoccupata, per un attimo in silenzio. Sapevo, perché me l’aveva detto lei stessa, che Amber era una persona ansiosa e che si trovava sempre in difficoltà nelle situazioni di pericolo. Ma quello non era il momento migliore per far emergere la sua indole.

Pensai che mi avesse dato ascolto, ma i miei pensieri furono smentiti quando proruppe «Tu stai qui buona, calma, io chiamo Edward e ti faccio venire a prendere!». Cominciò a frugare nervosamente nella mia borsa.

«No!». Ebbi uno scatto veloce, fermando con determinazione le sue mani, che già avevano afferrato il mio cellulare. «Amber, no» dissi ancora «Stai ferma, ti prego, lascia che io ti spieghi» cominciai con persuasiva calma «Chiamare Edward è l’ultima cosa da fare. Ora, dammi quel telefono».

Osservò prima me, poi l’oggetto chiuso nella sua mano. Non so cosa vide nel mio volto, ma credo che decise di potersi fidare. Con lentezza mosse la mano, restituendomi il cellulare.

Sospirai di sollievo, riponendolo nella borsa e sciacquandomi le mani. Mi avviai verso il phon. «Amber, non sto male» dissi con un piccolo sorriso, facendole muovere sotto il soffio caldo e aspettando che si asciugassero.

Lei mi guardava con attenzione, mordendosi l’interno della guancia.

Mi girai verso di lei, a occhi bassi e rossa in viso. Lentamente, li alzai fino a scontrarmi con il suo viso di porcellana, le mani sul ventre. «Sono incinta» dissi d’un fiato.

Potei notare le sue morbide guance distendersi mentre la bocca le si apriva per lo stupore. Deglutì. «E-Edward lo sa?».

Proruppi in una breve risata. «Certo che lo sa» dissi, divertita, sollevando la maglietta e lasciando vedere la celabile, ma tuttavia ben visibile, pancia. «Sono più di quattro mesi ormai».

Dopo essersi ripresa mi fece i complimenti e mi disse, borbottando e arrossendo, di farli anche a Edward da parte sua. Il fatto che fosse venuta, già il primo giorno, a conoscenza del mio segreto, aveva notevolmente destabilizzato i miei piani. Cominciavo a pensare che nasconderlo agli altri non sarebbe stato così facile come pensavo, ma, forse, avendo un’amica a conoscenza del segreto, tutto avrebbe potuto essere più semplice.

Quando arrivammo in biblioteca la lezione era già cominciata. L’attempato professore ci ignorò completamente, permettendoci di inserirci fra le ultime file del gruppo. Estraeva tomi dagli scaffali come fossero fragili mucchi di polvere. E in effetti lo erano. Poi ne commentava il tipo di conservazione, come dovevano essere consultati e come fossero stati catalogati.

«Guardate là» disse ad un certo punto.

Tutte le teste degli studenti si spostarono contemporaneamente verso la direzione indicata dal suo dito.

«Ricordate sempre, polvere non vuol dire antico, né di valore. Prendetemi uno di quei libri giallognoli sullo scaffale in alto e vi sorprenderò» fece una pausa sporgendosi con il collo per scrutare gli studenti più vicini alla scala «tu. Si, dico a te là in fondo. Prendimene uno».

Raggelai, accorgendomi che il suo sguardo era rivolto a me, e voltandomi con terrore a guardare la scala a pioli alta almeno quattro metri.

Amber mi lanciò un’occhiata spaventata e disorientata.

Il professore fece per parlare per esortarmi a salire e io mi portai una mano alla pancia non sapendo bene cosa dire, scrutando i voti degli studenti che mi osservavano in silenzio, immobili.

La mia amica mi sorprese, prendendo in mano la situazione e salendo sulla scala al mio posto. Il professore borbottò, ma non disse nulla, ricominciando a spiegare, e facendo voltare nella sua direzione tutte le teste dei curiosi.

Feci un sospiro di mero sollievo. Avevo ragione, avere Amber a conoscenza della gravidanza mi avrebbe senz’altro aiutato.

«Grazie» le sussurrai, mentre il professore faceva vedere la recente data di pubblicazione del libro e esemplificava il processo d’ossidazione accelerato a cui era andato incontro.

Sollevando lo sguardo per un attimo, mi parve, nuovamente, di vedere la figura del professor Danbaster che mi osservava. Sbattei le palpebre confusa, e in un attimo sparì. Ero sempre più perplessa. Il professore era molto rinomato e i suoi corsi rari e affollati. Tutti sapevano che il rettore gli aveva concesso di insegnare appena un’ora a settimana, pur se a pieno stipendio. E, considerando che la sua lezione sarebbe stata il giorno seguente, che ci faceva lui lì?

«Tutto bene?» mi chiese Amber, preoccupata, notando il mio momento d’immobilità. «Sai che mi preoccupo. Oh, temo che mi preoccuperò molto. E se mi preoccupassi troppo? Bella, tu mi dirai quando mi sto preoccupando troppo, vero? È che quando mi agito comincio a sudare. E a parlare. Parlare molto. Oh, Bella. Non avercela con me se lo faccio!».

Le sorrisi, lasciando da parte le mie perplessità. «Non potrei mai avercela con te. Su, andiamo» dissi, seguendo il gruppo che si spostava fra gli scaffali.

Alla fine dell’ora notai la differenza che intercorreva fra me e Amber. Lei era ancora lucida e attenta, io ero stanchissima e volevo solo tornare a casa. Purtroppo però avrei dovuto resistere per almeno altre due ore. Altre due ore senza Edward.

Notai lo sguardo poco discreto di Amber, puntato ansiosamente su di me.

«Che c’è?» sussurrai, massaggiandomi con discrezione la pancia.

«Cos’hai?» chiese lei di rimando, facendo attenzione a non farsi sentire dalla professoressa di Restauro nella piccola aula. Il corso era riservato a soli quindici studenti, quindi in pratica ci conosceva uno ad uno.

Mi piagai sul banco, in modo da nascondere le labbra dietro la testa dello studente che mi stava di fronte. «Ma tu non sei stanca? Ho fame» mi lamentai.

Lei ridacchiò, lanciandomi una barretta di cioccolata.

Alzai gli occhi al cielo. «Grazie» mimai con le labbra.

Cominciai a mangiare in silenzio, senza farmi vedere. La stanchezza faceva vagare i miei pensieri e toglieva una notevole parte di attenzione e concentrazione alla lezione. Ero preoccupata per Edward. Il fatto di non potergli stare accanto corrispondeva a non poter controllare come si sentisse, come stesse. Però, d’altra parte, pensavo che magari stando solo sarebbe riuscito a sfogare i suoi pensieri cupi, che sicuramente si costringeva a celare in mia presenza. Forse dipendeva unicamente da quello il fatto che non volesse più… No. Magari era solo una mia idea assurda da donna incinta, una delle tante paranoie.

«Muoversi, prendete i vostri libri e seguitemi». La voce della professoressa sovrastò ogni bisbiglio e mi fece rapidamente e bruscamente emergere dai miei pensieri, tanto che per un secondo dimenticai quali fossero stati.

Feci come diceva, confusa, muovendomi velocemente al fianco di Amber. «Dove stiamo andando?» chiesi, continuando a camminare per i corridoi in marmo dell’accademia.

Amber mi sorrise, con le guance rosse sulla pelle chiarissima. «Laboratorio di restauro! È bellissimo, vedrai! Ci sono le opere d’arte, e poi ci fanno vedere tutti i prodotti chimici e le sperimentazioni, è davvero…».

Il suo entusiasmo scemò alla vista del mio viso deluso e preoccupato.

«Stewart, Swan, muovetevi!».

Continuai a camminare, meno decisa di prima. «Amber! Non posso entrare» biascicai, mordendomi nervosamente il labbro inferiore. Era ancora il primo giorno e ben tre volte avevo rischiato di farmi scoprire. La prima, Amber era venuta a conoscenza di tutto. La seconda, l’avevo scampata per un soffio grazie al suo aiuto. Ed ora? Era così forte la mia ostinazione a non voler rendere noto il mio stato? Sì. Volevo ricavarmi uno spazio di anonimato, in cui nessuno mi conoscesse e badasse a me, almeno una volta a settimana. Ma allora cosa potevo fare?

Amber, all’ennesimo richiamo della professoressa, entrò nel laboratorio con un’occhiata di scuse, sotto mia esortazione. Temporeggiai sulla porta, lanciandomi sguardi fugaci attorno. Sentivo il cuore battere veloce nel petto per l’agitazione.

Dovevo andare via? Dovevo dire alla professoressa? Dovevo entrare? No. Quello non potevo farlo.

«Swan, cosa sta facendo ancora qui? Stiamo aspettando solo lei».

Mi accinsi a spiegare, con un sospiro rassegnato.

«Isabella Swan sta con me». Quella voce, alle mie spalle, mi fece raggelare.

La professoressa lanciò un’occhiata ossequiosa al professor Danbaster.

«Non me ne voglia, l’ho trattenuta io, abbiamo delle cose da chiarire in riguardo alla sua assenza». Fece un sorriso scheletrico, facendo stropicciare tutte le pieghe ai lati della sua smunta bocca.

«Certo» borbottò lei, con un cenno. «Vogliate scusarmi allora» disse, richiudendosi la porta alle spalle.

Il professor Philip mi lanciò un’occhiata di sbieco e mi accorsi di non aver mai lasciato la mia posizione di rigido disagio. Per quale motivo mi aveva aiutata?

Fu percosso da dei forti accessi di tosse. Portò un fazzoletto alle labbra, piegato sulle spalle scosse dai singulti. «Seguimi» borbottò poi brusco, gli occhi ridotti a due fessure.

Rimasi per due secondi immobile, i riflessi rallentati dalla confusione, vedendolo procedere spedito sul marmo bianco. Mi riscossi, seguendolo. Nonostante i suoi passi e i suoi movimenti fossero più veloci, la falcata delle sue gambe era decisamente minore della mia, e la tosse di tanto in tanto lo costringeva a rallentare, così non faticai a stargli dietro. Rimasi in silenzio per tutto il tragitto, non sapendo bene cosa dire, percependo la stranezza della sua persona. Mi sarebbe tanto piaciuto sapere qualcosa di più su di lui. Forse, l’aura di mistero che sentivo circondarlo, si sarebbe diradata venendo a conoscenza di qualche dettaglio sui suoi studi, o sulla sua famiglia, magari.

Aprì la porta del suo ufficio, chiuso a chiave, con un movimento svelto, e ci s’intrufolò, invitandomi ad entrare con rapidi movimenti della mano. Mi chiesi perché si muovesse in maniera così furtiva. Mi sentivo attratta dai suoi modi, attratta dal mistero, eppure così costantemente all’erta. Quanto avrei voluto sapere…

Appena fui dentro, i miei occhi non fecero in tempo ad abituarsi alla penombra della stanza, che sentii il chiavistello girare nuovamente.

Mi voltai di scatto verso il professore, terrorizzata.

«Non essere inquieta cara» fece con un sorriso buono, nulla a che fare con i modi avuti precendentemente. «In questa stanza ci sono opere di grande valore».

Il senso di disagio si alleggerì per un istante, mentre capivo di potermi fidare.

Mi invitò a sedermi su una poltroncina antica, rivestita di velluto rosso, e lo stesso fece lui, sedendosi un una identica di fronte a me. L’ambiente non sembrava esageratamente grande, ma forse era solo un’illusione. Ogni minimo spazio era stipato di oggetti di ogni forma e dimensione, ogni antico scaffale riempito di manuali e pergamene gelosamente custodite in teche trasparenti.

Mi chiesi di cosa potessero trattare tutti quei libri.

Dei pesanti drappi rossi incorniciavano, oscurandola in parte, una grande vetrata. Al centro della parete trasversale vi era un dipinto, attorno al quale mi accorsi che ruotavano tutti gli altri, in un intreccio volto a farne risaltare la cornice. Ritraeva un’affascinante giovane donna, decisamente molto bella. Sentii una strana stretta allo stomaco.

«Isabella» disse allora con un sorriso, sporgendosi verso la scrivania di rovere per afferrare una bottiglia di cristallo mezza piena di un liquido ambrato. Scotch? Ne versò un dito in un bicchiere decorato con gli stessi motivi della bottiglia e poi fece un cenno verso di me.

Arrossii. «No, grazie» borbottai.

Lui ripose la bottiglia, avvicinando il bicchiere alle labbra e bevendo in un lungo sorso.

Mi chiesi se, un uomo della sua età e con quella tosse, potesse bere dello Scotch. Immaginai che sua moglie non dovesse esserne affatto contenta. Era sposato? Abbassai lo sguardo sulla sua fragile mano, notando una vera. Era nera. Che strano colore…

«Ricordi quel discorso che facemmo in merito ad un tuo dipinto?» chiese, distraendomi dai miei pensieri.

«S-sì… sì, certo». Risposi, ricordandomi del solitario 30 e lode sul mio libretto. Era stato il voto assegnato al dipinto de “La Cortigiana” e ancora stentavo a crederci. «Mi disse che i miei sentimenti e la mia vita privata contavano più di qualsiasi ammirazione del pubblico… Che… non avrei mai dovuto svelarla» balbettai.

Lui sospirò, arricciando le labbra esangui e grattandosi la rada peluria bianca sulla testa, come se ne fosse dispiaciuto. Poi scattò, fissandomi di sottecchi. «Può far finta che io non gliel’abbia detto?».

M’irrigidì, spiazzata da quella proposta.

Lui sospirò, tamburellando con le dita sul tavolo. «Eppure ci dev’essere un modo» biascicò, quasi incomprensibilmente.

Non capivo perché volesse sapere qualcosa della mia vita privata. Di me. Perché mai? Voleva sapere la storia celata dietro il mo dipinto? E con quale interesse? Lo stesso che io sentivo verso la sua aura di mistero?

Infine fece chiudere le sue lunghe dita in un pugno. «Ci sono» disse convinto «facciamo così. Lei risponde ad una mia domanda, e io risponderò ad un suo qualsiasi quesito. Siamo d’accordo?».

Mi morsi il labbro, gli occhi che lucevano, affascinata dalla proposta. E se mi avesse, per caso, domandato di segreti che non potevo raccontare? No. Non potevo accettare. Eppure la sua proposta era così invitante… «Io… non so se posso».

Fece un sospiro e un gesto secco. «Le farò prima la mia domanda, così si regolerà se accettare o meno».

Annuii.

«Che cosa sta succedendo? Ho notato il suo strano comportamento e sono molto interessato a capire».

Arrossii, spiazzata dalla domanda. Sembrava decisamente curioso, come se vedesse verità più profonde degli altri. Come se aspettasse la mia risposta come un’importante scoperta scientifica, di vitale importanza. Beh, ne sarebbe rimasto deluso, e di certo non avrebbe leso granché alla mia condizione di donna in carriera. Tuttavia potevo sempre farmi raccontare qualcosa da lui… «Mi risponda lei, prima, poi giuro che darò una risposta alla sua domanda».

Sospirò, esasperato, con impazienza. «Va bene, va bene. Ma si sbrighi a chiedere».

Mi vennero in mente tante possibili domande. Sul suo lavoro, la sua famiglia, sulle opere e su tante piccole stranezze e curiosità che si raccontavano su di lui. Avrei semplicemente potuto chiedere «Perché sei così misterioso? Che cosa nascondi?». No di certo. Eppure nessun altra domanda avrebbe avuto una risposta abbastanza esaustiva.

I miei occhi incrociarono nuovamente quelli furbi del dipinto della donna appeso alla parete, e la domanda non poté far a meno di affiorare sulle mie labbra. «Chi è quella donna?».

Sospirò, ancora, ma questo suo sospiro non aveva nulla a che fare con quelli di impazienza che precedentemente erano usciti dalle sue labbra. Questo era lento, stanco, rassegnato. «Isabella… Mi hai fatto la domanda a cui mi è più difficile rispondere» disse, sconsolato, talmente tanto, che mi sentii in colpa.

«Mi dispiace, io non volevo».

«No» disse lui, interrompendomi. «Fa silenzio, ti racconterò». Poi mi lanciò un’occhiata. «È giusto che tu sappia» mormorò.

Mi mossi sulla sedia, a disagio.

«Alla fine della storia non chiedermi nulla, non ti dirò nulla più. Ci sono cose che non potrai capire» strinse gli occhi «forse. Quella donna Isabella, si chiama Caterina Barbarigo; è una nobile veneziana del ‘700, una delle più belle che ci siano mai state» il suo sguardo si perse in lontananza, come se stesse rievocando ricordi lontani, «I suoi occhi lucevano lucidi alla luce del sole e la sua pelle era nivea come poche l’avevano avuta. Un fascino struggente e ammaliante, un carattere capriccioso e un ingegno e una furbizia prorompenti. Si sposò, per amore, con un giovane tedesco. Era attivo e in cerca di avventura e ammirazione, ancora incapace di comprendere il mondo» il suo sguardo si fece ancor più contrito «ebbe una figlia, Kate la chiamò, ricalcando il suo stesso nome. Uno splendore, un piccolo bocciolo di rosa tanto simile alla madre dalla bellezza mai sfiorente, ancor più bella per la rarità della sua meravigliosa essenza. Le sue labbra erano rosse e piccole. Vissero felici, i cinque anni più belli della loro vita, la loro felicità era invidiata da tutti, si irradiava dai loro volti come la luce più pura. Era perfetta, la perfezione impossibile, il loro segreto, ed era loro, miracolosamente loro.

Ma poi, tutto cambiò. Scoppiarono delle guerre, odi, e amori spezzati, misteri celati ai più. Quando il giovane tornò a casa, Caterina era già perita, prigioniera del nemico. Kate era scomparsa. Tutto era svanito, insieme ai loro segreti e alla loro felicità, e il giovane tedesco non se lo perdonò mai. La sua ricerca, per la vita, è l’anelito alla ricongiunzione con il suo stesso sangue, sua figlia, Kate».

Sentivo il suono sordo del mio cuore nel petto coprire il silenzio portato dalle sue ultime parole. Non capivo perché la sua storia mi avesse colpita così tanto. Era bella, vero, ma non riuscivo a comprendere. Ripensai per un attimo al modo in cui l’aveva raccontata. Così lentamente, così appassionatamente, e con così tanto pathos.

«Tu, Isabella?» disse, schiarendosi la voce dopo essersi ripreso da un ennesimo attacco di tosse.

Immersa nell’atmosfera della storia avevo dimenticato la domanda a cui avrei dovuto rispondere. «Si, scusi. Cosa voleva sapere?».

Ticchettò, nuovamente impaziente. «Mi chiedevo il motivo del suo strano comportamento, non mi dica che non è nulla, sono un buon osservatore, mi sveli li suo segreto».

Arrossii, annuendo con riluttanza. Questo genere di cose mi causavano un certo imbarazzo. Eppure era una cosa che sicuramente avrebbe deluso le sue aspettative. Sospirai, ripensando a come non si fosse minimamente scandalizzato per il mio matrimonio con Edward; certamente non l’avrebbe fatto neppure questa volta.

Puntai i miei occhi nei suoi. «Aspetto un bambino».

Al contrario di come mi sarei aspettata strabuzzò gli occhi, sorpreso. «Sei incinta? Di tuo marito?».

Rimasi sconcertata dalla domanda. «Certo! Mio marito».

Fece un sospiro secco, lasciandosi cadere con le spalle sullo schienale della sedia, scosso nuovamente dalla tosse. Rimase per ben tre minuti in assoluto silenzio, fissando torvo un fermacarte. Poi fece scioccare la lingua e si voltò nuovamente verso me, fulmineo. «Non lo vuoi dire a nessuno, vero Isabella?».

«I-Io… no, non qui» balbettai, disorientata dalle sue domande sempre più sorprendenti e apparentemente prive di significato.

Annuì. «Bene, ti aiuterò a farlo. Ora va’» disse alzandosi e aprendomi la porta «va’ a casa da tuo marito» si bloccò, incerto su cosa aggiungere. «Vai Isabella» disse infine.

Quando mi ritrovai nel cortile dell’accademia in testa mi vorticava una gran moltitudine di pensieri. Osservai il profilo degli alberi in lontananza, e fra questi emerse per un istante il ricordo di un grosso branco di lupi, scalzato immediatamente da questioni più pressanti.

Avevo sperato di risolvere i miei dubbi e chiarire alcuni misteri, invece tutto si era fatto più fitto e oscuro. Per cominciare, la storia che il professore mi aveva raccontato. La sua sostanziale semplicità, e il modo in cui pronunciava le parole. Caterina Barbarigo. E poi, tutte quelle domande che mi aveva fatto…

«Bella».

Alzai lo sguardo di scatto, riconoscendo immediatamente la voce di mio marito. «Edward» mormorai sollevata, la mente sgombra da ogni pensiero, sentendo la felicità della bambina crescere dentro me.

Mi sorrise, un sorriso autentico e meraviglioso sul suo viso da angelo. «Mi sei mancato» mormorai stringendomi al suo maglione. Mi accertai che sul suo viso non vi fosse traccia di tensione e difatti incrociai un suo sorriso autentico, brillante e solare. Feci dentro me un sospiro, sollevata.

Durante tutto il viaggio di ritorno a casa mi concessi di rimanere in silenzio, la mente sostanzialmente vuota, i pensieri rivolti a mio marito. Sembrava tranquillo e calmo, mi aveva fatto qualche domanda su come fosse andata e avevo risposto generalmente. Mi fece pensare che magari fosse riuscito a superare i suoi problemi, almeno in parte.

«Sono un po’ stanca, credo che andrò a riposarmi» dissi mettendo un piatto, usato per il mio pranzo, in lavastoviglie.

Lui mi accarezzò la schiena, poi scese con le labbra a baciarmi in collo, piegato su di me, con il busto attaccato alla mia schiena.

Arrossii, pensando che magari la mia fosse stata semplicemente davvero una paranoia.

«Perché non vai di là, ci penso io a finire qui… Su, vai» mi disse gentile, accarezzandomi la pancia da dietro.

Mi sentii bruciare a quel contatto così ravvicinato e non potei fare a meno di annuire. Mi lasciò libera di defilarmi dalla sua presa e mi sorrise sghembo, mettendosi al mio posto e finendo di caricare la lavastoviglie.

Entrai in camera col cuore che mi batteva forte nel petto. Non ci fu il bisogno di chiedermi cosa avrei dovuto indossare perché trovai il mio pigiama di seta piegato sul bordo del letto. Dopo averlo indossato mi stesi, troppo stanca per rimanere in piedi, sul lato sinistro, tentando di ridare vigore ai miei sensi appannati e di non assopirmi.

Il materasso si abbassò da un lato. Era entrato in camera. Mi voltai verso di lui, tornandomi a sedere. Mi sorrise e scese direttamente con le labbra a baciare la mia pancia. Sorrisi anch’io, accarezzandogli i capelli, e lasciai che sbottonasse gli ultimi bottoni della maglietta e che aprisse leggermente il nodo sui pantaloni. Sì, sicuramente era stata tutta una mia paranoia. Un pensiero stupido, tanto stupido… sorrisi di me stessa.

Mi fece stendere sul letto e si mise di lato, continuando a baciarmi. Eppure i suoi baci erano morbidi, delicati, per niente frettolosi o maliziosi. Sentivo la mia e la felicità della bambina unirsi insieme in spirali di piacere. Strofinava la guancia sulla pancia, la sfiorava con la punta del naso e poi riprendeva a baciare. Ero così felice, e tutto sembrava andare così perfettamente…

Inarcai violentemente la schiena, serrando le dita fra le ciocche dei suoi capelli ramati, quando mi baciò sull’ombelico, provocandomi un brivido.

S’interruppe, e per un istante, mentre fulmineo alzava lo sguardo, potei scorgere una forte paura nei suoi occhi. Immediatamente si addolcirono, mentre il suo volto da beato diciassettenne si apriva in un sorriso. Richiuse i bottoni della maglietta, sollevandomi poi con un braccio e mettendomi sotto le coperte.

«Dormi Bella, sei stanca» disse, accarezzandomi i capelli. Non riuscii a comprendere il suo comportamento. Non riuscii a capire. Eppure, il dubbio che qualcosa lo bloccasse si era fatto sempre più forte in me, e ancora più forte si fece un’ora dopo, quando mi svegliai.

Sentivo un vuoto nel petto, come ci si sente dopo che il cuore ha finito una folle corsa. Ero madida di sudore e i muscoli erano irrigiditi e tesi. Eppure ero emotivamente tranquilla…

Aprì gli occhi, scontrandomi con lo sguardo preoccupato di Edward. Rimasi in silenzio per qualche istante, in attesa che dicesse qualcosa, ma non lo fece. La sua mascella rimaneva immobile e contratta. Cos’era successo?

«Ho sognato?».

«Ricordi di aver sognato?» chiese, e sembrava davvero nervoso, come mai l’avevo visto.

Sollevai le sopracciglia. «No» borbottai. «Non ricordo».

Si lasciò sfuggire un sospiro. «Bene» disse con un sorriso, «vado a prepararti la cena» e scomparve prima che potessi dire qualsiasi altra cosa.

   
 
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