Sbattei le palpebre, tentando di
concentrarmi sulla
lezione. Avevo già cominciato a pentirmi di aver voluto, a
tutti i costi,
riprendere gli studi. L’università era a dir poco
stancante, e nonostante la
psicoanalisi e gli esercizi fatti con Jasper avevo sempre la paura che
la
bambina potesse fare qualcosa che non avrei saputo gestire. E poi
rimanere
concentrata così a lungo e riuscire a fare qualcosa di
produttivo, dopo aver
abbandonato per diverso tempo, non era affatto semplice.
Edward mi aveva incoraggiato, senza
forzarmi, a non
mollare. Si era reso conto che ci tenevo e non voleva che sacrificassi
tutti
gli sforzi compiuti sino ad allora. D’altra parte, mi
controllava perché non mi
stancassi troppo. Era sempre così apprensivo…
Sospirai, rendendomi conto che la
spiegazione era
andata avanti ad un passo più veloce dei miei appunti.
Saltai un paragrafo e
ripresi dalle parole del professore, pensando che quello, ancora, era
il primo
giorno, e che non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Se non a me
stessa.
In fondo a breve sarei stata
trasformata in una
vampira, sarei diventata madre… Perché mi
ostinavo a voler continuare
l’università?
Forse perché mi
gratificava, perché mi faceva sentire qualcuno.
Perché nella mia vita ero
sempre stata abbastanza brava in
“quello”,
abbastanza dotata in
“quell’altro”.
Ma non avevo mai avuto la soddisfazione di sentire commenti positivi
non
accompagnati da aggettivi come “quasi, abbastanza,
discretamente”. E, ad essere
sincera, non avevo neppure cercato tali soddisfazioni finché
non erano giunte.
Eppure, i miei pensieri, come da
una settimana a
quella parte, non potevano essere che per Edward. Le cose fra noi
andavano
bene. Molto. Troppo. Era tutto tanto perfetto, felice, sereno, pieno
d’amore,
nei sentimenti, quanto vuoto nella sfera… fisica.
Non appena la lezione, la seconda
della giornata,
finì, potei permettermi di smettere di pensare a mio marito
e alla
preoccupazione per il suo stato d’animo, schiacciata dalla
confusione di
studenti che si alzavano dai loro posto per cambiare aula. Mi recai,
velocemente, nell’atrio, sollevata di avere un’ora
buca. Lì trovai Amber.
Mi salutò calorosamente,
abbracciandomi. Avevo
indossato una felpa larga, con una zip sul davanti, che mascherava
molto bene
la piccola pancia. Ad un occhio inconsapevole potevo solo sembrare un
po’
ingrassata. Così non fece alcun tipo di commento, anzi, mi
invitò ad unirmi a
lei.
«Stavo andando in
biblioteca per poter organizzare gli
appunti! Se vieni con me potrò darti delle dispense sulle
lezioni che hai
saltato, ti va?». Mi prese per mano, tirandomi verso di lei.
«Certo! Ti
ringrazio». Sorrisi, seguendola.
L’ora successiva avremmo
avuto lezione di
“Conservazione delle opere”, che si svolgeva in
biblioteca. Infine, l’ultima
ora era quella di “Restauro”.
Amber si offrì di
aiutarmi a comprendere dei concetti
che, studiando sola a casa, non ero riuscita a schematizzare e
utilizzare
correttamente. Le sue spiegazioni erano semplici, ma chiare, e
soprattutto
fatte col chiaro intento di aiutarmi.
Sollevando lo sguardo dai suoi
appunti mi parve di
scorgere la figura del professor Philip che si affaccendava, con
un’andatura troppo
veloce per il suo gracile corpo, fra alcuni scaffali con vecchi libri
impolverati. Rabbrividii, sentendo i sentimenti di disagio che
provenivano
dalla bambina. Decisi di non pensarci e risposi al richiamo di Amber,
riprendendo a seguire i suoi discorsi.
Dopo mezz’ora avevo
ricominciato a pensare che l’idea
di riprendere l’università non era poi
così pessima, e che sarei potuta
riuscire nel mio intento.
«Vedi Bella? Queste sono
le opere minori del
Manierismo. Qui ci sono i ritratti, alcuni sono conservati nella
galleria
dell’accademia».
Mi sporsi per vedere oltre le sue
dita paffute. «Quale
dei tre dobbiamo riprodurre?».
«Questo, vedi?».
Mi alzai in piedi e feci il giro
del tavolo, fino a
trovarmi accanto a lei. Abbassai il capo sul libro.
Improvvisamente un fortissimo odore
di profumo femminile
mi fece contrarre lo stomaco. Sollevai di scatto la testa, in una
necessaria e
veloce ricerca dei bagni pubblici. Mi affrettai a raggiungere
l’uscita di
emergenza e, subito dopo, infilarmi oltre la porta marrone con il
cartello
“toilette”.
Le nausee erano sostanzialmente
scomparse, ma ancora
non riuscivo a sopportare determinati forti odori. Sentii la bambina
confusa e
disorientata, oltre che infastidita dalla situazione.
«Bella! Bella, cosa
succede?» mi chiese Amber
spaventata, entrando in bagno con il mio cappotto e la mia sciarpa.
«È tutto
apposto Amber» sussurrai sciacquandomi la
bocca e portando un po’ d’acqua alla fronte per
rinfrescarmi. Ovviamente, ora,
nel mio piano di discrezione si era aperta una notevole falla.
Lei, agitata, si
avvicinò a me, accarezzandomi,
scrutandomi, osservando con paura la mano che avevo portato alla
pancia. «Cos’hai?
Ti senti male? Cavolo! Non so che fare!». Si
guardò attorno, ansiosa, in cerca
di un qualunque aiuto.
«Calma,
davvero» dissi, tentando di farla ricominciare
a respirare normalmente. «Stai calma».
Le mi osservò,
sofferente, preoccupata, per un attimo
in silenzio. Sapevo, perché me l’aveva detto lei
stessa, che Amber era una
persona ansiosa e che si trovava sempre in difficoltà nelle
situazioni di pericolo.
Ma quello non era il momento migliore per far emergere la sua indole.
Pensai che mi avesse dato ascolto,
ma i miei pensieri
furono smentiti quando proruppe «Tu stai qui buona, calma, io
chiamo Edward e
ti faccio venire a prendere!». Cominciò a frugare
nervosamente nella mia borsa.
«No!». Ebbi uno
scatto veloce, fermando con
determinazione le sue mani, che già avevano afferrato il mio
cellulare. «Amber,
no» dissi ancora «Stai ferma, ti prego, lascia che
io ti spieghi» cominciai con
persuasiva calma «Chiamare Edward è
l’ultima cosa da fare. Ora, dammi quel
telefono».
Osservò prima me, poi
l’oggetto chiuso nella sua mano.
Non so cosa vide nel mio volto, ma credo che decise di potersi fidare.
Con
lentezza mosse la mano, restituendomi il cellulare.
Sospirai di sollievo, riponendolo
nella borsa e
sciacquandomi le mani. Mi avviai verso il phon. «Amber, non
sto male» dissi con
un piccolo sorriso, facendole muovere sotto il soffio caldo e
aspettando che si
asciugassero.
Lei mi guardava con attenzione,
mordendosi l’interno
della guancia.
Mi girai verso di lei, a occhi
bassi e rossa in viso.
Lentamente, li alzai fino a scontrarmi con il suo viso di porcellana,
le mani
sul ventre. «Sono incinta» dissi d’un
fiato.
Potei notare le sue morbide guance
distendersi mentre
la bocca le si apriva per lo stupore. Deglutì.
«E-Edward lo sa?».
Proruppi in una breve risata.
«Certo che lo sa» dissi,
divertita, sollevando la maglietta e lasciando vedere la celabile, ma
tuttavia
ben visibile, pancia. «Sono più di quattro mesi
ormai».
Dopo essersi ripresa mi fece i
complimenti e mi disse,
borbottando e arrossendo, di farli anche a Edward da parte sua. Il
fatto che
fosse venuta, già il primo giorno, a conoscenza del mio
segreto, aveva
notevolmente destabilizzato i miei piani. Cominciavo a pensare che
nasconderlo
agli altri non sarebbe stato così facile come pensavo, ma,
forse, avendo
un’amica a conoscenza del segreto, tutto avrebbe potuto
essere più semplice.
Quando arrivammo in biblioteca la
lezione era già
cominciata. L’attempato professore ci ignorò
completamente, permettendoci di
inserirci fra le ultime file del gruppo. Estraeva tomi dagli scaffali
come
fossero fragili mucchi di polvere. E in effetti lo erano. Poi ne
commentava il
tipo di conservazione, come dovevano essere consultati e come fossero
stati
catalogati.
«Guardate
là» disse ad un certo punto.
Tutte le teste degli studenti si
spostarono
contemporaneamente verso la direzione indicata dal suo dito.
«Ricordate sempre,
polvere non vuol dire antico, né di
valore. Prendetemi uno di quei libri giallognoli sullo scaffale in alto
e vi
sorprenderò» fece una pausa sporgendosi con il
collo per scrutare gli studenti
più vicini alla scala «tu. Si, dico a te
là in fondo. Prendimene uno».
Raggelai, accorgendomi che il suo
sguardo era rivolto
a me, e voltandomi con terrore a guardare la scala a pioli alta almeno
quattro
metri.
Amber mi lanciò
un’occhiata spaventata e disorientata.
Il professore fece per parlare per
esortarmi a salire
e io mi portai una mano alla pancia non sapendo bene cosa dire,
scrutando i
voti degli studenti che mi osservavano in silenzio, immobili.
La mia amica mi sorprese, prendendo
in mano la
situazione e salendo sulla scala al mio posto. Il professore
borbottò, ma non
disse nulla, ricominciando a spiegare, e facendo voltare nella sua
direzione
tutte le teste dei curiosi.
Feci un sospiro di mero sollievo.
Avevo ragione, avere
Amber a conoscenza della gravidanza mi avrebbe senz’altro
aiutato.
«Grazie» le
sussurrai, mentre il professore faceva
vedere la recente data di pubblicazione del libro e esemplificava il
processo
d’ossidazione accelerato a cui era andato incontro.
Sollevando lo sguardo per un
attimo, mi parve,
nuovamente, di vedere la figura del professor Danbaster che mi
osservava. Sbattei
le palpebre confusa, e in un attimo sparì. Ero sempre
più perplessa. Il
professore era molto rinomato e i suoi corsi rari e affollati. Tutti
sapevano
che il rettore gli aveva concesso di insegnare appena un’ora
a settimana, pur
se a pieno stipendio. E, considerando che la sua lezione sarebbe stata
il
giorno seguente, che ci faceva lui lì?
«Tutto bene?»
mi chiese Amber, preoccupata, notando il
mio momento d’immobilità. «Sai che mi
preoccupo. Oh, temo che mi preoccuperò
molto. E se mi preoccupassi troppo? Bella, tu mi dirai quando mi sto
preoccupando troppo, vero? È che quando mi agito comincio a
sudare. E a
parlare. Parlare molto. Oh, Bella. Non avercela con me se lo
faccio!».
Le sorrisi, lasciando da parte le
mie perplessità.
«Non potrei mai avercela con te. Su, andiamo»
dissi, seguendo il gruppo che si
spostava fra gli scaffali.
Alla fine dell’ora notai
la differenza che
intercorreva fra me e Amber. Lei era ancora lucida e attenta, io ero
stanchissima e volevo solo tornare a casa. Purtroppo però
avrei dovuto
resistere per almeno altre due ore. Altre due ore senza Edward.
Notai lo sguardo poco discreto di
Amber, puntato
ansiosamente su di me.
«Che
c’è?» sussurrai, massaggiandomi con
discrezione
la pancia.
«Cos’hai?»
chiese lei di rimando, facendo attenzione a
non farsi sentire dalla professoressa di Restauro nella piccola aula.
Il corso
era riservato a soli quindici studenti, quindi in pratica ci conosceva
uno ad
uno.
Mi piagai sul banco, in modo da
nascondere le labbra
dietro la testa dello studente che mi stava di fronte. «Ma tu
non sei stanca?
Ho fame» mi lamentai.
Lei ridacchiò,
lanciandomi una barretta di cioccolata.
Alzai gli occhi al cielo.
«Grazie» mimai con le
labbra.
Cominciai a mangiare in silenzio,
senza farmi vedere.
La stanchezza faceva vagare i miei pensieri e toglieva una notevole
parte di
attenzione e concentrazione alla lezione. Ero preoccupata per Edward.
Il fatto
di non potergli stare accanto corrispondeva a non poter controllare
come si
sentisse, come stesse. Però, d’altra parte,
pensavo che magari stando solo
sarebbe riuscito a sfogare i suoi pensieri cupi, che sicuramente si
costringeva
a celare in mia presenza. Forse dipendeva unicamente da quello il fatto
che non
volesse più… No. Magari era solo una mia idea
assurda da donna incinta, una
delle tante paranoie.
«Muoversi, prendete i
vostri libri e seguitemi». La
voce della professoressa sovrastò ogni bisbiglio e mi fece
rapidamente e
bruscamente emergere dai miei pensieri, tanto che per un secondo
dimenticai
quali fossero stati.
Feci come diceva, confusa,
muovendomi velocemente al
fianco di Amber. «Dove stiamo andando?» chiesi,
continuando a camminare per i
corridoi in marmo dell’accademia.
Amber mi sorrise, con le guance
rosse sulla pelle
chiarissima. «Laboratorio di restauro! È
bellissimo, vedrai! Ci sono le opere
d’arte, e poi ci fanno vedere tutti i prodotti chimici e le
sperimentazioni, è
davvero…».
Il suo entusiasmo scemò
alla vista del mio viso deluso
e preoccupato.
«Stewart, Swan,
muovetevi!».
Continuai a camminare, meno decisa
di prima. «Amber!
Non posso entrare» biascicai, mordendomi nervosamente il
labbro inferiore. Era
ancora il primo giorno e ben tre volte avevo rischiato di farmi
scoprire. La prima,
Amber era venuta a conoscenza di tutto. La seconda, l’avevo
scampata per un
soffio grazie al suo aiuto. Ed ora? Era così forte la mia
ostinazione a non
voler rendere noto il mio stato? Sì. Volevo ricavarmi uno
spazio di anonimato,
in cui nessuno mi conoscesse e badasse a me, almeno una volta a
settimana. Ma
allora cosa potevo fare?
Amber, all’ennesimo
richiamo della professoressa,
entrò nel laboratorio con un’occhiata di scuse,
sotto mia esortazione. Temporeggiai
sulla porta, lanciandomi sguardi fugaci attorno. Sentivo il cuore
battere
veloce nel petto per l’agitazione.
Dovevo andare via? Dovevo dire alla
professoressa?
Dovevo entrare? No. Quello non potevo farlo.
«Swan, cosa sta facendo
ancora qui? Stiamo aspettando
solo lei».
Mi accinsi a spiegare, con un
sospiro rassegnato.
«Isabella Swan sta con
me». Quella voce, alle mie
spalle, mi fece raggelare.
La professoressa lanciò
un’occhiata ossequiosa al
professor Danbaster.
«Non me ne voglia,
l’ho trattenuta io, abbiamo delle
cose da chiarire in riguardo alla sua assenza». Fece un
sorriso scheletrico,
facendo stropicciare tutte le pieghe ai lati della sua smunta bocca.
«Certo»
borbottò lei, con un cenno. «Vogliate scusarmi
allora» disse, richiudendosi la porta alle spalle.
Il professor Philip mi
lanciò un’occhiata di sbieco e
mi accorsi di non aver mai lasciato la mia posizione di rigido disagio.
Per
quale motivo mi aveva aiutata?
Fu percosso da dei forti accessi di
tosse. Portò un
fazzoletto alle labbra, piegato sulle spalle scosse dai singulti.
«Seguimi»
borbottò poi brusco, gli occhi ridotti a due fessure.
Rimasi per due secondi immobile, i
riflessi rallentati
dalla confusione, vedendolo procedere spedito sul marmo bianco. Mi
riscossi,
seguendolo. Nonostante i suoi passi e i suoi movimenti fossero
più veloci, la
falcata delle sue gambe era decisamente minore della mia, e la tosse di
tanto
in tanto lo costringeva a rallentare, così non faticai a
stargli dietro. Rimasi
in silenzio per tutto il tragitto, non sapendo bene cosa dire,
percependo la
stranezza della sua persona. Mi sarebbe tanto piaciuto sapere qualcosa
di più
su di lui. Forse, l’aura di mistero che sentivo circondarlo,
si sarebbe
diradata venendo a conoscenza di qualche dettaglio sui suoi studi, o
sulla sua
famiglia, magari.
Aprì la porta del suo
ufficio, chiuso a chiave, con un
movimento svelto, e ci s’intrufolò, invitandomi ad
entrare con rapidi movimenti
della mano. Mi chiesi perché si muovesse in maniera
così furtiva. Mi sentivo
attratta dai suoi modi, attratta dal mistero, eppure così
costantemente
all’erta. Quanto avrei voluto sapere…
Appena fui dentro, i miei occhi non
fecero in tempo ad
abituarsi alla penombra della stanza, che sentii il chiavistello girare
nuovamente.
Mi voltai di scatto verso il
professore, terrorizzata.
«Non essere inquieta
cara» fece con un sorriso buono,
nulla a che fare con i modi avuti precendentemente. «In
questa stanza ci sono
opere di grande valore».
Il senso di disagio si
alleggerì per un istante, mentre
capivo di potermi fidare.
Mi invitò a sedermi su
una poltroncina antica,
rivestita di velluto rosso, e lo stesso fece lui, sedendosi un una
identica di
fronte a me. L’ambiente non sembrava esageratamente grande,
ma forse era solo
un’illusione. Ogni minimo spazio era stipato di oggetti di
ogni forma e
dimensione, ogni antico scaffale riempito di manuali e pergamene
gelosamente
custodite in teche trasparenti.
Mi chiesi di cosa potessero
trattare tutti quei libri.
Dei pesanti drappi rossi
incorniciavano, oscurandola
in parte, una grande vetrata. Al centro della parete trasversale vi era
un
dipinto, attorno al quale mi accorsi che ruotavano tutti gli altri, in
un
intreccio volto a farne risaltare la cornice. Ritraeva
un’affascinante giovane
donna, decisamente molto bella. Sentii una strana stretta allo stomaco.
«Isabella»
disse allora con un sorriso, sporgendosi
verso la scrivania di rovere per afferrare una bottiglia di cristallo
mezza
piena di un liquido ambrato. Scotch? Ne versò un dito in un
bicchiere decorato
con gli stessi motivi della bottiglia e poi fece un cenno verso di me.
Arrossii. «No,
grazie» borbottai.
Lui ripose la bottiglia,
avvicinando il bicchiere alle
labbra e bevendo in un lungo sorso.
Mi chiesi se, un uomo della sua
età e con quella tosse,
potesse bere dello Scotch. Immaginai che sua moglie non dovesse esserne
affatto
contenta. Era sposato? Abbassai lo sguardo sulla sua fragile mano,
notando una
vera. Era nera. Che strano colore…
«Ricordi quel discorso
che facemmo in merito ad un tuo
dipinto?» chiese, distraendomi dai miei pensieri.
«S-sì…
sì, certo». Risposi, ricordandomi del solitario
30 e lode sul mio libretto. Era stato il voto assegnato al dipinto de
“La
Cortigiana” e ancora stentavo a crederci. «Mi disse
che i miei sentimenti e la
mia vita privata contavano più di qualsiasi ammirazione del
pubblico… Che… non
avrei mai dovuto svelarla» balbettai.
Lui sospirò, arricciando
le labbra esangui e
grattandosi la rada peluria bianca sulla testa, come se ne fosse
dispiaciuto. Poi
scattò, fissandomi di sottecchi. «Può
far finta che io non gliel’abbia detto?».
M’irrigidì,
spiazzata da quella proposta.
Lui sospirò,
tamburellando con le dita sul tavolo. «Eppure
ci dev’essere un modo» biascicò, quasi
incomprensibilmente.
Non capivo perché
volesse sapere qualcosa della mia
vita privata. Di me. Perché mai? Voleva sapere la storia
celata dietro il mo
dipinto? E con quale interesse? Lo stesso che io sentivo verso la sua
aura di
mistero?
Infine fece chiudere le sue lunghe
dita in un pugno.
«Ci sono» disse convinto «facciamo
così. Lei risponde ad una mia domanda, e io
risponderò ad un suo qualsiasi quesito. Siamo
d’accordo?».
Mi morsi il labbro, gli occhi che
lucevano,
affascinata dalla proposta. E se mi avesse, per caso, domandato di
segreti che
non potevo raccontare? No. Non potevo accettare. Eppure la sua proposta
era
così invitante… «Io… non so
se posso».
Fece un sospiro e un gesto secco.
«Le farò prima la
mia domanda, così si regolerà se accettare o
meno».
Annuii.
«Che cosa sta succedendo?
Ho notato il suo strano
comportamento e sono molto interessato a capire».
Arrossii, spiazzata dalla domanda.
Sembrava
decisamente curioso, come se vedesse verità più
profonde degli altri. Come se
aspettasse la mia risposta come un’importante scoperta
scientifica, di vitale
importanza. Beh, ne sarebbe rimasto deluso, e di certo non avrebbe leso
granché
alla mia condizione di donna in carriera. Tuttavia potevo sempre farmi
raccontare qualcosa da lui… «Mi risponda lei,
prima, poi giuro che darò una
risposta alla sua domanda».
Sospirò, esasperato, con
impazienza. «Va bene, va
bene. Ma si sbrighi a chiedere».
Mi vennero in mente tante possibili
domande. Sul suo
lavoro, la sua famiglia, sulle opere e su tante piccole stranezze e
curiosità
che si raccontavano su di lui. Avrei semplicemente potuto chiedere
«Perché sei
così misterioso? Che cosa
nascondi?». No di certo. Eppure nessun altra
domanda avrebbe avuto una
risposta abbastanza esaustiva.
I miei occhi incrociarono
nuovamente quelli furbi del
dipinto della donna appeso alla parete, e la domanda non
poté far a meno di
affiorare sulle mie labbra. «Chi è quella
donna?».
Sospirò, ancora, ma
questo suo sospiro non aveva nulla
a che fare con quelli di impazienza che precedentemente erano usciti
dalle sue
labbra. Questo era lento, stanco, rassegnato.
«Isabella… Mi hai fatto la
domanda a cui mi è più difficile
rispondere» disse, sconsolato, talmente tanto,
che mi sentii in colpa.
«Mi dispiace, io non
volevo».
«No» disse lui,
interrompendomi. «Fa silenzio, ti
racconterò». Poi mi lanciò
un’occhiata. «È giusto che tu
sappia» mormorò.
Mi mossi sulla sedia, a disagio.
«Alla fine della storia
non chiedermi nulla, non ti
dirò nulla più. Ci sono cose che non potrai
capire» strinse gli occhi «forse.
Quella donna Isabella, si chiama Caterina
Barbarigo;
è una nobile veneziana del ‘700, una delle
più belle che ci siano mai state» il
suo sguardo si perse in lontananza, come se stesse rievocando ricordi
lontani,
«I suoi occhi lucevano lucidi alla luce del sole e la sua
pelle era nivea come
poche l’avevano avuta. Un fascino struggente e ammaliante, un
carattere
capriccioso e un ingegno e una furbizia prorompenti. Si
sposò, per amore, con
un giovane tedesco. Era attivo e in cerca di avventura e ammirazione,
ancora
incapace di comprendere il mondo» il suo sguardo si fece
ancor più contrito
«ebbe una figlia, Kate la
chiamò, ricalcando il suo stesso nome. Uno
splendore, un piccolo bocciolo di rosa tanto simile alla madre dalla
bellezza
mai sfiorente, ancor più bella per la rarità
della sua meravigliosa essenza. Le
sue labbra erano rosse e piccole. Vissero felici, i cinque anni
più belli della
loro vita, la loro felicità era invidiata da tutti, si
irradiava dai loro volti
come la luce più pura. Era perfetta, la perfezione
impossibile, il loro
segreto, ed era loro, miracolosamente loro.
Ma poi, tutto cambiò.
Scoppiarono
delle guerre, odi, e amori spezzati, misteri celati ai più.
Quando il giovane
tornò a casa, Caterina era già perita,
prigioniera del nemico. Kate era
scomparsa. Tutto era svanito, insieme ai loro segreti e alla loro
felicità, e
il giovane tedesco non se lo perdonò mai. La sua ricerca,
per la vita, è
l’anelito alla ricongiunzione con il suo stesso sangue, sua
figlia, Kate».
Sentivo il suono sordo del
mio cuore nel petto coprire il silenzio portato dalle sue ultime
parole. Non
capivo perché la sua storia mi avesse colpita
così tanto. Era bella, vero, ma
non riuscivo a comprendere. Ripensai per un attimo al modo in cui
l’aveva
raccontata. Così lentamente, così
appassionatamente, e con così tanto pathos.
«Tu, Isabella?»
disse, schiarendosi
la voce dopo essersi ripreso da un ennesimo attacco di tosse.
Immersa nell’atmosfera
della storia avevo dimenticato la domanda a cui avrei dovuto
rispondere. «Si,
scusi. Cosa voleva sapere?».
Ticchettò, nuovamente
impaziente. «Mi chiedevo il motivo del suo strano
comportamento, non mi dica
che non è nulla, sono un buon osservatore, mi sveli li suo
segreto».
Arrossii, annuendo con
riluttanza. Questo genere di cose mi causavano un certo imbarazzo.
Eppure era
una cosa che sicuramente avrebbe deluso le sue aspettative. Sospirai,
ripensando a come non si fosse minimamente scandalizzato per il mio
matrimonio
con Edward; certamente non l’avrebbe fatto neppure questa
volta.
Puntai i miei occhi nei
suoi. «Aspetto un bambino».
Al contrario di come mi
sarei aspettata strabuzzò gli occhi, sorpreso.
«Sei incinta? Di tuo marito?».
Rimasi sconcertata dalla
domanda. «Certo! Mio marito».
Fece un sospiro secco,
lasciandosi cadere con le spalle sullo schienale della sedia, scosso
nuovamente
dalla tosse. Rimase per ben tre minuti in assoluto silenzio, fissando
torvo un
fermacarte. Poi fece scioccare la lingua e si voltò
nuovamente verso me,
fulmineo. «Non lo vuoi dire a nessuno, vero
Isabella?».
«I-Io… no, non
qui»
balbettai, disorientata dalle sue domande sempre più
sorprendenti e
apparentemente prive di significato.
Annuì. «Bene,
ti aiuterò a
farlo. Ora va’» disse alzandosi e aprendomi la
porta «va’ a casa da tuo marito»
si bloccò, incerto su cosa aggiungere. «Vai
Isabella» disse infine.
Quando mi ritrovai nel
cortile dell’accademia in testa mi vorticava una gran
moltitudine di pensieri.
Osservai il profilo degli alberi in lontananza, e fra questi emerse per
un
istante il ricordo di un grosso branco di lupi, scalzato immediatamente
da
questioni più pressanti.
Avevo sperato di risolvere
i miei dubbi e chiarire alcuni misteri, invece tutto si era fatto
più fitto e
oscuro. Per cominciare, la storia che il professore mi aveva
raccontato. La sua
sostanziale semplicità, e il modo in cui pronunciava le
parole. Caterina Barbarigo.
E poi, tutte quelle domande che mi aveva
fatto…
«Bella».
Alzai lo sguardo di scatto,
riconoscendo immediatamente la voce di mio marito.
«Edward» mormorai sollevata,
la mente sgombra da ogni pensiero, sentendo la felicità
della bambina crescere
dentro me.
Mi sorrise, un sorriso
autentico e meraviglioso sul suo viso da angelo. «Mi sei
mancato» mormorai
stringendomi al suo maglione. Mi accertai che sul suo viso non vi fosse
traccia
di tensione e difatti incrociai un suo sorriso autentico, brillante e
solare. Feci
dentro me un sospiro, sollevata.
Durante tutto il viaggio di
ritorno a casa mi concessi di rimanere in silenzio, la mente
sostanzialmente
vuota, i pensieri rivolti a mio marito. Sembrava tranquillo e calmo, mi
aveva
fatto qualche domanda su come fosse andata e avevo risposto
generalmente. Mi
fece pensare che magari fosse riuscito a superare i suoi problemi,
almeno in
parte.
«Sono un po’
stanca, credo
che andrò a riposarmi» dissi mettendo un piatto,
usato per il mio pranzo, in
lavastoviglie.
Lui mi accarezzò la
schiena, poi scese con le labbra a baciarmi in collo, piegato su di me,
con il
busto attaccato alla mia schiena.
Arrossii, pensando che
magari la mia fosse stata semplicemente davvero una paranoia.
«Perché non
vai di là, ci
penso io a finire qui… Su, vai» mi disse gentile,
accarezzandomi la pancia da
dietro.
Mi sentii bruciare a quel
contatto così ravvicinato e non potei fare a meno di
annuire. Mi lasciò libera
di defilarmi dalla sua presa e mi sorrise sghembo, mettendosi al mio
posto e finendo
di caricare la lavastoviglie.
Entrai in camera col cuore
che mi batteva forte nel petto. Non ci fu il bisogno di chiedermi cosa
avrei
dovuto indossare perché trovai il mio pigiama di seta
piegato sul bordo del
letto. Dopo averlo indossato mi stesi, troppo stanca per rimanere in
piedi, sul
lato sinistro, tentando di ridare vigore ai miei sensi appannati e di
non
assopirmi.
Il materasso si abbassò
da
un lato. Era entrato in camera. Mi voltai verso di lui, tornandomi a
sedere. Mi
sorrise e scese direttamente con le labbra a baciare la mia pancia.
Sorrisi
anch’io, accarezzandogli i capelli, e lasciai che sbottonasse
gli ultimi
bottoni della maglietta e che aprisse leggermente il nodo sui
pantaloni. Sì,
sicuramente era stata tutta una mia paranoia. Un pensiero stupido,
tanto
stupido… sorrisi di me stessa.
Mi fece stendere sul letto
e si mise di lato, continuando a baciarmi. Eppure i suoi baci erano
morbidi,
delicati, per niente frettolosi o maliziosi. Sentivo la mia e la
felicità della
bambina unirsi insieme in spirali di piacere. Strofinava la guancia
sulla
pancia, la sfiorava con la punta del naso e poi riprendeva a baciare.
Ero così
felice, e tutto sembrava andare così
perfettamente…
Inarcai violentemente la
schiena, serrando le dita fra le ciocche dei suoi capelli ramati,
quando mi
baciò sull’ombelico, provocandomi un brivido.
S’interruppe, e per un
istante, mentre fulmineo alzava lo sguardo, potei scorgere una forte
paura nei
suoi occhi. Immediatamente si addolcirono, mentre il suo volto da beato
diciassettenne si apriva in un sorriso. Richiuse i bottoni della
maglietta,
sollevandomi poi con un braccio e mettendomi sotto le coperte.
«Dormi Bella, sei
stanca»
disse, accarezzandomi i capelli. Non riuscii a comprendere il suo
comportamento. Non riuscii a capire. Eppure, il dubbio che qualcosa lo
bloccasse si era fatto sempre più forte in me, e ancora
più forte si fece un’ora
dopo, quando mi svegliai.
Sentivo un vuoto nel petto,
come ci si sente dopo che il cuore ha finito una folle corsa. Ero
madida di
sudore e i muscoli erano irrigiditi e tesi. Eppure ero emotivamente
tranquilla…
Aprì gli occhi,
scontrandomi con lo sguardo preoccupato di Edward. Rimasi in silenzio
per
qualche istante, in attesa che dicesse qualcosa, ma non lo fece. La sua
mascella rimaneva immobile e contratta. Cos’era successo?
«Ho sognato?».
«Ricordi di aver
sognato?»
chiese, e sembrava davvero nervoso, come mai l’avevo visto.
Sollevai le sopracciglia.
«No» borbottai. «Non ricordo».
Si lasciò sfuggire un
sospiro. «Bene» disse con un sorriso,
«vado a prepararti la cena» e scomparve
prima che potessi dire qualsiasi altra cosa.