Salve. Ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono contenta che Mariagrazia ti
piaccia, tengo molto a questo personaggio.
Buona lettura.
Unghie e mandarini
Da piccolo sorridevo sempre: non ero
uno di quei bimbi capricciosi che fanno smorfie assurde nelle foto e tirano gli
orecchini alla mamma quando si annoiano. Ero sempre sorridente, non ero mai
stato un genio incompreso, maturo prima del tempo, precoce e perspicace.
E nemmeno un serioso bambino
prodigio.
Nelle cornici di DAS poste a
semicerchio sulla scrivania dell’ingresso, come un pubblico che, disinteressato
allo spettacolo, si chiude su sé stesso, sfilavo trionfante – non per un motivo
preciso, in realtà –: a tre anni nella vasca da bagno, guardavo un angolo
lontano con la bocca spalancata piena di schiuma; a sei, eccomi – i capelli a
caschetto schiariti dal sole, stile
Piccola peste – con Alessandro in braccio alla mamma; a nove anni, su un
altare spoglio e buio, abbracciato teneramente da don Antonio, una Bibbia fra le
mani e un sorriso di convenienza – quello era evidente – sul viso tondo; e le
gite, quella alla Reggia di Caserta e a Monticchio, gli amici di Alessandro in
bicicletta accanto al portone del condominio, zuppi di sudore e di sole.
Effettivamente, erano poche le foto
in cui io non comparissi, con o senza barbetta, gli occhi castani inquadrati o
meno nella cornice trasparente degli occhiali, le mani grassottelle o secche, a
seconda della pinguedine infantile.
E il sorriso, quel sorriso a labbra
strette, il più largo possibile, che mi conferiva un’aria da invasato, ma sempre
così normale, naturale, spontanea.
Sorridevo persino nelle fotografie scattate il Natale del 2007, quello di Lucia.
Risi.
Avevo dimenticato di asciugarmi i
piedi sulle tre tappe zerbiniche, come le chiamavo io: il tappetino sfilacciato
al lato del portone, quello steso alla base della prima rampa di scale e il
terzo, il più ruvido, davanti alla terza porta del secondo piano, su cui era
inchiodata la targhetta sbiadita T.
MANONERA.
Avevo percepito con gioia un intenso
odore di arrosto e patatine al forno, di rosmarino e di altre erbe aromatiche, e
speravo che si sprigionasse dal mio appartamento.
E, adesso, le cornici mi ignoravano
con diffidenza sulla scrivania, appollaiate sui loro centrini sfilati e
ingialliti.
“Che mangiamo?”. Gettai lo zaino
sulla sedia accanto alla scrivania.
“Buongiorno, eh? Come stai, mamma?
Bene, Martino, ti ringrazio! Grazie, mamma, per avermi preparato il pranzo anche
oggi, te ne sarò grato per tutta la vita! E, per favore, potresti dirmi cos’hai
cucinato di buono oggi?”, urlò mia madre, nascosta dall’anta di legno del
frigorifero. In televisione un medico veniva intervistato sulle modalità di
prevenzine della calvizie.
Sbuffai.
“E dài, non è che stai meglio se te
lo chiedo”, esclamai afferrando una bottiglia d’acqua e accingendomi a
tracannarla direttamente; era umida – l’etichetta sbiadita si incollava alle
dita – e la plastica trasparente quasi mi scivolò dalla mano.
“Marti’, e no, dài! Non vedi che il
tuo bicchiere sta già sulla tavola?”
L’acqua fredda mi fece rabbrividire;
strizzai gli occhi e li spalancai.
Scostai la tenda della finestra
accanto alla TV e sospirai.
Pioveva ancora.
Il balcone rifletteva l’ombra del
palazzo addossato al mio condominio e i ghirigori geometrici della ringhiera
diffondevano un riverbero opaco, fosco; alcune paia di jeans e di calzini
grondavano pioggia, gocciolando nel loro piccolo cielo, scurendosi man mano che
assorbivano acqua. Sembravano palloncini raggrinziti.
“Aiutami ad apparecchiare la
tavola”, vociò con vigore mia madre, per sovrastare il fracasso della TV.
Ecco, vediamo se gli anime sono così immaginifici come pensa quella scema di
mamma.
Con Light funzionava, chissà se per
merito della sua intelligenza che traspariva da ogni molecola di dopobarba che
si spalmava sulle guance. O forse Sachiko era proprio cogliona.
“Mamma…”, cominciai. Sbucò dal
frigorifero con viso interessato e curioso: effettivamente, non l’avevo mai
chiamata mamma. Era imbarazzante.
Esitai. “… Perché dovrei preparare
io la tavola? Voglio dire, tu lo fai così bene. Cioè, sei una casalinga così
brava che, insomma, il mio aiuto guasterebbe il tuo lavoro, eh.”
Mi fissò con in mano un triangolino
di parmigiano da grattugiare; le occhiaie violacee si approfondirono.
“Da quand’è che te n’esci co’ ‘ste
cazzate? Apparecchia la tavola, chè fra poco viene papà.”
Ecco, appunto.
Perché certe cose accadevano solo
nelle storie?
Sospirai e raccolsi quattro
forchette umide dal lavello e le poggiai accanto ad altrettanti piatti, sul
tavolo illuminato dal bagliore grigio-azzurrognolo della televisione.
Durante il tragitto verso casa avevo
cercato di riflettere, così profondamente da centrare un paio di pozzanghere,
sul ruolo che avrebbero dovuto ricoprire Susanna e Mariagrazia nella
macellazione – piuttosto patetico chiamare il piano in quel modo, in realtà.
Avevo concluso che, se le avessi
usate – e, quindi, messe al corrente del piano – entrambe, si sarebbero potute
“alleare” per opporsi alla riuscita delle mie aspettative, o avrebbero avvisato
gli altri. No, avevo bisogno di un... di una…
Cosa più intima, diciamo.
Scartai a priori l’idea di un
rapporto sullo stampo Misa-Light: ero sicuro che nessuna delle due fosse
disposta a fare il kamikaze per me e, soprattutto, che il loro interesse nei
miei confronti fosse pari – se non minore – al mio nei loro. Non che mi
dispiacesse, tutt’altro.
Dunque, ne avrei usufruito
singolarmente, oppure solo di una delle due.
L’altra la uccido insieme al resto della
classe.
E Pierpaolo?
Chi se ne fotte di Pierpaolo, tanto, o c’è, o non c’è, non cambia nulla.
Il problema era…
“Com’è andata a scuola?”, interloquì
mia madre ruotando il tappo sulla bocca della bottiglia di plastica.
“Mmh? Bene”. Sfilai la confezione
dei tovaglioli dall’incastro in cui si trovava, spostando la bottiglietta di
aceto di mele e rischiando di far precipitare le scatole di cereali e riso che
vi si poggiavano; la gettai sul tavolo con un soffice tonfo.
Il problema…
“Be’? E solo questo mi dici?”
Sbuffai.
“Hanno detto che i quadri usciranno
il quattordici e buone vacanze e blablabla… Che altro vuoi sapere? Quante volte
sono andato a pisciare?”
Mia madre alzò gli occhi al cielo.
“Mi raccomando, sempre elegante, tu!”, gracchiò.
Il problema era, dunque: quale
scegliere?
Susanna o Mariagrazia?
Sembrava uno di quei giochetti
idioti delle elementari: Se ti trovassi su
una torre con X e Y e sotto ci fossero due letti, il Letto dell’Amore, con
lenzuola calde di seta, e il Letto del Dolore, pieno di chiodi e pezzi di vetro,
chi butteresti su uno e chi sull’altro? Sì, quel tipo di puttanate che le
bambine della classe si sussurravano arrossendo.
Nel mio caso, le alternative erano
il Letto di Casa Loro e il Letto della Morte Alias Bara.
C’era una bella differenza.
***
C’era qualcosa che Ivano chiamava dio.
“È solo una copertura, una messinscena a scopo benefico, per giustificare questo
fratricidio.”
Ero confusa: quale fratricidio? E che cos’era un fratricidio? “Uccidere un
proprio compagno o tradirlo: questo è fratricidio”, Aveva socchiuso gli occhi e
sbadigliato: le guance gli si gonfiarono innaturalmente.
“Comunque, dio non esiste. Esiste Kira, che ci aiuta e ci protegge, ma dio no,
non c’è. O, almeno, non esiste un dio creatore: chi avrebbe mai potuto
realizzare tutta questa merda?”, concluse con enfasi.
Lo schermo era più abbagliante del solito quel giorno.
“E poi”, riprese con voce sonnolenta, “anche se un individuo del genere
esistesse, non starei qui a venerarlo e reverirlo.”
Mi aveva raccontato che in Italia, una regione di Dikaia da cui proveniva Ivano,
c’era stata, moltissimi anni prima, una setta che adorava un dio terribile e
misericordioso, clemente e onnipotente: aveva creato tutto il creabile e
distrutto tutto ciò che meritava distruzione; i rituali e le liturgie si
dilungavano di anno in anno, accalappiando anche i fedeli – ormai numerosissimi
– di Kira, che, proprio in quel periodo, preparava i Grandi Giudizi. Erano i
funerali di Misa I, assassinata in un agguato dall’SPK, nota organizzazione
criminale anti-Kira: Kira I, gli aveva raccontato zia Giuseppina, aveva indetto
un periodo di lutto universale della durata di un anno intero, mentre i
notiziari di TeleCassandra trasmisero la notizia – l’ultima – più pericolosa e
diffamante per Kira I: era stato lui, secondo il politologo e giornalista Italo
Lollini, ad ammazzare la propria consorte, proprio Kira I, il Kami. Fu l’ultima
notizia trasmessa liberamente da un telegiornale: la censura, lenta e languida,
si era posata sulle bocche, le penne, le dita di tutti, per sempre.
Prima, aveva detto, c’era un Papa, un amministratore dei rapporti fra uomo e
Dio: fu molto più semplice quando Giovanni Paolo IV si alleò con Kira,
ammettendo che no, gli ebrei non li avrebbero più indotti all’errore: ecco
l’incarnazione di Dio, ecco il suo farsi terra e putrefazione, eccolo! Nessuna
crocefissione per il nuovo Messia, nessun chiodo
a spezzargli le ossa, nessun panno bagnato d’aceto sulle sue ferite, nessuno
pseudo-rito misterico per Kira, il nuovo Messia;
“Non va, non suona per niente bene.
E poi, che c’entra Dana con tutto questo? Voglio dire, che frega al lettore di
questa roba?! No, non va proprio.”
Susanna si stiracchiò, facendo
scricchiolare il letto; il computer portatile, in bilico sulle sue ginocchia,
pendeva leggermente verso di me, seduta sul materasso accanto a lei.
“No, perché lo pensi?”, esclamai;
d’accordo, forse quell’accecante pagina di Word era troppo prolissa, almeno per
Susanna, e, forse, i dettagli inseriti erano piuttosto secondari e fini a sé
stessi, però… Insomma, andava bene. “Cioè, cosa c’è che non va? L’hai scritto
bene l’inizio del capitolo, davvero!”
Non volevo che si preoccupasse
troppo e, probabilmente, era giusto che le allieviassi almeno la poderosa
insoddisfazione artistica che aleggiava in quel momento fra le sue dita e la
tastiera argentata del portatile. Non avrei voluto mentire, ma non sopportavo di
subire la sua indolenza – spesso esagerata e capricciosa.
È necessario, mi ripetevo.
Certo che lo era.
“No, Margie, no, no, no no no… Non
va per niente bene, no no”. Sbuffò sonoramente e continuò a negare
alternativamente borbottando o ribadendo con potente decisione. Avrei voluto
calmarla, avrei voluto avere la garanzia di poterlo fare.
Non era così, no.
“E, oltretutto, che può fregare di
dio a una tizia di undici anni? Voglio dire, sarà pure un Boia e tutto il resto,
ma è sempre una bambina! Non è realistico, non è…”
Tacqui: spiegarle che il capitolo di
The Electric Metempsychosis era ben
avviato l’avrebbe solo innervosita.
Percepii la vibrazione sulla coscia
prima ancora della suoneria.
Itsuwari osore kyoshoku urei
Samaza…
“Pronto?”, risposi senza controllare
il numero chiamante.
“Vuoi venire a casa a mangiare o
vuoi che te lo porto da Susanna il piatto?”. Il tono cupo di mio padre mi
infastidì.
Che giornata di merda.
Mi sembrava di trovarmi fra le
pagine di Cento colpi di spazzola prima di
andare a dormire: quella lugubre vacuità mi asfissiava, volevo fuggire, fare
qualsiasi altra cosa piuttosto che stare ferma lì, seduta, a guardare e
commentare, come quelle vecchie signore benvestite e perbeniste che parlottavano
fra i brulli banchi di un’asfittica chiesetta cittadina.
Volevo sentire gli ingranaggi
ringhiare, le cinghie tendersi, le viti ruotare come i cingoli dei treni.
Piangere, incazzarmi, ridere, ferirmi,
godere… Voglio fare tutte queste cose insieme.
E l’unico minimo comune denominatore
era…
… Il sesso.
Come sempre.
Rassicurai mio padre – con il mio
tono di voce probabilmente lo impensierii ulteriormente.
“Ehi, io devo tornare a casa.”
Mi sciolsi dalla posizione
intrecciata che avevo assunto sul letto di Susanna e mi infilai le scarpe con la
chiusura a strappo.
“No no no no no”, continuava a
ripetere Susanna fissando lo schermo e rileggendo per l’ennesima volta l’incipit
del capitolo.
“Ciao”, mormorò infine – forse si
trattava di un riflesso volontario, pareva troppo assente persino per accorgersi
di esistere.
Mi avviai verso la porta scorrevole
della sua stanza. Di solito gli ospiti si
accompagnano alla porta. Mi vergognai subito di quel pensiero gretto e mi
affrettai ulteriormente.
Magari finissi come Melissa P.
Ecco, un’altra volta: gli occhi si
offuscarono, l’immagine nitida del corridoio di casa Faretra mi parve un unico
frullio di colori, come se fossero stati vomitati dopo giorni di digestione.
Incrociai per le scale Nicoletta, la
sorella di Susanna, e sua madre. Quando le salutai non ero ancora scoppiata a
piangere.
***
Mentre aspettavo che mia madre mi
sbucciasse un mandarino, la decisione era già stata presa.
Susanna.
E Mariagrazia sul Letto della Morte
o come cazzo si chiamava.
In realtà, la scelta mi parve
alquanto ovvia per vari motivi, ma riflettei ugualmente in modo analitico.
Susanna approverebbe.
Sì, era quello il punto di
riferimento da cui partii: considerando non solo la sua predilezione per Light –
di cui ero venuto a conoscenza tramite Facebook – ma anche le sue incaute
affermazioni parevano perfettamente in sintonia con le mie intenzioni. Spesso,
durante le assemblee di classe, lei e Mariagrazia si erano estraniate dai rari
dibattiti sull’andamento generale del gruppo classe, sul rapporto fra studenti e
professori, sul comportamento dei vari elementi costitutivi e altre migliaia di
argomenti che conferivano una narcisistica professionalità ai rappresentanti;
ciononostante, a volte persino Susanna si era gettata nelle discussioni,
mostrandosi aggressiva e implacabile, giudicando con irruenza la maggior parte
della classe, offendendone molti – ma sempre con accuse ben fondate.
Ecco, questa decisione mancava a
Mariagrazia, che, per quel poco che l’avevo osservata, pareva un triste pendolo
solitario, uno di quelli che battono l’ora ogni quindici minuti, ma che, subito
dopo, ripiombano nel silenzio delle lancette pigre e monotone.
Inoltre, era impossibile non pensare
a Mariagrazia come la solita moralista a cui non stava bene la società, ma
contro la quale non levava nemmeno lo sguardo – non per essere accettata, solo
per inerzia e autocommiserazione. Tipico
delle ragazze brutte.
Ingoiai uno spicchio di mandarino
senza masticarlo.
E poi Mariagrazia va d’accordo Khadija.
Non sarebbero dovuti rientrare i
giudizi di carattere personale, ma, in fondo, il suo ruolo non poteva essere
recepito altrimenti.
Susanna è spregiudicata.
E perennemente incazzata, notai, il che poteva risultare utile.
Staccai un altro spicchio da quella
ruvida sfera arancione, mentre attorno a me la voce di una giovane giornalista
decantava la delazione di un pentito di mafia a Messina.
“I peggio criminali stanno tutti in
Sicilia, ma come si fa?!”, chiosò mio padre addentando una fetta di pane
ricoperta di pomodorini tagliati a metà.
Già, criminali. Magari sarebbe stato
più sensato spendere tutte quelle forze per aiutare la gente, uccidere i
malviventi e liberare l’Italia dall’oppressione della criminalità organizzata.
Il mandarino mi andò quasi di
traverso.
Non sono mica un dio…
Non ero solidale come Light, né
autolesionista. Né, intelligente – era ovvio.
E non avrei mai voluto esserlo.
L’esclamazione di mio padre fu
interrotta dalla recitazione quasi letterale da parte di mia madre del servizio
sulla prevenzione della calvizie, sicuramente per prendere provvedimenti
riguardo ad Alessandro, sulla cui testa si stava allargando una piccola
superficie rosastra, proprio al centro.
Dunque, Susanna.
Avrebbe sicuramente accettato, forse
anche senza discutere.
Alcuni filamenti bianchi di
mandarino mi si impigliarono fra i denti.
Mi alzai gettando il tovagliolo
appallottolato sul tavolo, mancando per un centimetro il bicchiere colmo d’acqua
di mia madre. e passai accanto ad
Alessandro, che rigirava una polpetta nel piatto con aria assonnata.
Avevo programmato di giocare tutto
il pomeriggio alla PlayStation 3, ma accesi il computer con una mano e mi gettai
in bocca i due spicchi di mandarino rimasti con l’altra.
“Marti’, lavati i denti per favore!
Prima in televisione è uscito un dentista che ha detto che ci si deve lavare i
denti dopo ogni pasto anche senza dentifricio!”, urlò esaltata mia madre.
“Sì, ora me li lavo!”, le gridai di
rimando sedendomi davanti al monitor e raccogliendo dal cassetto il mouse
wireless.
OK, ora vediamo come contattare Susanna.
Magari non sarei mai riuscito ad
entrare nel server della polizia, ma di Light non avrei mai potuto invidiare
l’abilità con i computer e gli apparecchi elettronici –
A parte i frigoriferi, avrei
commentato se Alessandro mi avesse ascoltato, dal momento che ne avevo
incendiato uno all’età di nove anni rischiando di arrostire mio fratello.
Sorrisi, nostalgico.
Avevo già pensato non solo a come
contattarla, ma anche a controllare la sua affidabilità.
Cliccai due volte su
Risorse del computer e sulla cartella
Documenti – god_of_war.
Devo usare ciò che ho, solo ciò che ho. Non è questo che fa Light?
Selezionari
Varie e scorsi la pagina con il mouse, cercando la cartella che
m’interessava. Storie… Fantacalcio… Patch…
My Malware, eccolo!
Cercai di disincastrare con la punta
della lingua i filamenti di mandarino dalla fessura fra il canino e un
premolare.
OK, My Malware.
Cliccai due volte su quest’ultima
icona e scelsi uno dei sette file che scorsero davanti ai miei occhi.
Aprii MSN e accedetti, sperando che
i due omini verdi che ruotavano, l’uno di fronte all’altro, non impiegassero
troppo tempo a fissarsi – senza avere occhi, per giunta.
Nell’attesa, recuperai le auricolari
dallo zaino e me le infilai, aprendo la prima canzone che mi capitò
sottomouse, come si suol dire.
Her bouquets are wilted
Too long has She slept
Their cruel red mouths darkened
To bowed silhouettes
I saw in a new moon
With Her scent on my breath
But then all too soon
Came the hunger for flesh
gorgogliarono le auricolari a volume
elevatissimo.
Amor e morte.
Era trascorso davvero molto tempo dall’ultima volta che gli ululati dei Cradle
of Filth mi avevano trapiantato nelle loro atmosfere gotiche e strazianti.
Quasi non mi accorsi che le figurine
verdognole e tondeggianti erano sparite.
Finalmente si sono levati dalle palle, sospirai.
Senza controllare le e-mail ricevute
e impostando il mio stato su Invisibile,
selezionai la casella di posta elettronica e inviai una catena a caso,
scegliendo fra i modelli proposti da quelle che mi inviava costantemente Aldo,
allegando il file scelto all’e-mail e nascondendo il mittente con il programma
ANPrank v 2.1.
Digitai il destinatario:
suzie92-suckyousock@live.it
Sorrisi.
Che strano, basta solo aprire un batch e…
***
Erano le diciassette e quattordici
quando mia madre mi gridò che c’era Susanna al telefono. Mi stiracchiai nel
letto e notai fra le fessure delle persiane che aveva già smesso di piovere;
alcune strisce di sole si riflettevano sulla superficie di vetro della scrivania
e sul termosifone spento, che gettava bagliori cianotici sulle lenzuola. Mi
infilai gli occhiali e raccolsi la cornetta tendendo il filo attorcigliato.
“… e non funziona più!”, piagnucolò
Susanna.
“Eh?”
“Ho detto: stavo scrivendo al
computer e, ad un certo punto, si è spento e ora non funziona più!”, ripeté con
voce ancora più acuta.
“Che faccio?”, mi domandò disperata.
Ingoiai la striscia di unghia che
stavo mordicchiando.