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Autore: francy91    07/12/2009    1 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Salve. Ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono contenta che Mariagrazia ti piaccia, tengo molto a questo personaggio.

Buona lettura.

 

Unghie e mandarini

 

Da piccolo sorridevo sempre: non ero uno di quei bimbi capricciosi che fanno smorfie assurde nelle foto e tirano gli orecchini alla mamma quando si annoiano. Ero sempre sorridente, non ero mai stato un genio incompreso, maturo prima del tempo, precoce e perspicace.

E nemmeno un serioso bambino prodigio.

Nelle cornici di DAS poste a semicerchio sulla scrivania dell’ingresso, come un pubblico che, disinteressato allo spettacolo, si chiude su sé stesso, sfilavo trionfante – non per un motivo preciso, in realtà –: a tre anni nella vasca da bagno, guardavo un angolo lontano con la bocca spalancata piena di schiuma; a sei, eccomi – i capelli a caschetto schiariti dal sole, stile Piccola peste – con Alessandro in braccio alla mamma; a nove anni, su un altare spoglio e buio, abbracciato teneramente da don Antonio, una Bibbia fra le mani e un sorriso di convenienza – quello era evidente – sul viso tondo; e le gite, quella alla Reggia di Caserta e a Monticchio, gli amici di Alessandro in bicicletta accanto al portone del condominio, zuppi di sudore e di sole.

Effettivamente, erano poche le foto in cui io non comparissi, con o senza barbetta, gli occhi castani inquadrati o meno nella cornice trasparente degli occhiali, le mani grassottelle o secche, a seconda della pinguedine infantile.

E il sorriso, quel sorriso a labbra strette, il più largo possibile, che mi conferiva un’aria da invasato, ma sempre così normale, naturale, spontanea. Sorridevo persino nelle fotografie scattate il Natale del 2007, quello di Lucia.

Risi.

Avevo dimenticato di asciugarmi i piedi sulle tre tappe zerbiniche, come le chiamavo io: il tappetino sfilacciato al lato del portone, quello steso alla base della prima rampa di scale e il terzo, il più ruvido, davanti alla terza porta del secondo piano, su cui era inchiodata la targhetta sbiadita T. MANONERA.

Avevo percepito con gioia un intenso odore di arrosto e patatine al forno, di rosmarino e di altre erbe aromatiche, e speravo che si sprigionasse dal mio appartamento.

E, adesso, le cornici mi ignoravano con diffidenza sulla scrivania, appollaiate sui loro centrini sfilati e ingialliti.

“Che mangiamo?”. Gettai lo zaino sulla sedia accanto alla scrivania.

“Buongiorno, eh? Come stai, mamma? Bene, Martino, ti ringrazio! Grazie, mamma, per avermi preparato il pranzo anche oggi, te ne sarò grato per tutta la vita! E, per favore, potresti dirmi cos’hai cucinato di buono oggi?”, urlò mia madre, nascosta dall’anta di legno del frigorifero. In televisione un medico veniva intervistato sulle modalità di prevenzine della calvizie.

Sbuffai.

“E dài, non è che stai meglio se te lo chiedo”, esclamai afferrando una bottiglia d’acqua e accingendomi a tracannarla direttamente; era umida – l’etichetta sbiadita si incollava alle dita – e la plastica trasparente quasi mi scivolò dalla mano.

“Marti’, e no, dài! Non vedi che il tuo bicchiere sta già sulla tavola?”

L’acqua fredda mi fece rabbrividire; strizzai gli occhi e li spalancai.

Scostai la tenda della finestra accanto alla TV e sospirai.

Pioveva ancora.

Il balcone rifletteva l’ombra del palazzo addossato al mio condominio e i ghirigori geometrici della ringhiera diffondevano un riverbero opaco, fosco; alcune paia di jeans e di calzini grondavano pioggia, gocciolando nel loro piccolo cielo, scurendosi man mano che assorbivano acqua. Sembravano palloncini raggrinziti.

“Aiutami ad apparecchiare la tavola”, vociò con vigore mia madre, per sovrastare il fracasso della TV.

Ecco, vediamo se gli anime sono così immaginifici come pensa quella scema di mamma.

Con Light funzionava, chissà se per merito della sua intelligenza che traspariva da ogni molecola di dopobarba che si spalmava sulle guance. O forse Sachiko era proprio cogliona.

“Mamma…”, cominciai. Sbucò dal frigorifero con viso interessato e curioso: effettivamente, non l’avevo mai chiamata mamma. Era imbarazzante.

Esitai. “… Perché dovrei preparare io la tavola? Voglio dire, tu lo fai così bene. Cioè, sei una casalinga così brava che, insomma, il mio aiuto guasterebbe il tuo lavoro, eh.”

Mi fissò con in mano un triangolino di parmigiano da grattugiare; le occhiaie violacee si approfondirono.

“Da quand’è che te n’esci co’ ‘ste cazzate? Apparecchia la tavola, chè fra poco viene papà.”

Ecco, appunto.

Perché certe cose accadevano solo nelle storie?

Sospirai e raccolsi quattro forchette umide dal lavello e le poggiai accanto ad altrettanti piatti, sul tavolo illuminato dal bagliore grigio-azzurrognolo della televisione.

Durante il tragitto verso casa avevo cercato di riflettere, così profondamente da centrare un paio di pozzanghere, sul ruolo che avrebbero dovuto ricoprire Susanna e Mariagrazia nella macellazione – piuttosto patetico chiamare il piano in quel modo, in realtà.

Avevo concluso che, se le avessi usate – e, quindi, messe al corrente del piano – entrambe, si sarebbero potute “alleare” per opporsi alla riuscita delle mie aspettative, o avrebbero avvisato gli altri. No, avevo bisogno di un... di una… Cosa più intima, diciamo.

Scartai a priori l’idea di un rapporto sullo stampo Misa-Light: ero sicuro che nessuna delle due fosse disposta a fare il kamikaze per me e, soprattutto, che il loro interesse nei miei confronti fosse pari – se non minore – al mio nei loro. Non che mi dispiacesse, tutt’altro.

Dunque, ne avrei usufruito singolarmente, oppure solo di una delle due. L’altra la uccido insieme al resto della classe.

E Pierpaolo? Chi se ne fotte di Pierpaolo, tanto, o c’è, o non c’è, non cambia nulla.

Il problema era…

“Com’è andata a scuola?”, interloquì mia madre ruotando il tappo sulla bocca della bottiglia di plastica.

“Mmh? Bene”. Sfilai la confezione dei tovaglioli dall’incastro in cui si trovava, spostando la bottiglietta di aceto di mele e rischiando di far precipitare le scatole di cereali e riso che vi si poggiavano; la gettai sul tavolo con un soffice tonfo.

Il problema…

“Be’? E solo questo mi dici?”

Sbuffai.

“Hanno detto che i quadri usciranno il quattordici e buone vacanze e blablabla… Che altro vuoi sapere? Quante volte sono andato a pisciare?”

Mia madre alzò gli occhi al cielo. “Mi raccomando, sempre elegante, tu!”, gracchiò.

Il problema era, dunque: quale scegliere?

Susanna o Mariagrazia?

Sembrava uno di quei giochetti idioti delle elementari: Se ti trovassi su una torre con X e Y e sotto ci fossero due letti, il Letto dell’Amore, con lenzuola calde di seta, e il Letto del Dolore, pieno di chiodi e pezzi di vetro, chi butteresti su uno e chi sull’altro? Sì, quel tipo di puttanate che le bambine della classe si sussurravano arrossendo.

Nel mio caso, le alternative erano il Letto di Casa Loro e il Letto della Morte Alias Bara.

C’era una bella differenza.

 

***

C’era qualcosa che Ivano chiamava dio.

“È solo una copertura, una messinscena a scopo benefico, per giustificare questo fratricidio.”

Ero confusa: quale fratricidio? E che cos’era un fratricidio? “Uccidere un proprio compagno o tradirlo: questo è fratricidio”, Aveva socchiuso gli occhi e sbadigliato: le guance gli si gonfiarono innaturalmente.

“Comunque, dio non esiste. Esiste Kira, che ci aiuta e ci protegge, ma dio no, non c’è. O, almeno, non esiste un dio creatore: chi avrebbe mai potuto realizzare tutta questa merda?”, concluse con enfasi.

Lo schermo era più abbagliante del solito quel giorno.

“E poi”, riprese con voce sonnolenta, “anche se un individuo del genere esistesse, non starei qui a venerarlo e reverirlo.”

Mi aveva raccontato che in Italia, una regione di Dikaia da cui proveniva Ivano, c’era stata, moltissimi anni prima, una setta che adorava un dio terribile e misericordioso, clemente e onnipotente: aveva creato tutto il creabile e distrutto tutto ciò che meritava distruzione; i rituali e le liturgie si dilungavano di anno in anno, accalappiando anche i fedeli – ormai numerosissimi – di Kira, che, proprio in quel periodo, preparava i Grandi Giudizi. Erano i funerali di Misa I, assassinata in un agguato dall’SPK, nota organizzazione criminale anti-Kira: Kira I, gli aveva raccontato zia Giuseppina, aveva indetto un periodo di lutto universale della durata di un anno intero, mentre i notiziari di TeleCassandra trasmisero la notizia – l’ultima – più pericolosa e diffamante per Kira I: era stato lui, secondo il politologo e giornalista Italo Lollini, ad ammazzare la propria consorte, proprio Kira I, il Kami. Fu l’ultima notizia trasmessa liberamente da un telegiornale: la censura, lenta e languida, si era posata sulle bocche, le penne, le dita di tutti, per sempre.

Prima, aveva detto, c’era un Papa, un amministratore dei rapporti fra uomo e Dio: fu molto più semplice quando Giovanni Paolo IV si alleò con Kira, ammettendo che no, gli ebrei non li avrebbero più indotti all’errore: ecco l’incarnazione di Dio, ecco il suo farsi terra e putrefazione, eccolo! Nessuna crocefissione per il nuovo Messia, nessun  chiodo a spezzargli le ossa, nessun panno bagnato d’aceto sulle sue ferite, nessuno pseudo-rito misterico per Kira, il nuovo Messia;

 

“Non va, non suona per niente bene. E poi, che c’entra Dana con tutto questo? Voglio dire, che frega al lettore di questa roba?! No, non va proprio.”

Susanna si stiracchiò, facendo scricchiolare il letto; il computer portatile, in bilico sulle sue ginocchia, pendeva leggermente verso di me, seduta sul materasso accanto a lei.

“No, perché lo pensi?”, esclamai; d’accordo, forse quell’accecante pagina di Word era troppo prolissa, almeno per Susanna, e, forse, i dettagli inseriti erano piuttosto secondari e fini a sé stessi, però… Insomma, andava bene. “Cioè, cosa c’è che non va? L’hai scritto bene l’inizio del capitolo, davvero!”

Non volevo che si preoccupasse troppo e, probabilmente, era giusto che le allieviassi almeno la poderosa insoddisfazione artistica che aleggiava in quel momento fra le sue dita e la tastiera argentata del portatile. Non avrei voluto mentire, ma non sopportavo di subire la sua indolenza – spesso esagerata e capricciosa. È necessario, mi ripetevo.

Certo che lo era.

“No, Margie, no, no, no no no… Non va per niente bene, no no”. Sbuffò sonoramente e continuò a negare alternativamente borbottando o ribadendo con potente decisione. Avrei voluto calmarla, avrei voluto avere la garanzia di poterlo fare.

Non era così, no.

“E, oltretutto, che può fregare di dio a una tizia di undici anni? Voglio dire, sarà pure un Boia e tutto il resto, ma è sempre una bambina! Non è realistico, non è…”

Tacqui: spiegarle che il capitolo di The Electric Metempsychosis era ben avviato l’avrebbe solo innervosita.

Percepii la vibrazione sulla coscia prima ancora della suoneria.

Itsuwari osore kyoshoku urei

Samaza…

“Pronto?”, risposi senza controllare il numero chiamante.

“Vuoi venire a casa a mangiare o vuoi che te lo porto da Susanna il piatto?”. Il tono cupo di mio padre mi infastidì.

Che giornata di merda.

Mi sembrava di trovarmi fra le pagine di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: quella lugubre vacuità mi asfissiava, volevo fuggire, fare qualsiasi altra cosa piuttosto che stare ferma lì, seduta, a guardare e commentare, come quelle vecchie signore benvestite e perbeniste che parlottavano fra i brulli banchi di un’asfittica chiesetta cittadina.

Volevo sentire gli ingranaggi ringhiare, le cinghie tendersi, le viti ruotare come i cingoli dei treni. Piangere, incazzarmi, ridere, ferirmi, godere… Voglio fare tutte queste cose insieme.

E l’unico minimo comune denominatore era…

… Il sesso.

Come sempre.

Rassicurai mio padre – con il mio tono di voce probabilmente lo impensierii ulteriormente.

“Ehi, io devo tornare a casa.”

Mi sciolsi dalla posizione intrecciata che avevo assunto sul letto di Susanna e mi infilai le scarpe con la chiusura a strappo.

“No no no no no”, continuava a ripetere Susanna fissando lo schermo e rileggendo per l’ennesima volta l’incipit del capitolo.

“Ciao”, mormorò infine – forse si trattava di un riflesso volontario, pareva troppo assente persino per accorgersi di esistere.

Mi avviai verso la porta scorrevole della sua stanza. Di solito gli ospiti si accompagnano alla porta. Mi vergognai subito di quel pensiero gretto e mi affrettai ulteriormente.

Magari finissi come Melissa P.

Ecco, un’altra volta: gli occhi si offuscarono, l’immagine nitida del corridoio di casa Faretra mi parve un unico frullio di colori, come se fossero stati vomitati dopo giorni di digestione.

Incrociai per le scale Nicoletta, la sorella di Susanna, e sua madre. Quando le salutai non ero ancora scoppiata a piangere.

 

***

Mentre aspettavo che mia madre mi sbucciasse un mandarino, la decisione era già stata presa.

Susanna.

E Mariagrazia sul Letto della Morte o come cazzo si chiamava.

In realtà, la scelta mi parve alquanto ovvia per vari motivi, ma riflettei ugualmente in modo analitico.

Susanna approverebbe.

Sì, era quello il punto di riferimento da cui partii: considerando non solo la sua predilezione per Light – di cui ero venuto a conoscenza tramite Facebook – ma anche le sue incaute affermazioni parevano perfettamente in sintonia con le mie intenzioni. Spesso, durante le assemblee di classe, lei e Mariagrazia si erano estraniate dai rari dibattiti sull’andamento generale del gruppo classe, sul rapporto fra studenti e professori, sul comportamento dei vari elementi costitutivi e altre migliaia di argomenti che conferivano una narcisistica professionalità ai rappresentanti; ciononostante, a volte persino Susanna si era gettata nelle discussioni, mostrandosi aggressiva e implacabile, giudicando con irruenza la maggior parte della classe, offendendone molti – ma sempre con accuse ben fondate.

Ecco, questa decisione mancava a Mariagrazia, che, per quel poco che l’avevo osservata, pareva un triste pendolo solitario, uno di quelli che battono l’ora ogni quindici minuti, ma che, subito dopo, ripiombano nel silenzio delle lancette pigre e monotone.

Inoltre, era impossibile non pensare a Mariagrazia come la solita moralista a cui non stava bene la società, ma contro la quale non levava nemmeno lo sguardo – non per essere accettata, solo per inerzia e autocommiserazione. Tipico delle ragazze brutte.

Ingoiai uno spicchio di mandarino senza masticarlo.

E poi Mariagrazia va d’accordo Khadija. Non sarebbero dovuti rientrare i giudizi di carattere personale, ma, in fondo, il suo ruolo non poteva essere recepito altrimenti.

Susanna è spregiudicata. E perennemente incazzata, notai, il che poteva risultare utile.

Staccai un altro spicchio da quella ruvida sfera arancione, mentre attorno a me la voce di una giovane giornalista decantava la delazione di un pentito di mafia a Messina.

“I peggio criminali stanno tutti in Sicilia, ma come si fa?!”, chiosò mio padre addentando una fetta di pane ricoperta di pomodorini tagliati a metà.

Già, criminali. Magari sarebbe stato più sensato spendere tutte quelle forze per aiutare la gente, uccidere i malviventi e liberare l’Italia dall’oppressione della criminalità organizzata.

Il mandarino mi andò quasi di traverso.

Non sono mica un dio…

Non ero solidale come Light, né autolesionista. Né, intelligente – era ovvio.

E non avrei mai voluto esserlo.

L’esclamazione di mio padre fu interrotta dalla recitazione quasi letterale da parte di mia madre del servizio sulla prevenzione della calvizie, sicuramente per prendere provvedimenti riguardo ad Alessandro, sulla cui testa si stava allargando una piccola superficie rosastra, proprio al centro.

Dunque, Susanna.

Avrebbe sicuramente accettato, forse anche senza discutere.

Alcuni filamenti bianchi di mandarino mi si impigliarono fra i denti.

Mi alzai gettando il tovagliolo appallottolato sul tavolo, mancando per un centimetro il bicchiere colmo d’acqua di mia madre.  e passai accanto ad Alessandro, che rigirava una polpetta nel piatto con aria assonnata.

Avevo programmato di giocare tutto il pomeriggio alla PlayStation 3, ma accesi il computer con una mano e mi gettai in bocca i due spicchi di mandarino rimasti con l’altra.

“Marti’, lavati i denti per favore! Prima in televisione è uscito un dentista che ha detto che ci si deve lavare i denti dopo ogni pasto anche senza dentifricio!”, urlò esaltata mia madre.

“Sì, ora me li lavo!”, le gridai di rimando sedendomi davanti al monitor e raccogliendo dal cassetto il mouse wireless.

OK, ora vediamo come contattare Susanna.

Magari non sarei mai riuscito ad entrare nel server della polizia, ma di Light non avrei mai potuto invidiare l’abilità con i computer e gli apparecchi elettronici – A parte i frigoriferi, avrei commentato se Alessandro mi avesse ascoltato, dal momento che ne avevo incendiato uno all’età di nove anni rischiando di arrostire mio fratello. Sorrisi, nostalgico.

Avevo già pensato non solo a come contattarla, ma anche a controllare la sua affidabilità.

Cliccai due volte su Risorse del computer e sulla cartella Documenti – god_of_war.

Devo usare ciò che ho, solo ciò che ho. Non è questo che fa Light?

Selezionari Varie e scorsi la pagina con il mouse, cercando la cartella che m’interessava. Storie… Fantacalcio… Patch… My Malware, eccolo!

Cercai di disincastrare con la punta della lingua i filamenti di mandarino dalla fessura fra il canino e un premolare.

OK, My Malware.

Cliccai due volte su quest’ultima icona e scelsi uno dei sette file che scorsero davanti ai miei occhi.

Aprii MSN e accedetti, sperando che i due omini verdi che ruotavano, l’uno di fronte all’altro, non impiegassero troppo tempo a fissarsi – senza avere occhi, per giunta.

Nell’attesa, recuperai le auricolari dallo zaino e me le infilai, aprendo la prima canzone che mi capitò sottomouse, come si suol dire.

 

Her bouquets are wilted
Too long has She slept
Their cruel red mouths darkened
To bowed silhouettes
I saw in a new moon
With Her scent on my breath
But then all too soon
Came the hunger for flesh

 

gorgogliarono le auricolari a volume elevatissimo.

Amor e morte. Era trascorso davvero molto tempo dall’ultima volta che gli ululati dei Cradle of Filth mi avevano trapiantato nelle loro atmosfere gotiche e strazianti.

Quasi non mi accorsi che le figurine verdognole e tondeggianti erano sparite.

Finalmente si sono levati dalle palle, sospirai.

Senza controllare le e-mail ricevute e impostando il mio stato su Invisibile, selezionai la casella di posta elettronica e inviai una catena a caso, scegliendo fra i modelli proposti da quelle che mi inviava costantemente Aldo, allegando il file scelto all’e-mail e nascondendo il mittente con il programma ANPrank v 2.1.

Digitai il destinatario: suzie92-suckyousock@live.it

Sorrisi.

Che strano, basta solo aprire un batch e…

 

***

Erano le diciassette e quattordici quando mia madre mi gridò che c’era Susanna al telefono. Mi stiracchiai nel letto e notai fra le fessure delle persiane che aveva già smesso di piovere; alcune strisce di sole si riflettevano sulla superficie di vetro della scrivania e sul termosifone spento, che gettava bagliori cianotici sulle lenzuola. Mi infilai gli occhiali e raccolsi la cornetta tendendo il filo attorcigliato.

“… e non funziona più!”, piagnucolò Susanna.

“Eh?”

“Ho detto: stavo scrivendo al computer e, ad un certo punto, si è spento e ora non funziona più!”, ripeté con voce ancora più acuta.

“Che faccio?”, mi domandò disperata.

Ingoiai la striscia di unghia che stavo mordicchiando.

   
 
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