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Autore: Elos    10/12/2009    2 recensioni
Itachi Uchiha era un ninja.
Itachi Uchiha era un ANBU.
Come tutti i ninja sapeva che per portare a termine il proprio dovere bisognava prima di ogni altra cosa pensare al dovere.
Come tutti gli ANBU sapeva che per portare a termine il proprio dovere bisognava pensare al dovere e continuare a pensarlo, e a pensarlo, e a pensarlo, un mantra e una preghiera, una cantilena nella testa, sino a quando il dovere non diveniva tutto, semplicemente, annullando qualunque altro pensiero.

Tra i confini del Vento e del Fuoco, la storia dell'ANBU e della farfalla.
Genere: Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Itachi, Kisame Hoshigaki, Nuovo Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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2. pioggia



Idomizu1 era un posto da fuori dal mondo.
Il mondo, molto semplicemente, era rimasto indietro: era rimasto oltre il deserto ed oltre la muraglia impenetrabile di rocce a picco e schegge di granito, era rimasto oltre una strada che si snodava troppo lunga e troppo stretta in mezzo al nulla.
Idomizu era un posto fuori dal mondo, un ago al confine tra la sabbia e la foresta, un pozzo d'acqua sorgiva che era tutta la sua ricchezza e tutta la sua ragion d'essere.
C'erano quattro case, una locanda, un negozio e il pozzo.
Una volta a Idomizu c'era stata anche un'antica villa piuttosto elegante che il tempo aveva trasformato in un posto di sosta dotato di terme, dapprima, poi in una stamberga mal frequentata, poi in una rovina cadente: infine, il deserto l'aveva inghiottita.
Il deserto aveva la tendenza a inghiottirsi molte cose, da quelle parti: le case, innanzitutto, e poi gli orti, l'acqua, la prosperità, la salute...
Il deserto si portava via anche la memoria delle cose. Nulla si ricorda, sotto la sabbia, sotto il vento.

Guardando attraverso la finestra vedeva la pioggia rigare i vetri, scorrere sulla grata e scivolare lenta, le gocce in un folle arabesco fiorito di stille che i fulmini accendevano di luce bianca.
Pioveva da giorni su Idomizu: la sabbia si era trasformata in una distesa infida e molle che pareva aspettare solo che un qualche viaggiatore incauto mettesse piede fuori dal tracciato del sentiero per fagocitarlo e farlo sparire.
La strada stessa era scomparsa lì in mezzo.
Le piaceva la pioggia che lavava, lavava via tutto, lavava anche il mondo, e poi rimaneva lei sola.
Lei ricordava d'essere stata vento accanto all'acqua, e cos'è la pioggia se non vento e acqua, puramente, candidamente, vento e acqua? Anche adesso che l'acqua non c'era più e il vento dormiva, così, le piaceva guardare la pioggia. Le ricordava tutto ciò che avrebbe potuto essere. Una specie di seconda vita che le passava davanti agli occhi, ogni volta che pioveva, ad ogni acquazzone.
Dietro alla ragnatela della pioggia sui vetri c'era un'ombra scura che risaliva lentamente la strada da est. Lei, incuneata sul davanzale interno, appoggiò la fronte alla finestra per guardar meglio.
L'ombra, che doveva essere quella d'un folle, per viaggiare con quel tempo in quel posto, camminava piano. Vestiva di nero, forse: in quel buio anche il rosso sarebbe sembrato nero, anche il giallo. Si teneva nel mezzo del sentiero, evitando le infide e pericolose pozze d'acqua che nascondevano sabbia collosa, pronta a risucchiare piedi e scarpe.
Muoveva con una specie di grazia lenta e quieta e le diede, per un attimo, l'impressione d'uno spettro.
Lei posò le mani contro i vetri.
Era abituata agli spettri. Non aveva niente contro di essi: i morti erano morti, fossero stati in vita nemici o amici, alleati o avversari, erano tutti morti che desideravano il riposo, non provavano rancore né ira, lei lo credeva, non cercavano vendetta.
Gli spettri avevano avuto insieme morte e pace. Tutto il resto non interessava loro.
Non era uno spettro, però, quello che si faceva largo sotto la pioggia e tra la sabbia, attraversando il confine tagliato dalla prima casa di Idomizu: ondeggiava un po' troppo per esserlo, ed era un po' troppo infangato e presente.
Lei lo vide fermarsi davanti al pozzo ed alzare la testa per guardarsi intorno, sorpassare con gli occhi le case e osservare, finalmente, la locanda. La ragazza che guardava ne ricevette solo un'immagine di bianco in mezzo al nero: subito dopo il viandante avanzò sino alla porta e sparì all'interno.
Rimase seduta ancora ancora per un attimo sul davanzale, godendo del freddo e del tamburellare lieve della pioggia sulla finestra, lo scorrere sottile dell'acqua a disegnare strade sul vetro trasparente e sull'intonaco malandato dell'esterno.
Era buio, a Idomizu, sotto la pioggia.
- Hanako? - 2
La porta che si era aperta alle sue spalle faceva filtrare all'interno della stanza una striscia di luce chiara.
- Hanako, il padrone vuole che scenda anche tu. C'è la sala piena. -
Idomizu era deserto, non un'anima nelle vie infangate. Anche i sorci e i cani sembrava si fossero rintanati da qualche parte, nascondendosi nel buio. Non un'ombra, pensò lei.
Lo spettro che aveva attraversato il villaggio pochi minuti prima già le pareva irreale come un sogno.
- Arrivo subito, Noa. - Scivolò giù dal davanzale, le mani che salivano a sciogliere la treccia lunga e liscia dei capelli. - Dammi un attimo per prepararmi. -

Li aveva pettinati e raccolti, quei capelli, sulla nuca.
Al padrone del Ryookosya no Heya3 non piaceva che li legasse. Il padrone aveva sempre l'ultima parola, in genere, su tutto ciò che riguardava le sue lavoranti, ma Hanako aveva più libertà delle altre. Era normale che l'avesse: lo sapevano tutti, quello, anche gli ultimi arrivati a Idomizu, anche i bambini. Anche gli idioti lo sapevano e sapevano perché.
Solo i viaggiatori non ne avevano idea: ed era meglio così.
Passò tra un tavolo e l'altro con il piccolo tamburo a forma di clessidra stretto nella sinistra contro il grembo sottile. Vi faceva scorrere sopra i polpastrelli dell'altra mano, traendone un picchiettare lieve ed ovattato come di sogno inquieto.
Suonava ad occhi chiusi, perché non vedere era meglio.
Non vedere era come essere di nuovo nella piazza di Sunagakure, a danzare con Mizuki4 nei cerchi intorno al fuoco, i capelli sciolti e le lame nei foderi, e non lì, non ad Idomizu con un vestito da festa sbagliata e tanti sconosciuti dei quali non le importava affatto.
Non li odiava, non li disprezzava: non provava, semplicemente, niente. Era così da un po'. Il niente era meglio del dolore: tutto era meglio del dolore, tutto era meglio del pensiero di Mizuki, Mizuki che non c'era più, niente più cerchi intorno al fuoco e danze lente delle spade in coppia, niente più Mizuki tutti i giorni, niente più dividere odore e profumo e respiro ed essere due in uno, che era stata la cosa migliore, due in uno io e te, e che il resto del mondo s'arrangi.
Due polpastrelli, indice e medio, poi il pollice che s'aggiungeva e scorreva lungo il bordo in tonfi più duri d'osso contro la pelle tesa di bue.
Aprire gli occhi per contare gli sguardi che aveva addosso e chiedersi oziosamente su chi li avrebbe messi, quegli stessi polpastrelli lievi ed abili, quando fossero tutti andati a dormire.
Idomizu era il paese del nulla e del niente: ma cresceva sopra una delle tre sole strade che da Konoha portavano a Sunakagure, ed era, di quelle tre, la strada meno pattugliata.
Ci passavano gli sbandati, i ladri, i rinnegati, la feccia.
Era normale, su una strada del genere, trovare qualcosa come il Ryookosya no Heya.
Sostituì le nocche ai polpastrelli mentre aumentava forza e ritmo, scorrendo tra un tavolo e l'altro con il sorriso che aveva da quando era arrivata a Idomizu: un bel sorriso, diceva Noa, ma Hanako lo sapeva che quello era il sorriso da se non c'è più Mizuki, del resto che me ne importa?
Fu mentre passava tra un tavolo e l'altro che il sorriso e gli occhi le caddero sull'avventore.
Era lo spettro, realizzò stupita l'attimo dopo averlo visto.
Lo spettro della strada con la sua impressione da bianco e da morte, e, pensò Hanako, questo vuol dire che non l'ho sognato.
Gli spettri avevano visi pallidi come la neve pulita e occhi più scuri della notte piovosa, inespressivi come uno specchio rotto, con occhiaie tanto marcate da dare l'impressione che fossero lì da sempre, da anni, sin dalla nascita.
Gli spettri avevano anche una faccia bellissima, malgrado le occhiaie, ma davano l'impressione che fosse meglio non averci niente a che fare, con quella faccia e con quelle occhiaie, niente di niente.
Tra le altre cose odorava di sangue fresco in maniera spaventosa, osservò Hanako, pigramente.
Lo spettro era uno dei pochi che non la guardava: guardava invece il suo piatto con una specie di concentrazione cieca che dava a vedere che quel piatto fosse interessantissimo, affascinante, un riso e verdure come non se n'erano mai visti prima d'allora. Le bacchette sedimentavano nella ciotola e il riso si freddava nel bel mezzo di tutta quella contemplazione, ma lui pareva non farci caso.
Lascia perdere, ragazzo, pensò lei. Non è che se ci pensi su, sulle cose, poi le cose migliorano o passano. Lo superò, scorrendo accanto al suo tavolo e sfiorando quello accanto e poi quello dopo ancora, senza smettere di suonare, senza smettere di sorridere.
Lascia perdere e mangia. E sorridi, anche. E' la cosa più intelligente che tu possa fare.

Se nessuno veniva a chiamarla prima per la notte, Hanako restava nella sala al pianterreno fino a quando non erano tutti andati via, a dormire nelle sale ai piani di sopra, da soli o con una di loro, Noa o Hiroto, o lei, anche, quando serviva.
Non le era importato poi molto la prima volta, ancor meno la seconda. La terza volta le era sembrato semplicemente naturale: era lì, era andata così, era l'unico modo per stare lontana da Sunakagure.
Se n'era fatta rapidamente una ragione.
Nelle notti in cui dormiva da sola, certe volte, aveva l'impressione che Mizuki le fosse accanto: che le respirasse tra i capelli, come in mille e mille altre notti aveva fatto, che le stringesse un fianco con un braccio, che le passasse una mano sulla nuca per farla addormentare.
Era una cosa che faceva spesso, Mizuki, per lei.
Hanako dormiva malissimo a Sunakagure. Hanako aveva cominciato a dormire malissimo quando lei e Mizuki erano state tolte dalla loro prima squadra, dal loro maestro e dai loro compagni, coetanei, amici, ed assegnate a quel nuovo gruppo, così importante per il villaggio, aveva detto il Kazekage, così importante per il Paese.
Hanako aveva smesso di dormire dopo la sua prima missione con il gruppo nuovo.
Lì a Idomizu dormiva, adesso, certe volte: Sunakagure era lontana, la sua squadra anche, gli ordini e le missioni come un sogno di un'altra vita.
Solo Mizuki era rimasta.
- Hanako? -
Si girò verso il padrone. Era un omino piccolo e un po' viscido, ma tutto sommato non una persona cattiva, né un violento né una bestia; solo uno che gli eventi avevano formato così, un poco vigliacco, un poco presuntuoso, approfittatore e supponente.
In genere era gentile con loro. Aveva simpatia per Noa, docile e dolce, con i suoi occhi languidi e scuri e la sua voce gentile, tollerava i capricci di Hiroto, giovane, arrogante e vanesia, e non aveva troppa paura di lei. Non la mostrava, almeno.
La lasciava fare. La teneva lì, la faceva lavorare, le consentiva di restare. Le permetteva di tenere tutto quel che voleva nella sua stanza, anche se le regole dell'Heya erano diverse, e non protestava quando Hanako si limitava a dire no, stanotte no, per favore, sto male.
- Sì, signore? -
- Hanako, c'è un cliente che ha chiesto qualcuna per la notte, e le altre sono già occupate. -
Passare la notte con un cliente significava non passarla da sola. Non passarla da sola significava, forse, riuscire a dormire. Non era il massimo, ma era sempre meglio di niente.
Con un po' di fortuna sarebbe stato qualcuno piuttosto esaurito, piuttosto desideroso e piuttosto entusiasta, che si sarebbe accontentato con poco e le avrebbe permesso di provare a dormire per qualche ora.
- Vado io, signore. -
- E' la 3. Si è raccomandato di bussare prima di entrare. -





Note

(1): da scriversi con i kanji ido (pozzo) e mizu (acqua) - pozzo d'acqua. Per le note sul giapponese e la consulenza sui nomi ringrazio Salice.

(2): da scriversi con i kanji ha (lama), na (verde), ko (suffisso generalmente adoperato per contrassegnare i nomi femminili) - ragazza della lama verde.

(3): tradotto approssimativamente, stanza (heya) del (no) viaggiatore (ryookosya).

(4): da scriversi con i kanji mi (bello) e tsuki (luna), traslitterati foneticamente in mizuki, che non ha quindi a che vedere con il kanji di mizu (acqua) - bella luna.

fonte immagine: daqiao finish by jiuge
  
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