Gli ultimi giorni erano trascorsi
con ritmo strano e
lento, ai quali faceva da sottofondo una mia costante e crescente
tensione,
stridente con l’umore assolutamente positivo di tutte le
persone che mi
circondavano - con cui non osavo confidarmi - e in molti casi anche di
Edward.
Perché, a parte rari e
brevi momenti, non mi dava mai
occasione per poter discutere di quello che gli passava per la mente.
Così
dovevo stare zitta e aspettare pazientemente di coglierlo in fallo.
Ma era evasivo. Terribilmente, vampirescamente, evasivo.
E poi… facendoci
attentamente caso, avevo notato che
il mio dubbio, sul fatto che Edward non volesse fare l’amore
con me, non fosse
tanto affatto un dubbio, quanto
più
una certezza. Innanzitutto, perché non prendeva mai
l’iniziativa. In secondo
luogo, perché mi dissuadeva sempre quando la prendevo io.
Così avevo
semplicemente smesso di farlo, evitando di raggiungere ad una sempre
più
dolorosa serie di certezze.
«Grazie Esme, sei stata
molto gentile, come sempre» la
ringraziai in un sussurro, prendendo dalle sue mani il vassoio con il
mio
pranzo.
«Spero che ti piaccia,
è una ricetta nuova» mi
sorrise, un luminoso e abbagliante sorriso, e fece una piccola carezza
alla mia
pancia, contenta e soddisfatta.
Carlisle, seduto sulla sedia di
fronte a me, aprì le
braccia, facendo sedere sua moglie accanto a lui, sorridendo gioioso
anch’egli.
Forse quell’atmosfera,
che ora mi appariva tanto
sfacciatamente felice, c’era in realtà sempre
stata, sin da quando tutti
avevano ricevuto la notizia della gravidanza. Alice e Rosalie avevano
perso
gran parte del loro senno per la bambina, Carlisle e
Esme erano orgogliosi e soddisfatti come non mai, e Charlie si beava
della mia
rinnovata felicità. Emmett era persino più
allegro del solito! E, infine, anche
Jasper, restio a dimostrare i suoi sentimenti, ostentava spesso
estatiche
espressioni. Solo ora, che cominciavo ad osservare
dall’esterno questa “giostra
di felicità” potevo rendermene conto.
Volevo urlare «Ehi,
guardate! Guardate Edward, c’è qualcosa che non va!».
Perché me ne ero
accorta solo io? Perché dovevo sentirmi in colpa per aver
rotto l’idillio?
«Stai seguendo la dieta
che ti ho indicato?» mi chiese
Carlisle con i suoi luminosi e cortesi occhi color oro, facendomi
riscuotere
dai miei turbinosi e costanti pensieri.
Finii di masticare il boccone.
«Sì, certo. Sai che ci
pensa sempre Edward» mormorai atona.
Entrambi erano venuti per una delle
loro tante visite
di cortesia, e Edward aveva deciso di approfittarne per uscire, visto
che
ancora non si sentiva abbastanza fiducioso a lasciarmi sola. Quello,
malgrado i
licantropi non si fossero più fatti sentire, era un altro
grande motivo di
tensione per me. Non per la minaccia che costituivano in sé,
me per il fatto di
dover essere costantemente controllata.
Allontanai il piatto, con lo
stomaco improvvisamente
chiuso.
Una ruga d’espressione
comparve sulla fronte perfetta
di Esme, incrinando la perfetta atmosfera di gioia e amore.
«Che c’è cara,
qualcosa non va?».
Scossi il capo lentamente.
«No, non ho più fame,
scusa».
Lei mi fissò per un
interminabile istante, poi si
rizzò in piedi, guardandosi attorno.
«Dov’è andato Edward?».
Li studiai. Esme, che sembrava
avere uno sguardo di
sospetto, nato dalla stranezza della situazione. Poi, Carlisle. Per
quanto fosse
un magnifico attore, il migliore della famiglia e dell’intero
universo forse,
non aveva la stessa espressione della moglie, quella che mi aspettavo
avesse.
«Non lo ha detto neppure
a me» indugiai volutamente
con lo sguardo su Carlisle, aspettando di trovare una qualsiasi
reazione. Lui
lo sostenne con espressione neutra, senza inflessioni.
Sospirai, abbassandolo e
massaggiandomi la pancia con
movimenti circolari. La bambina si inquietava velocemente per la mia
ansia, ed
ultimamente gliene offrivo a bizzeffe.
Andai a studiare comodamente
semi-distesa sul divano
dello studio, tentando di rilassarmi. Esme e Carlisle rimasero per
tutto il
tempo con me, facendomi sentire affettuosamente e silenziosamente la
loro
presenza, rivolgendomi sorrisi e attenzioni.
Tentavo in ogni modo di recuperare
la maggior quantità
di lavoro e di portarmi avanti con velocità negli studi,
considerando che a
breve avrei avuto molti importanti esami. Provavo a vederlo come un
modo per
distrarmi da tutti i problemi che stavano crescendo fuori e dentro di
me e che
non sembrava minimamente scalfire il resto del mio mondo.
Riposi il libro che avevo appena
finito di leggere e
cercai nell’elenco-tabella, creata con l’aiuto di
un entusiasmato Jasper, la
prossima materia che avrei dovuto studiare.
Disegno
creativo,
la materia del professor
Philip. Improvvisamente i miei pensieri, come con una ventata gelida,
furono
trasportati verso quei nitidi e recenti ricordi. Un’altra,
ennesima, questione
che continuava ad assillarmi con crescente curiosità, era
tutto quello che mia
aveva detto nel suo studio, e ci ripensavo sempre nei rari momenti in
cui la
mia mente non era rivolta a Edward.
La misteriosità, il tono
accorato con cui ne aveva
parlato, la profondità e la bellezza di quel volto bianco.
Mi aveva chiesto di
non fare domande, ma io non potevo non sapere qualcosa che sicuramente
celava
altro dietro sé.
Lo sguardo, per un istante, cadde
sul monitor piatto
del computer posto sulla scrivania appena accanto a me e poi nuovamente
sul
libro poggiato sulle mie ginocchia tese. Lo chiusi in uno scatto,
alzandomi. La
storia di Caterina Barbarigo,
marchiata a fuoco nella
mia memoria, meritava una pausa dai miei studi.
Una volta aperta la pagina iniziale
del mio motore di
ricerca preferito scrissi il nome della nobile veneziana. Comparvero
immediatamente dei risultati illustrati, con il dipinto che si trovava
nello
studio del professore. Era un’opera minore del periodo
tardo-rinascimentale, ma
doveva pur sempre essere di grande valore.
Ciò che mi sorprese fu
il fatto che trovai pochissime
notizie sulla donna e nessuna che corrispondesse a quelle che il
professore mi
aveva dato. Aggrottai le sopracciglia. Aggiunsi al nome della donna
quello
della figlia, “Kate”. Rimasi ancor più
stupefatta di non trovare nessun
risultato utile. Feci un sospiro e mi accinsi ad accostarle invece il
nome del
marito… Strano. Davvero strano che non ricordassi quel
dettaglio, eppure mi
pareva, considerando il tempo utilizzato per rimuginarci su, che la
conoscessi
alla perfezione.
Poi ricordai. Non aveva mai citato,
stranamente, il
suo nome. Un giovane tedesco.
Così
aveva detto. Perché?
Un pop-up pubblicitario comparve
sullo schermo,
facendomi riscuotere. Feci per chiuderlo, ma i miei occhi si
soffermarono per
un istante sull’immagine rappresentata sulla figura colorata.
“Esibizioni
- Pianoforte a coda -
Washington state”
«Bella».
Sobbalzai, portandomi una mano al
cuore, e chiudendo
immediatamente lo spazio pubblicitario. Per quanto lo slogan avesse
catturato
la mia attenzione in quell’istante il mio cuore palpitava nel
petto per mio
marito, e col suo sordo rumore scacciava via ogni altro pensiero dalla
mia
testa.
Gli occhi di Edward saettarono sul
monitor del
computer, poi, con discrezione, si posarono sul mio viso, gentilmente.
«Ti ho
spaventata?».
Scacciai con lentezza
l’agitazione della bambina,
facendo strisciare la sedia sul pavimento e sollevandomi dal mio posto.
Mi
sfiorai la pancia. «No… Non è
nulla…» mormorai a capo chino, attenta a non
incontrare il suo sguardo.
Come potevo anche solo pensare di
risolvere i
problemi, di mantenere la calma, quando anche solo un suo sguardo
riusciva a
farmi perdere la ragione? Lo volevo, ogni dannato secondo. Allora
perché lui
non voleva me?
Andai in cucina, dove Esme,
l’unica che probabilmente
era riuscita a sentire il rumore degli ingranaggi arrugginiti che
giravano nel
mio cervello, mi aveva preparato una camomilla.
«Grazie» dissi
con un sorriso, sorseggiandola piano.
Anche lei mi sorrise, accarezzando
attraverso la
morbida e calda stoffa della mia maglietta premaman la sua piccola
nipotina.
«Edward sta parlando con
Carlisle, non è così?»
chiesi, tentando di fingere disinteresse, ma mal celando un tono
ansioso.
Tentò di acquietarmi con
un’espressione serena, ma
leggevo nel suo volto un sospetto che sentivo essere parte del mio.
«Sì, credo
di sì».
Sospirai ancora, prendendo a
massaggiarmi con più
forza la pancia, mentre sul dolce viso della mia seconda madre
acquisita era
tornata la consueta espressione serena.
Cos’era che non andava in
Edward? Per quanto mi
sforzassi di non pensarlo, più volte avevo ipotizzato che,
al contrario, ci
fosse qualcosa che non andasse in me. Magari non era riuscito a
riprendersi
dall’idea di quello che mi aveva fatto Jacob. Eppure
non mi pareva che quando avevamo rifatto l’amore avesse avuto
remore in tal
senso. Cos’era allora? Non si fidava ancora della mia salute
mentale e voleva
che ricominciassi a prendere gli anti-depressivi?
Era
preoccupato dalla o per la bambina, tanto da parlarne con Carlisle?
Perché
Carlisle sapeva, oh, se sapeva. E se…
Se invece, semplicemente,
l’unico problema fosse stato
che non trovava più attrazione nei miei confronti?
Scacciai quell’idea,
assurda e dolorosa, che come un
verme invadeva i miei pensieri, strisciando subdolamente e senza
pietà.
«Avete deciso dove
sistemerete la stanza della
bambina?». Esme, con cortesia, mi distolse dai miei assurdi,
eppur costanti,
pensieri.
«Sì, certo,
utilizzeremo la camera degli ospiti più
vicina alla nostra, ma dovremmo modificarla un po’, togliere
qualcosa. Vieni,
ti faccio vedere» dissi con un piccolo sorriso, costretto dal
suo, smisurato. Volevo
decentrare la sua attenzione, appena nata, da me.
Afferrai la tazza con il liquido
giallo dolciastro e
mi avviai nella futura stanzetta della bambina.
«Ecco» dissi, indicando
l’ambiente completamente spoglio, «Ieri abbiamo
tolto tutti i vecchi mobili…
beh, Edward li hai tolti, sai com’è,
più forte, più veloce» scherzai con
poco
entusiasmo.
Lei rise, melodica e armoniosa.
Mi voltai verso il suo viso,
dondolando sui piedi e
passando la camomilla da una mano all’altra. «Beh,
ovviamente vorrei che fossi
tu, se non è un problema, a trovare i nuovi arredi, le
tende, la moquette»
enumerai, con un gesto della mano, contenta di fare qualcosa per lei e
di non
intaccare la felicità della mia famiglia con la mia ansia.
Vidi l’entusiasmo nei
suoi occhi, sincero, ma anche una
certa attenzione per il mio comportamento. «Certo Bella,
certo, sai che mi
farebbe davvero piacere», disse, accarezzandomi gentilmente i
capelli, come per
darmi conforto.
«Camomilla?»
chiese Edward con un sorriso e una
smorfia, entrando nella cameretta completamente bianca, e storcendo il
naso.
Arrossii. Non volevo fare i
capricci, come sempre. Non
volevo rattristarlo, soprattutto. Cosa ci potevo fare io, se lui non
voleva più
fare l’amore? Non potevo e non volevo costringerlo, e
farglielo presente sarebbe
stato un atteggiamento nettamente infantile, oltre che imbarazzante.
Esme lanciò
un’occhiata al figlio, che mi venne
accanto in un attimo, lasciandomi una scia di baci sulla guancia.
«Che si
diceva?» chiese allegro, stringendomi da dietro e
accarezzandomi la pancia.
«Parlavamo di quanto sei
forte e veloce» disse
sarcastica Esme, riferendosi alla mia battuta, stringendosi in un
abbraccio al
marito e scoccando a lui una medesima occhiata riservata al figlio,
carica di
rimprovero.
Edward fece una breve risatina, non
del tutto sincera
a mio avviso, leggendo i pensieri della madre con attenzione.
«Alice verrà
domani, è andata a comprare dei vestiti
per te e per la bambina» aggiunse lei.
Annuii, senza protestare.
Poco dopo Esme e Carlisle dovettero
andare via, poiché
presto sarebbe cominciato il suo turno in ospedale. Io mi rimisi a
studiare,
come sempre troppo indietro per la mia tabella di marcia.
Mi sentivo incredibilmente
inquieta, come se ci fosse
una parte di me che mi tirava verso il basso di un oblio, e
un’altra che invece
si teneva aggrappata all’atmosfera tranquilla,
all’affetto degli altri, e che
voleva conformarsi a tutto ciò, che voleva far finta di non
vedere i problemi
che solo io avevo scorto. Così ero in un limbo,
nell’attesa che accedesse qualcosa
di brutto, senza la speranza che potesse avvenire qualcosa di bello, e
non
abbastanza triste per potermi permettere d’esserlo. Inquieta.
Questo era
l’aggettivo migliore.
Mentre leggevo, mi accorsi di avere
lo sguardo di
Edward puntato addosso.
Sollevai il viso e lo guardai, ma
lui sembrò quasi non
accorgersene. I sui occhi erano vitrei e la mascella contratta in una
posa
immobile. Abbassai nuovamente lo sguardo e lasciai che le parole
scorressero
sotto i miei occhi. Quando lo risollevai era ancora fermo, immobile.
Aspettai,
molti secondi. Arrivai persino a contare il ticchettio delle lancette
sull’orologio
a muro. Cinque, dieci minuti.
Dovevo intervenire, dire qualcosa,
avevo accumulato in
un quel lasso di tempo abbastanza decisione e coraggio per farlo. Era
il
momento adatto per aiutarlo e per comprendere, finalmente, e cercare di
risolvere uno dei tanti, nonché il principale, problema che
affollava la mia
mente.
Non appena feci per alzarmi,
però, sentii una folata
di vento, un bacio sulla fronte e un «torno subito»
scomparso come un eco
insieme a lui.
Rimasi immobile, pietrificata. Lo
sconforto poi,
lentamente, mi assorbì, sommergendomi.
Mi strinsi le gambe alle ginocchia,
premendo una mano
sulla pancia.
Sconforto, per non poter fare nulla
per mio marito,
sconforto, per non essere riuscita a comprendere la causa dei suoi
problemi.
Sconforto… perché il pensiero di non essere
abbastanza, di aver fatto qualcosa
di sbagliato, di non piacergli più, mi assorbì,
bruciandomi, inglobandomi nella
sua fredda e dolorosa fiamma.
Sentii le sue mani, delicate,
accarezzarmi i capelli,
e mi assicurai che nessuna delle lacrime che avevo ingoiato, strette in
gola,
fosse riuscita a scappare dai miei occhi. Sollevai lentamente la testa,
osservandolo con espressione vacua, intenzionata a non far trapelare
nulla di
ciò che sentivo dentro.
Le sopracciglia rossicce si
aggrottarono in una
sinuosa linea. «Va tutto bene?» chiese. Sembrava
sereno.
Annuii piano.
«Sì… la bambina
è… solo un po’ agitata»
dissi, raccontando solo parte della verità.
«La bambina?»
chiese, curioso, accarezzandomi il
ventre. Sospirai, lasciando che mi sfiorasse, anche sotto la maglietta.
Mi
toccava delicatamente, lasciava ogni tanto baci. Sperai che non
smettesse mai,
che continuasse ancora, facendo scomparire tutti i miei dubbi,
facendomi
credere che realmente non ci fosse nessun problema, come tutti gli
altri
pensavano. Pregai che fosse così, ma venni delusa.
«Va meglio?».
Era gentile e attento.
Mi sistemai meglio sul divano,
appoggiandomi allo schienale.
Scossi il capo, timorosa che con anche solo una parola la mia voce si
sarebbe
potuta spezzare a favore di un abbondante pianto.
Sorrise ancora. «Allora
credo di avere una soluzione»
disse, baciandomi la punta delle dita, strette nella sua mano. Si
accovacciò di
fronte a me, tirando fuori dalla sua mano sinistra, nascosta dietro la
schiena,
un pacco rettangolare e schiacciato, di medie dimensioni.
«Un regalo?»
chiesi sorpresa, passando velocemente con
lo sguardo dal suo viso compiaciuto al pacco perfettamente incartato,
con un
gran fiocco rosa shocking sulla carta bianca. «È
per questo che sei andato
via?».
Annuì.
«Natale è fra
un mese» asserii, malgrado gran parte
della mia attenzione e il mio sguardo fossero ormai catturati dalla
curiosità
di scoprire cosa fosse.
Me lo porse, invitandomi a
prenderlo. La consistenza
era rigida, e facendoci ben caso, notai che in realtà il
rettangolo schiacciato
era lievemente informe sul lato superiore. «È per
la bambina. Beh, in realtà
per entrambe, visto che sei sempre a contatto con lei. Non è
niente di che,
nulla di cui doversi preoccupare, davvero. Permettimi di coccolarvi un
po’».
«Vorrei
tanto
che mi coccolassi» avrei voluto rispondere, ma non
lo feci, preferendo
tacere e soddisfare la mia curiosità, strappando con mani
tremanti la carta
bianca e ingoiando il magone che fino a quel istante mi aveva impedito
di
respirare.
Il primo oggetto che identificai fu
un libro. Un
grosso libro dalla copertina bianca e con tanti disegni colorati. Fiabe. Il secondo, invece, era una
fascia elastica nera, alla quale erano stati applicati, su due lati,
due auricolari
rosa.
Mi porse la mano, indicandogli di
consegnargli
l’oggetto. Mi fece sollevare e alzò di poco la
maglietta, quanto bastava per
far passare la fascia intorno alla vita e chiudere il feltro. Premette
un
piccolo tasto schiacciato, e improvvisamente sentii dentro di me
diffondersi
una piccola quiete.
«È una specie
di auricolare» spiegò ad un mio sguardo
interrogativo. «Ci ho messo alcune melodie
rilassanti» disse, accarezzandomi il
viso con sguardo vacuo.
«Tu…
tu…» farfugliai, portando una mano alla pancia,
sulla fascia. Non riuscii a continuare, perché la tensione e
le lacrime
accumulate sfociarono in un singhiozzante pianto di commozione.
Mi sorrise, baciandomi. Posando una
mano sotto i miei
capelli e baciandomi. E ancora, e ancora. «Shh, non
piangere». Mi fissò comprensivo, asciugandomi le
lacrime.
Per tutta la serata rimasi fra le
sue braccia. Per
tutta la sera, davanti al camino, avvolta in una coperta e fra le sue
braccia. Mi
teneva stretta a sé, mi cullava, mi accarezzava, mi baciava.
Tenevamo, insieme,
il libro sulla mia pancia, e con il mento posato sulla mia spalla
leggeva con
la sua voce armonica fiabe alla nostra bambina.
Non pensavo, e non volevo pensare a
nulla, perché
tutto era armonioso e perfetto, e mi sembrava che niente potesse
rovinare quel
momento.
«…Così
la rana saltò nello stagno, sola e senza il suo
principe».
«Dove sei?»
recitai, la voce distorta da un’ennesima
ondata di lacrime, voltandomi verso Edward.
Mi sorrise dolcemente.
«Sono qui, sono qui con te»
continuò, baciandomi.
Tuttavia, la carica di pura
serenità che mi diede l’idillio
di quel momento, scemò pian piano, nel corso del giorno
successivo, quando i
miei timori ricominciarono ad aumentare, mentre i contatti intimi con
Edward
rimanevano sempre fermi in una fase di stallo pari a zero.
«Sai cosa puoi fare
oggi?» chiese Esme, intenta a
prendere le misure della stanza della bambina.
«Studiare?»
feci sarcastica, osservandola, posata sullo
stipite della porta, correre velocemente da una parte
all’altra.
Rise. «No, pensavo che se
ti va potresti occuparti tu
di dipingere la stanza».
Mi rizzai, spiazzata dalla
proposta. «Francamente non
so se ne sono capace».
«Io penso che sia
un’idea stupenda, c’è sempre tempo
per studiare, no?» disse Edward, comparendo dietro di me e
facendomi
sobbalzare. «Non trovavi rilassante dipingere? È
una buona idea».
«Sì, certo,
ma… Per quanto riguarda il tempo non sono
della tua stessa opinione, sai?».
«Ho portato i
colori!» esclamò una voce vivace,
entrando come un turbine nella stanza. Alice si piegò sui
talloni, posando un
rapido bacio sulla mia pancia.
«Alice! Che ci fai
qui?».
Fece spallucce, correndo come un
razzo da una parte
all’altra. «Ho avuto una visione, devo pur
sfruttare l’occasione, no?».
Insistettero a lungo, e vedendo
Edward così motivato e
contento non me la sentii di dirgli di no, perciò accettai,
sperando di farlo
felice.
Era sicuramente un’idea
bizzarra e mi stupii che
proprio Esme ne fosse l’artefice. Mi impegnai per creare
nella mia mente
un’idea di come volessi suddividere le pareti e realizzai
diverse bozze, che
Edward definì, ovviamente, tutte eccezionali.
Così decisi di smettere di
pensare troppo e di basarmi sui colori e sulle emozioni, iniziando ad
imbrattare tutto quel bianco.
Canticchiai la stessa melodia che
in quell’istante
stava ascoltando la bambina, stendendo lunghe pennellate di rosso
vermiglio. Ondeggiavo
leggermente, seduta a cavalcioni sulla scala.
«Potresti evitare di fare
così?» chiese Alice, che sia
era auto-proposta come mia aiutate, a mio avviso solo per il gusto di
avere una
salopette e un cappello di giornale come tenuta.
«Così
come?».
«Ondeggiare in questo
modo» Mi imitò. «Vorrei ridurre
il rischio di caduta, sai com’è. È
già tanto che non faccia storie per il fatto
che sei su una scala».
Risi, ricominciando a dipingere.
«Scusa, ma Edward non
ha detto che il tuo ruolo in tutto questo è prendermi al
volo se cado? Fallo
bene, no?! Come hai detto “devi
sfruttare
l’occasione”». Ridacchiai,
quasi del tutto spensierata, sicuramente più
leggera. Aveva ragione, era molto rilassante.
«Pervinca»
dissi, tirando giù il secchiello di metallo,
concentrata sul disegno.
«Come avresti fatto senza
di me, che conosco tutte le tonalità
di colori?!» mi accusò.
Scossi la testa, riprendendo a
dipingere. Tuttavia,
anche se rilassante, fu una cosa davvero stancante, dipingere per tre
ore di
fila, tanto che alla fine sentivo i muscoli intorpiditi, ma potevo
vantarmi di
aver colorato due terzi di una parete. Le pennellate erano discontinue
e si
accavallavano in giochi di colori e schizzi tono su tono e a contrasto.
Individuai un punto che mi sembrava troppo bianco e abbastanza asciutto
da
essere dipinto.
«Pennello A
12». Aspettai che Alice me lo passasse.
«Aspetta, ce ne sono
tanti! Qual è?» chiese, la testa
corvina nella mia borsa.
Sbuffai. «Lascia stare,
faccio con questo» dissi
sporgendomi verso destra.
La scala oscillò, il
baricentro spostato. In pochi
istanti, come se la scena fosse girata al rallentatore, mi sentii
cadere nel
vuoto, mentre il terrore si faceva, rapidissimo, spazio nel mio cuore.
Prima che potessi sentire il
doloroso contatto con il suolo,
fui raccolta da un paio di robuste braccia fredde che in un secondo
bloccarono
anche la scala che ci stava cadendo addosso.
Sentivo ancora il suono del cuore
nelle orecchie e il
respiro accelerato.
«Va tutto bene? Ti sei
fatta male?» chiese Edward
agitato, accarezzandomi frenetico il viso.
Mi occorse qualche secondo per
recuperare l’uso della
parola. Osservai Alice, che era rimasta immobile e pietrificata, col
viso
rivolto verso di me e gli occhi ancora vacui. Deglutii.
«No… Non è… successo
nulla».
Gli dissi rilasciarmi andare in
piedi e titubante mi
accontentò aiutandomi e non smettendo di fissarmi,
apprensivo. Notai che le
gambe mi tremavano ancora, tanto che se non mi avesse sostenuta per la
vita
sarei caduta. «Alice, stai bene?» mormorai,
tentando di temporeggiare e
riprendermi.
Si alzò velocemente in
piedi, venendomi di fronte. «Mi
dispiace. Mi dispiace di non aver avuto prima la visione. Non ero
concentrata,
stavo pensando ai pennelli».
«Alice, Alice, non
è nulla, davvero».
«Cos’è
successo?» chiese Edward impassibile,
interrompendomi. Mi voltai verso il suo viso, salendo con lo sguardo
all’altezza dei suoi occhi. Erano spenti, scuri, velati da
una profonda
inquietudine e ansia. Scrutava la sorella, leggendole attentamente i
pensieri.
Lei fece un’espressione
stupita, eco della mia. Cosa
intendeva?
«È
caduta… Edward».
«Ho perso
l’equilibrio e sono caduta…
cosa…» feci,
titubante. Pensava che ci potesse essere un altro motivo? Stava
dubitando della
mia goffaggine?
Si voltò verso di me,
finalmente, scrutandomi
tormentato e lasciandomi un bacio sulla fronte, stringendomi con forza
a sé.
Dopo un momento d’esitazione restituii l’abbraccio
con lo stesso vigore,
tentando di rassicurarlo da qualcosa che no riuscivo a comprendere.
Dopo pranzo, quando la situazione
tornò tranquilla,
decisi di andare a fare una doccia per ripulirmi dagli schizzi di
vernice.
Lasciai che il getto caldo
dell’acqua m’investisse il
viso, rilassandomi e impedendomi di pensare. Uscii dalla doccia,
avvolgendomi
in un grande asciugamano. Mi guardai allo specchio, osservando la mia
immagine.
Ora la pancia era un piccolo rigonfiamento piuttosto evidente.
Cercai con insistenza un qualsiasi
dettaglio sbagliato
che giustificasse l’atteggiamento di mio marito. Ma mi vedevo
esattamente come
sempre, normale. Certo, non minimamente comparabile alla bellezza di
nessuno
dei Cullen, tanto meno la sua, ma per lui non si era mai dimostrato un
problema.
Sentii bussare. «Posso
entrare?» chiese, una punta di
agitazione nella voce argentina.
Sospirai. «Sì,
certo Edward, entra».
Entrò, richiudendosi la
porta alle spalle e
osservandomi con attenzione. Poi si avvicinò in un lampo,
mettendosi alle mie
spalle e lasciando un piccolo bacio sui capelli bagnati.
Vidi la mia immagine nello specchio
arrossire. «Va
tutto bene?» chiesi, già sapendo che non mi
avrebbe dato una risposta, ma
sperando comunque il contrario.
Annuì, infatti,
silenzioso, passandosi una mano fra i
capelli bronzei e distogliendo lo sguardo.
Mi chinai, tentando di essere
disinvolta, in avanti,
aprendo l’armadietto con i prodotti, e presi i due flaconi di
creme, ma nel
movimento il telo mi scivolò addosso, lasciando un seno
nudo.
M’irrigidii, immobile.
Edward, alle mie spalle, fece
un piccolo sorriso naturale e anche molto, molto malizioso. Il cuore
cominciò a
pompare forte nel petto, facendo risalire il bollore sulle guance. Si
avvicinò,
lasciando una scia di morbidi baci sul collo, accarezzando la pancia e
il
fianco.
Chiusi gli occhi, tremando di
piacere. Lo volevo, lo
volevo tantissimo e sempre, sempre più, per sempre e
instancabilmente. Mi
voltai di scatto, non più capace di resistere, incollando
frenetica le mie
labbra alle sue e stringendo le mani fra i suoi capelli. Baciandolo con
foga,
passione, bramosia, con l’assurdo desiderio di fargli del
male.
Si staccò da me, scosso,
tenendomi con forza, eppure
con gentilezza. Prese con le dita il lembo di stoffa sceso e lo
sollevò,
incastrandolo con l’altro. Mi sorrise, e in un attimo mi
trovai sola.
Mi portai due dita, tremanti, alle
labbra tiepide,
retrocedendo, quasi inconsciamente, fino a trovarmi con la schiena
schiacciata
al muro. Mi lasciai scivolare silenziosa, non potendo fare a meno di
sentirmi
rifiutata.
«Metti questa, ti sta
d’incanto» mi disse Alice,
passandomi una maglietta verde smeraldo con una gran
quantità di veli sulla
pancia.
Attraverso la porta aperta del
bagno, scoccai
un’occhiata a Edward, che, intento a leggere un articolo da
una rivista non
disse nulla. Saettai indecisa con lo sguardo dalla maglietta che mi
aveva
indicato Alice ad un'altra, blu.
«Su,
indossala!» mi invitò, sorpresa della mia
esitazione.
«Vorrei…
mettere questa» dissi, arrossendo, e
lanciando una nuova occhiata di sbieco a mio marito, sempre silenzioso
e
concentrato, seduto sulla poltrona della nostra camera, accanto alla
finestra,
da cui filtrava la fioca luce dell’aria nebulosa.
Alice, pur sorpresa dalla mia
richiesta, acconsentì. «Siediti»
disse poi, indicando una sedia di fronte allo specchio «ti
sistemo i capelli.
Non pensi che forse dovresti tagliarli? Sono molto
cresciuti».
«Tu dici?»
chiesi, improvvisamente incerta, osservando
le ciocche di capelli che mi arrivavano fin sotto il seno. Arrossii,
mordicchiandomi il labbro e chinando il capo, aspettando che Edward
dicesse
qualcosa.
Alice fece spallucce.
«Magari solo un po’, è
un’idea»
disse con un sorriso.
Mi voltai verso mio marito,
insicura. «Edward».
Immediatamente si voltò verso di me, lo sguardo attento e
gentile. «Pensi… che…
dovrei tagliare i capelli, secondo te?».
La sua espressione si distese in un
sorriso, mentre si
sollevava in piedi e mi veniva incontro. «Sei bellissima
così Bella. Mi
piacciono i tuoi capelli lunghi» mormorò,
lasciandomi un bacio sulla fronte.
E così scomparve, mentre
sentivo il cuore battere con
forza nelle orecchie.
Alice rise, scuotendo il capo e
brandendo in un
istante con il phon. «Ma che vi prende a voi due?»
chiese divertita,
cominciando ad asciugarmi i capelli.
«Perché? Cosa
c’è? Cosa c’è di
strano?» chiesi,
ansiosa.
Sul suo volto, allo specchio,
comparve un’espressione
perplessa «Ehi, ehi, Bella, frena. Dicevo solo
così per dire».
Feci un sospiro, tentando di
calmarmi concentrandomi
sul ronzio del phon. «Sì».
«C’è
qualcosa che non va?» mi chiese titubante.
Indugiai alcuni istanti, incerta se
confidarle i miei
timori sul comportamento di Edward. Mi accertai che la porta della
stanza fosse
chiusa, e alla fine desistetti. «Sono un po’
preoccupata, per Edward».
«Edward? Che
c’è che non va?» fece, sorpresa dalla
mia
affermazione. Evidentemente, come sospettato, non aveva colto nessun
problema,
come il resto della famiglia.
«Alice. Non vedi
com’è strano? C’è qualcosa
che non va
in lui, lo sento».
«Bella»
cominciò dolcemente, nuovamente operosa sui
miei capelli «non c’è nulla che non va.
Ora ti dico cosa c’è. Tu sei incinta e
sei molto ansiosa e ora che va tutto bene senti di dover trovare
qualcosa che
non va. Edward è super felice di diventare padre, ecco
cosa».
«Lo so, ma è
anche triste» insistetti, convinta del
fatto che non fosse solo una mia paranoia.
«Bella…».
«No Alice. Sono sua
moglie, le sento queste cose». Tentai
di trovare un possibile esempio, che le facesse credere che non fossi
pazza,
che non avevo solo immaginato tutto, e sperai di convincere anche me.
«Hai
visto come ha reagito quando sono caduta dalla scala, c’eri
anche tu, no?».
Sollevò un sottile
sopracciglio. «Era preoccupato per
te, mi sembra normale».
«No, invece! Non
è normale» dissi, sempre più ansiosa.
«Si rabbuia in un istante, rimane immobile e fermo, si
comporta in modo strano,
e… e…» arrossii, annaspando
«non vuole più fare l’amore con
me» conclusi in un
sussurro, deglutendo e abbassando lo sguardo.
Il suono del phon smise di riempire
l’aria, lasciando
un breve silenzio. Dopo due secondi
sentii le piccole
braccia di Alice attorno a me. Si staccò, osservandomi e
accarezzandomi il
viso. «Tesoro, sono sicura che non ci sia nulla che non va in
Edward. Devi
stare calma, okay? Sarà sicuramente una di quelle cose da
papà iperprotettivi»
scherzò con un sorriso «comunque, parlane con lui,
no? Chiedigli il motivo di
questa fantomatica tristezza».
Sospirai, giocherellando con le sue
dita. «L’ho fatto.
Non mi dice nulla, dice che va tutto bene».
Sorrise. «Allora
c’è un solo metodo che funzionerà!
Fallo arrabbiare, dirà sempre la verità, quando
è arrabbiato!».
«Cosa?».
Fece l’occhiolino.
«Estate dell’84. Era una grande
auto la spider». Ritornò a concentrarsi sulla mia
faccia perplessa «fidati,
funzionerà».
«Alice, sai bene che
Edward non si arrabbierebbe mai
con me».
Sospirò, concedendomi la
ragione. «Già è vero. Beh,
smetti di pensarci allora, Bella. Non c’è nulla di
brutto. Fidati, fra poco
Emmett avrà abbastanza materiale per prendervi in giro per
l’eternità».
Feci schioccare la lingua.
«Sarà, ma io nel frattempo
ho un’idea migliore».
Si fece sorpresa, poi i suoi occhi
brillarono di
felicità. «Pianoforte?».