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Autore: keska    13/12/2009    32 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Gli ultimi giorni erano trascorsi con ritmo strano e lento, ai quali faceva da sottofondo una mia costante e crescente tensione, stridente con l’umore assolutamente positivo di tutte le persone che mi circondavano - con cui non osavo confidarmi - e in molti casi anche di Edward.

Perché, a parte rari e brevi momenti, non mi dava mai occasione per poter discutere di quello che gli passava per la mente. Così dovevo stare zitta e aspettare pazientemente di coglierlo in fallo.

Ma era evasivo. Terribilmente, vampirescamente, evasivo.

E poi… facendoci attentamente caso, avevo notato che il mio dubbio, sul fatto che Edward non volesse fare l’amore con me, non fosse tanto affatto un dubbio, quanto più una certezza. Innanzitutto, perché non prendeva mai l’iniziativa. In secondo luogo, perché mi dissuadeva sempre quando la prendevo io. Così avevo semplicemente smesso di farlo, evitando di raggiungere ad una sempre più dolorosa serie di certezze.

«Grazie Esme, sei stata molto gentile, come sempre» la ringraziai in un sussurro, prendendo dalle sue mani il vassoio con il mio pranzo.

«Spero che ti piaccia, è una ricetta nuova» mi sorrise, un luminoso e abbagliante sorriso, e fece una piccola carezza alla mia pancia, contenta e soddisfatta.

Carlisle, seduto sulla sedia di fronte a me, aprì le braccia, facendo sedere sua moglie accanto a lui, sorridendo gioioso anch’egli.

Forse quell’atmosfera, che ora mi appariva tanto sfacciatamente felice, c’era in realtà sempre stata, sin da quando tutti avevano ricevuto la notizia della gravidanza. Alice e Rosalie avevano perso gran parte del loro senno per la bambina, Carlisle e Esme erano orgogliosi e soddisfatti come non mai, e Charlie si beava della mia rinnovata felicità. Emmett era persino più allegro del solito! E, infine, anche Jasper, restio a dimostrare i suoi sentimenti, ostentava spesso estatiche espressioni. Solo ora, che cominciavo ad osservare dall’esterno questa “giostra di felicità” potevo rendermene conto.

Volevo urlare «Ehi, guardate! Guardate Edward, c’è qualcosa che non va!». Perché me ne ero accorta solo io? Perché dovevo sentirmi in colpa per aver rotto l’idillio?

«Stai seguendo la dieta che ti ho indicato?» mi chiese Carlisle con i suoi luminosi e cortesi occhi color oro, facendomi riscuotere dai miei turbinosi e costanti pensieri.

Finii di masticare il boccone. «Sì, certo. Sai che ci pensa sempre Edward» mormorai atona.

Entrambi erano venuti per una delle loro tante visite di cortesia, e Edward aveva deciso di approfittarne per uscire, visto che ancora non si sentiva abbastanza fiducioso a lasciarmi sola. Quello, malgrado i licantropi non si fossero più fatti sentire, era un altro grande motivo di tensione per me. Non per la minaccia che costituivano in sé, me per il fatto di dover essere costantemente controllata.

Allontanai il piatto, con lo stomaco improvvisamente chiuso.

Una ruga d’espressione comparve sulla fronte perfetta di Esme, incrinando la perfetta atmosfera di gioia e amore. «Che c’è cara, qualcosa non va?».

Scossi il capo lentamente. «No, non ho più fame, scusa».

Lei mi fissò per un interminabile istante, poi si rizzò in piedi, guardandosi attorno. «Dov’è andato Edward?».

Li studiai. Esme, che sembrava avere uno sguardo di sospetto, nato dalla stranezza della situazione. Poi, Carlisle. Per quanto fosse un magnifico attore, il migliore della famiglia e dell’intero universo forse, non aveva la stessa espressione della moglie, quella che mi aspettavo avesse.

«Non lo ha detto neppure a me» indugiai volutamente con lo sguardo su Carlisle, aspettando di trovare una qualsiasi reazione. Lui lo sostenne con espressione neutra, senza inflessioni.

Sospirai, abbassandolo e massaggiandomi la pancia con movimenti circolari. La bambina si inquietava velocemente per la mia ansia, ed ultimamente gliene offrivo a bizzeffe.

Andai a studiare comodamente semi-distesa sul divano dello studio, tentando di rilassarmi. Esme e Carlisle rimasero per tutto il tempo con me, facendomi sentire affettuosamente e silenziosamente la loro presenza, rivolgendomi sorrisi e attenzioni.

Tentavo in ogni modo di recuperare la maggior quantità di lavoro e di portarmi avanti con velocità negli studi, considerando che a breve avrei avuto molti importanti esami. Provavo a vederlo come un modo per distrarmi da tutti i problemi che stavano crescendo fuori e dentro di me e che non sembrava minimamente scalfire il resto del mio mondo.

Riposi il libro che avevo appena finito di leggere e cercai nell’elenco-tabella, creata con l’aiuto di un entusiasmato Jasper, la prossima materia che avrei dovuto studiare.

Disegno creativo, la materia del professor Philip. Improvvisamente i miei pensieri, come con una ventata gelida, furono trasportati verso quei nitidi e recenti ricordi. Un’altra, ennesima, questione che continuava ad assillarmi con crescente curiosità, era tutto quello che mia aveva detto nel suo studio, e ci ripensavo sempre nei rari momenti in cui la mia mente non era rivolta a Edward.

La misteriosità, il tono accorato con cui ne aveva parlato, la profondità e la bellezza di quel volto bianco. Mi aveva chiesto di non fare domande, ma io non potevo non sapere qualcosa che sicuramente celava altro dietro sé.

Lo sguardo, per un istante, cadde sul monitor piatto del computer posto sulla scrivania appena accanto a me e poi nuovamente sul libro poggiato sulle mie ginocchia tese. Lo chiusi in uno scatto, alzandomi. La storia di Caterina Barbarigo, marchiata a fuoco nella mia memoria, meritava una pausa dai miei studi.

Una volta aperta la pagina iniziale del mio motore di ricerca preferito scrissi il nome della nobile veneziana. Comparvero immediatamente dei risultati illustrati, con il dipinto che si trovava nello studio del professore. Era un’opera minore del periodo tardo-rinascimentale, ma doveva pur sempre essere di grande valore.

Ciò che mi sorprese fu il fatto che trovai pochissime notizie sulla donna e nessuna che corrispondesse a quelle che il professore mi aveva dato. Aggrottai le sopracciglia. Aggiunsi al nome della donna quello della figlia, “Kate”. Rimasi ancor più stupefatta di non trovare nessun risultato utile. Feci un sospiro e mi accinsi ad accostarle invece il nome del marito… Strano. Davvero strano che non ricordassi quel dettaglio, eppure mi pareva, considerando il tempo utilizzato per rimuginarci su, che la conoscessi alla perfezione.

Poi ricordai. Non aveva mai citato, stranamente, il suo nome. Un giovane tedesco. Così aveva detto. Perché?

Un pop-up pubblicitario comparve sullo schermo, facendomi riscuotere. Feci per chiuderlo, ma i miei occhi si soffermarono per un istante sull’immagine rappresentata sulla figura colorata.

“Esibizioni - Pianoforte a coda - Washington state”

«Bella».

Sobbalzai, portandomi una mano al cuore, e chiudendo immediatamente lo spazio pubblicitario. Per quanto lo slogan avesse catturato la mia attenzione in quell’istante il mio cuore palpitava nel petto per mio marito, e col suo sordo rumore scacciava via ogni altro pensiero dalla mia testa.

Gli occhi di Edward saettarono sul monitor del computer, poi, con discrezione, si posarono sul mio viso, gentilmente. «Ti ho spaventata?».

Scacciai con lentezza l’agitazione della bambina, facendo strisciare la sedia sul pavimento e sollevandomi dal mio posto. Mi sfiorai la pancia. «No… Non è nulla…» mormorai a capo chino, attenta a non incontrare il suo sguardo.

Come potevo anche solo pensare di risolvere i problemi, di mantenere la calma, quando anche solo un suo sguardo riusciva a farmi perdere la ragione? Lo volevo, ogni dannato secondo. Allora perché lui non voleva me?

Andai in cucina, dove Esme, l’unica che probabilmente era riuscita a sentire il rumore degli ingranaggi arrugginiti che giravano nel mio cervello, mi aveva preparato una camomilla.

«Grazie» dissi con un sorriso, sorseggiandola piano.

Anche lei mi sorrise, accarezzando attraverso la morbida e calda stoffa della mia maglietta premaman la sua piccola nipotina.

«Edward sta parlando con Carlisle, non è così?» chiesi, tentando di fingere disinteresse, ma mal celando un tono ansioso.

Tentò di acquietarmi con un’espressione serena, ma leggevo nel suo volto un sospetto che sentivo essere parte del mio. «Sì, credo di sì».

Sospirai ancora, prendendo a massaggiarmi con più forza la pancia, mentre sul dolce viso della mia seconda madre acquisita era tornata la consueta espressione serena.

Cos’era che non andava in Edward? Per quanto mi sforzassi di non pensarlo, più volte avevo ipotizzato che, al contrario, ci fosse qualcosa che non andasse in me. Magari non era riuscito a riprendersi dall’idea di quello che mi aveva fatto Jacob. Eppure non mi pareva che quando avevamo rifatto l’amore avesse avuto remore in tal senso. Cos’era allora? Non si fidava ancora della mia salute mentale e voleva che ricominciassi a prendere gli anti-depressivi? Era preoccupato dalla o per la bambina, tanto da parlarne con Carlisle? Perché Carlisle sapeva, oh, se sapeva. E se…

Se invece, semplicemente, l’unico problema fosse stato che non trovava più attrazione nei miei confronti?

Scacciai quell’idea, assurda e dolorosa, che come un verme invadeva i miei pensieri, strisciando subdolamente e senza pietà.

«Avete deciso dove sistemerete la stanza della bambina?». Esme, con cortesia, mi distolse dai miei assurdi, eppur costanti, pensieri.

«Sì, certo, utilizzeremo la camera degli ospiti più vicina alla nostra, ma dovremmo modificarla un po’, togliere qualcosa. Vieni, ti faccio vedere» dissi con un piccolo sorriso, costretto dal suo, smisurato. Volevo decentrare la sua attenzione, appena nata, da me.

Afferrai la tazza con il liquido giallo dolciastro e mi avviai nella futura stanzetta della bambina. «Ecco» dissi, indicando l’ambiente completamente spoglio, «Ieri abbiamo tolto tutti i vecchi mobili… beh, Edward li hai tolti, sai com’è, più forte, più veloce» scherzai con poco entusiasmo.

Lei rise, melodica e armoniosa.

Mi voltai verso il suo viso, dondolando sui piedi e passando la camomilla da una mano all’altra. «Beh, ovviamente vorrei che fossi tu, se non è un problema, a trovare i nuovi arredi, le tende, la moquette» enumerai, con un gesto della mano, contenta di fare qualcosa per lei e di non intaccare la felicità della mia famiglia con la mia ansia.

Vidi l’entusiasmo nei suoi occhi, sincero, ma anche una certa attenzione per il mio comportamento. «Certo Bella, certo, sai che mi farebbe davvero piacere», disse, accarezzandomi gentilmente i capelli, come per darmi conforto.

«Camomilla?» chiese Edward con un sorriso e una smorfia, entrando nella cameretta completamente bianca, e storcendo il naso.

Arrossii. Non volevo fare i capricci, come sempre. Non volevo rattristarlo, soprattutto. Cosa ci potevo fare io, se lui non voleva più fare l’amore? Non potevo e non volevo costringerlo, e farglielo presente sarebbe stato un atteggiamento nettamente infantile, oltre che imbarazzante.

Esme lanciò un’occhiata al figlio, che mi venne accanto in un attimo, lasciandomi una scia di baci sulla guancia. «Che si diceva?» chiese allegro, stringendomi da dietro e accarezzandomi la pancia.

«Parlavamo di quanto sei forte e veloce» disse sarcastica Esme, riferendosi alla mia battuta, stringendosi in un abbraccio al marito e scoccando a lui una medesima occhiata riservata al figlio, carica di rimprovero.

Edward fece una breve risatina, non del tutto sincera a mio avviso, leggendo i pensieri della madre con attenzione.

«Alice verrà domani, è andata a comprare dei vestiti per te e per la bambina» aggiunse lei.

Annuii, senza protestare.

Poco dopo Esme e Carlisle dovettero andare via, poiché presto sarebbe cominciato il suo turno in ospedale. Io mi rimisi a studiare, come sempre troppo indietro per la mia tabella di marcia.

Mi sentivo incredibilmente inquieta, come se ci fosse una parte di me che mi tirava verso il basso di un oblio, e un’altra che invece si teneva aggrappata all’atmosfera tranquilla, all’affetto degli altri, e che voleva conformarsi a tutto ciò, che voleva far finta di non vedere i problemi che solo io avevo scorto. Così ero in un limbo, nell’attesa che accedesse qualcosa di brutto, senza la speranza che potesse avvenire qualcosa di bello, e non abbastanza triste per potermi permettere d’esserlo. Inquieta. Questo era l’aggettivo migliore.

Mentre leggevo, mi accorsi di avere lo sguardo di Edward puntato addosso.

Sollevai il viso e lo guardai, ma lui sembrò quasi non accorgersene. I sui occhi erano vitrei e la mascella contratta in una posa immobile. Abbassai nuovamente lo sguardo e lasciai che le parole scorressero sotto i miei occhi. Quando lo risollevai era ancora fermo, immobile. Aspettai, molti secondi. Arrivai persino a contare il ticchettio delle lancette sull’orologio a muro. Cinque, dieci minuti.

Dovevo intervenire, dire qualcosa, avevo accumulato in un quel lasso di tempo abbastanza decisione e coraggio per farlo. Era il momento adatto per aiutarlo e per comprendere, finalmente, e cercare di risolvere uno dei tanti, nonché il principale, problema che affollava la mia mente.

Non appena feci per alzarmi, però, sentii una folata di vento, un bacio sulla fronte e un «torno subito» scomparso come un eco insieme a lui.

Rimasi immobile, pietrificata. Lo sconforto poi, lentamente, mi assorbì, sommergendomi.

Mi strinsi le gambe alle ginocchia, premendo una mano sulla pancia.

Sconforto, per non poter fare nulla per mio marito, sconforto, per non essere riuscita a comprendere la causa dei suoi problemi. Sconforto… perché il pensiero di non essere abbastanza, di aver fatto qualcosa di sbagliato, di non piacergli più, mi assorbì, bruciandomi, inglobandomi nella sua fredda e dolorosa fiamma.

Sentii le sue mani, delicate, accarezzarmi i capelli, e mi assicurai che nessuna delle lacrime che avevo ingoiato, strette in gola, fosse riuscita a scappare dai miei occhi. Sollevai lentamente la testa, osservandolo con espressione vacua, intenzionata a non far trapelare nulla di ciò che sentivo dentro.

Le sopracciglia rossicce si aggrottarono in una sinuosa linea. «Va tutto bene?» chiese. Sembrava sereno.

Annuii piano. «Sì… la bambina è… solo un po’ agitata» dissi, raccontando solo parte della verità.

«La bambina?» chiese, curioso, accarezzandomi il ventre. Sospirai, lasciando che mi sfiorasse, anche sotto la maglietta. Mi toccava delicatamente, lasciava ogni tanto baci. Sperai che non smettesse mai, che continuasse ancora, facendo scomparire tutti i miei dubbi, facendomi credere che realmente non ci fosse nessun problema, come tutti gli altri pensavano. Pregai che fosse così, ma venni delusa.

«Va meglio?». Era gentile e attento.

Mi sistemai meglio sul divano, appoggiandomi allo schienale. Scossi il capo, timorosa che con anche solo una parola la mia voce si sarebbe potuta spezzare a favore di un abbondante pianto.

Sorrise ancora. «Allora credo di avere una soluzione» disse, baciandomi la punta delle dita, strette nella sua mano. Si accovacciò di fronte a me, tirando fuori dalla sua mano sinistra, nascosta dietro la schiena, un pacco rettangolare e schiacciato, di medie dimensioni.

«Un regalo?» chiesi sorpresa, passando velocemente con lo sguardo dal suo viso compiaciuto al pacco perfettamente incartato, con un gran fiocco rosa shocking sulla carta bianca. «È per questo che sei andato via?».

Annuì.

«Natale è fra un mese» asserii, malgrado gran parte della mia attenzione e il mio sguardo fossero ormai catturati dalla curiosità di scoprire cosa fosse.

Me lo porse, invitandomi a prenderlo. La consistenza era rigida, e facendoci ben caso, notai che in realtà il rettangolo schiacciato era lievemente informe sul lato superiore. «È per la bambina. Beh, in realtà per entrambe, visto che sei sempre a contatto con lei. Non è niente di che, nulla di cui doversi preoccupare, davvero. Permettimi di coccolarvi un po’».

«Vorrei tanto che mi coccolassi» avrei voluto rispondere, ma non lo feci, preferendo tacere e soddisfare la mia curiosità, strappando con mani tremanti la carta bianca e ingoiando il magone che fino a quel istante mi aveva impedito di respirare.

Il primo oggetto che identificai fu un libro. Un grosso libro dalla copertina bianca e con tanti disegni colorati. Fiabe. Il secondo, invece, era una fascia elastica nera, alla quale erano stati applicati, su due lati, due auricolari rosa.

Mi porse la mano, indicandogli di consegnargli l’oggetto. Mi fece sollevare e alzò di poco la maglietta, quanto bastava per far passare la fascia intorno alla vita e chiudere il feltro. Premette un piccolo tasto schiacciato, e improvvisamente sentii dentro di me diffondersi una piccola quiete.

«È una specie di auricolare» spiegò ad un mio sguardo interrogativo. «Ci ho messo alcune melodie rilassanti» disse, accarezzandomi il viso con sguardo vacuo.

«Tu… tu…» farfugliai, portando una mano alla pancia, sulla fascia. Non riuscii a continuare, perché la tensione e le lacrime accumulate sfociarono in un singhiozzante pianto di commozione.

Mi sorrise, baciandomi. Posando una mano sotto i miei capelli e baciandomi. E ancora, e ancora. «Shh, non piangere». Mi fissò comprensivo, asciugandomi le lacrime.

Per tutta la serata rimasi fra le sue braccia. Per tutta la sera, davanti al camino, avvolta in una coperta e fra le sue braccia. Mi teneva stretta a sé, mi cullava, mi accarezzava, mi baciava. Tenevamo, insieme, il libro sulla mia pancia, e con il mento posato sulla mia spalla leggeva con la sua voce armonica fiabe alla nostra bambina.

Non pensavo, e non volevo pensare a nulla, perché tutto era armonioso e perfetto, e mi sembrava che niente potesse rovinare quel momento.

«…Così la rana saltò nello stagno, sola e senza il suo principe».

«Dove sei?» recitai, la voce distorta da un’ennesima ondata di lacrime, voltandomi verso Edward.

Mi sorrise dolcemente. «Sono qui, sono qui con te» continuò, baciandomi.

Tuttavia, la carica di pura serenità che mi diede l’idillio di quel momento, scemò pian piano, nel corso del giorno successivo, quando i miei timori ricominciarono ad aumentare, mentre i contatti intimi con Edward rimanevano sempre fermi in una fase di stallo pari a zero.

«Sai cosa puoi fare oggi?» chiese Esme, intenta a prendere le misure della stanza della bambina.

«Studiare?» feci sarcastica, osservandola, posata sullo stipite della porta, correre velocemente da una parte all’altra.

Rise. «No, pensavo che se ti va potresti occuparti tu di dipingere la stanza».

Mi rizzai, spiazzata dalla proposta. «Francamente non so se ne sono capace».

«Io penso che sia un’idea stupenda, c’è sempre tempo per studiare, no?» disse Edward, comparendo dietro di me e facendomi sobbalzare. «Non trovavi rilassante dipingere? È una buona idea».

«Sì, certo, ma… Per quanto riguarda il tempo non sono della tua stessa opinione, sai?».

«Ho portato i colori!» esclamò una voce vivace, entrando come un turbine nella stanza. Alice si piegò sui talloni, posando un rapido bacio sulla mia pancia.

«Alice! Che ci fai qui?».

Fece spallucce, correndo come un razzo da una parte all’altra. «Ho avuto una visione, devo pur sfruttare l’occasione, no?».

Insistettero a lungo, e vedendo Edward così motivato e contento non me la sentii di dirgli di no, perciò accettai, sperando di farlo felice.

Era sicuramente un’idea bizzarra e mi stupii che proprio Esme ne fosse l’artefice. Mi impegnai per creare nella mia mente un’idea di come volessi suddividere le pareti e realizzai diverse bozze, che Edward definì, ovviamente, tutte eccezionali. Così decisi di smettere di pensare troppo e di basarmi sui colori e sulle emozioni, iniziando ad imbrattare tutto quel bianco.

Canticchiai la stessa melodia che in quell’istante stava ascoltando la bambina, stendendo lunghe pennellate di rosso vermiglio. Ondeggiavo leggermente, seduta a cavalcioni sulla scala.

«Potresti evitare di fare così?» chiese Alice, che sia era auto-proposta come mia aiutate, a mio avviso solo per il gusto di avere una salopette e un cappello di giornale come tenuta.

«Così come?».

«Ondeggiare in questo modo» Mi imitò. «Vorrei ridurre il rischio di caduta, sai com’è. È già tanto che non faccia storie per il fatto che sei su una scala».

Risi, ricominciando a dipingere. «Scusa, ma Edward non ha detto che il tuo ruolo in tutto questo è prendermi al volo se cado? Fallo bene, no?! Come hai detto “devi sfruttare l’occasione”». Ridacchiai, quasi del tutto spensierata, sicuramente più leggera. Aveva ragione, era molto rilassante.

«Pervinca» dissi, tirando giù il secchiello di metallo, concentrata sul disegno.

«Come avresti fatto senza di me, che conosco tutte le tonalità di colori?!» mi accusò.

Scossi la testa, riprendendo a dipingere. Tuttavia, anche se rilassante, fu una cosa davvero stancante, dipingere per tre ore di fila, tanto che alla fine sentivo i muscoli intorpiditi, ma potevo vantarmi di aver colorato due terzi di una parete. Le pennellate erano discontinue e si accavallavano in giochi di colori e schizzi tono su tono e a contrasto. Individuai un punto che mi sembrava troppo bianco e abbastanza asciutto da essere dipinto.

«Pennello A 12». Aspettai che Alice me lo passasse.

«Aspetta, ce ne sono tanti! Qual è?» chiese, la testa corvina nella mia borsa.

Sbuffai. «Lascia stare, faccio con questo» dissi sporgendomi verso destra.

La scala oscillò, il baricentro spostato. In pochi istanti, come se la scena fosse girata al rallentatore, mi sentii cadere nel vuoto, mentre il terrore si faceva, rapidissimo, spazio nel mio cuore.

Prima che potessi sentire il doloroso contatto con il suolo, fui raccolta da un paio di robuste braccia fredde che in un secondo bloccarono anche la scala che ci stava cadendo addosso.

Sentivo ancora il suono del cuore nelle orecchie e il respiro accelerato.

«Va tutto bene? Ti sei fatta male?» chiese Edward agitato, accarezzandomi frenetico il viso.

Mi occorse qualche secondo per recuperare l’uso della parola. Osservai Alice, che era rimasta immobile e pietrificata, col viso rivolto verso di me e gli occhi ancora vacui. Deglutii. «No… Non è… successo nulla».

Gli dissi rilasciarmi andare in piedi e titubante mi accontentò aiutandomi e non smettendo di fissarmi, apprensivo. Notai che le gambe mi tremavano ancora, tanto che se non mi avesse sostenuta per la vita sarei caduta. «Alice, stai bene?» mormorai, tentando di temporeggiare e riprendermi.

Si alzò velocemente in piedi, venendomi di fronte. «Mi dispiace. Mi dispiace di non aver avuto prima la visione. Non ero concentrata, stavo pensando ai pennelli».

«Alice, Alice, non è nulla, davvero».

«Cos’è successo?» chiese Edward impassibile, interrompendomi. Mi voltai verso il suo viso, salendo con lo sguardo all’altezza dei suoi occhi. Erano spenti, scuri, velati da una profonda inquietudine e ansia. Scrutava la sorella, leggendole attentamente i pensieri.

Lei fece un’espressione stupita, eco della mia. Cosa intendeva?

«È caduta… Edward».

«Ho perso l’equilibrio e sono caduta… cosa…» feci, titubante. Pensava che ci potesse essere un altro motivo? Stava dubitando della mia goffaggine?

Si voltò verso di me, finalmente, scrutandomi tormentato e lasciandomi un bacio sulla fronte, stringendomi con forza a sé. Dopo un momento d’esitazione restituii l’abbraccio con lo stesso vigore, tentando di rassicurarlo da qualcosa che no riuscivo a comprendere.

Dopo pranzo, quando la situazione tornò tranquilla, decisi di andare a fare una doccia per ripulirmi dagli schizzi di vernice.

Lasciai che il getto caldo dell’acqua m’investisse il viso, rilassandomi e impedendomi di pensare. Uscii dalla doccia, avvolgendomi in un grande asciugamano. Mi guardai allo specchio, osservando la mia immagine. Ora la pancia era un piccolo rigonfiamento piuttosto evidente.

Cercai con insistenza un qualsiasi dettaglio sbagliato che giustificasse l’atteggiamento di mio marito. Ma mi vedevo esattamente come sempre, normale. Certo, non minimamente comparabile alla bellezza di nessuno dei Cullen, tanto meno la sua, ma per lui non si era mai dimostrato un problema.

Sentii bussare. «Posso entrare?» chiese, una punta di agitazione nella voce argentina.

Sospirai. «Sì, certo Edward, entra».

Entrò, richiudendosi la porta alle spalle e osservandomi con attenzione. Poi si avvicinò in un lampo, mettendosi alle mie spalle e lasciando un piccolo bacio sui capelli bagnati.

Vidi la mia immagine nello specchio arrossire. «Va tutto bene?» chiesi, già sapendo che non mi avrebbe dato una risposta, ma sperando comunque il contrario.

Annuì, infatti, silenzioso, passandosi una mano fra i capelli bronzei e distogliendo lo sguardo.

Mi chinai, tentando di essere disinvolta, in avanti, aprendo l’armadietto con i prodotti, e presi i due flaconi di creme, ma nel movimento il telo mi scivolò addosso, lasciando un seno nudo.

M’irrigidii, immobile. Edward, alle mie spalle, fece un piccolo sorriso naturale e anche molto, molto malizioso. Il cuore cominciò a pompare forte nel petto, facendo risalire il bollore sulle guance. Si avvicinò, lasciando una scia di morbidi baci sul collo, accarezzando la pancia e il fianco.

Chiusi gli occhi, tremando di piacere. Lo volevo, lo volevo tantissimo e sempre, sempre più, per sempre e instancabilmente. Mi voltai di scatto, non più capace di resistere, incollando frenetica le mie labbra alle sue e stringendo le mani fra i suoi capelli. Baciandolo con foga, passione, bramosia, con l’assurdo desiderio di fargli del male.

Si staccò da me, scosso, tenendomi con forza, eppure con gentilezza. Prese con le dita il lembo di stoffa sceso e lo sollevò, incastrandolo con l’altro. Mi sorrise, e in un attimo mi trovai sola.

Mi portai due dita, tremanti, alle labbra tiepide, retrocedendo, quasi inconsciamente, fino a trovarmi con la schiena schiacciata al muro. Mi lasciai scivolare silenziosa, non potendo fare a meno di sentirmi rifiutata.

«Metti questa, ti sta d’incanto» mi disse Alice, passandomi una maglietta verde smeraldo con una gran quantità di veli sulla pancia.

Attraverso la porta aperta del bagno, scoccai un’occhiata a Edward, che, intento a leggere un articolo da una rivista non disse nulla. Saettai indecisa con lo sguardo dalla maglietta che mi aveva indicato Alice ad un'altra, blu.

«Su, indossala!» mi invitò, sorpresa della mia esitazione.

«Vorrei… mettere questa» dissi, arrossendo, e lanciando una nuova occhiata di sbieco a mio marito, sempre silenzioso e concentrato, seduto sulla poltrona della nostra camera, accanto alla finestra, da cui filtrava la fioca luce dell’aria nebulosa.

Alice, pur sorpresa dalla mia richiesta, acconsentì. «Siediti» disse poi, indicando una sedia di fronte allo specchio «ti sistemo i capelli. Non pensi che forse dovresti tagliarli? Sono molto cresciuti».

«Tu dici?» chiesi, improvvisamente incerta, osservando le ciocche di capelli che mi arrivavano fin sotto il seno. Arrossii, mordicchiandomi il labbro e chinando il capo, aspettando che Edward dicesse qualcosa.

Alice fece spallucce. «Magari solo un po’, è un’idea» disse con un sorriso.

Mi voltai verso mio marito, insicura. «Edward». Immediatamente si voltò verso di me, lo sguardo attento e gentile. «Pensi… che… dovrei tagliare i capelli, secondo te?».

La sua espressione si distese in un sorriso, mentre si sollevava in piedi e mi veniva incontro. «Sei bellissima così Bella. Mi piacciono i tuoi capelli lunghi» mormorò, lasciandomi un bacio sulla fronte.

E così scomparve, mentre sentivo il cuore battere con forza nelle orecchie.

Alice rise, scuotendo il capo e brandendo in un istante con il phon. «Ma che vi prende a voi due?» chiese divertita, cominciando ad asciugarmi i capelli.

«Perché? Cosa c’è? Cosa c’è di strano?» chiesi, ansiosa.

Sul suo volto, allo specchio, comparve un’espressione perplessa «Ehi, ehi, Bella, frena. Dicevo solo così per dire».

Feci un sospiro, tentando di calmarmi concentrandomi sul ronzio del phon. «Sì».

«C’è qualcosa che non va?» mi chiese titubante.

Indugiai alcuni istanti, incerta se confidarle i miei timori sul comportamento di Edward. Mi accertai che la porta della stanza fosse chiusa, e alla fine desistetti. «Sono un po’ preoccupata, per Edward».

«Edward? Che c’è che non va?» fece, sorpresa dalla mia affermazione. Evidentemente, come sospettato, non aveva colto nessun problema, come il resto della famiglia.

«Alice. Non vedi com’è strano? C’è qualcosa che non va in lui, lo sento».

«Bella» cominciò dolcemente, nuovamente operosa sui miei capelli «non c’è nulla che non va. Ora ti dico cosa c’è. Tu sei incinta e sei molto ansiosa e ora che va tutto bene senti di dover trovare qualcosa che non va. Edward è super felice di diventare padre, ecco cosa».

«Lo so, ma è anche triste» insistetti, convinta del fatto che non fosse solo una mia paranoia.

«Bella…».

«No Alice. Sono sua moglie, le sento queste cose». Tentai di trovare un possibile esempio, che le facesse credere che non fossi pazza, che non avevo solo immaginato tutto, e sperai di convincere anche me. «Hai visto come ha reagito quando sono caduta dalla scala, c’eri anche tu, no?».

Sollevò un sottile sopracciglio. «Era preoccupato per te, mi sembra normale».

«No, invece! Non è normale» dissi, sempre più ansiosa. «Si rabbuia in un istante, rimane immobile e fermo, si comporta in modo strano, e… e…» arrossii, annaspando «non vuole più fare l’amore con me» conclusi in un sussurro, deglutendo e abbassando lo sguardo.

Il suono del phon smise di riempire l’aria, lasciando un breve silenzio. Dopo due secondi sentii le piccole braccia di Alice attorno a me. Si staccò, osservandomi e accarezzandomi il viso. «Tesoro, sono sicura che non ci sia nulla che non va in Edward. Devi stare calma, okay? Sarà sicuramente una di quelle cose da papà iperprotettivi» scherzò con un sorriso «comunque, parlane con lui, no? Chiedigli il motivo di questa fantomatica tristezza».

Sospirai, giocherellando con le sue dita. «L’ho fatto. Non mi dice nulla, dice che va tutto bene».

Sorrise. «Allora c’è un solo metodo che funzionerà! Fallo arrabbiare, dirà sempre la verità, quando è arrabbiato!».

«Cosa?».

Fece l’occhiolino. «Estate dell’84. Era una grande auto la spider». Ritornò a concentrarsi sulla mia faccia perplessa «fidati, funzionerà».

«Alice, sai bene che Edward non si arrabbierebbe mai con me».

Sospirò, concedendomi la ragione. «Già è vero. Beh, smetti di pensarci allora, Bella. Non c’è nulla di brutto. Fidati, fra poco Emmett avrà abbastanza materiale per prendervi in giro per l’eternità».

Feci schioccare la lingua. «Sarà, ma io nel frattempo ho un’idea migliore».

Si fece sorpresa, poi i suoi occhi brillarono di felicità. «Pianoforte?».

   
 
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