WE
ARE JUST ASH IN A JAR – till the end 1.
“Only
priests and pounds can save us now
Only
a sign from God
Or
a hurricane can bring about
The
change we all want
And
we've done it again
This
trick we have
Of
turning love to pain
And
peace to war
We're
just ash in a jar
So
turn and turn again
We
are calling in all the ships
Every
traveler please come home
And
tell us all that you have seen
Break
every lock to every door
Return
every gun to every draw
So
we can turn, and turn again…”
All Thieves, Turn and turn again.
Avrebbe
visto tutto passare davanti ai suoi occhi?
L’odore
del prato, gli occhi di sua madre, il profumo del bucato appeso ad asciugare,
il ronzio delle zanzare di notte, il vento, la neve, le scarpe rotte, le
risate, i singhiozzi, le strette al cuore, i salti di gioia, la paura, la noia,
i maglioni, l’inverno e l’estate e l’autunno e la primavera, gli spaghetti al
sugo e la cioccolata calda, i biglietti di San Valentino ed i regali di
compleanno, le punizioni, i baci voluti e non voluti, gli abbracci veri e
quelli falsi, l’amore e l’odio e l’amicizia e l’invidia, la timidezza, le
esitazioni, il rumore delle lenzuola che sfregano tra loro, la sensazione di
quando si sfiorano i piedi nudi di chi è vicino a te nel letto, i momenti di
calma e l’agitazione?
Eppure,
no: niente di tutto questo. Non poteva vedere niente perché aveva gli occhi
pieni di lacrime, e se anche avesse potuto scorgere qualcosa in quella nebbia
opaca, non avrebbe visto altro che occhi grigi e occasioni perse, e vite
diverse che avrebbe potuto vivere. Tutto tranne il presente era accettabile.
Se
esistevano mondi paralleli, magari ora lei ora faceva il bagno in una vasca
piena di bolle; lui sarebbe entrato nella stanza con le braccia incrociate e
quel ghigno e avrebbe detto qualcosa di sgradevole e lei avrebbe fatto finta di
non sentire e lui si sarebbe avvicinato per urlarglielo bene nelle
orecchie e lei ridendo l’avrebbe tirato
per la cravatta facendolo cadere nella vasca. Lui si sarebbe infuriato e lei avrebbe
riso, e sarebbe andata così per sempre, o almeno per quanto il cuore le avrebbe
detto che andava bene così, che quella era la sua strada.
Ma
ormai la strada che percorreva era tutt’altra, e il mondo era ora e la vita era
adesso, con le mani sudate e tremanti strette attorno alla bacchetta, lo
stomaco rivoltato, e non vedere niente, niente di lui che esitasse, che le
facesse cambiare idea.
“Perché
non lo fai, Weasley? Non è per questo che sei venuta
qui?”, fece lui, guardandola sprezzante e inespressivo, anche se più pallido
del solito. La bacchetta ancora puntata contro Harry.
“Se
tu lo farai, io lo farò… a te la scelta”, replicò Ginny, con una voce così debole che non le parve nemmeno la
sua.
Sembrava
che passassero minuti, ore; e poi mesi e poi anni.
Eppure
l’istante decisivo fu talmente rapido da sembrare accelerato.
Ginny
non aveva fatto che pregare dentro di sé, fino alla fine, che qualcosa
cambiasse. Invece, come spesso accade, niente cambiò. Niente lo fece vacillare
e lei capì che non l’avrebbe mai visto esitare, per niente, ma soprattutto per
nessuno.
Lo
vide alzare la bacchetta e seppe che era tutto finito. Seppe che dal momento in
cui la luce verde fosse scaturita dalla bacchetta di Draco
lei ci si sarebbe buttata contro, perché Harry aveva più valore di qualsiasi
altra cosa e lei non era che una spettatrice che aveva voluto per forza far
parte dello spettacolo, come una stupida.
Ma
la luce verde non scaturì dalla bacchetta di Malfoy.
Fu un attimo: la vide sfrecciare da sopra la propria spalla, tagliare l’aria
come la lama di un coltello, e colpire Draco dritto
nel petto come un pugno ben assestato.
Ginny
si sentì come se non avrebbe mai più potuto respirare. Negli occhi di Draco le pupille si ridussero a due puntini talmente
piccoli che parvero scomparire in una pozza di nebbia grigia. Poi cadde a terra
con un tonfo sordo e tutto tornò immobile.
Ginny
avrebbe voluto buttarsi di lui, gridare, voltarsi, fare qualsiasi cosa invece
che rimanere così, ferma con ancora la bacchetta sollevata, senza che l’aria
passasse attraverso i suoi polmoni, come una statua.
“Mi
dispiace, Ginny”, disse la voce di Harry, distorta e
ovattata come se lei avesse del cotone nelle orecchie, “ ma lo sai che non
avevo scelta.”
Non
se ne accorse nemmeno quando mosse un passo tremante in direzione del corpo
senza vita di Malfoy. Non gli sembrava neanche vero,
sembrava uno scherzo.
Le
veniva da vomitare.
Mosse
qualche passo in avanti senza ascoltare ciò che Harry le diceva, cose che
sembravano insensate, ora. Si sentì ricadere con violenza sulle ginocchia; ma
non provava dolore. Era una strana sensazione, in effetti: era come se non
sentisse altro che un fischio, un fischio fortissimo, e non lo sentiva solo con
le orecchie, ma con tutto il corpo: le attraversava il viso, il collo, i
polmoni, lo stomaco, l’inguine e le gambe e le punte dei piedi. Con le dita che
praticamente erano diventate insensibili al tatto, toccò un lembo della camicia
di Draco: sotto la pelle era talmente gelida che
perfino lei poteva sentirla.
“Ginny, dobbiamo andare, prima che arrivino gli altri Mangiamorte”, diceva la voce di Harry, sempre più distorta,
“dobbiamo andare…”
Ma
per lei non ricordava l’esistenza di altri posti dove andare.
Ricordava
solo lenzuola calde e camice bianche, pavimenti lucidi e sorgenti di acqua
calda. Poi ricordava anche cose che non esistevano, bolle di sapone in una
vasca che non era mai stata sua.
“Ginny… dobbiamo andare”.
Ma
lei chiuse gli occhi e pensò che non avrebbe mai, mai, mai più smesso di
piangere.
Non
fu poi tanto difficile individuare il castello, anche nel temporale e nella
pioggia battente.
Era
proprio come uno si immagina un castello che sarebbe stato teatro di una
battaglia dagli esiti incerti: avvolto nella semi-oscurità, con i lampi che si
stagliavano a tratti nel cielo e i tuoni che facevano tremare la terra.
“Qualunque
cosa succeda, la nostra priorità è trovare Harry e portarlo via sano e salvo”,
gridò Lupin da sotto la veste impregnata di pioggia, la bacchetta stretta nella
mano bagnata, cercando di sovrastare il rumore della pioggia sulla terra e dei
tuoni, “non state troppo uniti ma non separatevi. Se vi prendono da soli…”, non finì la frase, non ce n’era bisogno. La sua
voce, forse per lo sforzo di gridare, o forse no, tremava.
Un
lampo squarciò il cielo seguito da un tuono che li fece sobbalzare tutti. Erano
una settantina, forse cento. Contro chissà quanti Mangiamorte.
In un territorio che non conoscevano.
Nessuno
parlava.
Ron
teneva stretta la bacchetta e trascinava i piedi con le scarpe piene di acqua e
i capelli fradici che gli si erano appiccicati alla fronte. Guardava il
castello, non guardava mai per terra. Là dentro c’era Harry. C’era Ginny. Tutto poteva essere recuperato, risolto. Poteva
risolversi tutto per il meglio… poteva risolversi
tutto per il meglio. Doveva.
Si
voltò a guardare Hermione, alla sua destra. Non le
vedeva il viso a causa del buio e della veste e del cappuccio, ma intravedeva
la sua figura un po’ bassina, tutta esile e fradicia,
e quando un lampo esplose in cielo riuscì quasi a intravedere i suoi occhi.
Terrorizzati.
Si
sentì stringere lo stomaco.
E
se…
E
se invece non fosse andato tutto bene?
Se
tutto non si fosse risolto per il meglio?
Ancora
una volta gli tornò il pensiero che, lo sapeva, lo avrebbe tormentato per
sempre in ogni caso.
Lui
voleva bene a Harry, gli voleva bene con se fosse nato con lui, come se fosse
un fratello, ma anche di più, perché era anche suo amico. E certo voleva bene a
sua sorella, e il solo pensiero che fosse vissuta in quel castello lo aveva perseguitato
ogni notte.
Ma
non poteva impedirsi di pensare, se lei,
se lei dovesse morire…
Il
ricordo che lui le avrebbe lasciato di sé: egoista, stupido, traditore,
bugiardo, inaffidabile, ipocrita, egocentrico, vanitoso, ottuso, ordinario,
irresponsabile, insicuro, superficiale.
Ecco
cos’era, ecco chi era Ron Weasley.
E
tutti quei giorni, tutti quei giorni che avrebbero potuto passare insieme, quei
giorni in cui avrebbero potuto mangiare giapponese sul pavimento del loro
appartamento, circondati dagli scatoloni dei libri di Hermione
e dai poster ancora arrotolati di lui. Tutti quei giorni che avrebbero potuto
passare a fare progetti – lui che voleva fare un graffito hiphop
sul muro e lei che gli diceva che aveva vent’anni non quindici – che poi non
avrebbero messo in atto perché tanto litigavano, tutti quei giorni che
avrebbero potuto passare a gironzolare per Londra, a stendersi sull’erba del
prato a leggere fumetti facendo le voci, a provare i caffè di ogni quartiere, a
provare a dare da mangiare agli scoiattoli – e lui che subito si spazientiva
perché non si avvicinano mai, ad andare in quei posti con quei grandi schermi
in cui fanno vedere i film, vecchi però, e lui si addormentava sempre e lei lo
sgridava perché durante la proiezione aveva russato e lei si era imbarazzata tantissimo…
Tutto
quel tempo.
Tutto
quel tempo non gli era mai sembrato così fondamentale.
Giorni,
ore, minuti perfetti se n’erano andati senza nemmeno effettivamente esistere e non poteva che incolpare se
stesso.
Ed
ora, sotto la pioggia, con l’incertezza di quello che sarebbe stato di loro, se
questa era solo una delle tante battaglie che avevano combattuto insieme o era
l’ultima o la prima. Ora, lui si chiese se era pioggia o se gli veniva un
pochino da piangere, solo un pochino, meno male che era buio se no sai che
vergogna, che razza di soldato era, Harry lo avrebbe preso in giro a vita.
Quando
finalmente si decise a ignorare la stretta al cuore e le gambe un po’ instabili
e a smettere di fissare Hermione come se si volesse
imprimere nella testa quel profilo per bene, perché non si sa mai, sentì delle
dita sottili stringergli il polso e poi circondargli la mano, stringendo forte
forte.
Hermione
non lo guardava e con il rumore della pioggia era difficile capire quello che
diceva a voce bassissima, tanto che lui si avvicinò inconsciamente per sentire.
“Ron,
tu sei un cretino e io pure, perché non so se queste cose si possono perdonare,
voglio dire, se perdonare vuol dire dimenticare non ti perdono, non ti perdono
Ron, io ti odio, ora, però, ecco, ora io ho anche un po’ di paura e… non so, in questa prospettiva non riesco a…”
Ecco,
come al solito non riusciva a esprimersi senza fare un monologo. Hermione non si sopportò in quel momento. Ma aveva la
nausea ed era tutto così innaturale, come se stesse vivendo uno di quegli
incubi in cui non sei proprio te stesso, cioè, lo sei, però è come se ti
guardassi dall’esterno e pensi, cavolo, non vorrei proprio essere nei miei
panni, adesso.
Ron
la guardava ma lei, nel buio, non riusciva a vederlo. Perché non riusciva a
vederlo? E se non ci fosse più riuscita?
La
voce le si spezzò.
“Ecco,
io in un’altra situazione non te lo direi mai, ma…
ora come ora, io ho paura e… di tutti i pensieri che
ho nella testa, quello più insistente è che anche se non ti perdono e ti odio,
Ron, io ti voglio bene e non voglio che tu muoia e ti odierei ancora di più se
morissi.”
In
realtà, non voleva dirlo così; ma questo era il meglio che potesse fare. A
volte pensava che lei non era proprio adatta a Ron: per lui ci voleva una che
in questa situazione gli si buttasse tra le braccia dicendo che non importava
il passato, che lo perdonava e che lo amava.
Ma
lei non lo perdonava, non sapeva neanche come si facesse a capire quando
perdoni qualcuno – quando lo ami ancora, quando provi qualcosa, quando non
provi niente? - eppure al tempo stesso gli stringeva forte quella mano grande
grande e ruvida e si sentiva come se non fosse umanamente in grado di lasciarlo
più.
Ron
la fissò e, come al solito, non seppe cosa fare. Guardò verso la collina e
intravide una figura di Mangiamorte.
Tutto
il gruppo si fermò, alzando le bacchette.
Al
Mangiamorte se ne affiancò un altro. E un altro. E un
altro, un altro, un altro…
Erano
centinaia e aspettavano. Aspettavano che si avvicinassero abbastanza per
colpirli.
La
mano di Hermione stava stringendo tanto la sua da
fermargli la circolazione. Lui gliela strinse ancora più forte di rimando e per
un attimo le trattenne il braccio, le si avvicinò mentre tutti i membri
dell’Ordine passavano loro accanto con le bacchette pronte.
“Hermione, forse non è il momento, ma ti volevo chiedere un
appuntamento allo stesso bar dell’altra volta, perché volevo assaggiare anche
la crostata di ciliegie e poi lì fanno il caffè è buono, no? Che ne dici, ti
andrebbe, domani?”
Lei
lo guardò da sotto il cappuccio, con i capelli che le gocciolavano sulla
faccia.
“…
sì”, sussurrò, senza voce, “sì, può andare, insomma.”
“Anche
se mi odi?”
“Sì.”
“Bene.
Allora è deciso”, non lo vide ma sentì che sorrideva.
A
Hermione strinse la gola e pianse in silenzio, però
sorrise, anche.
“Okay”,
disse, “okay”.
Avrebbe
visto tutto passare davanti ai suoi occhi?
Il
giardino vuoto, le stanze enormi e deserte, i capelli biondi, i mezzi sorrisi,
gli schiaffi, le litigate dei suoi genitori, i singhiozzi di sua madre, le
porte che sbattevano, le mani gelide da far male, i brividi di freddo, la paura
e l’indifferenza, le mancanze, la solitudine, la solitudine, la solitudine; il
corridoio, le rose bianche, le unghie laccate di rosso, le carezze, le
lenzuola, le grida, gli sprazzi di luce rossa, i singhiozzi, le lacrime, gli
sguardi freddi; tanti sorrisi falsi e qualcuno vero, le torri di astronomia,
tanti letti diversi, le mura umide, gli occhi azzurri, gli anelli al dito
troppo stretti, i respiri lenti e tranquilli, soddisfazioni vere e
soddisfazioni false, non pensare a niente e avere un chiodo fisso, i pomeriggi,
il gelo, le nuvole?
Draco
non conosceva i suoi limiti. E questo poteva essere un vantaggio, perché poteva
spingerlo anche oltre essi, e non sempre era un fiasco. Ma d’altra parte,
quando superi i tuoi limiti ti fai del male, punto. Altrimenti non ne avresti,
di limiti, e tutti potrebbero fare qualsiasi cosa, senza conseguenze.
Un
tempo il non essere in grado di uccidere era stato un limite, per lui. L’aveva
superato, poi, semplicemente provando. Uccidere sconosciuti sotto costrizione
non era poi tanto difficile: bastava stringere bene gli occhi quando il loro
pensiero andava a tormentarlo, ogni singola notte, nei momenti che precedono il
sonno ed il sublime oblio.
Uccidere
Harry Potter non poteva essere tanto peggio. Tanto per cominciare, della vita
di Potter gliene fregava anche meno di quella di uno sconosciuto. Vederlo
puntargli la bacchetta contro era così irritante da fargli venire voglia di
farlo subito, senza nessun classico commiato da cattivo.
L’unica
variante era che anche Ginny Weasley
gli stava puntando la bacchetta contro: la stessa persona che fino a qualche
ora prima aveva dormito vicino a lui. E non c’è niente di più intimo di
dormire con qualcuno. Per dormirci insieme, Draco Malfoy doveva fidarsi così tanto da essere diventato
totalmente cieco, imbecille, partito di testa, per lui era come dare all’altra
persona un coltello e invitarlo allegramente ad affondarglielo nel collo.
Tutto
sommato, vista come era andata a finire, aveva fatto bene durante la sua vita a
non lasciare che nessuna dormisse nel suo letto.
Non
poteva dire sinceramente che non si aspettava che Ginny
Weasley sarebbe tornata a fare la buona; sì, era
stato evidente, ma si era divertito a pensare il contrario. Gli veniva da
ridere: alla fine tutto quello che pensava sul genere umano si rivelava vero,
no? Un momento abbassi la guardia e il momento dopo sei morto.
Chissà
se anche suo padre aveva pensato la stessa cosa, poco prima…?
“Perché
non lo fai, Weasley? Non è per questo che sei venuta
qui?”, si sentì dire. Era soddisfatto di come gli era uscita bella fredda la
voce; e dire che dentro si sentiva come se avessero appiccato fuoco ai suoi
organi interni.
La
mano era ben ferma sulla bacchetta, era pronto a lanciare l’incantesimo.
L’avrebbe fatto. Sotto lo sguardo di Ginny Weasley.
Dio,
quanto la stava odiando in quel momento. La odiava tanto che se avesse potuto
l’avrebbe scrollata, schiaffeggiata. Odiava tutto di lei: odiava il modo che i
suoi occhi avevano di fissarlo, odiava il suo pallore innaturale, odiava la
lacrima che le scendeva sulla guancia, odiava la sua mano sulla bacchetta
puntata contro di lui, odiava le sue spalle irrigidite che proteggevano Harry
Potter. Odiava tutto di lei.
“A
te la scelta”, gli disse, con la voce ridotta ad un patetico pigolio.
Lui
strinse involontariamente la mano sulla bacchetta.
Poteva
essere un ottimo compromesso, no? In fondo, si aspettava qualcosa di diverso,
da lei, dalla vita, da se stesso? Sua madre sarebbe stata fiera di lui, anche
se forse avrebbe pianto.
Visto?
Avrebbe addirittura avuto una persona che avrebbe pianto per lui. Una sola
persona, esattamente come per suo padre.
Era
arrivato solo, aveva vissuto solo, se ne sarebbe andato solo.
Ginny
Weasley l’avrebbe davvero ucciso?
Beh, in fondo, la cosa che gli era sempre piaciuta
di lei era che era l’unica persona di cui non era in grado di prevedere il
passo successivo.
La
guardò un’ultima volta. Lei ricambiò lo sguardo. In quel momento non era bella
come lo era stata sempre, mentre era con lui, aveva i capelli appiccicati alla
testa, rivoli di sudore lungo il collo e le labbra tanto bianche da essere
quasi sparite.
Eppure
anche adesso, anche adesso che tutto finiva, anche quello che non era mai
iniziato, anche adesso non riusciva a convincere il suo cuore a smettere di
battere.
Alzò
la bacchetta. Vide Ginny trattenere il respiro.
Forse in un’altra vita, tutto
sarebbe stato diverso.
Potter
imitò il suo gesto e per un lungo attimo nessuno si mosse, nessuno fece nulla,
nessuno disse niente.
Una sola persona.
Fu
un attimo: l’incantesimo scaturì dalla sua bacchetta dritto verso Potter. La
luce verde sfrecciava nell’aria come scosse elettriche lungo la superficie
dell’acqua; ma Harry non fu raggiunto.
Draco
sentì il rumore di una bacchetta che cadeva e rotolava nel pavimento umido,
mentre la luce spariva nel petto di Ginny Weasley.
I
suoi capelli rossi rimasero come una macchia nell’aria, per un istante, prima
di distendersi a terra con il corpo immobile.
Gli
occhi erano chiusi e l’espressione della bocca non era come quelle di tutti
quelli che erano stati uccisi da un Avada Kedavra; era tranquilla.
Draco
la fissava a distanza, immobile. Udì distrattamente la sua bacchetta che gli
scivolava dalle mani.
Prima
che potesse muovere un muscolo, si sentì sbattere con violenza contro il muro,
tanto forte che sentì il rumore stridente di un osso che s’incrina.
Harry
Potter lo aveva afferrato per la camicia, fissandolo con uno sguardo che non
gli aveva mai visto prima: sembrava impazzito. Gli diede un pugno sul viso e Draco sentì i capillari del naso rompersi e il sangue
scivolargli sulle labbra con un sapore ferrastro.
“Cos’hai
fatto! Cos’hai fatto!”, gli gridava
contro, così forte che la sua voce rimbombava in tutto il castello, “ come hai
potuto, sei…”, e gridava e gridava e gridava, e Draco si lasciava scuotere come un peso morto, e si
lasciava prendere a pugni e sentiva il sangue scendergli dal naso e dalle
labbra, ma non si muoveva e fissava Potter negli occhi per non guardare oltre
le sue spalle, dove s’intravedeva una macchia rossa che non riusciva e non
voleva mettere a fuoco.
Poi,
Harry smise di urlare e di scuoterlo. Era pallido e magro e col respiro
affannoso, pronto con una mano a colpirlo nuovamente in viso. Ma non lo fece.
“Come
hai potuto…”, disse in un sussurro. Lo lasciò,
abbandonando le braccia lungo i fianchi.
Draco
non era sicuro del tono che avrebbe avuto se avesse risposto.
E
infatti rimase immobile e non disse niente.
Ginny
si stese sulla sabbia respirando a fondo l’aria salata. Qualche granello le si
infilò tra le dita dei piedi e tra i capelli.
Avrebbe
potuto stare così per sempre.
Poi
però qualcuno le diede un pizzicotto un po’ violento al polpaccio.
“Ahia!”,
aprì gli occhi. Draco la fissò con quel suo solito
mezzo sorrisetto con la fossetta all’angolo della bocca.
“Non
l’ho fatto apposta”, fece, sarcastico.
“Imbecille.
Stavo così bene…”.
“Ti
entrerà tutta la sabbia nelle chiappe”, replicò lui. Lei lo colpì alla spalla
con tutta la forza possibile.
“Che
male”, sorrise lui, minimamente dolorante, “che ci vuoi fare, Weasley, se sono più forte di te?”
Ginny
fece una smorfia.
“Più
forte di me, sì, ma guardati con quelle braccia rachitiche. Sembra che tu sia
cresciuto al buio.”
Draco
inarcò le sopracciglia, ironico.
“Magari
è così.”
“Se
fossi cresciuto in casa mia a quest’ora saresti bello, alto e sano come i miei
fratelli.”
“Anche
stupido, dunque.”
“Per
quello ci hanno già pensato i tuoi.”
Draco
le diede un altro pizzicotto molto doloroso.
“Ahia!
Non ti hanno nemmeno insegnato a rispettare le ragazze!”
“Perché
dovrei rispettare le ragazze?”
“Perché
siamo creature delicate come un fiore.”
“E
tu ti includi nella categoria?”
Ginny
lo fissò disgustata. Ma una ciocca di capelli biondissimi che gli ricadde sulla
fronte contrastava con i suoi occhi grigi e, come le accadeva a volte da quando
lo conosceva, si bloccò in completa contemplazione. Certo, un po’ mentiva
quando diceva che non era bello – anche se deboluccio lo era, in fondo – ma non
voleva accrescere il suo già strabordante ego.
“Senti,
‘Malfoy’”, gli disse, avvicinandosi a lui col viso.
Lui fece il suo solito scatto all’indietro, cosa non molto carina da fare con
una ragazza, però lei lo sapeva, o almeno le piaceva pensare di saperlo, che
lui era così, che gli piaceva stare nella sua solitudine. Però a volte la
lasciava avvicinare, un pochino.
“Che
vuoi?”, sbottò lui, ma non la allontanò nemmeno quando lei posò una mano sulla
sua, che poggiava sulla sabbia. Non le strinse la mano, ma non la scacciò
nemmeno. Questo le faceva sempre aumentare i battiti del cuore, anche quando
aveva quello sguardo indifferente, anche quando le parlava male.
“Pensi
che sia un po’ stupida a…”
“Sì.”
“Lasciami
finire, idiota! Pensi che sia un po’ stupida a…”,
fece una pausa, abbassando lo sguardo. Poi tornò a guardarlo negli occhi, “a
credere che forse, un giorno, tutto tornerà a posto e, forse…
non so, forse…”
Draco
la fissò col suo solito sguardo indifferente.
“Sì”,
rispose, “penso che sia un pensiero stupido.”
Ginny
lo guardò.
“Però
forse non penso che tu sia stupida.
Non del tutto. Anche se, diciamolo, sei testarda come un mulo. E non nel senso
buono del termine. Sei stronza, spesso. E anche imbranata. E a certe cose non
ci arrivi se non te le si spiega più volte. Ah, e poi non ti fai mai i cazzi
tuoi. E sei anche una discreta rompicoglioni…”
“Non
riempirmi così di complimenti, non è da te.”
Draco
fece un sorrisetto e lei ebbe quasi l’impressione che si fosse avvicinato di un
millimetro.
“Però,
tutto sommato, no. Non credo che tu
sia stupida…”
Ginny
sorrise, non di un sorriso felice, però le venne spontaneo.
Certo,
era tutto innaturale. E c’era solo sabbia e mare intorno a loro e l’aria era
ferma come se anche il tempo lo fosse.
Certo,
non poteva durare per sempre quel momento. Oppure sì. Ma cos’era meglio?
Tornare
alla realtà che non le piaceva, ma che era più reale della sabbia, del mare e
della sua mano gelida, o rimanere lì, e lasciare che il tempo si fermasse?
Se
avesse aperto gli occhi, cosa avrebbe visto, ora?
Avrebbe
visto tutto passare davanti ai suoi occhi?
Numero
dodici Grimmauld Place, i
serpenti, lo sgabuzzino, il suo riflesso nello specchio sporco, la faccia
paonazza di zio Vernon, la foto di sua madre, il muro tra il binario nove e
dieci, Hagrid e la sua capanna e il suo ombrello, la
barba bianca e gli occhiali a mezzaluna di Silente, Sirius
e i progetti di vivere insieme, l’album di fotografie, il primo bacio, il
Boccino, Ginny e i suoi capelli rossi e i suoi occhi
azzurri e le sue lentiggini sul naso. Ron e le sue smorfie e quando gli metteva
le bombette puzzolenti sotto il letto e il suo russare la notte che non lo
faceva dormire però era quasi tranquillizzante, Hermione
e i suoi capelli tutti ricci e le sopracciglia inarcate e il sorrisetto sapientone… poi Luna, i cuscini sul pavimento, le
frittelle, il bacio irreale, quello sguardo sorpreso che era un po’ come dare
il primo bacio, dormire insieme comodi comodi perché in fondo quel letto era un
po’ grande per lui solo.
Harry
aveva rischiato tante volte di morire, ma non aveva mai visto niente di tutto
questo. Era anche vero che non c’era mai andato così vicino.
Ora
c’erano loro quattro, in quel corridoio con quel silenzio irreale, lui contro Draco, Draco contro di lui, Ginny contro Draco – e la sua
espressione, un’espressione che non aveva mai visto su Ginny,
come se stesse soffrendo fisicamente in quel gesto, soltanto tenendo la mano un
po’ sollevata a stringere la bacchetta, soltanto così, sembrava che camminasse
sul fuoco a piedi nudi - e Luna che li guardava, gli occhi turchesi che passavano
dall’uno all’altro. Non sembrava spaventata, però era più bianca del solito e
soprattutto non si muoveva; era completamente immobile, sembrava quasi non
respirasse, era come se in lei il tempo si fosse fermato.
“Malfoy”, riuscì a dire Harry, quasi senza respiro, “abbassa
la bacchetta. Ti conviene.”
Lui
fece un ghigno.
“Non
voglio debiti con te, Potter”, replicò, “in special
modo un debito di sangue.”
“Draco”, intimò Ginny, con la mano
e la voce che tremavano.
“Se
per farla finita con questa storia, oltre a tuo padre devo uccidere anche te,
posso farlo, Malfoy”, gli disse, mentre un rivolo di
sudore gli scendeva lungo la tempia.
Non
era vero. Un conto era uccidere un uomo che, era certo, non aveva niente dentro
di sé se non smanie di potere, malvagità e sostanzialmente vuoto.
Un
conto era guardare dritto negli occhi Draco Malfoy, che seppure odiasse smisuratamente, conosceva da
sempre, da quando aveva cominciato a vivere a Hogwarts,
da quando in un certo senso era cominciata la sua vera vita e, anche se come
antagonista, anche lui era stato parte di essa. E sapeva che anche Malfoy era vuoto dentro, e quando Ginny
aveva fatto la follia di dargli confidenza la prima volta aveva pensato che
fosse uscita di testa, ma poi ci aveva pensato.
Ed
era vero, forse da qualche parte dentro Malfoy, nei
meandri della sua anima fredda, se ne aveva una, tra risentimento, omicidio,
rabbia, invidia, cattiveria e odio, forse si nascondeva qualcosa che non fosse
proprio così terribile, qualcosa che si poteva recuperare almeno.
Uccidere
Draco Malfoy con queste
premesse, guardandolo, sotto lo sguardo di Ginny che
sembrava sul punto di gelare, era tutt’altra cosa.
“Allora,
Potter?”, chiese Malfoy, alzando la bacchetta.
“Allora,
Malfoy?”
Fu
tutto molto veloce. Neanche il tempo di rendersene conto e Malfoy
gli scagliava contro l’Avada Kedavra,
Harry faceva lo stesso, Ginny impallidiva fino quasi
a sparire e poi, inaspettatamente, Luna gli scostava il braccio con la
bacchetta proprio nel momento in cui ne usciva l’incantesimo, la bacchetta
girava per aria e puntava proprio contro di lei, che per un attimo ghiacciò,
immobile, e poi cadde a terra.
Silenzio.
Soltanto lo schiocco della bacchetta che cadeva per terra.
Malfoy
lo fissò, indifferente, continuando a puntargli contro la bacchetta.
“Potevi
almeno risparmiarti questa scena e sacrificarti per una volta in vita tua,
Potter”, disse, buttando uno sguardo sprezzante sul corpo immobile di Luna,
“invece sei disposto a sacrificare chiunque per te stesso, proprio come me.
Quasi mi dispiace ucciderti adesso.”
Harry
non riusciva più a respirare. Non ricordava più come si facesse, in effetti.
L’aria gli si bloccava dentro, non riusciva a entrare.
Ginny,
bianca, si inginocchiò per terra accanto a Luna e le toccò un braccio quasi a
voler constatare che fosse davvero fredda. Alzò la testa a guardare Harry.
“Harry…”, gli disse, con gli occhi pieni di lacrime, la
bacchetta ancora puntata contro Malfoy, ma il braccio
ormai completamente senza forze.
Harry
non si accorse di come cedevano le sue gambe e sentì solo vagamente le sue
ginocchia sbattere sul pavimento di pietra.
Era
questo, dunque, il destino del Prescelto.
Non
riusciva nemmeno a guardarla, lei, riusciva solo a intravedere quei lunghi
capelli biondi con le treccine piccole e i nastrini qua e là.
Chiuse
gli occhi e sentì che stavolta si arrendeva davvero.
Malfoy
pronunciò la formula ad alta voce, quasi a voler annunciargliela.
Se
avesse aperto gli occhi, cosa avrebbe visto, ora?
Un
lampo lasciò intravedere l’espressione folle di Bellatrix
che urlava e tutto accadde naturalmente, come una battaglia di quelle antiche,
con le spade e le frecce, tutti correvano e urlavano, e i Mangiamorte
si mischiavano ai membri dell’Ordine, e lampi di luce rossa e verde e gialla
schizzavano da una parte all’altra come piccole letali stelle cadenti.
In
quella folla qualcuno la spintonò e non riuscì più a tenere stretta la mano di
Ron, che scivolò via.
Hermione
si guardò intorno terrorizzata, la bacchetta alzata, i pensieri nella testa,
l’affanno nel respiro, non capiva più niente, chi erano i Mangiamorte
e chi erano i suoi compagni, avevano tutti la veste nera e il cappuccio, poi
c’era quella pioggia violenta sembrava fatta di proiettili. E non riusciva più
a vedere Ron, non riusciva più a vedere nessuno dei suoi.
Poi,
qualcuno le lanciò uno Schiantesimo e lei cadde
all’indietro, sbatté la schiena contro svariate persone e sentì chiaramente una
costola spezzarsi. Piombò sull’erba bagnata urlando di dolore.
La
persona che le aveva lanciato lo Schiantesimo le si
avvicinò.
Intravide
i lineamenti di Rodolphus Lestrange.
“Non
dovevi essere la più brava, Hermione Granger?”, gridò, “crucio”.
Si
sentì come se il corpo le andasse a fuoco. Tutti i nervi stringevano come se
ogni muscolo avesse un crampo e urlava, poi finì anche il fiato per urlare e si
raggomitolò su se stessa mentre il fango le affondava nei capelli.
“Chissà
cosa ne penserebbe il tuo amico Harry Potter se sapesse la fine che stai per
fare?”, rise Rodolphus, “peccato che non lo saprà
mai. Crucio”.
Hermione
urlò ancora e si sentì come se tutto, non solo la costola, le si spezzasse
dentro.
Ma
la cosa che più le faceva male era che non aveva mai avuto paura come ora,
paura e consapevolezza al tempo stesso, lo sapeva, sapeva che non ce l’avrebbe
fatta, sapeva che invece di cercare la mano di Ron avrebbe dovuto tenere la
bacchetta pronta, che in un piccolo errore si nasconde la catastrofe, che ora
stava pagando. Eppure ancora pensava a quella mano, mentre urlava e le lacrime
di dolore le scendevano dagli occhi mentre si contorceva per terra, pensava a
quella mano e qualcosa dentro di lei stava meglio.
Lei
aveva stretto quella mano.
“Crucio”.
Urlò.
Lei
aveva stretto quella mano e non aveva più poi tanto freddo o tanto dolore.
Quell’appartamento
era bello, luminoso, poteva contenere tutti i suoi libri e i poster di Ron,
certo lei avrebbe dovuto pulire continuamente perché lui lasciava sempre in
giro le sue cose e non c’era verso di fargliele mettere al loro posto;
sicuramente però quando veniva la sera avrebbero mangiato la pizza davanti alla
televisione e lui avrebbe alzato il volume per impedirle di studiare ma lei si
sarebbe chiusa le orecchie e avrebbe continuato lo stesso; di notte avrebbe
sentito il profumo dei capelli di Ron sul suo cuscino e il calore del suo
respiro sul collo mentre dormiva e quando lei avrebbe avuto un incubo lui
l’avrebbe guardata tutto assonnato, le avrebbe riso in faccia per le sue
paranoie e le avrebbe accarezzato per circa due secondi prima di tornare a
russare.
Hermione
non sentiva più il corpo e i suoi sensi erano quasi del tutto inattivi. L’unica
cosa che riusciva a sentire era come un boato, ma sapeva che non era fuori, che
nessuno poteva sentirlo.
Sarebbe
riuscita ad aprire gli occhi, ora?
Ron
alzò la testa verso il cielo ed ebbe la sensazione più strana che avesse mai
provato. Era come se sentisse un boato, ma silenzioso, come un terremoto, ma
immobile, però era più dentro di sé, ma tutti lo sentivano.
Tutti,
intorno a lui, si fermarono. Cadde un silenzio innaturale, interrotto solo
dalla pioggia e dai tuoni.
Qualcuno
gridò, “Crucio!”
ma dalla posizione in cui era – combattendo contro un Mangiamorte
di cui non riusciva a vedere il viso, ma non gli importava – non riusciva a
vedere da dove venisse, tutto intorno a lui era una macchia di facce che non
riconosceva, bacchette, vesti neri e pioggia, pioggia e pioggia.
Poi
il silenzio venne interrotto da un brusio sempre più alto.
“Che
cazzo succede?”
“Cosa
diavolo…”
E
tutti che muovevano le bacchette. Ron approfittò della distrazione del suo avversario
per lanciare uno Schiantesimo.
Niente.
Dalla
sua bacchetta non uscì niente.
Era
come agitare un pezzo di legno.
Riprovò.
Niente.
Niente
di niente.
E,
guardandosi intorno, si accorse che accadeva a tutti. Mangiamorte,
membri dell’Ordine…
Nessuno
riusciva più a mandare un incantesimo.
“Cosa
cazzo sta succedendo, merda, fate qualcosa, non è possibile…”
“Non vi fermate, non vi fermate,
combattete a mani nude se necessario!”, sentì gridare la voce di Lupin, che
sembrava incredibilmente lontano da lui.
Prima
che potesse rendersene conto il Mangiamorte lo
precedette e gli saltò addosso, entrambi caddero a terra, ricevette un pugno
sul naso che gli deviò il setto e fece schizzare un rivolo di sangue per terra.
Urlò per il dolore e colpì di rimando, a caso, però sentì un osso del Mangiamorte incrinarsi sotto le sue dita e in attimo gli fu
sopra e lo colpì senza nemmeno guardarlo, più forte che poteva, sentendo che se
non lo guardava in faccia sarebbe riuscito anche ucciderlo proprio lì, a mani
nude.
Poi
però sentì dietro di sé un rumore metallico, una sorta di ‘clic’, come una
piccola rotellina.
Si
guardò alle spalle, il sangue che usciva dal naso e gli si rapprendeva sul
mento, il fiatone e il sapore di ferro in bocca.
Bellatrix
era a due passi da lui, la bacchetta in una mano, una Colt
nell’altra; quest’ultima puntata contro di lui.
Sapeva
cos’era perché una volta aveva visto un film alla tv di Harry. Un poliziesco,
gli aveva detto lui, e inutile dire quanto lo intrigasse l’idea che i babbani fabbricassero manualmente delle armi in cui
inserire una pallina che poi poteva anche uccidere. Così aveva chiesto qualche
informazione in più alla banca dati più facile da consultare, cioè Hermione, la quale però l’aveva guardato malissimo e
costretto a passare un noiosissimo pomeriggio in biblioteca. Che però gli aveva
fruttato la lettura di un libro babbano sulle armi da
fuoco, e per noia aveva finito per impararsi tutti i modelli. E ora ne aveva
una davanti.
Quando
aveva visto il film aveva riso, perché anche se ti colpiscono con una pistola,
con la magia una ferita così semplice si cura in un attimo.
Ma
senza magia?
Senza
magia si muore, come i babbani.
“Solo
perché sono purosangue non significa che non sappia maneggiare un’arma babbana quando ne ho bisogno”, disse Bellatrix,
con un sorriso da pazza che le andava da un orecchio all’altro. Gli si avvicinò
ancora mentre il Mangiamorte malridotto si
allontanava trascinandosi, con una risatina.
Bellatrix
appoggiò la cima della canna alla sua fronte. Lui non si mosse, la fissava e
respirava.
Bellatrix
alzò il mento, fiera.
“Ti
sto facendo un favore Ronald Weasley”, disse, “ti
faccio raggiungere Harry Potter ed Hermione Granger, adesso.”
Ron
chiuse gli occhi.
Avrebbe
visto tutto passare davanti ai suoi occhi?
Luna
si guardò intorno. Guardò Harry, Ginny e Draco, immobili, tutti che si puntavano la bacchetta l’uno
contro l’altro. Immobili, erano come statue. Tornò a guardare Harry.
Fece
qualche passo nella sua direzione e lo guardò bene, da vicino. Gli occhi verdi,
inespressivi, trasmettevano comunque delle sensazioni: disperazione, paura.
Appoggiò incerta una mano sul suo polso abbassandogli dolcemente il braccio e
gli prese la bacchetta. Fece lo stesso con Ginny e Draco Malfoy.
Ma
tutti rimasero immobili con la stessa espressione, come se il tempo si fosse
fermato.
“Dimmi,
Luna Lovegood, sono proprio curioso di saperlo: come
mai sei immune a un incantesimo come questo?”
Luna
si voltò sbattendo le ciglia e vide Voldemort, bianco
e con gli occhi rossi; aveva un aspetto spaventoso eppure lei non abbassò lo
sguardo ma continuò a fissarlo come se fosse un tale qualunque.
“Non
so, ma penso che sia come quando hai paura di una cosa in maniera irrazionale,
e cioè che se non ci credi veramente non hai più paura.”
Voldemort
rise.
“E
tu, ovviamente, non ci credi.”
“Beh,
tutto questo è meno reale di un sogno molto irreale. Quindi non ci credo.”
La
sua voce era tranquilla. Si sedette perfino per terra a gambe incrociate, a
guardare Voldemort come avrebbe guardato un barbone.
Lui
fece una smorfia di disprezzo.
“Devo
ammetterlo, tu sei un dettaglio a cui non avevo pensato.”
“Nessuno
pensa mai a me, devo dire.”
Gli
sorrise. Lui estrasse la bacchetta con estrema calma, le mani scheletriche.
“Senti,
Signore Oscuro”, disse lei, “preferirei che lasciassi stare Harry. E gli
altri.”
Voldemort
rise ancora di gusto.
“E
perché mai?”, replicò, “in fondo, nessuno di loro ti considera. E quando lo
fanno, è per deriderti. Non penso certo che tu possa fermarmi, però vorrei
evitare scene patetiche in cui sono costretto a ucciderti. Quando, lo sappiamo… sei abbastanza forte da stare dalla mia parte. Al
contrario di Ginny Weasley.”
“Sapevi,
Signore Oscuro, che i sogni che si fanno durante la fase REM, cioè la fase più
profonda del sonno, sono i più importanti, quelli che manifestano proprio
l’inconscio, quelli che non ti ricordi quando ti svegli? E’ come se la nostra
testa durante il giorno archiviasse inconsciamente delle persone, delle paure,
dei desideri, e poi tac, le mettesse in scena nel teatro del cervello durante
la notte. Però non è mica reale. Questo è alla base dell’incantesimo, no?”
Un
momento di silenzio.
“Certo.
Ma qualcosa di reale c’è sempre. Qualcosa c’è sempre.”
“Quindi
speri che il reale stia nel fatto che Harry venga ucciso?”
“Speravo
che tu lo immaginassi, rimanendo vittima dell’incantesimo”, sorrise Voldemort, “ma non importa. L’importante è che Harry
Potter, anche se sarà ancora vivo, rimanga da solo.”
Luna
sbatté le palpebre, guardandolo.
“Perché
una cosa è vera solo se ci credi veramente. E se loro credono veramente di
morire, o c’è una minima parte di loro che lo vuole…”
“Saranno
morti. Tutti, metà. Lo scopriremo tra poco.”
“Ma… non so, hai considerato le conseguenze?”
“Basta chiacchiere”, sbottò Voldemort all’improvviso, puntandole la bacchetta contro,
“per te la morte è reale, ora.”
Luna
si alzò in piedi, con un’espressione triste.
“A
me non interessa molto morire oppure no”, disse, “ma loro sono persone buone.
Quindi ti chiedo ancora se puoi, per favore, lasciarli in pace.”
Voldemort
non sembrava ascoltarla.
“Ah,
è vero”, aggiunse Luna, “l’effetto collaterale dell’incantesimo è che credendo
solo a quello che si vede, ed essendo reale solo quello che si crede… in un posto così la magia non può esistere. Certo,
tu e io siamo coperti perché siamo consapevoli dell’incantesimo…
ma quindi come faranno i tuoi Mangiamorte? Li hai
avvertiti?”
“Ovviamente”,
replicò Voldemort, con una voce oltre tombale. Alzò
la bacchetta: “addio, Luna Lovegood, saresti stata
perfetta per il mio plotone, anche con quella tua aria svampita. Avada Kedavra”,
gridò, con una voce che sembrava venire dall’inferno.
La
luce verde corse, veloce come elettricità pura, verso Luna.
Lei
la seguì con lo sguardo fino a che, a pochi centimetri dal suo viso, non si
dissolse.
Voldemort
la guardò, gli occhi in fiamme.
“Non
hai considerato”, gli disse, tranquillissima, “che sotto questo incantesimo,
conta quello a cui credi. Se io adesso decido di credere che con un Avada Kedavra non mi puoi
uccidere, non succederà.”
“Questo
non è possibile.”
“Tutto
è possibile!”, rise Luna, spalancando le braccia. I suoi capelli cominciarono a
sollevarsi come sotto l’effetto di energia statica, “tutto è possibile a questo
mondo. Io credo a tutto, a qualsiasi cosa, in effetti”, una luce cominciava a
scaturire dai palmi delle sue mani, sotto gli occhi sgranati e iniettati di
sangue di Voldemort, “anche che io ti possa
sconfiggere con poteri che nella realtà non avrei, ma che credo di avere,
proprio ora. E credo che Harry sopravvivrà. Non so se sia vero, ma io ci credo
davvero. Io ci credo. Tu, invece… a cosa credi?”
Voldemort
non ebbe tempo di rispondere e nessuno seppe mai a cosa credeva, se
effettivamente c’era una parte della sua anima morta ricoperta di uno scheletro
che credeva a qualcosa.
Ma
Luna Lovegood, lei aveva sempre creduto a tutto, per
quanto assurdo che fosse, per quanto improvabile e improbabile, credeva a
tutto, alla vita, alla morte, alla reincarnazione, al paradiso, ai sogni, agli
incubi, ai mostri, alle favole, ai giornali, alle storie, ai libri.
In
effetti, non c’era niente di più assurdo che Luna Lovegood
che sconfiggeva Lord Voldemort, il Signore Oscuro,
con un semplice incanto Patronus. Se qualcuno
l’avesse sentito prima, avrebbe riso, e certamente non ci avrebbe creduto.
Eppure
una luce argentea avvolse la stanza. Una luce così intensa da essere
insopportabile, una luce così intensa da fare rumore nel silenzio.
L’importante
era crederci.
Ebbe
una strana sensazione di déjà-vu quando sentì la sabbia sotto il palmo della
mano.
Si
tirò su a sedere e si massaggiò la testa, come se si aspettasse che gli facesse
male.
Ma
stava bene, benissimo in effetti.
Si
guardò intorno: mare, sabbia, mare, sabbia.
Si
alzò in piedi.
Sì,
c’era già stato lì.
Solo
che stavolta era diverso. Nessuna tentazione di andare in mare. Sentiva solo il
desiderio di rimanere lì, rimanere lì e non pensare a niente e non sentire
niente.
Non
aveva paura.
Sentì
una mano sottile sulla spalla.
Si
voltò di scatto con gli occhi che si illuminavano, come se si aspettasse
qualcosa.
Davanti
a lui c’era Cloe, i capelli biondi sciolti sulle
spalle e la pelle innaturalmente trasparente e gli occhi chiari che lo
fissavano.
“Ron”,
gli disse, con una voce lontana lontana, “Ron, stai bene?”
Ron
era confuso e fece un passo indietro.
“Cosa… perché tu…”
Ma
lui non sembrava nemmeno ascoltarlo.
“Ron,
non voglio che tu te ne vada senza saperlo”, gli disse Cloe
con gli occhi che si riempivano di lacrime, “non voglio che tu te ne vada.”
Ron
era sempre più confuso. Perché lei? Perché lì?
“Io… io non capisco. Cloe, tu non
dovresti essere qui…”
Cloe
gli prese tra le mani entrambi i polsi.
“Ma
non capisci? Io sono qui per te, Ron.”
“Ma… ma tu non dovresti, io non…”
“Ron,
non voglio che tu rimanga solo adesso. Se io me ne andassi, tu rimarresti
solo.”
Lui
tirò indietro le mani istintivamente.
“Non
è vero.”
“E’
vero. Tu devi accettare i cambiamenti. Tu devi vivere. Non è ancora il momento
di andartene.”
Ron
fece due passi indietro.
“Continuo
a non capire, Cloe, che fai qui? Io…”,
si sentì un po’ soffocare, “tu non dovresti essere qui, dovrebbe esserci Hermione, Hermione dovrebbe
essere qui.”
Cloe
lo guardò, poi chiuse gli occhi disperata, come se non trovasse le parole.
“Ron,
io sono qui per te”, ripeté, “non voglio che tu rimanga solo.”
“Non
rimarrò solo!”, urlò il ragazzo, spazientendosi, “Hermione
dovrebbe essere qui.”
Cloe
gli si avvicinò di qualche passo.
“Ci
sono io, ora.”
Ron
si sentiva così confuso che la testa cominciò a girargli. Era come se avesse
inghiottito mille sonniferi e non riuscisse a svegliarsi. Si sentiva pesante,
ma non trovava le forze nemmeno di lasciarsi cadere a terra. Cloe appoggio la mano destra sul suo collo, con espressione
buona.
“Non
avere paura. Ci sono io, ora.”
E
Ron aveva ancora paura, ma non sapeva di cosa, era terribile, non respirava
eppure viveva, non aveva più il tatto ma sentiva la mano di Cloe
sulla sua guancia. Non riusciva a pensare ma al tempo senso non faceva che
pensare, in realtà a una sola parola.
Hermione,
Hermione, Hermione, Hermione, Hermione, Hermione.
“Ti
aiuterò io adesso”, disse Cloe, o almeno così gli
parve, perché di fatto lei non mosse le labbra.
Al
contrario gli si avvicinò ancora di più, gli occhi azzurri piantati nei suoi,
le labbra sempre più vicine.
“Hermione, te lo dico adesso,
senza preamboli, perché l’ultima volta a forza di tormentarmi, non sono
riuscito a dire nulla. Io ti amo.”
“Beh, ma cos’è poi tutta questa preoccupazione per quello che pensa
la mia famiglia? Non vorrai mica sposarmi? No, perché non sono sicuro di
riuscire a sopravvivere per sempre con te che mi martelli di lamentele.”
“ E’ molto strano”, “Sì, beh… è una questione di riabituarsi.”
“Non c’era bisogno
della sfera di cristallo per capire che rischiavi di cedere alle tentazioni. E’
che io… io ho davvero sperato che non cedessi. Ho davvero
sperato…”
Come sempre, era lei,
era lei il suo chiodo fisso, e se quelli erano i suoi ultimi momenti prima di
morire, beh, tutto tornava, perché la sua vita era partita con lei, aveva
rischiato la vita con lei, e ora moriva pensando a lei. Nella confusione, tutto
questo, per una volta, lo faceva sentire sollevato.
Le labbra trasparenti di
Cloe si erano appoggiate sulle sue da una frazione di
secondo o forse da tanto, qual era la misurazione del tempo in quel mondo
parallelo?, ma lui sollevò le braccia, che sentiva pesantissime, e l’allontanò
prendendola per le spalle.
“So imparare dagli
errori”, disse più a se stesso che a lei, “io so imparare dagli errori. Sono un
deficiente, ma so imparare dagli errori.”
Non seppe bene cosa
successe, dopo. Soltanto, Cloe sparì, il viso
inespressivo.
E i pensieri, le
immagini, le urla, le armi, la paura, il dolore, la battaglia, il sangue, la
pioggia, i tuoni, la magia, tutto sparì, in un’onda di luce bianchissima e
accecante, come se tutto fosse esploso in una silenziosa nube di cristallo.
Tutto sparì, e l’ultimo
rumore che si sentì erano i passi di una lepre che si allontanava.
L’ospedale San Mungo non
era mai stato così affollato. Mai, neanche la prima volta, tanti anni prima,
quando era iniziato l’incubo della guerra.
Ora arrivavano gufi da
ogni finestra portando lettere preoccupatissime di parenti, c’erano Medimaghi e infermieri che correvano dappertutto,
apprendisti e di ruolo, c’erano feriti e medicature, ogni reparto era un
delirio, si sentivano urla e pianti dappertutto ed i primari riuscivano a
stento a mantenere l’ordine.
Il decesso di Remus Lupin e Ninfadora Tonks fu dichiarato alle ore 5,32, proprio quando smise di
piovere e il rumore dei tuoni si allontanava, lasciando nell’aria fredda odore
di foglie umide e di fango.
Nel corso dell’ora che
seguì, quando cominciò a spuntare il sole e gli uccellini cominciarono a
cantare, fu il momento di Shacklebolt, Avery, Podmore, Greyback, Jones, McNair, Lux e Rodolphus Lestrange.
Gli eserciti sia dei Mangiamorte che dell’Ordine della Fenice erano stati
dimezzati.
In tutto quel rumore, in
tutta quella disperazione e quella folla di persone ferite e parenti, c’era
un’ala dell’ospedale irrealmente silenziosa. Era stata riservata ai membri
dell’Ordine della Fenice che ancora respiravano.
Arthur Weasley arrivò correndo, con il fiatone e i capelli e i
vestiti bagnati di chi è stato a lungo sotto la pioggia. Una manica della veste
strappata lasciava intravedere del sangue tumefatto. L’occhio sinistro era
chiuso, gonfio e violaceo.
“Arthur!”, gridò Molly Weasley, rompendo
il silenzio della sala d’attesa. Fino a un attimo prima stava singhiozzando tra
le braccia di Elizabeth Granger, che era più pallida
allora di quanto non lo fosse mai stata.
“Molly, ho fatto prima
che ho potuto”, disse Arthur in un soffio, prendendo la moglie tra le braccia,
“hanno preso prima i feriti gravi. Eravamo tantissimi, c’era una tale… una tale confusione… io… i nostri figli, non li ho visti…
mi dispiace…”
Molly singhiozzò più
forte contro il suo petto.
Arthur guardò,
impotente, Alexander Granger, che aveva le guance
scavate e le borse sotto gli occhi.
“Arthur”, disse l’uomo,
tenendo la mano della moglie, “li hanno trovati. Sono qui.”
Il signor Weasley lasciò per un attimo la moglie.
“Li voglio vedere. Li
voglio vedere!”, gridò, guardandosi attorno come se si aspettasse che potessero
spuntare da dietro una porta.
Il signor Granger posò delicatamente la mano di Elizabeth Granger sul suo grembo, e lasciò le due donne sedute, in
silenzio.
“Non possiamo entrare,
ma si possono vedere”, disse in un sussurro all’uomo.
Percorsero un breve
corridoio stretto e bianco che odorava di antibiotico e arrivarono in un’altra
sale priva di sedie, con una porta sulla sinistra, ed un vetro-finestra accanto
ad essa.
La scena che vide
attraverso il vetro quasi fece fermare il cuore di Arthur Weasley.
Il vetro lasciava
intravedere quattro stanze separate da muri di cartapesta, in modo che
dall’esterno si potesse vedere ogni letto, ognuno circondato da una diversa
équipe di medimaghi, ma senza che le stanze fossero
tra loro comunicanti.
Nella stanza all’estrema
sinistra, c’era Ginny Weasley,
i bei capelli rossi tagliati cortissimi e con in cima alla testa una grossa
medicazione.
Poi c’era Ron Weasley, un braccio ingessato, un occhio tumefatto come
quello del padre e una medicazione alla testa più grossa di quella della
sorella.
Poi c’era Hermione Granger, i capelli ricci
sparsi sul cuscino, abrasioni e graffi sulla pelle di ogni parte del corpo, il
viso, il collo, le braccia e le mani.
Infine, c’era Luna Lovegood. Sembrava più magra che mai, come le fosse stata
risucchiata via l’anima; però non aveva ferite, solo un’evidente ustione al
collo. Aveva un’espressione tranquilla.
Tutti dormivano con gli
occhi serrati.
“Come stanno?”, chiese
immediatamente il signor Weasley, cercando
disperatamente con la mano un muro a cui appoggiarsi.
Il signor Granger si prese un attimo prima di rispondere, come se non
avesse le forze per parlare.
“Ginny ha battuto
forte la testa, non sanno dove. Non è stata medicata in tempo perché quando
sono arrivati i medimaghi la zona del castello era
completamente ‘anestetizzata’ dalla magia. Ma pensano che, se arriva al
mattino, starà bene.
A Ron hanno sparato con
una pistola babbana. Pare abbia lottato prima, per
questo ci sono altre ferite. Il proiettile però non è entrato nella testa, ma
ha ferito solo la parte superiore della testa. Pensano che il cervello non sia
stato toccato, il che è un vero miracolo. Un vero miracolo.”
Prese il respiro.
“Hermione…
Hermione”, si interruppe un attimo, come se
improvvisamente non trovasse le parole, “Hermione è
stata torturata molto a lungo, quindi il suo corpo è estremamente debilitato.
Ha avuto due arresti cardiaci da quando l’hanno portata qui.”
Ci fu una lunga pausa
silenziosa.
“Neanche con la magia
riescono a evitarli…”
Deglutì, poi prese
ancora un grande respiro e riprese a parlare.
“Luna Lovegood sta fisicamente bene, a parte un’ustione. Però non
si sveglia”, si inumidì le labbra, “nessuno si sveglia più, anche se non sono
gravi. Nessuno si sveglia.”
Arthur Weasley gli sfregò la spalla senza sapere cosa dire o cosa
fare. Riusciva solo a guardare quei ragazzi giovanissimi, a guardarli e a non
capire, a non capire perché non erano loro, i grandi, a stare lì. Perché erano sempre
stati loro a finire in ospedale, anche se erano molto più forti di loro.
Rimasero in silenzio per
tanto tempo ancora, mentre il sole sorgeva e le nuvole sparivano dal cielo,
mentre un nuovo giorno cominciava.
Si svegliò con il
fiatone come se fosse stato in apnea. Tentò immediatamente di mettersi a
sedere, ma sentì uno scricchiolio alla schiena, un dolore acutissimo e gridò.
“Si è svegliato, si è
svegliato, oddio, si è svegliato”, urlò subito una voce femminile familiare.
Lui cercò di mettere
meglio a fuoco le immagini mentre delle mani esili e ancora più fredde delle
sue gli stringevano il braccio.
Narcissa Malfoy
lo guardava e gli accarezzava le guance, facendolo rabbrividire di freddo.
Aveva gli occhi tutti rossi e la pettinatura scomposta. Non l’aveva mai vista
con la pettinatura scomposta.
“Draco,
come ti senti? Riesci a parlare? Non muoverti. Riesci a dirmi qualcosa? Mi
riconosci?”
Draco si sentiva pulsare la
testa e aveva ancora la vista non completamente a fuoco a causa del dolore alla
schiena, ma mugolò: “certo che ti riconosco”. Con poca forza, sottrasse la mano
dalla stretta di sua madre. La donna lo guardò, mentre nella stanza entrava un infermiere.
Gli riprese la mano con fermezza costringendolo a non ribellarsi.
“Accusi qualche dolore
in particolare?”
“Ho un fottuto dolore
alla schiena, non riesco a muovermi, certo che ho un dolore in particolare.”
L’infermiere dagli occhi
nocciola inarcò le sopracciglia e scrisse qualcosa sulla sua cartellina.
“Draco”,
disse Narcissa, fingendo di non aver sentito, “per
poco non ti si spezzava la spina dorsale. Chi ti ha ridotto così?”
“Signora, lascerei
perdere questi dettagli”, tagliò corto l’infermiere, “comunque, suo figlio sta
bene. Ora che è sveglio deve solo bere la pozione che ho lasciato sul tavolo e
in dieci minuti le sue ossa saranno a posto.”
“Quanto ho dormito?”,
chiese Draco, cercando inconsciamente una finestra.
Ma la stanza era tutta pareti.
“Tre giorni”, rispose Narcissa col fiato corto, “tre lunghissimi giorni. Draco, non hai idea… di quanto… pensavo che non ti saresti più svegliato…
pensavo che anche tu…”
Draco sentì di colpo lo
stomaco rivoltarsi. Improvvisamente uscì dallo stato di semi-incoscienza in cui
si trovava e si ricordò tutto. Ebbe un forte senso di nausea e una gran voglia
di vomitare.
“Sono passati tre
giorni?”, chiese, con tono piatto.
“Sì”, fece Narcissa, esitante.
“Che è successo?”
La donna lo guardò, come
se stesse considerando se fosse il caso o no di parlarne adesso.
Abbassò la voce come se
non volesse che l’infermiere, che ormai usciva dalla stanza, la sentisse.
“Greyback…
Rodolphus… il Signore Oscuro…”,
esitò ancora, “abbiamo perso”, disse infine.
Draco si sentì completamente
indifferente alla notizia. In fondo non gli interessava minimamente.
“E?”
Narcissa lo guardò senza capire.
“Draco…
Rodolphus è morto. Non voglio farti stare peggio, ma…”
“Rodolphus
era uno stronzo ed è morto da stronzo. Non è questo che mi interessa.”
Narcissa lo guardò come se non
lo riconoscesse.
“Cosa…
cosa ti interessa, allora?”
Draco non rispose. Già, che
cosa gli interessava? Tanto le risposte già ce le aveva. Anche troppe.
Stavolta lo stimolo di
vomitare fu troppo, prese un secchio e rimesse.
“Draco,
non stai ancora bene, prendi la medicina e riposati”, Narcissa
fece per alzarsi.
“Harry Potter?”, tossì Draco, sentendosi malissimo, “voglio sapere di loro.”
La donna annuì con
espressione grave. Draco capì che stava pensando che
volesse sentire come era morto l’assassino di suo padre.
“Pare che Potter sia
vivo. Ma l’hanno ricoverato in un’ala dell’ospedale a cui non ha accesso
nessuno. E nessuno l’ha ancora visto. Quella feccia dei suoi amici stanno anche
loro in un’area riservata. Ho visto i Weasley”, disse
questo nome con disprezzo, poi fece un sorrisetto, “non mi sembravano per
niente contenti. Qualcosa di buono l’abbiamo fatto…”
Draco ebbe un altro conato,
ma non disse nulla. Ingoiò la medicina tutta d’un fiato e si ridistese sul letto, sentendosi improvvisamente stanco.
Guardò i lunghi capelli biondi di sua madre che le ricadevano sulla spalle.
Aveva esaurito le sue
forze.
Ron Weasley
si svegliò quello stesso giorno, a pomeriggio ormai inoltrato. Il primo suono
che udì, un po’ in lontananza in effetti, fu il grido di sua madre fuori da un
vetro trasparente, dei passi e poi lei e suo padre che gli piombavano a fianco
urlando cose sconnesse, il suo nome. Avevano il viso pallido e gli sembravano
dimagriti.
Tutto quel rumore dopo
tanto sonno lo stordì.
“Io…”,
disse, ma si accorse di avere la voce tutta impastata.
“Ron, non ti sforzare,
tesoro”, disse Molly Weasley singhiozzando, “non ti
sforzare. Grazie, grazie, grazie, ti sei svegliato, grazie…”
Ron non riusciva a
radunare le idee. Si guardò le mani, come se si aspettasse di vederle sporche
di sabbia, o di fango, o di sangue; e invece niente. Aveva solo qualche
problema a muovere la destra.
“Non riesco a muovere la
mano”, disse, cominciando ad agitarsi.
Suo padre e sua madre si
scambiarono uno sguardo.
“Ron, ti hanno sparato”,
disse il signor Weasley, con tono calmo, “ma non sei
stato colpito per miracolo. Il proiettile ti ha solo sfiorato…
ma è possibile che tu abbia subito delle lesioni. Ci hanno detto che era
possibile che non riuscissi a muovere degli arti. Purtroppo non si può
risolvere con un incantesimo sulle ossa, perché è dovuto al cervello…
ma vedrai che starai bene.”
Ron si guardò il braccio,
quello non si mosse se non impercettibilmente.
Ma ora non gliene
importava proprio niente del suo braccio.
“Hermione?
Harry? Ginny? Luna? Come stanno? Dove sono?”
“Ron, calmo”, gli disse
suo padre, “ti sei appena svegliato. Devi riposarti ancora un po’.”
“Ho dormito per giorni,
sono sveglissimo”, replicò lui, cercando di mettersi a sedere, “come stanno?”
La signora Weasley guardò il signor Weasley
come se non sapesse cosa dire, e lui sospirò.
Ron, se pensava di aver
mai avuto tanta paura in vita sua, sapeva che questo momento raggiungeva il
picco della paura.
Voleva che gli
rispondessero e al tempo stesso c’era una parte di lui che non voleva.
Forse non voleva
sentire.
“Harry sta bene, ha solo
una gamba rotta che fatica ad accomodarsi, ma può camminare. Ora si trova in
un’ala a parte e lo stanno sommergendo di cure e controlli. Anche Luna si è
svegliata. Quella ragazza è incredibile. E’ stata lei a sconfiggere Colui che
non deve essere nominato… Voldemort.
Ci ha liberati tutti. Eppure non ne vuole nemmeno sentire parlare. Li vado a
chiamare, vuoi? Penso che potrebbero…”
“Papà, non mi hai
risposto ancora del tutto”, disse Ron, sentendo che non riusciva a respirare, “Hermione? Ginny?”
Si guardarono negli
occhi a vicenda.
“ Papà”, gli disse il
ragazzo, “dimmelo. Sono abbastanza grande ormai.”
No, non era abbastanza
grande, ormai. Non lo era affatto, ora si sentiva più piccolo che mai in
effetti. Si sentiva debolissimo, si sentiva un bambino, avrebbe solo voluto abbracciare
sua madre e non ascoltare proprio nulla e magari piangere, anche.
Ma lui non era un
bambino, non doveva esserlo, non più.
“Tua sorella non si è
ancora svegliata. Ha battuto forte la testa ma inizialmente non sembrava
grave”, disse Arthur. Molly singhiozzò e lui le appoggiò una mano sulla spalla
proseguendo, “eppure è anomalo che non si sia ancora svegliata. Ma del resto… del resto anche tu non ti svegliavi. E ora stai
bene.”
Era talmente tanto tempo
che non vedeva Ginny che non riusciva nemmeno a
immaginarsela, ora, a poca distanza da lui, in un letto, come lui.
Guardò suo padre, che
respirò profondamente.
“Anche Hermione non si è ancora svegliata”, rimase in silenzio,
come se non sapesse come continuare.
Ron odiava, odiava
questi silenzi. Li odiava.
“Ron, Hermione è stata torturata per molto, molto tempo. Il suo
fisico, i suoi organi… sono molto indeboliti, e così
il suo sistema immunitario. Non reagisce alle pozioni o agli incantesimi.
Continua a dormire e… capita spesso, specie di notte,
che debbano rianimarla. Ecco.”
Ron scese immediatamente
dal letto, il braccio destro che gli penzolava senza vita sul fianco.
“Ron, che fai!”, urlò
sua madre.
“Devo scendere. Sto
benissimo. Dov’è?”, gli girò un po’ la testa mentre scendeva dal letto e la
spalla gli faceva un po’ male, ma non si accorse praticamente di nulla.
I suoi genitori si
guardarono ancora, senza sapere bene cosa fare.
“Ron, devi rimanere in
osservazione”, disse debolmente Molly Weasley, “non
puoi andartene in giro, guarda, sei diventato pallidissimo, sei ancora debole…”
In effetti, gli veniva
un po’ da vomitare. Ma per tutt’altre ragioni.
Si diresse verso la
porta e dovette cercare di aprire la porta con la mano sinistra.
Poi, inaspettatamente,
suo padre lo afferrò per il braccio con una presa che non permetteva repliche.
“Ron, per favore”,
disse, con una voce stranamente autoritaria, “ti capisco. Però non lo vedi che
fai fatica a stare in piedi? Non riuscirai a fare due
passi. Non puoi
debilitarti così. Ti capisco… ma siamo stati e siamo
ancora così in ansia…”
Ron guardò sua madre,
anche se la vista gli si annebbiava un po’ e cominciava a sentire il bisogno di
sedersi.
Gli dispiaceva per i
visi distrutti dei suoi genitori, gli si stringeva il cuore, ma loro non
avevano idea, non avevano idea di
quanto lui stesse male al pensiero di Hermione. Non
ne avevano idea.
Nonostante ciò, gli
occhi lucidi di sua madre, la debolezza e la stanchezza permisero al padre di
trascinarlo nuovamente verso il letto.
“Ron, vedrai che andrà
tutto bene”, disse il padre, “e già fra pochi giorni potrai…”
Suo padre continuava a
dire cose senza senso. Tra pochi giorni… cosa ne
sarebbe stato di lui, di lei, tra pochi giorni?
Il solo pensiero era
così insopportabile che gli provocava delle fitte allo stomaco.
Suo padre smise di
guardare e lo guardò tristemente, come se seguisse perfettamente il flusso dei
suoi pensieri.
“Penso che non siamo le
persone più adatte per te in questo momento”, gli disse, appoggiandogli una
mano sui capelli, come quando era piccolo, “vuoi vederli, i tuoi amici?”
Ron fissava le pieghe
che prendeva il lenzuolo sopra le sue gambe.
“Devi chiedere a loro se vogliono vedere me”.
Suo padre non poteva
sapere tutto quello che era successo con Harry nei dettagli; qualcosa però
doveva sapere perché capì subito che con ‘loro’ intendeva proprio Harry.
Con che faccia poteva
guardare Harry, ora?
Lui, che l’aveva
abbandonato completamente?
Lui, che non era mai
stato consapevole come ora di quanto fosse sua unica responsabilità il crollo
dei rapporti con Harry… con Hermione.
Era lui la rovina di se
stesso. Niente vittimismi, solo fatti.
E lui aveva scaricato le
sue colpe su Harry, le sue frustrazioni e le sue paure su Hermione.
Cosa gli rimaneva, ora?
Quando Harry vide Arthur
Weasley corrergli incontro nel corridoio dell’ala
d’ospedale che Luna chiamava ‘l’ala del principe’, a cui in pratica avevano
accesso solo lei, i medimaghi e i Weasley,
pensò davvero che non poteva sopportare brutte notizie.
Non poteva sopportare
un’altra morte, un’altra vita che avrebbe potuto salvare invece di cadere nella
trappola di una stupida illusione.
Non poteva sopportarlo.
Luna, che nonostante
fosse più bianca e debole del solito stava sempre nell’’ala del principe’ a
sommergerlo di chiacchiere, tutt’altro che profonde, stava leggendo il
‘Cavillo’ quando l’uomo arrivò.
“Harry, Luna, Ron si è
svegliato”, la voce gli si incrinò un po’, come se lasciasse andare l’emozione
che prima aveva trattenuto, “si è svegliato”, disse a voce più bassa,
sorridendo un po’.
Harry non era stato
capace di prevedere come avrebbe reagito alla notizia che Ron fosse morto. Ma
non era stato nemmeno capace di prevedere come avrebbe reagito in caso
contrario.
L’ultima volta che aveva
visto Ron era stato quando avevano litigato.
Inutile dire che, se uno
dei due se ne fosse andato lasciando le cose come stavano, l’altro sarebbe
stato incazzato per la vita.
Ora che sapeva che stava
bene, però, gli mancavano le parole.
Harry non diceva nulla,
seduto con le mani che stringevano le stampelle di legno con cui doveva momentaneamente
aiutarsi a camminare.
Luna si alzò in piedi,
battendo le mani.
“Harry, hai sentito? Ma
è fantastico! Hai visto, te lo dicevo io che Ronald stava bene, no, voglio
dire, dopo che uno ha passato un giorno a vomitare lumache mica può farsi
scalfire così facilmente! Harry, alzati, no? Non è il momento di fare il pigro.
Andiamo tutti a trovare Ronald.”
La cosa che era
vagamente irritante di Luna era che non si preoccupava minimamente delle condizioni di salute di Harry, al contrario di
tutti gli altri, che lo ricoprivano di attenzioni.
Lo tirò per la camicia
con uno strattone poco femminile, e lui si alzò incerto cominciando ad
arrancare dietro a Arthur Weasley.
Harry guardò cupo Luna e
lei lo guardò di rimando sbattendo le ciglia.
“Santo cielo, Harry, un
po’ di brio. Sono sicura che vorresti saltare di gioia.”
La cosa buona di avere
Luna accanto era che gli tirava fuori quel poco di positivo che c’era in lui, e
che era geneticamente programmato a nascondere.
Certo che avrebbe voluto
saltare di gioia.
Avrebbe voluto saltare
di gioia anche quando si era svegliato e Luna era lì accanto e gli aveva fatto
un sorrisone nonostante le fasciature e le bruciature e gli aveva detto
‘bentornato’ come se fosse rientrato in casa, in una casa bella però, non come
quella in cui era abituato a rientrare dai Dursley.
Avrebbe voluto saltare di gioia rendendosi conto che Luna che moriva era stato
solo uno scherzo del suo cervello, e in effetti tutto tornava, perché in quel
momento gli era proprio difficile immaginare Luna che moriva.
Avrebbe voluto saltare
di gioia e stringerle le mani e sorriderle.
E raccontarle quello che aveva visto, e dirle quanto questo significava
dei sentimenti per lei; e confessarle quanto aveva pensato e ripensato a Ron, Hermione e Ginny in quelle notti
insonni che avevano seguito il suo risveglio; avrebbe voluto dirle quanto si
sentiva felice e al tempo stesso terrorizzato all’idea di vedere Ron, ora, ed
era per questo che non diceva niente e che era cupo.
Avrebbe voluto, ma non
ce la fece.
A Luna non parve
importare. Non le importava se non le prendeva la mano o non le diceva quanto
era felice che fosse viva e quanto era orgoglioso di lei e anche un po’
imbarazzato per non essere stato lui a proteggere lei; non le importava di
passare quelle notti insonni a leggergli le leggende divulgate dal ‘Cavillo’, a
raccontargli di quando da bambina era entrata in un armadio dentro al quale
aveva trovato un bosco innevato; non le importava, come se già sapesse tutto
quello che doveva sapere.
Harry a volte sospettava
che gli leggesse dentro. Del resto, di poteri nascosti ne aveva.
Davanti alla porta della
stanza di Ron, Harry fu preso dal panico.
Il signor Weasley si voltò a guardarlo.
“Harry”, gli disse, “so
che hai già fatto tanto e anche di più per la mia famiglia. E non sarò mai in
grado di ringraziarti abbastanza”, fece una pausa, “ma devo chiederti…
devo chiederti anche il favore di stare vicino a Ron, ora. Ci sono cose che un
genitore non può sapere del figlio e che solo un amico può capire. Tu sai tutto
di lui e per questo puoi farlo stare meglio.”
Le sue parole erano
chiare e Harry si sentì improvvisamente investito di una grande responsabilità.
Sapeva delle condizioni
di Hermione. Una delle ragioni che lo avrebbero
tenuto sveglio per molte notti ancora.
Luna, inaspettatamente,
si avvicinò al suo orecchio e bisbigliò.
“Penso si riferisca a Hermione. Quindi togliti dalla faccia quell’espressione
triste, okay? Le persone tristi non si sentono tanto meglio vedendo altre
persone tristi.”
Lo strattonò nuovamente
per la camicia – come se fosse quasi scocciata dalla sua lentezza nel
deambulare - aprendo la porta della stanza.
Harry prese il respiro
ed entrò.
Ron era steso sul letto,
con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. Quanto la signora Weasley vide Harry e Luna entrare, gli sorrise tristemente
e uscì dalla stanza.
Poi, per qualche
ragione, Luna diede un pizzicotto a Harry e uscì anche lei.
Il silenzio della stanza
era innaturale.
Harry zoppicò con le
stampelle fino ad una sedia, dove si lasciò cadere distrutto.
Guardò Ron che teneva
imperterrito gli occhi chiusi; non poté fare a meno di notare quanto bene
riconoscesse quando fingeva di dormire.
“Allora?”, disse Harry,
riuscendo in qualche modo a tirare fuori la voce, “hai deciso di tornare ad
onorarci della tua presenza?”
Non voleva essere così
duro. Eppure.
Ron non disse nulla,
anche se la mossa rapida delle palpebre lo tradì.
“Immagino che tu sia
ancora incazzato con me”, fece Harry, senza uno scopo particolare. Voleva solo
riempire quel terribile silenzio. “Ci sarai rimasto male quando hai scoperto
che Voldemort non era riuscito a farmi fuori!”, rise
nervosamente.
“Oh, Harry, ma vaffanculo”.
Ron aprì gli occhi e
finalmente si voltò a guardarlo negli occhi.
Per quanto bene lo
conoscesse, Harry non gli aveva mai visto quell’espressione.
“Ovviamente sai che non è così.”
Harry tossì, ancora più
nervoso e abbassò lo sguardo per fissare le stampelle.
“Beh, non è che ti sei
comportato come se…”
“Ma insomma, adesso ti
devo pure spiegare che stupidamente ho creduto di avere tutto il tempo per fare
pace con te? O con chiunque altro? Okay, sono uno stupido. Tanto me lo
ricordano tutti.”
Silenzio.
Harry tornò a guardarlo,
facendo una smorfia.
“Oh, ti prego. In questo
momento sembri me.”
“Beh, in qualche modo
devi avermi pure influenzato in tutto questo tempo.”
Ancora silenzio.
Harry capì che tutto il
panico e l’orgoglio all’idea di fare pace erano stati inutili.
Avevano già fatto pace,
da molto tempo.
Ron gli sembrò così
stanco.
“Ron… non ti preoccupare… ecco…”, farfugliò,
sentendosi un idiota, “andrà… tutto bene. Si
aggiusterà tutto.”
“Pensavo che fossimo a
tanto così dal fare pace, ma in realtà credo che non mi perdonerà mai
veramente.”
Harry aprì e chiuse la
bocca, senza sapere cosa dire. Ron guardava dalla parte opposta, verso la
parete. Chissà se i suoi genitori gli avevano detto che era la parete che lo
separava da Hermione.
“Gliene hai fatte
talmente tante che ormai credo sia geneticamente programmata per perdonarti.”
Ron rise, ma
tristemente.
“Sì, ma ora come ora non
me ne frega un cazzo che mi perdoni, se poi muore. Preferirei che vivesse
odiandomi, allora. Questo preferirei.”
Harry non lo aveva mai
sentito parlare di Hermione in questi termini, e in
qualche modo la cosa gli strinse il cuore tanto che avrebbe volentieri
barattato la sua capacità di camminare per far sentire a Hermione
queste parole.
Avrebbe voluto dirgli, ‘Hermione non morirà’, e tanti altri bei cliché da
utilizzare in questi momenti. Ma sapeva che sarebbe stata una mancanza di
rispetto nei suoi confronti e nei confronti dei suoi sentimenti per Hermione che, a quanto pare, andavano oltre a quelli che
aveva immaginato.
Poi, a Harry venne in
mente una storiella che Luna gli aveva raccontato la notte precedente. Gli
venne un’idea.
“Diamine, ma perché le
dici a me queste cose? Che c’entro io?”, fece all’improvviso, alzandosi, “dille
a lei.”
“Genio, ma non lo vedi
come piange mia madre ogni volta che mi muovo? Per colpa di questa lesione al
cervello o quel che è non mi posso muovere. E in fondo…
non so. Credo di non sentirmela.”
Ron si vergognò
tantissimo a dirlo. Non lo avrebbe ammesso con nessun’altro, nemmeno con se
stesso.
Harry si appoggiò alle
stampelle, inarcando le sopracciglia.
“Ovvio, non vogliamo
certo che il tuo cervellino subisca ulteriori lesioni”, replicò, “dicevo che
potresti che ne so, scriverle.”
“Come se potesse leggere
quello che scrivo.”
“Beh, anche se andassi
lì da lei non potrebbe né vederti né sentirti.”
“E poi si arrabbia
sempre quando faccio degli errori di ortografia. Una volta le ho lasciato un
post-it sulla finestra della sua camera e lei me l’ha rispedito con gli errori
corretti con la penna rossa.”
“Penso che per stavolta
non ti darà il voto.”
Ron aggrottò le
sopracciglia, facendo un gran respiro, come se stesse considerando la cosa.
“Sì, ma lo sai che… non sono mica uno che scrive. Alle donne, poi. Non penserai mica che possa mettermi lì a…”
“Mica le devi scrivere
una lettera d’amore – santo cielo, non riesco a immaginare quanti strafalcioni
faresti. Piuttosto, scrivile qualcosa di breve, che ne so, qualsiasi cosa, due
righe. Tò”, prese un blocchetto di fogli 5x5cm dal
comodino ed una penna bic e glieli mise accanto alla
mano destra immobile.
“Sì, ma come faccio a
scrivere, che non mi funziona la mano destra?!”
“Ron, piantala. E scrivi
con la sinistra, no? Tanto la tua grafia non è un granché in ogni caso.”
“Vaffanculo.”
“Non c’è di che. Ci
penso io a recapitarglieli, tanto con le mie agili gambe arrivo ovunque.”
Ron sospirò. Guardò il
blocchetto di fogli. Prese la penna con la mano sinistra, un po’ incerto.
Harry lo guardò.
Sapeva che quella non
era la soluzione.
Che da un momento
all’altro scrivere bigliettini poteva non avere più alcun senso.
Che forse avrebbe visto
sul viso di Ron altre espressioni ben più tristi di ora.
Ma ora, come suo
migliore amico, l’unica soluzione che aveva trovato era stata distrarlo nel
momento in cui più ne aveva bisogno.
Per la prima volta era
lui ad aiutare Ron e non viceversa.
E per la prima volta si
sentì un po’ meglio e gli venne voglia di sorridere.
Draco Malfoy
venne dimesso dall’ospedale due giorni dopo il suo risveglio. Le ferite si
erano praticamente rimarginate e le ossa erano tornate al loro posto. Rimaneva
un indolenzimento alla schiena e un po’ di nausea di cui i medici non riuscivano
a capire la ragione.
Beh, non ci voleva un
medico per capirlo. Era nauseato da qualsiasi cosa, dalla luce dell’ospedale,
l’odore delle stanze, il rumore dei passi nei corridoi, il fruscio delle
lenzuola che sembravano di cartapesta; il pasto immangiabile, la voce di sua
madre che gli parlava, il suo profumo, gli oleandri che gli metteva accanto al
letto anche se lui li detestava, i fiori.
Quando gli dissero che
poteva tornare ‘a casa’, non sapeva esattamente quale sarebbe stata questa
casa, che per gli ultimi anni era stato il castello di Voldemort.
Sua madre lasciò intendere che sarebbero tornati a Malfoy
Manor per un po’.
Uno di quei giorni
vennero anche due autorità del Ministero della Magia per fargli delle domande.
A quanto pareva, sulla sua testa pendeva un’accusa dello Stato per aver
partecipato alle attività dei Mangiamorte. Era
inoltre sospettato di una certa quantità di omicidi a sangue freddo.
Nel giro di una
settimana sarebbero cominciati i processi contro i Mangiamorte;
il suo cadeva di venerdì, un giorno orribile per essere processati.
Probabilmente sarebbe finito ad Azkaban, dove erano
stati introdotti nuovi organi di controllo vista la pericolosità dei Dissennatori.
Narcissa Malfoy
si era già attivata per trovare un avvocato in grado di difendere al meglio il
figlio. Finora, non appena avevano sentito il suo nome, tutti i migliori
avvocati di Diagon Alley si
erano rifiutati di collaborare, anche per cifre davvero esorbitanti.
Tutto sommato, andare in
prigione poteva essere una soluzione all’aridità della sua vita per come
sarebbe stata dal momento in cui avrebbe messo il piede fuori dal San Mungo.
Seppure non fosse da
lui, aveva riflettuto molto e dormito poco in quelle notti di ospedale.
Aveva riflettuto su come
era stato sempre schiavo di suo padre; su come, al tempo stesso, lo idolatrasse
anche ora che era morto. Aveva riflettuto su come non avesse mai ottenuto
niente che gli avesse fatto sentire che la sua vita era importante e degna di
essere vissuta. Lo studio non gli era mai interessato, la strada era sempre
stata spianata; l’idea di avere degli amici lo infastidiva. Era troppo abituato
a non fare nulla per lavorare. Non aveva mai fatto fatica a stare con le donne
e il sesso era stata praticamente l’unica attività tipicamente adolescenziale
che avesse compiuto.
E ora, avrebbe dovuto,
come dire, ‘reinserirsi nella società’?
Sì, la prigione forse
era la soluzione migliore. Non sperava in niente, del resto.
“Draco,
andiamo? Senti ancora male alla schiena? Allo stomaco?”
Draco ignorò sua madre,
mentre lasciavano finalmente quella stanza d’ospedale e le sue rose bianche.
Non poteva negare di
aver riflettuto molto anche su Ginny Weasley.
Molto.
Il che era stupido,
perché non è che lui pensasse molto alle persone, più che altro a se stesso. In
altre condizioni non avrebbe fatto altro che pensare a se stesso.
Per la prima volta, però,
non gliene importava nulla di se stesso.
Non si può dire che
pensasse a lei nel modo in cui una persona innamorata pensa ad un’altra, e
nemmeno con la tristezza di una persona che vuole almeno un po’ di bene ad
un’altra.
In lui, specie di notte,
affioravano più che altro ricordi. Scatti della sua mente, i capelli rossi e il
sorriso, la risata un po’ sguaiata e quell’aria sempre così inspiegabilmente
protettiva nei suoi confronti. Affioravano un sacco di frasi, un sacco di
momenti, anche lontanissimi, come quando l’aveva quasi lasciata cadere dalla
Torre di Astronomia anni prima, o anche recenti, come quando lottavano e lei
faceva così palesemente finta di essere una Mangiamorte.
Ecco, se c’era una cosa
che lo faceva veramente irritare del fatto che quella stupida fosse morta, era
che non avrebbe mai saputo veramente perché si era presa la briga di passare
tutti quei mesi a giocare alla Mangiamorte. Per poi
morire uccisa, per di più.
Uccisa da lui.
“Draco,
se hai la nausea possiamo fermarci”, gli disse la signora Malfoy,
fermandosi nel bel mezzo dell’ala delle accettazioni, “sei pallido”.
Detto da lei era quasi
comico, sembrava che non sapesse che lui era bianco di natura. Del resto,
avevano passato più tempo insieme in quei giorni che durante tutta la loro
vita.
Al San Mungo le acque si
erano un po’ calmate; non c’era più la folla in preda al panico del giorno
successivo alla battaglia. Certo tante stanze erano piene e c’era molta gente
in giro ma Draco non ci fece caso.
Non ci fece caso fino a
che, voltando l’angolo verso l’uscita, lui e sua madre non si trovarono faccia
a faccia con Harry Potter.
Fu un momento orribile.
Per una manciata di secondi nessuno parlò, ma Draco
pensò per un momento che sua madre gli si sarebbe buttata addosso per
strangolarlo. In fondo, quel ragazzo aveva ucciso suo marito.
Per qualche motivo, Narcissa Malfoy si controllò.
Strinse le dita sottili contro il palmo della mano, Draco
lo vide chiaramente; ma in qualche modo riuscì a superarlo senza dire niente.
Quanto a Draco, ora che tutto era finito e che sarebbe comunque andato
in prigione, non aveva certo intenzione di abbassarsi a mostrare a San Potter Sulle
Stampelle quanto lo detestasse. A dire il vero, ora come ora gli era del tutto
indifferente.
Draco seguì la madre in
silenzio, andando oltre Harry, che non faceva che fissarlo con fastidiosa
insistenza.
Proprio dopo pochi
passi, quando Draco stava per uscire dall’ospedale
dalla porta a vetri, sentì Harry dire qualcosa.
“Ma guardati, come ti
sei rimesso in fretta. Sei proprio uno stronzo fino in fondo. Almeno potresti
fingere che ti dispiaccia.”
Draco circondò la maniglia
con la mano. Non gli interessava affatto fare uno scambio di battutine con
Harry Potter. Aveva un fortissimo senso di nausea.
“Non so proprio quale
sia il motivo per cui sei nato.”
E va bene, non poteva
sopportare che Harry Potter si sentisse libero di dire quello che gli pareva.
Si voltò, cercando di
trattenere il voltastomaco.
“Hai finito di
rivolgermi la parola, Potter?”
Harry lo guardò. In
realtà, al contrario di quanto mostrava il suo tono tagliente, non sembrava
voler attaccare briga.
Sembrava solo stanco,
come se non avesse dormito.
“Non m’interessa
rivolgerti la parola, Malfoy”, gli disse, “trovo solo
deprimente come possano esistere persone come te.”
“Persone come me”,
ripeté Draco, sprezzante.
“Persone come te che,
anche quando sono state sconfitte, non lo ammettono”, Harry tacque per un
attimo. Poi gli si avvicinò in modo che solo lui lo sentisse, “non so cosa Ginny vedesse in te, ma lei è una intelligente e ti ha dato
fiducia. Non capirò mai perché. Pensavo che perfino una persona come te, dopo
tutto questo, fosse in grado almeno di andare a vedere come stava. Ma immagino
che sarebbe come chiederti di toglierti quell’espressione gelida perennemente
stampata sulla tua faccia.”
Draco aveva sentito
abbastanza.
Nonostante non avesse
minimamente intenzione di dirlo ad alta voce, si lasciò sfuggire le parole.
“Beh, parlare con i
morti non salverà la mia anima.”
Harry lo fissò e Draco pensò che ora, almeno, sarebbe stato zitto.
Harry continuò a
fissarlo sbattendo le palpebre, fece per parlare e poi tacque ancora.
“Probabilmente no”,
disse infine.
Malfoy annuì in silenzio. Si
voltò verso l’uscita. Aprì la porta. Mise un piede fuori.
“Oh, al diavolo”, Harry
Potter, inaspettatamente, gli bloccò la porta con una stampella. Draco era pronto, a questo punto, a passare alle mani.
Tanto ormai in prigione ci doveva andare.
“Malfoy,
per un attimo ho pensato che sarebbe stata una vendetta perfetta ma, cazzo, io
non sono come te. Chi diamine ti ha detto che Ginny è
morta? Non è morta. E prega che non lo sia mai o ti uccido con le mie stesse
mani.”
In un primo momento, Draco Malfoy fu seriamente
convinto che Harry lo prendesse per il culo, una specie di sadico addio, giusto
per ricordargli che lui era stato altrettanto stronzo con lui.
Poi, però, si rese conto
che San Potter non faceva questo genere di scherzi.
Davanti al silenzio di Malfoy, Harry inarcò le sopracciglia.
“Allora non lo sapevi veramente…”, fece, “…beh, ora hai
due possibilità. Puoi uscire da questa porta e non avere più a che fare con
nessuno di noi, mai più. Il che mi farebbe più che felice, davvero. Oppure puoi
vederla, dato che credo che lei avrebbe passato le notti al tuo capezzale e
glielo dovresti. Ma sappi che i Weasley in questo
momento non sono molto ben disposti verso di te. Però so quanto ci terrebbe Ginny a vedere che le mostri un po’ di considerazione…
quando si sveglia… sperando che si svegli.”
Draco Malfoy
rimase sulla porta per qualche secondo.
Ora che non era più un Mangiamorte non sapeva quale ruolo avrebbe dovuto
interpretare nella sua vita.
Ma la nausea gli era
passata.
Nonostante sua madre lo
chiamasse da fuori, lui lasciò la porta e, per la prima volta in vita sua, Draco Malfoy seguì Harry Potter.
Lo sguardo di Draco Malfoy incrociò quello dei
signori Weasley e non ci volle più di una frazione di
secondo prima che Arthur si alzasse dalle sedie della sala d’attesa, urlò cose
che Draco non riusciva a sentire – perché il suono
era così attutito, le immagini così lente e quasi da incubo? – e gli si
avvicinava con il pugno alzato e gli occhi rossi di vecchie lacrime.
Harry urlava sulla voce
di Arthur, diceva qualcosa tipo “per favore, lasciate che entri”, ma Draco non li ascoltava, era come se a cosa non lo
riguardasse, come se gli insulti e gli sguardi non fossero completamente
rivolti a lui. Mentre Potter cercava di
calmare i Weasley, Draco
guardò verso la vetrata che dava sulla stanza di Ginny
Weasley.
La ragazza magra e
pallida stesa su quel lettino fatto di coperte ruvide non sembrava Ginny Weasley. Aveva le guance
troppo scavate, e dov’erano le lentiggini?
E dov’erano i
lunghissimi e folti capelli rossi? E le palpebre chiuse nascondevano il colore
degli occhi – dovevano essere verdi, giusto?
Draco sentiva ancora meno le
voci degli altri, ora. Si avvicinò a pochi centimetri dal vetro freddo.
Quei capelli rossi così
corti, da ragazzino, ricordavano una versione molto più giovane di Ginny. Ora che la vedeva più da vicino, riusciva a
riconoscere qualche lentiggine bianca sulla pelle ancora più bianca. Le mani
erano stese lungo i fianchi. Draco ebbe la certezza
che era lei vedendo la forma dell’osso dei suoi polsi. Il palmo della sua mano
li aveva toccati tante volte ormai.
Si sentiva sollevato?
No. Speranzoso? Figuriamoci.
Come al solito, non si sentiva nulla.
L’unica cosa di diversa
dal solito, era che aveva voglia di stare lì più che in ogni altro posto.
“Lui non deve permettersi di stare qui”, stava dicendo Arthur Weasley a Harry, quasi singhiozzando, “non deve
permettersi”.
Draco si voltò verso di loro,
guardò la sala d’attesa. Individuò la sedia nel punto opposto della stanza
rispetto ai Weasley, vi si sedette. Li accanto c’era
una vecchia copia della Gazzetta del Profeta; la prese e cominciò a leggere.
Il silenzio era calato
nella stanza. Tutti lo fissavano.
“Non…
non puoi stare qui”, disse il signor Weasley, la voce un po’ più bassa, “ehi. Dico a te”.
Malfoy alzò lo sguardo grigio
dal giornale.
“Quando mi stancherò”,
disse, gelido, “me ne andrò.”
Il signor Weasley fece per dire qualcosa, ma chissà per quale motivo
non ci riuscì e tacque.
Harry non sapeva se
aveva fatto bene a portarlo lì. Non sapeva neanche perché l’aveva fatto.
Forse perché aveva
ricordato lo sguardo di Ginny quando parlava di Malfoy. Ci doveva essere qualcosa di lui di buono, qualcosa
che nessuno riusciva a vedere. Qualcosa che solo lei vedeva. Doveva esserci.
E se c’era, doveva
essere Ginny a vederlo, quando si fosse svegliata.
Ovunque lei fosse in
quel momento, Harry sperava che la presenza di tutti loro, lì, davanti a lei,
la riportasse indietro.
Non hai idea di quanto fosse CATTIVA la torta che mi hanno dato
oggi per dessert! Ma chi cucina al San Mungo, tua madre???!!!
A proposito di Tua Madre, ci crederesti che mi ha portato dei
biscotti e mi ha perfino augurato di tornare a muovermi presto? Ma ci credi?
Secondo me ci gode a vedermi costretto a letto. Tipo, che per lei è il KARMA.
Glielo leggo negli occhi: hai dormito tutta la tua vita fino a mezzogiorno?
Adesso stai a letto anche se non vuoi, MUAHAHAH.
Ah, stanotte non riuscivo a dormire e mi sono ricordato che
dovevamo andare ai fuochi d’artificio a Londra! Ci siamo dimenticati totalmente!
P.S. Hai notato come ho fatto bene lo spelling di ‘fuochi d’artificio’? P.P.S. Ho controllato sull’Oxford Dictionary
of English.
Non riesco a dormireeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee.
Mi hai dato buca per il caffè…
E’ ora di svegliarti! Credo che tu non abbia mai dormito tanto in
tutta la tua vita. Dico, proprio sommando le notti in cui hai dormito. Eddai!
Oh, diamine.
Dopo una settimana, le
infermiere del San Mungo cominciarono a trovare divertentissimo il fatto che
ogni giorno il comodino di Hermione Granger fosse sommerso di post-it. Arrivarono addirittura
ad occuparsi di riordinarli loro stesse, quando dovevano spostarli per
somministrarle le medicine.
Ormai i foglietti
riempivano un cassetto intero.
Ogni giorno, più volte
al giorno, Harry li portava e li metteva accanto al letto di Hermione.
Lei non si mosse mai,
neanche per un attimo. Neanche le palpebre.
I signori Granger erano ospiti in un albergo vicino all’ospedale, ma
di fatto vivevano nella sala d’attesa davanti alla stanza di Hermione. Spesso si facevano compagnia con i Weasley, anch’essi ormai in pianta stabile in ospedale; ma
più che altro stavano tutti in silenzio.
Luna portava degli
oleandri bianchi in camera di Ginny, dei girasoli in
camera di Hermione.
Anche se non era compito
suo, con la bacchetta le sistemava i capelli e faceva un sacco di chiacchiere.
Harry stava perlopiù in silenzio a guardarle.
Ron non poteva ancora
alzarsi, anche se, avevano detto i medici, presto sarebbe stato in grado di
muoversi e forse lo avrebbero addirittura dimesso dal ricovero, con la promessa
di tornare per la fisioterapia al braccio che ancora faticava a muoversi e con
cui non poteva scrivere. Ormai la sua calligrafia con la sinistra era quasi
comprensibile, però.
La signora Granger faceva spesso visita a Ron, cosa che lo imbarazzava
tantissimo. Quella donna manteneva sempre quel cipiglio freddo e un po’
sprezzante, ma invece di stargli lontano spesso se ne stava lì nella sua
stanza, anche in silenzio. Non chiacchieravano molto. Lei cuciva con
l’uncinetto, lui scriveva.
Fortunatamente Ron non
vedeva Draco Malfoy, o
l’agitazione gli avrebbe impedito di concentrarsi. D’altra parte, però, non si
sentiva così arrabbiato con lui come avrebbe voluto. E in fondo sapeva anche
perché.
Lui sapeva che non
sarebbe potuta andare avanti così per sempre, in uno stato di tale speranza e
relativa tranquillità.
Lo capì il giorno in cui
finì il quarto blocco di post-it e sentì una sirena suonare fuori dalla sua
stanza e qualcuno che correva.
Si alzò sulla schiena e
rimase immobile, gli occhi fissi davanti a lui ad ascoltare le voci attutite
dai muri.
“Presto!”
“Chiamate il medico…”
“Tenete la porta
chiusa.”
“Hermione!”
“Signori, non potete
entrare!”
La penna gli cadde dalla
mano, scivolò sulle lenzuola e finì per terra con uno schiocco.
Ron Weasley
non si sentì mai mancare il respiro come in quel momento. Era come se
improvvisamente non ricordasse più come mandare fuori l’aria.
Si scostò le coperte con
il braccio rotto; gli fece così male che una fitta lo fece sudare
istantaneamente.
Scese a piedi nudi sul
pavimento freddo; aveva già il fiatone e la vista gli si annebbiò un po’ mentre
fissava il muro accanto al suo letto.
Deglutì mandando
indietro una fitta di dolore – tutte le ossa, sentiva tutte le ossa scricchiolare
- appoggiò i palmi delle mani contro il
muro ruvido. Oltre quel muro c’era Hermione, c’erano
le voci e i passi e c’era il destino e c’era o la vita o la morte.
Appoggiò l’orecchio
contro il muro e chiuse gli occhi, che gli bruciavano un po’. Ma non pianse;
non era più un bambino.
Le gambe non gli
reggevano più e si sedette a terra, la schiena e la nuca appoggiate al muro.
Ad ascoltare.
Con gli occhi chiusi.
Non aveva mai pensato a
quanto fosse delicata la vita. Mai come in quel momento, nemmeno durante il
combattimento, nemmeno quando aveva rischiato lui stesso di morire.
Non aveva mai pensato a
quel momento, a quel momento che separava l’esserci dal non esserci più.
Si era così abituati a
dare per scontato la presenza, l’anima, il corpo, che la morte era qualcosa di
impensabile.
Si rese conto che la
morte di se stessi non esisteva. Esisteva la morte degli altri: quella era la
vera morte.
Quel momento che
separava l’esserci dal non esserci più…
Sentì che se nel mondo
terreno avesse potuto scambiare la propria vita con quella di Hermione l’avrebbe fatto; perché l’importante non era che
si vedessero ancora, che lui lo perdonasse, che gli stringesse ancora la mano,
che lui potesse baciarla di nuovo. L’importante era lei, era lei che esisteva e
basta.
Probabilmente era questo
che la gente stupidamente chiamava ‘amore’. Solo ora, appoggiato al muro a
pregare chiunque, a pregare e basta, poteva dire che esisteva, anche se non era
una parola, anche se era troppo un cliché.
E che non era bello come
tutti dicevano, ora. Non era bello, ora, che non poteva fare niente, che poteva
solo stare seduto oltre un muro con ancora mille cose da dire, mille cose da
scrivere.
Chiuse gli occhi e
respirò.
Luna gli strinse la
mano. Forte forte, come se pensasse che sarebbe scappato.
I medici abbassarono la
tenda sulla vetrata della stanza di Hermione così che
nessuno vedesse quello che stavano facendo.
Avevano parlato di
‘arresto cardiaco’. Hermione era così debole che il
cuore riusciva più a pompare il sangue per tutto il corpo. Il che era assurdo,
perché il cuore era il suo muscolo più forte.
I signori Granger erano più pallidi che mai. Per terra c’era ancora
il lavoro all’uncinetto di Elizabeth, incompleto.
Harry non aveva mai sentito il tempo passare lento come in
quel momento. Era come se tutto si fosse fermato, come se tutto andasse
indietro invece che avanti, era peggio di un incantesimo.
Guardò Luna, che fissava
la tenda chiusa con le sopracciglia aggrottate e la determinazione negli occhi.
“Harry, parla con lei”,
gli disse, senza voltarsi a guardarlo, “nella tua testa, parla con lei.”
Harry deglutì.
“Non penso possa
sentirmi. Non ora.”
Luna strinse ancora più
forte la sua mano.
“Tutti possono
sentirci.”
Harry la guardò.
“Luna…”
“Credici per un momento.
Anche se non è vero… credici.”
Harry la fissò ancora
per un momento.
Insieme guardarono verso
la tenda chiusa e le parlarono.
Che lei potesse sentirli
o no.
Un vento né freddo né
caldo le arruffava i capelli.
Hermione aveva i piedi immersi
nell’acqua della riva.
Si sentiva così tranquilla… eppure ricordava che un tempo aveva avuto
paura. Ora non ne aveva.
L’acqua era così calma,
così tiepida; non come quella del mare vero, troppo fredda, che ti fa venire la
pelle d’oca; e la sabbia non nascondeva conchiglie che facevano male alla
pianta del piede, era sottile e morbida come seta.
Guardò davanti a sé, il
mare piatto, splendido, che si fondeva con il cielo.
Camminò ancora per
qualche passo, finché l’acqua le raggiungeva le ginocchia. Aveva quasi sonno.
Poi, però, ebbe la
sensazione di essere chiamata. Sentì quasi il suo nome, il suo nome che aveva
quasi dimenticato per un momento.
Il vento si fece ancora
più forte mentre si voltava indietro.
Ron, seduto per terra,
teneva la testa tra le mani.
*
Ed eccomi di nuovo qui… in maniera molto politica ho fatto tante promesse e
alla fine… ho pubblicato con un tale ritardo. Abbiate
pazienza, se ci siete ancora a leggere, ormai lo sapete come sono…
Comunque, la cosa
positiva è che sentivo che questa fan fiction andava finita, anche se questo
significava che dovevo separarmene, e la cosa mi faceva un po’ paura. E’ stato
molto complesso; alla fine, poco a poco, ho scritto un capitolo finale di
cinquanta pagine.
Ho preferito non
sciropparvele tutte in una volta (ripeto, se ci siete ancora per leggerle e non
vi siete dimenticati – anche giustamente! – di questa fic).
Posto oggi questa parte, già di per sé abbastanza densa (sorry)
e posterò l’ultima parte (ci tengo a sottolineare, già scritta, finita,
completata, nel caso vi passasse per la testa che è tutta una scusa per
rimandare il finale finale all’anno prossimo xD) fra
una settimana, cioè la vigilia di Natale, come ‘regalo’, apprezzabile o no (che
ansia!).
Un grazie e uno scusa a
tutti (tanti) quelli cui avevo detto ‘questo mese lo finisco, promesso’ – in buonissima
fede tra l’altro – senza mai farlo davvero.
Beh, ecco qui. Ho fatto
ciò che potevo con ciò che avevo dentro in questo periodo.
Come sempre, la mia
speranza maggiore è che vi possa piacere e vi faccia provare quello che ho
provato nel scriverlo.
A prestissimo (per
davvero, questa volta)!
Miwako