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Autore: francy91    18/12/2009    4 recensioni
Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precaria-mente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.
Genere: Generale, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri personaggi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Salve. Come sempre, ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono felice che tu condivida con me queste impressioni, che, per me, risultano estremamente interessanti.

Un avviso per questo capitolo: i versi della canzone qui riportati provengono da Un chimico di Fabrizio De Andrè.

Buona lettura.

 

Brina fra i capelli, vento sotto i piedi

 

La guerra, i bombardamenti, le cortine di fumo, i funghi spappolati, gli aghi di pino nelle ferite.

Era una guerra, era iniziata.

Me ne accorsi solo quando cliccai su Invia.

Susanna avrebbe sicuramente aperto quell’e-mail contenente un allegato: Light.jpg. Ci avrebbe cliccato sopra e il batch – il virus da me creato, uno dei pochi su cui avevo gettato giorni estivi e notti d’autunno – si sarebbe infiltrato nel suo computer.

D’accordo, non era un piano così geniale, ma era tutto quello che sapevo fare. Anche Light lo fa, no? Anche lui sfrutta esattamente ciò che ha; niente di più, a parte qualche milione di neuroni rispetto al resto della razza umana.

La mia prole di virus era piuttosto magra, in realtà: avevo realizzato, grazie alle istruzioni raccolte su Internet per puro caso, due virus completi e cinque esperimenti falliti, ma, almeno, ero riuscito a immunizzare il mio sistema attraverso una rete condivisa di antivirus di cui avevo letto su un forum.

In fondo, anche quello era mettere alla prova le proprie capacità, proprio come Light. Ma perché faccio tutti questi paragoni oggi?!

La decisione di coinvolgere Susanna nel piano – avevo ormai abbandonato la dicitura macellazione: piuttosto terrificante o, almeno, più di quanto la vicenda fosse realmente – significava concretizzarlo obbligatoriamente. Senza via d’uscita: ero ormai costretto a metterlo in pratica.

Non che la cosa mi dispiacesse, tutt’altro.

Il resto, comunque, era ovvio.

 

***

“Potresti contattare Martino”, le consigliai.

Teodoro Manonera era il tecnico ufficioso – quello ufficiale era morto nel 1997 e non era ancora stato sostituito – delle apparecchiature scolastiche, dai computer della sala di informatica alle scrivanie marroncino dei segretari.

 

TEODORO MANONERA:

 RIPARAZIONE COMPUTER E MACCHINE PER UFFICIO VIA PLINIO, 43

ROTUNNO (BA)

TEL.: 3244483290 / FAX: 0808659750

 

Così recitava un foglio attaccato alla porta del laboratorio di informatica, a scuola, in un anonimo e trascurato carattere enorme. Spesso i miei compagni di classe avevano contattato il signor Manonera attraverso il figlio, solo per una riparazione o per acquistare computer, registratori di cassa e scrivanie piuttosto becere e pacchiane – anche più dei cuscini che vendeva mio padre nel nostro negozio di articoli per la casa.

“Manonera, dici? Mi dai il suo numero?”, esitò Susanna, ancora ansimante.

Mi stropicciai gli occhi ed estrassi l’elenco telefonico dal cassetto del tavolino. Non te lo sai trovare da sola?

“Sì, aspetta.”

Sfogliai con pigrizia il volume massiccio, tagliandomi ripetutamente la pelle alla base dell’unghia con la carta sottilissima.

Mentre cercavo la sezione dedicata ai residenti di Rotunno, Susanna cominciò a cantilenare la sua disperazione.

“E se non riesco a recuperare il file? Sarò costretta a riscrivere il capitolo daccapo! Il fatto è che dopo pranzo l’ho riscritto e mi sembrava anche accettabile, che cazzo! Margie, aiutami, come faccio? Oddio, oddio, com’è possibile che capiti tutto a me? Margieee!”

Ti vuoi calmare? È solo una storia, Dio santo.

Tacqui e, finalmente, trovai la scritta Rotunno sull’angolo destro della pagina che stavo consultando.

Allora, Manonera…

“Ce l’hai il numero o no?”, mi chiese impaziente.

La cornetta quasi mi scivolò dalla mano mentre consultavo l’elenco telefonico. Accennai un verso d’assenso in risposta alla sua domanda. No, guarda, ti ho detto che ce l’ho solo per perversione!

“Lo sto cercando, un attimo.”

Gli occhi mi bruciavano e uno sbadiglio incontrollabile mi fece rabbrividire; lessi i cognomi in cima alla pagina, cercando la lettera m.

Benicotto… De Benedittis… Fiore… Hoga… Macillo… Madonnella…

“Be’?”, domandò irritata. Sbuffai.

“Se mi dai il tempo…”

Tacque, come interdetta.

Finalmente trovai, fra un Manonera Guglielmo e un Manonera Vito, Manonera Teodoro.

“Vuoi il numero del negozio o quello di casa?”, le domandai. Sbadigliai un’altra volta, puntando il dito sul nome trovato, per non perderlo d’occhio.

“La prossima volta magari lo cerco io…”, brontolò.

Attesi.

“Quello di casa, mi vergogno a parlare col padre”, confessò.

Risi sommessamente e, dettatole il numero di casa Manonera, infilai di nuovo il volume spiegazzato nel cassetto.

“Perché, a parlare con Martino non ti vergogni?”

Cercai di chiuderlo, ma si era incastrato un lembo di stoffa nella fessura fra il mobile e il cassetto; gettai dentro lo straccetto di feltro con cui pulivo gli occhiali e ritentai, battendo la nocca al legno ruvido.

Cazzo.

Mi leccai il dito, non accorgendomi che il calore della lingua non faceva che acuire il dolore.

“Ma Manonera è un coglione represso! A parte il fatto che parlare con lui significa fare un monologo, e sai quanto mi piacciono i monologhi!”

Risi. Piacerebbero anche me, se qualcuno li ascoltasse. Evitai di accendere discussioni – avrebbe sempre vinto lei.

“Ma hai provato a riavviarlo?”. Preferii concentrarmi sul suo computer piuttosto che su Susanna – almeno lui non mi subissava di parole.

Mi sedetti a terra, accanto al telefono, nonostante l’aria non fosse esattamente calda. Il cielo si era di nuovo annuvolato e, considerando che delle lenzuola sbatacchiavano come buffi pendoli, soffiava un vento giocoso.

“Sì, ma non si accende! Aiutamiii! Ora chiamo Manonera, ti faccio sapere, OK? Ciao, Margie, ciao…”

Riattaccò.

Ritornai a dormire nella mia tuta nera, concentrandomi sulle fasce celesti che si inerpicavano sui miei fianchi, fin quando non fui costretta a chiudere gli occhi.

I raggi del sole non entravano già più, filtrati dalle persiane: solo un candore senile, un opaco riflesso bianco panna.

Non mi resi conto del momento in cui mi addormentai, ma mi piacque credere che il mio ultimo pensiero fosse stato.

 

È strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di donna da dover ricordare.
Ma è forse diverso il vostro morire
voi che uscite all'amore, che cedete all'aprile.
Cosa c'è di diverso nel vostro morire?

 

***

“Martino, è per te!”, urlò mia madre. Mi chiama così solo quando c’è gente…

Fermai il gioco e raggiunsi il telefono, asciugandomi le mani gelide e  sudate sulla consunta maglietta dei Red Hot Chili Peppers che indossavo come pigiama. Erano trascorse quasi tre ore dall’invio del mio virus a Susanna. Possibile che mi abbia già chiamato?

Del resto, non erano affatto consuete le mie telefonate: a parte Aldo e qualche mio compagno di classe delle medie – che mi contattava per farsi masterizzare videogiochi o per riparazioni di piattaforme ludiche di vario genere – ricevevo rare telefonate.

Afferrai la cornetta dalle mani di mia madre e me la stavo per portare all’orecchio quando mi sussurrò:

“Ti sei lavato i denti?”

Sospirai alzando gli occhi al cielo. “Non rompere le palle, dài!”

Sbuffai.

“Pronto?”. La mia voce mi risultò cavernosa, forse per via dell’eco che spandevano le onde sonore; era un problema dei cordless, certamente.

“Ciao… ehm, Martino. Sono Susanna.”

Cazzo, sì!

Non potevo crederci, era straordinario! Non che le cose avessero potuto seguire un corso molto diverso, però… Ero riuscito a prevedere tutto e questo mi entusiasmò.

“Ehi”. Fu una specie di mugugno, un verso che ricordava vagamente Mikami. Sorrisi.

OK, devo controllarmi. Modulai meglio il tono di voce: più indifferente, ma normale. Almeno un po’.

È andato tutto come volevo! Non tutto, a dire il vero, o, almeno, non era ancora sicuro: magari Susanna era più moralista di quanto desse a vedere.

Mi calmai a fatica e attesi le frasi che già immaginavo.

“Senti, scusa se ti disturbo, ma è successo un disguido.”

Era divertente come la gente cambiasse a seconda dell’interlocutore, dell’imbarazzo di una parola sicura sussurrata con vergogna; a stento mi trattenni dal ridere. Disguido?! Ma se a scuola non fai altro che sparare parolacce e bestemmie come una posseduta! Il gusto di montarsi la testa era pietoso, ma davvero divertente.

Attesi che continuasse a recitare la sua parte.

“Ecco, dato che tuo padre ripara computer, no? Eh, il mio si è rotto improvvisamente, non so come… Insomma, visto che è così, potrei portartelo? Per ripararlo. Se vuoi ti pago, cioè, pago tuo padre.”

Ma no, guarda, mio padre mantiene una famiglia di quattro persone, se non lo paghi rischio di non mangiare per una settimana. Fai un po’ tu…

Finsi di esitare – o forse ero imbarazzato anch’io, ma non me ne curai affatto. “Sì, glielo dico subito. Per il prezzo ve la vedete voi”

Raccolsi il cellulare e iniziai a scrivere un messaggio a mio padre.

 

C’è un pc da aggiustare, te lo fac

Cambiai subito idea: avrei dovuto badarci prima io, viste le necessità. Sbattei il cellulare sul case del computer, producendo una vibrazione metallica che mi fece battere i denti.

“Comunque, avresti potuto telefonare al negozio: mio padre è sempre lì”. Mi maledissi non appena terminai la frase: Troppe parole che non c’entrano un cazzo, ma perché divento logorroico nei momenti meno adatti? Non mi ero mai dilungato in discussioni prolisse, soprattutto con potenziali estranei.

“Ah, davvero? Non sapevo che avessi il telefono anche in negozio… Cioè, in realtà ho trovato il tuo numero sulla rubrica del cellulare e ho chiamato quello, capito? Va be’, grazie.”

Non ricordavo di averle mai ceduto il mio numero di telefono fisso, né che Susanna mi avesse mai chiamato da quel poco che ci conoscevamo – né parlato così a lungo, per giunta.

Mi voltai: mia madre era ancora accanto a me. Mi spaventò. La guardai prima sorpreso, poi inferocito, cacciandola con un gesto della mano; probabilmente era incuriosita dal fatto che mi avesse telefonato una ragazza – circostanza unica, a parte qualche cugina di cui non ricordavo nemmeno il nome che mi chiamava per farmi gli auguri ogni ventotto dicembre.

Rimase lì, stringendo il grembiule con una mano e un canovaccio lacero nell’altra, il viso concentrato per ascoltare la conversazione e, forse, deluso dal suo contenuto. Sbuffai e la ignorai, girandomi verso lo schermo della televisione e la luce spia della PlayStation 3, flebile e sommessa. Discreta, almeno lei.

Interruppi il silenzio salutandola e consigliandole di passare da casa mia, perché mio padre era occupato con altri computer e, quella sera, avrebbe lavorato al suo a casa.

“Dove abiti?”, chiese. Sembrava più tesa e interdetta.

“Via Mazzini, 79. Alle spalle della chiesa Santa Maria Greca, hai presente?”

Tacque.

“La Dok sull’estramurale? Il bar Fiocco azzurro? Oppure…”. Cercai di individuare qualche punto di riferimento particolare; non vivevo in una zona isolata, ma era pur sempre fuori dal centro. Non mi venne nulla in mente, a parte una latteria, una biblioteca di nome Notting Hill, qualche fruttivendolo e un parrucchiere. Tentai l’alternativa che Susanna avrebbe conosciuto con più probabilità.

“Il parrucchiere Un Angelo per capello?”. Risultò alquanto imbarazzante pronunciare quel nome idiota, ma sembrare buffo, forse, l’avrebbe ben disposta nei miei confronti. Non devo per forza giustificare ogni mia azione; non lo faceva neanche Light, voglio dire… O, meglio, Light lo faceva, ma senza creare ulteriori paranoie. Sbuffai.

“Ah, ho capito! L’ha aperto mio padre, quel salone, sai? Prima ci lavorava solo come amministratore, ora, invece, fa proprio il parrucchiere… Non sapevo che abitassi lì vicino, a volte ci passo il pomeriggio, quando non ho un cazzo da fare. Dov’è casa tua di preciso?”

Ecco, appunto.

Forse avrei dovuto informarmi meglio prima di contattarla, solo per non assumere quell’aria spaesata, come quella di un pesciolino che cozza contro la parete dell’acquario.

Le spiegai che abitavo a pochi isolati dal salone del padre, in un condominio dalle pareti nere per l’umidità – a parte quest’ultimo particolare – al secondo piano e che l’ascensore era guasto da un paio d’anni, visto che le famiglia Cacicci non si decideva a pagare la sua quota per le riparazione – probabilmente tralasciai anche quel dettaglio.

“OK, vedrò di trovare casa tua. Posso venire adesso?”, chiese a voce più alta, acuta come il pigolio di un cane ferito.

“Sì, ci vediamo.”

Riattaccai prima che continuasse a innalzare il timbro di voce e, dimenticandomi di mia madre che mi fissava ancora, asciugando un tegamino, stavolta, ritornai a massacrare i miei nemici… nel videogame.

Cerchio L2+cerchio

Mi pentii, ancora una volta, di aver voluto risparmiare Susanna. Ho bisogno d’aiuto, da solo è praticamente impossibile uccidere venti persone. Me ne rendevo conto, ma era insopportabile – avere limiti, intendevo. Non che desiderassi diventare un dio in terra, onnipotente e invincibile: era chiaro che il piano avrebbe potuto fallire in qualsiasi momento, senza scampo, senza avvertimenti, senza tuoni in lontananza: solo un lampo, preciso, mirato – e tutto sarebbe volato via, come se non fosse mai esistito. Illusione, pura illusione e apparenza – trasparenza, forse.

R1 triangolo triangolo TRIANGOLO!

Era quell’unica possibilità – quella di riuscirci, di rimanere solo e felice – quella, l’unica per cui valesse la pena rischiare – no, non rischiare: compromettermi, innescare un processo cieco e distratto, con una fine incerta, una miccia che si sarebbe polverizzata chissà dove, forse fra le mie mani, e chissà quando, forse prima della loro morte.

R2+cerchio triangolo CERCHIO CERCHIO CERCHIO!

Non contava – almeno in quel momento –, era una fase idealizzata, probabilmente: me ne sarei reso conto, mi sarei difeso, magari in seguito, a piano ultimato.

Cerchio R3+triangolo TRIANGOLO CAZZO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO!

L’importante era ucciderli.

TRIANGOLO

Scaraventai il joystick sul pavimento.

“Cazzo, ma non è possibile! Ho spinto il triangolo e quel coglione non è morto… Ma che gioco di merda!”

 

***

Il pomeriggio seguente dormii ancora, stanca del freddo di giugno, dell’inettitudine, della pigrizia. Stanca di dormire, peraltro.

A svegliarmi fu la sigla psichedelica di un telegiornale – forse alle otto di sera, forse alle sei di mattina. Il cielo era ancora chiaro, ma le stanze della mia casa erano lugubri, adombrate da pareti e soffitti pretenziosi.

Quella mattina mi ero sollevata dal letto con lo stesso paesaggio: letti sfatti, odore di stantio, luce timida e schiva. E Vittorio non era nel suo letto: probabilmente era salito sul treno per Bari, oppure era già all’università, a prendere appunti o dare un esame, non lo sapevo.

L’orario sull’angolo destro dello schermo del cellulare mi rassicurò: erano le otto e due del dieci giugno 2009. Quindi mio fratello è tornato.

Sbadigliai e accesi il computer, benché avessi un evidente bisogno di andare in bagno; strinsi le cosce e, assordata dal tono di avvio, cercai di scrivere qualcosa.

 

Light la prese per mano e camminarono insieme, come una coppia di colombe, come le api.

 

Cancellai il testo appena scritto e ricominciai.

 

Light la condusse dolcemente verso il campo, passeggiando come due pedine di ghiaccio sul

 

Senza rileggerle, selezionai quelle parole e le eliminai. Ricominciamo, pensai.

 

Lo scricchiolio della brina sotto i piedi nudi scandiva i loro passi. Il cielo sembrava verde, sembrava ghiaccio, sembrava una gigantesca lacrima gelata che si sarebbe liquefatta. Li avrebbe inghiottiti entrambi, salata e antica. Alcuni fiori solleticarono le caviglie di Misa, mentre Light scriveva il suo nome, Misa Amane, e sorrideva.

“Io ti amo, Misa.” Rise.

Cicatrici, sangue e tagli: sarebbe bastato fermarle il cuore, sarebbe stato sufficiente… Ma

 

Chiusi definitivamente il documento e telefonai a Susanna: non la sentivo dal giorno prima, da quando le avevo consigliato di contattare Martino Manonera per ripararle il computer, ma non mi aveva più fatto sapere nulla.

“Pronto?”

“Ciao, Silvia, c’è Susanna?”

“Sì, te la passo subito”, rispose sua madre.

Accavallai le gambe, tanto per evitare di far scoppiare la mia vescica.

Dopo qualche fruscio, sentii finalmente la voce di Susanna. E mi parve subito strana.

“Ehi, Margie. Come va?”

All’inizio non riuscii a capire cosa ci fosse di diverso nel suo tono, nelle parole che utilizzava, nel… nel contegno, nel buon umore così composto e moderato. Questo! Quello parve inconcepibile a me, abituata alle sue frenetiche esaltazioni e angosce irrefrenabili.

Contegno.

Sì, era proprio quello che non andava.

“Bene, tu? Come va con il computer?”

O forse mi sto sbagliando io.

Se le avessi chiesto qualcosa, magari si sarebbe innervosita.

“Ah, sì… Martino è riuscito a ripararlo. È proprio un genio con i computer, sai?”

Aprii la bocca, ma lasciai subito perdere. E se s’incazza?

“Ah, OK.”

La sentii ridere e tacere, almeno per mezzo minuto.

E adesso?

Cercai di pensare a qualcosa da dire, ma mi interruppe.

“Ora devo andare, Margie!”. Ancora una risata, breve e impetuosa, come un palloncino che scoppia. “Ciao ciao!”

Riattaccai senza salutarla.

Doveva essere accaduto qualcosa, ma non osavo chiederglielo: sarebbe stato atroce affrontare la sua collera e…

Sospirai.

Però…

Era strana, davvero molto strana.

 

   
 
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