Edward si sbracciò,
sorridendomi, dall’ingresso
dell’accademia. Affrettai il passo, desiderosa di ritrovarmi
fra le sue
braccia.
L’ultima settimana era
trascorsa decisamente meglio
delle precedenti. Non c’erano stati importanti cambiamenti,
ma non avevo mai
visto mio marito titubare, e avevo sempre paura che potesse accadere,
ma… Avevo
un obbiettivo, ora. Pensavo che avrei potuto cominciare a risolvere i
nostri problemi.
Perciò mi concedevo di essere energica, forte. Non potevo
farmi prendere né
dall’ansia, né dall’indecisione. Lo
dovevo a me, ma soprattutto alla bambina. Ci
provavo, ci provavo davvero.
Mi abbracciò,
stringendomi, accarezzandomi i capelli e
lasciandoci un bacio. «Dai a me» disse, indicando
la mia borsa con tutti i
libri, «è pesante».
Annuii, porgendogliela.
«Com’è
andata stamattina?» chiese, non appena fummo in
macchina, e l’atmosfera fu tanto intima da permetterci di
parlare liberamente.
«Bene» risposi
in fretta, ansiosa di cambiare
argomento.
«Davvero?»
incalzò, accendendo i riscaldamenti per
contrastare la bassa temperatura.
«Sì,
sì, davvero» lo liquidai. «Hai pensato a
quello
che ti ho detto?» chiesi mite ma decisa.
Serrò le labbra,
guardando fisso la strada di fronte a
sé. Automaticamente io rabbrividii, raggelandomi. Avevo
paura quando faceva
così. Tuttavia
mi feci coraggio per non demordere.
Piano, allungai una mano tremante accanto alla sua.
«Edward» lo
chiamai, tentando di nascondere il tremore.
Lui fece un sospiro. Poi, con
lentezza, si voltò verso
di me con un’espressione serena. «Bella, non dico
che la tua idea non sia
carina, che non mi alletti, ma» contrasse il viso
«non mi va di stare tanto
tempo lontano da te e dalla bambina per andare, due sere a settimana, a
suonare
all’opera».
«Ma non dovresti stare
lontano da me!» esclamai,
animata. «Non c’è bisogno che ti
eserciti troppo, sei già bravissimo, e poi mi
piace sentirti suonare!».
«Dovrei fare esibizioni
in tutto il paese, viaggiare
molto».
«Verrei a vederti ogni
volta!».
«Ci sarà un
motivo per cui non potrai venire, un
giorno» ribatté tranquillo.
«Ma non è
vero» m’interruppi, pensando a dei possibili
motivi. E, in effetti, ce ne erano. L’università,
la bambina… Di sicuro non
sarei potuta andare ogni volta. «Promettimi che ci
penserai» borbottai infine,
per nulla intenzionata ad arrendermi, ancora una volta.
Lui ridacchiò,
vittorioso, prendendo una mia mano tra
le sue e baciandola.
«Guarda la
strada» lo schernii.
Rise, ancora, accelerando.
«Carlisle ha detto di avere
delle notizie per noi» disse poi serio, ma tranquillo. Sentii
il cuore battere
più veloce. Sapevo che tipo di notizie volevo avere, e
speravo che fossero
tutte positive.
«Andrà tutto
bene, vedrai, in qualsiasi caso» mi
rassicurò Edward, percependo il mio stato d’animo.
Annuii, abbassando i
riscaldamenti, improvvisamente infastidita dal calore. «Sta
tranquilla» disse,
sorridendomi.
«Sì» mormorai. Si stava preoccupando
per me, e non volevo
che lo facesse. Non quando mi ero proposta di aiutarlo in ogni modo e
di capire
le motivazioni della sua tristezza. Distolsi lo sguardo, in modo da
riprendere
il pieno controllo di me, e osservai con rassegnazione la pioggia
battente che
impediva quasi totalmente la visuale.
Sospirai, voltandomi a fissarlo
mentre guidava, sicuro
di sé e silenzioso. Lasciai che i bellissimi ricordi
m’invadessero la memoria,
facendomi imporporare le guance e ricordare con malinconia quei
momenti. Quel
momento, unico. Ma bellissimo, davvero, davvero bello. Vidi gli occhi
neri e
sempre più assenti di Edward e sentii una stretta allo
stomaco. C’era qualcosa
che non andava?
Mi voltai a fissare il finestrino,
tentando di non
lasciarmi rattristare e osservando il panorama verde di alberi che
trapassava
continuamente accanto a noi e che cominciava a farsi sempre
più rado man mano
che ci addentravamo a Forks. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, per
far
scomparire il suo sguardo malinconico. Quello era il momento migliore
per
parlare, ma cosa dire? Osservai il profilo delle case sfrecciare
ipnoticamente
avanti a me.
Fui improvvisamente sbalzata
bruscamente in avanti,
verso il parabrezza, il cuore in gola e il respiro ansante,
completamente
sconvolta e disorientata. Le cinture di sicurezza e un braccio freddo
mi
trattennero, facendomi rimbalzare sul sedile, mentre l’auto
frenava di botto a
pochi millimetri di distanza da un’altra, che ci
passò davanti a gran velocità,
sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia e producendo un rumore
stridulo di
freni. Anche
Ansimai pesantemente, scossa, gli
occhi sgranati, portandomi
una mano al cuore, sentendomi tremante e completamente annichilita
dalla paura,
tanto da non riuscire a pensare. Mi occorse qualche istante per tentare
di
capire quello che era successo.
«Bella? Stai
bene?» mi chiese Edward, agitato, posandomi
una mano sul viso.
Edward aveva frenato…
L’altra auto era passata
davanti… C’era… la pioggia…
Mi portai una mano alla testa,
confusa, sentendola
girare più veloce del dovuto, e sentendo la confusione della
bambina mischiarsi
alla mia. Era sconvolta, almeno quanto me, se non di più.
Sobbalzai, voltandomi
di scatto, quando sentii tre colpi al finestrino. Era il conducente
dell’altra
auto.
«Mi dispiace, ero
distratto, avrei dovuto darvi la
precedenza, è colpa mia. L’importante è
che non ci sia stato un incidente.
State tutti bene?».
Sentivo la voce
dell’uomo, concitata, molto lontana,
eppure ero ben riuscita a distinguere una parola. Incidente.
Impossibile. Esattamente impossibile che Edward potesse
distrarsi a tal punto da rischiare un incidente.
«…vi posso
accompagnare in ospedale se c’è bisogno,
possiamo chiamare un’ambulanza…».
«No, non si preoccupi, la
ringrazio». Gli occhi di
Edward si posarono su di me, ansiosi, non appena l’uomo si fu
allontanato. «Bella».
«Sto bene»
interruppi le sue parole, puntando i miei
occhi nei suoi. Lo fissai, in attesa di una spiegazione plausibile, di
una illuminazione,
ora che la confusione aveva lasciato spazio allo sgomento. Lo fissai,
in attesa
che la saliva tornasse a bagnarmi la bocca.
Lui sostenne il mio sguardo con
preoccupazione e
angoscia. «Ti porto da Carlisle» disse infine.
«Cosa è
successo, Edward?» chiesi, ignorandolo,
ostinata. Non poteva far finta di niente. Mi ero perfettamente accorta
del suo
sguardo assente prima della frenata, e avrei messo la mano sul fuoco
sul fatto
che le due cose fossero collegate.
«Niente di cui tu ti
debba preoccupare. Ora andiamo».
«No» dissi, ferma, stringendo i pugni e
irrigidendo il
volto. Non avevo nessuna intenzione di far strabordare quelle dannate
lacrime. «Ho
detto che sto bene, Edward. Dimmi cos’è
successo».
Allo stesso modo contrasse la
mascella, un lampo nero
negli occhi. «Non importa. Tu ora non sai quello che
è meglio per te» mormorò,
girando la chiave nel quadro.
Perché mai insisteva
così tanto con quella storia di
Carlisle? «Edward, non mi sono fatta niente,
dannazione!» sbottai. Poi feci un
sospiro, ansiosa, pentita di essere stata troppo brusca, sentendo la
situazione
sfuggirmi di mano, ancora una volta. Lo accarezzai, agitata, in viso,
sfiorandogli i capelli. «Ti prego, ti prego» lo
supplicai, sull’orlo delle
lacrime «dimmi cos’hai. Te ne prego. Non dire che
non è niente, ti prego.
Dimmelo. Sono tua moglie. Ti prego…».
Sentii le sue braccia fredde sulle
mie, mentre finalmente
si faceva stringere nel mio abbraccio. Baciai i suoi capelli ramati,
ringraziando il fatto che non mi avesse ancora detto di no.
«Ti prego».
«Verrai da Carlisle,
dopo?» sussurrò atono.
Mi staccai velocemente, guardandolo
in viso, fin
troppo contenta e sorpresa di avere, finalmente, una sua concessione
per
curarmi della strana insistenza. «Sì.
Sì, certo» risposi repentina, prendendo
le sue mani fra le mie.
Distolse lo sguardo, perdendosi
nella pioggia. Poi
strinse le sottili labbra rosee. «Non… riesco
a…» deglutì. Posai lentamente una
mano sulla sua guancia, e lui fece lo stesso, intrappolandola nella sua
e
schiacciandola contro il suo viso perfetto. Si voltò verso
di me, tormentato. «Ogni
volta, ogni singola volta che vengo qui, con te. È una
tortura Bella» sorrise
beffardo «non hai idea della moltitudine di pensieri
che… tutti quanti,
fanno» fece una pausa «su te e… lui».
Sentii un singulto shockato nascere
dal petto e nel
tempo di due battiti del cuore lo ripresi fra le braccia, stringendolo
con
tutta la mia forza. Era quello, allora. «Amore, oh, mi
dispiace così tanto… Non
avrei mai…» strizzai gli occhi, maledicendomi per
non essere arrivata a capire
quello che poteva comportare per lui stare in mezzo a tutta quella
gente. Lo
strinsi, ancora più forte. «Non ti preoccupare, ci
sono io, qui, adesso. Sono
con te e non ho nessuna intenzione di lasciarti agli altri. Nessuna,
capito? Tu
sei solo mio e io sono solo tua. Non li ascoltare, ti prego, andiamo
via da
qui».
«Sì Bella.
Grazie, davvero, so di poter contare su di
te, ma non preoccuparti per me, è una cosa con cui posso
convivere» mormorò,
annuendo e baciandomi frettolosamente le labbra. «Ti
amo».
«Anch’io ti
amo, tanto» sussurrai, baciandolo a mia
volta e cercando, il quel gesto, di infondere tutto il mio amore.
«Ci penserò
io ora» dissi convita, ignorando le sue parole.
Sospirò.
«Andiamo da Carlisle».
Lo osservai, sistemandomi sul mio
sedile. Sembrava
ancora molto turbato, forse era preoccupato per me. Comunque, ora che
sapevo,
non avrei mai più permesso che qualcosa gli facesse
così male. «Edward, sto
davvero bene. Mi ha bloccato la cintura, e poi c’eri tu, non
mi sono fatta
male».
Mi lanciò
un’occhiata apprensiva. «Per favore. Non ci
vorrà tanto, dobbiamo…
andiamo».
Non riuscii a trovare la forza di
oppormi, malgrado
fosse esagerato e strano che insistesse tanto, così annuii,
tentando di non
creargli ancora alcun tipo di nuovo motivo d’angoscia.
Durante tutto il tragitto
ripercorsi con la mente
quante volte eravamo andati insieme a Forks. Ricordai Halloween,
qualche visita
a mio padre, alla farmacia e diverse al supermercato. Se
l’avessi saputo prima
non l’avrei mai costretto, e, soprattutto, avrei capito
benissimo i suoi
sguardi e i suoi silenzi. D’ora in poi avrei evitato in ogni
modo di
avvicinarmi alla cittadina, avrei mandato Alice a fare la spesa,
invitato mio
padre a casa mia piuttosto che andare da lui. Mi augurai di riuscire,
in un
modo o nell’altro, a lenire realmente il suo dolore. Potevo
farcela, potevo
aiutarlo. Immaginai delle possibili parole da potergli dire per
confortarlo.
Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi, per correggere i miei
sbagli.
«Come stai?».
«Sto bene, Edward,
davvero» risposi comprensiva,
sfilandomi la cintura e quella sorta d’imbracatura che
impediva di schiacciare
il bambino.
Lo fissai, sotto
l’ombrello. Fissai la sua mano tesa
verso di me per farmi alzare dal sedile. Allungai la mia per lasciargli
una
nuova carezza. «Vedrai che andrà tutto bene
ora» dissi convinta, provando a
convincere anche lui.
«Sì,
certo» rispose con voce controllata, mal celando
l’impazienza.
Feci un’altra pausa,
abbassando lo sguardo e
mordicchiandomi il labbro. Lo risollevai verso i suoi occhi.
«D’ora in poi mi
dirai sempre se qualcosa non va, non è
così?» chiesi, non riuscendo a contenere
la mia apprensione.
Strinse le labbra, distogliendo lo
sguardo. «Bella,
andiamo, per favore. Voglio che ti veda Carlisle» disse
impaziente, eludendo la
mia domanda con sfacciataggine.
Rimasi basita, silenziosa, mentre
sentivo la speranza,
che fino a pochi istanti prima mi aveva accompagnata, staccarsi da me.
Lasciai
che mi aiutasse ad alzarmi e mi avviai in casa, senza proferire una
sola
parola. Possibile che fosse così apprensivo e di conseguenza
così impaziente da
non rispondere ad una domanda tanto diretta quanto seria? Sperai che
fosse
così.
«Edward, Bella»
ci salutò Esme, aprendoci alla porta.
«non vi aspettavamo così presto,
accomodatevi» ci invitò, scostandosi su un
lato.
«Grazie»
mormorai, gli occhi bassi.
Edward mi strinse possessivamente
per il fianco. «Carlisle?»
chiese con sguardo assente.
Vidi, con la coda
dell’occhio, quello di Esme saettare
fra noi due. «È successo qualcosa?».
«Edward è
preoccupato per il nostro quasi
incidente» sospirai, alzando il
viso.
La sua espressione si fece
preoccupata per un istante
e si posò sulle mie mani, strette in grembo. «Stai
bene cara?».
«Sì Esme, mi
sento bene».
Rivolse un’occhiata di
rimprovero a Edward. «Sai che
non dovresti farla guidare, soprattutto con questa pioggia».
Non mi stupii che Esme fosse
sorpresa quanto me, tanto
da non immaginare neppure che potesse essere suo figlio ad avere il
volante in
mano. «Sono sicura che lo farà» risposi,
precedendo le parole di Edward.
Mi fissò per un secondo,
ma poi non disse nulla,
distratto dalla presenza di suo padre, comparso improvvisamente nella
stanza. «Carlisle»
gemette sofferente, lasciando cadere la maschera di cera posata sul suo
magnifico viso e stringendomi il fianco con più forza, con
tormento e
possessione.
Lui fece passare il suo sguardo da
me a Edward,
improvvisamente preoccupato.
Non ero una vampira, e questo era
certo. Non
pretendevo di rimanere dietro ai loro pensieri, ma di sicuro non ero
così stupida
da pensare che tutto fosse normale. Al più, il mio cervello
umano riusciva a
credere che Edward non mi avesse detto la verità, pochi
minuti prima, in auto.
O almeno, che non l’avesse racconta tutta, perché
di certo, in quegli sguardi,
c’era qualcosa che mi sfuggiva. Che sfuggiva a me e
Esme, e che probabilmente ci nascondevano.
Qualcosa che era la maggiore causa
di sofferenza di
mio marito. Qualcosa che aveva occupato la sua mente tanto da causare
quasi un incidente.
Carlisle mi volò accanto
in un istante. «Venite in
camera. Come stai Bella?» chiese, osservandomi attentamente.
Edward mi sostenne per le braccia,
come se pensasse
che sarei potuta crollare da un secondo all’altro,
irrigidendo la mascella,
angosciato. «Non ho niente» dissi, più
seccata di quanto avrei voluto,
riuscendo difficilmente a contrastare il senso di disagio e
l’angoscia che
sentivo dentro.
«Stai
tranquilla». Carlisle si chinò sulla sua borsa,
ai piedi del letto. «Come va la testa?».
«Bene» risposi
sicura, compostamente seduta sul
materasso, appena accanto ad un sempre più ansioso Edward.
Carlisle mi lanciò
un’occhiata eloquente. «Girava solo un
po’ e adesso non più» ammisi,
giustificandomi in fretta.
Mi puntò un laser negli
occhi. «Ricordi quello che è
successo?» chiese con più attenzione. Notai anche
lo sguardo di Edward,
impaziente, fisso su di me.
«Sì, lo
ricordo, certo» sospirai, innervosita
dall’assurdità della loro preoccupazione.
«Potresti dirmi quello
che ricordi, allora?».
Deglutii, sentendomi sotto
osservazione. «Io, non so. È
arrivata un’auto da sinistra, ma non ci siamo scontrati, la
macchina ha frenato
in tempo».
«Prima? Ricordi quello
che è successo prima?» chiese
Edward, facendo trapelare tutta la sua angoscia. Anche Carlisle, che
per un
attimo aveva spostato lo sguardo sul figlio lo posò
nuovamente su di me, carico
di aspettativa.
Lo fissai, confusa, disorientata.
Perché mi stavano
facendo tutte quelle domande? Portai una mano alla testa.
«Io… no. Guardavo il
finestrino» balbettai. Mi voltai verso mio marito, la sua
espressione sempre
più ansiosa, come se ci fosse qualcosa di più.
Qualcosa che non ricordavo.
«Guardavo te Edward,
guardavo il tuo riflesso e poi… è
successo velocemente. Io… non so cosa… non
c’è nient’altro» aggiunsi
velocemente.
Lanciò
un’occhiata ben distinguibile a Carlisle, che
rispose con lo stesso sguardo. Cosa stava accadendo? Fu lui a
riprendere per
primo il controllo. «Va bene Bella, va bene così.
Stenditi per favore».
Le domande seguenti rientrarono
nella normalità,
tuttavia l’inquietudine che divorava Edward non pareva
volerlo minimamente
abbandonare, anzi. L’ansia che avevo percepito fino a pochi
istanti prima si
era tramutata in pura disperazione, muta, spessa. Tanto spessa che
cadeva fra
noi come una nebbia fitta.
«La cintura ha stretto
l’addome?» mi chiese Carlisle mentre
mi visitava, tastandomi.
«No» risposi sicura, fissando il
soffitto della sua camera.
Annuì. «Ti fa
male? Senti formicolio?».
Scossi il capo, stringendo
più forte la mano di mio
marito con la necessità di sentirlo vicino, mentre sapevo
che la nebbia ci
divideva sempre più, addensandosi, mettendosi fra noi.
«Contrazioni?».
«Neppure». Feci
una pausa, poi aggiunsi «la pancia è
sempre stata rilassata, non è mai diventata dura nemmeno un
po’».
«Sei stressata
ultimamente?» mi chiese con più
interesse, mentre mi misurava la pressione.
Sussultai a quella domanda e non
risposi. Tuttavia
sentii, questa volta, la presa di mio marito farsi
più forte. «Forse. Un po’. Per
l’università, magari» balbettai.
Carlisle puntò i suoi
occhi su Edward. Sospirai, distogliendo
lo sguardo, imbarazzata per l’intimità della loro
conversazione di cui
sicuramente non dovevo far parte. Poi tornò a guardarmi.
«Bella, la tua visita
sarebbe stata fra due giorni, ti dispiace se la anticipiamo ad adesso?
So che
non è affatto piacevole, ma vorrei essere più
sicuro».
«C’è
qualcosa che non va?» chiesi, per la prima volta
preoccupata.
Edward mi baciò il capo,
ansioso di rassicurarmi. «No
amore, avevi ragione tu, non hai niente. Perdonami se sono stato
così apprensivo.
Ma che senso ha aspettare due soli giorni, potremmo essere
più sereni, no?».
Le sue parole e il tono suadente
con il quale le
pronunciò, mi convinsero, facendomi in parte
tranquillizzare. «Sì»
mormorai, stringendomi sulla sua spalla. «Però non
potremmo fare l’ecografia» dissi rattristata.
Aspettavo con ansia di usare quel
macchinario per sentire il cuore di mia figlia, tanto che non mi
accontentavo
mai di chiedergli quanto forte battesse.
Carlisle mi accarezzò
una guancia. «Non penso l’avrei
fatta, comunque. Se vuoi però ti faccio ascoltare con lo
stetoscopio, penso che
ormai si possa sentire piuttosto bene. Che ne dici?».
Accettai, ansiosa di sentirla.
Volli Edward accanto a
me e rimasi per tutto il tempo a guardare i suoi occhi, mentre lui
guardava i
miei. Come potevo pensare che quegli occhi ambrati mi avessero mentito?
Non
potevo. Aveva sofferto, e questo era evidente. Ma era anche evidente
che
continuava a soffrire, per qualcosa che non aveva nulla a che fare con
quello
che mi aveva raccontato. Qualcosa di cui non voleva rendermi partecipe.
«Stai rilassata Bella,
abbiamo quasi finito» mi
rassicurò Carlisle, notando, forse, una mia crescente
agitazione.
Edward mi fece un sorriso, e mi ci
aggrappai con tutte
le mie forze, pur sapendo che di autentico aveva ben poco. Ma non
riuscivo ad
ignorare ogni loro occhiata. Ogni singola volta che si guardavano, era
una
bugia. Era un segreto che avevano deciso di non dirmi.
Perché?
Carlisle mi assicurò che
la visita era andata al
meglio, che la bambina stava bene, fortunatamente, ma mi
raccomandò anche di
evitare ogni forma di ansia e stress. Eppure, Edward non pareva
più tranquillo.
«Ecco, dai a me, ora lo
trovo». Carlisle mi sorrise,
facendo scorrere la placca di metallo dello stetoscopio sulla mia
pancia. «Qui,
lo senti?».
Sentii le ciglia inumidirsi.
«Sì, sì. Lo sento»
balbettai emozionata. «Oh mio Dio Edward, è
bellissimo». Sorrisi, portandomi
una mano sulla bocca, sentendo la stessa emozione provenire dalla
bambina e
fondersi con la mia. Edward mi accarezzò, ma mi sembrava
assente.
«Bella, se vuoi puoi
rimanere ancora un po’, quanto
tempo vuoi. Quando hai finito raggiungici di là, va
bene?» fece Carlisle,
dirigendosi alla porta.
Anche Edward si alzò. Lo
fissai, confusa. Non voleva
rimanere? «Stai tranquilla, riposati un
po’» disse solo, atono, seguendo in un
lampo il padre.
Strinsi le labbra, ma non dissi
nulla, pur sentendo un
forte peso formarsi all’altezza del petto, schiacciandomi.
Non riuscii a non
sentirmi sola, quando la stanza fu vuota, mentre l’ansia mi
sommergeva
nuovamente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tentando di calmarmi
ascoltando
il piccolo cuore di mia figlia battere.
Tumtumtumtumtumtum. Non
gli
importava più di me? Allora perché aveva fatto
ferro e fuoco per portarmi di
suo padre? Perché continuava a nascondermi qualcosa che
invece a Carlisle aveva
detto, non mi credeva capace di aiutarlo? Perché quella mi
sembrava l’unica
risposta al fatto che non avesse ancora acconsentito a raccontarmi i
suoi
problemi. Non tutti, almeno.
Tumtumtumtumtumtum. Forse… forse gli
importava solo della bambina,
ormai… No. Non era e non poteva essere così. Non
potevo essere gelosa di mia
figlia, la dovevo smettere di auto-commiserarmi e fare quegli stupidi
capricci.
Semplicemente non ero abbastanza capace, non per aiutarlo, per aiutare
mio
marito come lui aveva fatto migliaia di volte con me.
Tumtumtumtumtumtum. Ma mi sentivo così
sola, così inutile. Che cosa mi
stavano nascondendo? Perché lo stavano facendo?
Mi accorsi di avere da ormai troppo
tempo le guance
cosparse di acqua salata. Mi strinsi maggiormente su me stessa, inerme,
quasi
incapace di muovermi. Pregai che non venisse nessuno a vedermi in
quello stato
pietoso. Ma i singhiozzi rompevano il mio respiro, rendendo il pianto
rumoroso.
Circondai il petto con le braccia, mentre mi sentivo sul punto di
esplodere.
Mentre sentivo il vuoto dentro me ingrandirsi e ingrossarsi, occupando
tutto lo
spazio. Troppo.
Sentii due braccia fredde
circondarmi da dietro e mi voltai
di scatto per osservare il viso del vampiro. «Bella,
cara» sussurrò Esme
dispiaciuta.
Non riuscii a trattenermi e mi
buttai fra le sue
braccia, bisognosa di conforto, riprendendo a singhiozzare senza sosta.
Mi
sentivo così triste, eppure così mortificata.
«Calma»
sussurrò piano, facendomi staccare da lei e
aiutandomi a mettermi seduta. Mi prese le mani fra le sue.
«Respira, piano,
così» disse, imitando il ritmo del respiro che
avrai dovuto seguire, onde
evitare di avere un attacco di panico in piena regola.
«Piano, piano». Posò una
mano sull’attaccatura della pancia, aiutandomi.
«Scusami per questa
intrusione» disse poi, mesta,
quando il mio respiro fu nuovamente regolare.
Mi asciugai gli occhi gonfi e
secchi con il
fazzolettino che mi aveva dato. «Figurati, Esme. È
la tua stanza» mormorai, la
voce arrochita dalle lacrime, guardando fisso il copriletto.
«Ti va di
parlarne?» mi chiese discreta.
Spostai lo sguardo su un altro
punto. «Dov’è Edward?».
Perché non era venuto lui? Gli importava così
poco ormai?
Esme mi fissò per un
istante, sospettosa. «Si è
allontanato con Carlisle, verso i boschi». Rimasi in
silenzio. «Bella».
Sollevai i miei occhi nei suoi. «Edward e Carlisle hanno
sempre avuto questo
tipo di rapporto. Si conoscono da quasi cento anni, ormai,
più di quanto non li
conosca io. Hanno condiviso i loro più oscuri e
inconfessabili segreti, hanno
condiviso il loro essere, hanno condiviso i loro pensieri. Sono molto
più di
quanto un padre e un figlio, due consanguinei, sarebbero».
Mi strinsi le mani sulla pancia,
non riuscendo più a
contenermi, non riuscendo più a tacere. «Esme, ho
così paura. Ho paura di
perdere mio marito, paura che non mi voglia più…
con sé» gemetti, portandomi
una mano sul viso e stringendo, con l’altra, più
forte la pancia, sentendomi
profondamente in colpa per le emozioni negative della bambina che mi
sferzavano
come una frusta.
«Oh
tesoro» esclamò
abbracciandomi, «calmati, stai calma. Non ti devi agitare
così, va bene? Quei
due mascalzoni non dovrebbero farti preoccupare così tanto.
Sei sempre così in
ansia ultimamente, non va bene, sai?» disse preoccupata.
La porta della stanza si
aprì, e subito mi ricomposi,
temendo che potesse essere Edward.
«Ho sentito»
disse Alice, entrando cauta «tutto
bene?».
«Alice»
sospirai, lasciandomi abbracciare.
«Sempre
Edward?» chiese lei, staccandosi da me e
scambiandosi un’occhiata con la madre. «Non ha
funzionato la tua idea del
pianoforte, ho visto. Ma non demordere, vacillerà».
«Non lo so Alice, non so
più se…» mi nascosi il volto
fra le mani, tentando di reprimere una nuova ondata di lacrime.
Aspettarono il
tempo necessario per farmi riacquisire il controllo di me stessa, poi
mi
fissarono dispiaciute, mentre mi asciugavo gli occhi.
Esme mi passò un altro clinex
«Bella. Ne parlerò con Edward, sono sicura che non
sta…».
«No!» presi un
respiro «no, ti prego Esme, ti prego,
non dirgli niente. Non voglio farlo preoccupare. Vi prego, vi prego,
non
fategli sapere niente di tutto questo, vi prego!» non volevo
fare stupidi
capricci, facendo intervenire sua madre, magari, facendolo sentire in
colpa. «Non
è colpa sua, in fondo, se…» deglutii
«non si fida più di me, se non mi vuole
più».
«Oh Bella».
«Non dire
così, cara».
Mi sentii incredibilmente
frustrata. «Mi ha mentito,
capite? Mi ha mentito. Siamo sposati, accidenti. Io lo amo, dice di
amarmi, ma…
mi ha mentito!» sbottai concitata. «O almeno, non
mi ha detto tutta la verità».
Alice mi strinse le mani fra le
sue, fissandomi negli
occhi. Lo stesso fece Esme. «Tesoro, se Edward si sta
comportando così, è proprio
perché ti ama, e in un modo o nell’altro sta
agendo per il tuo bene, ne sono
sicura».
Restai in silenzio, lasciando che
le parole
strisciassero nella mia coscienza e cominciassero a cozzare contro i
miei
dubbi. «Io… non so» biascicai, pur
convita che le parole della dolce vampira
avessero più che un fondo di verità.
«Bella»
ricominciò. «Osserva il comportamento di
Edward, con calma. Non è possibile che non ti ami, era
così preoccupato per te,
prima».
«Era preoccupato per la
bambina» dissi in un sussurro,
confessando i miei oscuri timori, vergognandomi delle mie stesse
parole.
«No, tesoro, no. Lui era
preoccupato per te. Non hai
visto come ti guardava?».
Fissai Esme, poi Alice. Infine
abbassai lo sguardo, ricordando l’espressione sul suo volto.
«Sì, è vero, mi
ama ancora» feci una pausa. «Ma mi ha anche
mentito, quando io gli ho chiesto
se ci fosse qualcosa che non andava, perché, evidentemente,
qualcosa che non va
c’è, e non ha quasi niente a che fare con quello
che mi ha risposto lui!»
esclamai, sempre più in ansia «Questo vuol dire
che è inutile che io tenti di
aiutarlo, perché lui già sa che non ci
riuscirò, che non sarò capace di farlo!
Per questo non si confida con me!».
«Oppure perché
non vuole farti soffrire» puntualizzò
Alice.
Sollevai di scatto la testa,
fissandola. «Tu sai?».
Sollevò entrambe le
braccia, in segno di difesa. «No,
no, io non so niente, mi dispiace!» si affrettò a
rispondere «ultimamente ho
anche troppi buchi neri. Ci ho provato, ma non ho visto
niente».
Sospirai, credendo alle sue parole
sincere.
Alice osservò per un
istante la madre, che si alzò dal
letto. «Hai fame cara? Che ne dici di mangiare qui? Sarai
così stanca».
Non avevo fame, anzi, sentivo la
classica inappetenza
da stress, ma lei non volle sentire ragioni e trasformò
quella che era una domanda
in un ordine, andando a cucinare per me.
La mia sorellina mi accarezzava i
capelli, scrutandomi
e rassicurandomi. Mi sentivo molto intontita per via delle lacrime, ma
provavo
a non piangere ancora per evitare che fosse troppo evidente a Edward.
Anche se
più di tanto non avrei potuto nasconderglielo.
Alice mi distrasse dai lenti
pensieri che scorrevano
nella mia testa, tutti volti a tentare di auto-convincermi delle parole
rassicuranti di Esme e Alice. «Ancora niente, con
Edward…?» chiese, lasciando
cadere la domanda.
Mi voltai a fissarla, stranita.
Negli ultimi tempi ci
avevo pensato molto, ma poi il problema della ragione della tristezza
di Edward
aveva prevalso nella mia mente rispetto al lato fisico. Abbassai
nuovamente il
capo, ancora nello sconforto. «No, niente. Vedi che ho motivo
di dire che…».
«No, no, aspetta. Esme ha
ragione, lui lo fa perché ti
ama, in ogni caso. Ma… insomma. Non si confida con te
perché ha paura di sarti
stare in ansia con i suoi problemi, anche se è uno zuccone e
non capisce che
così ti fa solo stare peggio. Ma pensaci» disse,
puntando il suo volto minuto e
luminoso nel mio. «Pensa, magari, se tu gli facessi capire
che sei abbastanza
forte da sopportare anche i suoi problemi… Insomma. Fagli
vedere che non hai
paura di nulla! Fagli vedere che tu sei serena e che può
confidarsi! Ricordagli
che lo ami. Offriti a lui» disse, facendomi
l’occhiolino, pur mantenendo la
massima serietà.
«Alice»
biascicai, accoccolandomi maggiormente su me
stessa. Era assurdo.
Vidi i suoi occhi grandi davanti ai
miei. «Pensaci.
L’amore fisico è qualcosa di importante,
soprattutto per i vampiri. Potrebbe
essere un solidissimo collante. A meno che…» mi
lanciò un’occhiata «non vada a
te».
Sorrisi, amaramente sarcastica.
«Vado a mangiare»
mormorai, ignorando le sue parole.
Dovetti mangiare tutto quello che
mi aveva preparato,
sia perché me lo aveva ordinato Esme, sia perché
sentivo un forte senso di
dovere nei confronti di mia figlia, che, povera vittima innocente,
doveva
sorbire ogni istante il mio pessimo umore e i miei assurdi pensieri
gelosi. E
poi… volevo arrivare al dessert. Ne avevo voglia, con una
proporzione diretta
alla negatività del mio stato d’animo.
Affondai il cucchiaio nel gelato
limone e fragola,
come se lo stessi accoltellando. Avevo incuneato il barattolino fra le
mie
gambe, piegate, e la mia pancia. Lo mangiai con gusto, tentando di
scacciare la
depressione. Gli zuccheri mi tiravano su e forse, forse, avrebbero
potuto farmi
riflettere.
Edward mi amava, ancora. Voleva
proteggermi da tutto,
ancora. Perché ancora pensava che fossi una piccola e
fragile umana. Sospirai, affondando
ancora il cucchiaio, dando un’altra pugnalata agli zuccheri.
Dovevo dimostrargli il contrario?
Sollevai gli occhi dal dolce,
portandomi il cucchiaio
alle labbra.
In quel istante incontrai gli occhi
ambrati di mio
marito, accovacciato appena davanti a me.
Dopo un secondo lo lasciai cadere
dalla mia mano,
lanciandomi con le braccia al suo collo e stringendolo con tutta la mia
forza.
Dovevo
dimostrargli il contrario.