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Autore: keska    21/12/2009    37 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Edward si sbracciò, sorridendomi, dall’ingresso dell’accademia. Affrettai il passo, desiderosa di ritrovarmi fra le sue braccia.

L’ultima settimana era trascorsa decisamente meglio delle precedenti. Non c’erano stati importanti cambiamenti, ma non avevo mai visto mio marito titubare, e avevo sempre paura che potesse accadere, ma… Avevo un obbiettivo, ora. Pensavo che avrei potuto cominciare a risolvere i nostri problemi. Perciò mi concedevo di essere energica, forte. Non potevo farmi prendere né dall’ansia, né dall’indecisione. Lo dovevo a me, ma soprattutto alla bambina. Ci provavo, ci provavo davvero.

Mi abbracciò, stringendomi, accarezzandomi i capelli e lasciandoci un bacio. «Dai a me» disse, indicando la mia borsa con tutti i libri, «è pesante».

Annuii, porgendogliela.

«Com’è andata stamattina?» chiese, non appena fummo in macchina, e l’atmosfera fu tanto intima da permetterci di parlare liberamente.

«Bene» risposi in fretta, ansiosa di cambiare argomento.

«Davvero?» incalzò, accendendo i riscaldamenti per contrastare la bassa temperatura.

«Sì, sì, davvero» lo liquidai. «Hai pensato a quello che ti ho detto?» chiesi mite ma decisa.

Serrò le labbra, guardando fisso la strada di fronte a sé. Automaticamente io rabbrividii, raggelandomi. Avevo paura quando faceva così. Tuttavia mi feci coraggio per non demordere. Piano, allungai una mano tremante accanto alla sua.

«Edward» lo chiamai, tentando di nascondere il tremore.

Lui fece un sospiro. Poi, con lentezza, si voltò verso di me con un’espressione serena. «Bella, non dico che la tua idea non sia carina, che non mi alletti, ma» contrasse il viso «non mi va di stare tanto tempo lontano da te e dalla bambina per andare, due sere a settimana, a suonare all’opera».

«Ma non dovresti stare lontano da me!» esclamai, animata. «Non c’è bisogno che ti eserciti troppo, sei già bravissimo, e poi mi piace sentirti suonare!».

«Dovrei fare esibizioni in tutto il paese, viaggiare molto».

«Verrei a vederti ogni volta!».

«Ci sarà un motivo per cui non potrai venire, un giorno» ribatté tranquillo.

«Ma non è vero» m’interruppi, pensando a dei possibili motivi. E, in effetti, ce ne erano. L’università, la bambina… Di sicuro non sarei potuta andare ogni volta. «Promettimi che ci penserai» borbottai infine, per nulla intenzionata ad arrendermi, ancora una volta.

Lui ridacchiò, vittorioso, prendendo una mia mano tra le sue e baciandola.

«Guarda la strada» lo schernii.

Rise, ancora, accelerando. «Carlisle ha detto di avere delle notizie per noi» disse poi serio, ma tranquillo. Sentii il cuore battere più veloce. Sapevo che tipo di notizie volevo avere, e speravo che fossero tutte positive.

«Andrà tutto bene, vedrai, in qualsiasi caso» mi rassicurò Edward, percependo il mio stato d’animo. Annuii, abbassando i riscaldamenti, improvvisamente infastidita dal calore. «Sta tranquilla» disse, sorridendomi.

«Sì» mormorai. Si stava preoccupando per me, e non volevo che lo facesse. Non quando mi ero proposta di aiutarlo in ogni modo e di capire le motivazioni della sua tristezza. Distolsi lo sguardo, in modo da riprendere il pieno controllo di me, e osservai con rassegnazione la pioggia battente che impediva quasi totalmente la visuale.

Sospirai, voltandomi a fissarlo mentre guidava, sicuro di sé e silenzioso. Lasciai che i bellissimi ricordi m’invadessero la memoria, facendomi imporporare le guance e ricordare con malinconia quei momenti. Quel momento, unico. Ma bellissimo, davvero, davvero bello. Vidi gli occhi neri e sempre più assenti di Edward e sentii una stretta allo stomaco. C’era qualcosa che non andava?

Mi voltai a fissare il finestrino, tentando di non lasciarmi rattristare e osservando il panorama verde di alberi che trapassava continuamente accanto a noi e che cominciava a farsi sempre più rado man mano che ci addentravamo a Forks. Dovevo dire qualcosa, qualsiasi cosa, per far scomparire il suo sguardo malinconico. Quello era il momento migliore per parlare, ma cosa dire? Osservai il profilo delle case sfrecciare ipnoticamente avanti a me.

 

Fui improvvisamente sbalzata bruscamente in avanti, verso il parabrezza, il cuore in gola e il respiro ansante, completamente sconvolta e disorientata. Le cinture di sicurezza e un braccio freddo mi trattennero, facendomi rimbalzare sul sedile, mentre l’auto frenava di botto a pochi millimetri di distanza da un’altra, che ci passò davanti a gran velocità, sgommando sulla strada bagnata dalla pioggia e producendo un rumore stridulo di freni. Anche la Volvo perse aderenza col terreno, ma dopo un metro si fermò, più dolcemente di prima.

Ansimai pesantemente, scossa, gli occhi sgranati, portandomi una mano al cuore, sentendomi tremante e completamente annichilita dalla paura, tanto da non riuscire a pensare. Mi occorse qualche istante per tentare di capire quello che era successo.

«Bella? Stai bene?» mi chiese Edward, agitato, posandomi una mano sul viso.

Edward aveva frenato… L’altra auto era passata davanti… C’era… la pioggia…

Mi portai una mano alla testa, confusa, sentendola girare più veloce del dovuto, e sentendo la confusione della bambina mischiarsi alla mia. Era sconvolta, almeno quanto me, se non di più. Sobbalzai, voltandomi di scatto, quando sentii tre colpi al finestrino. Era il conducente dell’altra auto.

«Mi dispiace, ero distratto, avrei dovuto darvi la precedenza, è colpa mia. L’importante è che non ci sia stato un incidente. State tutti bene?».

Sentivo la voce dell’uomo, concitata, molto lontana, eppure ero ben riuscita a distinguere una parola. Incidente. Impossibile. Esattamente impossibile che Edward potesse distrarsi a tal punto da rischiare un incidente.

«…vi posso accompagnare in ospedale se c’è bisogno, possiamo chiamare un’ambulanza…».

«No, non si preoccupi, la ringrazio». Gli occhi di Edward si posarono su di me, ansiosi, non appena l’uomo si fu allontanato. «Bella».

«Sto bene» interruppi le sue parole, puntando i miei occhi nei suoi. Lo fissai, in attesa di una spiegazione plausibile, di una illuminazione, ora che la confusione aveva lasciato spazio allo sgomento. Lo fissai, in attesa che la saliva tornasse a bagnarmi la bocca.

Lui sostenne il mio sguardo con preoccupazione e angoscia. «Ti porto da Carlisle» disse infine.

«Cosa è successo, Edward?» chiesi, ignorandolo, ostinata. Non poteva far finta di niente. Mi ero perfettamente accorta del suo sguardo assente prima della frenata, e avrei messo la mano sul fuoco sul fatto che le due cose fossero collegate.

«Niente di cui tu ti debba preoccupare. Ora andiamo».

«No» dissi, ferma, stringendo i pugni e irrigidendo il volto. Non avevo nessuna intenzione di far strabordare quelle dannate lacrime. «Ho detto che sto bene, Edward. Dimmi cos’è successo».

Allo stesso modo contrasse la mascella, un lampo nero negli occhi. «Non importa. Tu ora non sai quello che è meglio per te» mormorò, girando la chiave nel quadro.

Perché mai insisteva così tanto con quella storia di Carlisle? «Edward, non mi sono fatta niente, dannazione!» sbottai. Poi feci un sospiro, ansiosa, pentita di essere stata troppo brusca, sentendo la situazione sfuggirmi di mano, ancora una volta. Lo accarezzai, agitata, in viso, sfiorandogli i capelli. «Ti prego, ti prego» lo supplicai, sull’orlo delle lacrime «dimmi cos’hai. Te ne prego. Non dire che non è niente, ti prego. Dimmelo. Sono tua moglie. Ti prego…».

Sentii le sue braccia fredde sulle mie, mentre finalmente si faceva stringere nel mio abbraccio. Baciai i suoi capelli ramati, ringraziando il fatto che non mi avesse ancora detto di no. «Ti prego».

«Verrai da Carlisle, dopo?» sussurrò atono.

Mi staccai velocemente, guardandolo in viso, fin troppo contenta e sorpresa di avere, finalmente, una sua concessione per curarmi della strana insistenza. «Sì. Sì, certo» risposi repentina, prendendo le sue mani fra le mie.

Distolse lo sguardo, perdendosi nella pioggia. Poi strinse le sottili labbra rosee. «Non… riesco a…» deglutì. Posai lentamente una mano sulla sua guancia, e lui fece lo stesso, intrappolandola nella sua e schiacciandola contro il suo viso perfetto. Si voltò verso di me, tormentato. «Ogni volta, ogni singola volta che vengo qui, con te. È una tortura Bella» sorrise beffardo «non hai idea della moltitudine di pensieri che… tutti quanti, fanno» fece una pausa «su te e… lui».

Sentii un singulto shockato nascere dal petto e nel tempo di due battiti del cuore lo ripresi fra le braccia, stringendolo con tutta la mia forza. Era quello, allora. «Amore, oh, mi dispiace così tanto… Non avrei mai…» strizzai gli occhi, maledicendomi per non essere arrivata a capire quello che poteva comportare per lui stare in mezzo a tutta quella gente. Lo strinsi, ancora più forte. «Non ti preoccupare, ci sono io, qui, adesso. Sono con te e non ho nessuna intenzione di lasciarti agli altri. Nessuna, capito? Tu sei solo mio e io sono solo tua. Non li ascoltare, ti prego, andiamo via da qui».

«Sì Bella. Grazie, davvero, so di poter contare su di te, ma non preoccuparti per me, è una cosa con cui posso convivere» mormorò, annuendo e baciandomi frettolosamente le labbra. «Ti amo».

«Anch’io ti amo, tanto» sussurrai, baciandolo a mia volta e cercando, il quel gesto, di infondere tutto il mio amore. «Ci penserò io ora» dissi convita, ignorando le sue parole.

Sospirò. «Andiamo da Carlisle».

Lo osservai, sistemandomi sul mio sedile. Sembrava ancora molto turbato, forse era preoccupato per me. Comunque, ora che sapevo, non avrei mai più permesso che qualcosa gli facesse così male. «Edward, sto davvero bene. Mi ha bloccato la cintura, e poi c’eri tu, non mi sono fatta male».

Mi lanciò un’occhiata apprensiva. «Per favore. Non ci vorrà tanto, dobbiamo… andiamo».

Non riuscii a trovare la forza di oppormi, malgrado fosse esagerato e strano che insistesse tanto, così annuii, tentando di non creargli ancora alcun tipo di nuovo motivo d’angoscia.

Durante tutto il tragitto ripercorsi con la mente quante volte eravamo andati insieme a Forks. Ricordai Halloween, qualche visita a mio padre, alla farmacia e diverse al supermercato. Se l’avessi saputo prima non l’avrei mai costretto, e, soprattutto, avrei capito benissimo i suoi sguardi e i suoi silenzi. D’ora in poi avrei evitato in ogni modo di avvicinarmi alla cittadina, avrei mandato Alice a fare la spesa, invitato mio padre a casa mia piuttosto che andare da lui. Mi augurai di riuscire, in un modo o nell’altro, a lenire realmente il suo dolore. Potevo farcela, potevo aiutarlo. Immaginai delle possibili parole da potergli dire per confortarlo. Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi, per correggere i miei sbagli.

«Come stai?».

«Sto bene, Edward, davvero» risposi comprensiva, sfilandomi la cintura e quella sorta d’imbracatura che impediva di schiacciare il bambino.

Lo fissai, sotto l’ombrello. Fissai la sua mano tesa verso di me per farmi alzare dal sedile. Allungai la mia per lasciargli una nuova carezza. «Vedrai che andrà tutto bene ora» dissi convinta, provando a convincere anche lui.

«Sì, certo» rispose con voce controllata, mal celando l’impazienza.

Feci un’altra pausa, abbassando lo sguardo e mordicchiandomi il labbro. Lo risollevai verso i suoi occhi. «D’ora in poi mi dirai sempre se qualcosa non va, non è così?» chiesi, non riuscendo a contenere la mia apprensione.

Strinse le labbra, distogliendo lo sguardo. «Bella, andiamo, per favore. Voglio che ti veda Carlisle» disse impaziente, eludendo la mia domanda con sfacciataggine.

Rimasi basita, silenziosa, mentre sentivo la speranza, che fino a pochi istanti prima mi aveva accompagnata, staccarsi da me. Lasciai che mi aiutasse ad alzarmi e mi avviai in casa, senza proferire una sola parola. Possibile che fosse così apprensivo e di conseguenza così impaziente da non rispondere ad una domanda tanto diretta quanto seria? Sperai che fosse così.

«Edward, Bella» ci salutò Esme, aprendoci alla porta. «non vi aspettavamo così presto, accomodatevi» ci invitò, scostandosi su un lato.

«Grazie» mormorai, gli occhi bassi.

Edward mi strinse possessivamente per il fianco. «Carlisle?» chiese con sguardo assente.

Vidi, con la coda dell’occhio, quello di Esme saettare fra noi due. «È successo qualcosa?».

«Edward è preoccupato per il nostro quasi incidente» sospirai, alzando il viso.

La sua espressione si fece preoccupata per un istante e si posò sulle mie mani, strette in grembo. «Stai bene cara?».

«Sì Esme, mi sento bene».

Rivolse un’occhiata di rimprovero a Edward. «Sai che non dovresti farla guidare, soprattutto con questa pioggia».

Non mi stupii che Esme fosse sorpresa quanto me, tanto da non immaginare neppure che potesse essere suo figlio ad avere il volante in mano. «Sono sicura che lo farà» risposi, precedendo le parole di Edward.

Mi fissò per un secondo, ma poi non disse nulla, distratto dalla presenza di suo padre, comparso improvvisamente nella stanza. «Carlisle» gemette sofferente, lasciando cadere la maschera di cera posata sul suo magnifico viso e stringendomi il fianco con più forza, con tormento e possessione.

Lui fece passare il suo sguardo da me a Edward, improvvisamente preoccupato.

Non ero una vampira, e questo era certo. Non pretendevo di rimanere dietro ai loro pensieri, ma di sicuro non ero così stupida da pensare che tutto fosse normale. Al più, il mio cervello umano riusciva a credere che Edward non mi avesse detto la verità, pochi minuti prima, in auto. O almeno, che non l’avesse racconta tutta, perché di certo, in quegli sguardi, c’era qualcosa che mi sfuggiva. Che sfuggiva a me e Esme, e che probabilmente ci nascondevano.

Qualcosa che era la maggiore causa di sofferenza di mio marito. Qualcosa che aveva occupato la sua mente tanto da causare quasi un incidente.

Carlisle mi volò accanto in un istante. «Venite in camera. Come stai Bella?» chiese, osservandomi attentamente.

Edward mi sostenne per le braccia, come se pensasse che sarei potuta crollare da un secondo all’altro, irrigidendo la mascella, angosciato. «Non ho niente» dissi, più seccata di quanto avrei voluto, riuscendo difficilmente a contrastare il senso di disagio e l’angoscia che sentivo dentro.

«Stai tranquilla». Carlisle si chinò sulla sua borsa, ai piedi del letto. «Come va la testa?».

«Bene» risposi sicura, compostamente seduta sul materasso, appena accanto ad un sempre più ansioso Edward. Carlisle mi lanciò un’occhiata eloquente. «Girava solo un po’ e adesso non più» ammisi, giustificandomi in fretta.

Mi puntò un laser negli occhi. «Ricordi quello che è successo?» chiese con più attenzione. Notai anche lo sguardo di Edward, impaziente, fisso su di me.

«Sì, lo ricordo, certo» sospirai, innervosita dall’assurdità della loro preoccupazione.

«Potresti dirmi quello che ricordi, allora?».

Deglutii, sentendomi sotto osservazione. «Io, non so. È arrivata un’auto da sinistra, ma non ci siamo scontrati, la macchina ha frenato in tempo».

«Prima? Ricordi quello che è successo prima?» chiese Edward, facendo trapelare tutta la sua angoscia. Anche Carlisle, che per un attimo aveva spostato lo sguardo sul figlio lo posò nuovamente su di me, carico di aspettativa.

Lo fissai, confusa, disorientata. Perché mi stavano facendo tutte quelle domande? Portai una mano alla testa. «Io… no. Guardavo il finestrino» balbettai. Mi voltai verso mio marito, la sua espressione sempre più ansiosa, come se ci fosse qualcosa di più.

Qualcosa che non ricordavo.

«Guardavo te Edward, guardavo il tuo riflesso e poi… è successo velocemente. Io… non so cosa… non c’è nient’altro» aggiunsi velocemente.

Lanciò un’occhiata ben distinguibile a Carlisle, che rispose con lo stesso sguardo. Cosa stava accadendo? Fu lui a riprendere per primo il controllo. «Va bene Bella, va bene così. Stenditi per favore».

Le domande seguenti rientrarono nella normalità, tuttavia l’inquietudine che divorava Edward non pareva volerlo minimamente abbandonare, anzi. L’ansia che avevo percepito fino a pochi istanti prima si era tramutata in pura disperazione, muta, spessa. Tanto spessa che cadeva fra noi come una nebbia fitta.

«La cintura ha stretto l’addome?» mi chiese Carlisle mentre mi visitava, tastandomi.

«No» risposi sicura, fissando il soffitto della sua camera.

Annuì. «Ti fa male? Senti formicolio?».

Scossi il capo, stringendo più forte la mano di mio marito con la necessità di sentirlo vicino, mentre sapevo che la nebbia ci divideva sempre più, addensandosi, mettendosi fra noi.

«Contrazioni?».

«Neppure». Feci una pausa, poi aggiunsi «la pancia è sempre stata rilassata, non è mai diventata dura nemmeno un po’».

«Sei stressata ultimamente?» mi chiese con più interesse, mentre mi misurava la pressione.

Sussultai a quella domanda e non risposi. Tuttavia sentii, questa volta, la presa di mio marito farsi più forte. «Forse. Un po’. Per l’università, magari» balbettai.

Carlisle puntò i suoi occhi su Edward. Sospirai, distogliendo lo sguardo, imbarazzata per l’intimità della loro conversazione di cui sicuramente non dovevo far parte. Poi tornò a guardarmi. «Bella, la tua visita sarebbe stata fra due giorni, ti dispiace se la anticipiamo ad adesso? So che non è affatto piacevole, ma vorrei essere più sicuro».

«C’è qualcosa che non va?» chiesi, per la prima volta preoccupata.

Edward mi baciò il capo, ansioso di rassicurarmi. «No amore, avevi ragione tu, non hai niente. Perdonami se sono stato così apprensivo. Ma che senso ha aspettare due soli giorni, potremmo essere più sereni, no?».

Le sue parole e il tono suadente con il quale le pronunciò, mi convinsero, facendomi in parte tranquillizzare. «Sì» mormorai, stringendomi sulla sua spalla. «Però non potremmo fare l’ecografia» dissi rattristata. Aspettavo con ansia di usare quel macchinario per sentire il cuore di mia figlia, tanto che non mi accontentavo mai di chiedergli quanto forte battesse.

Carlisle mi accarezzò una guancia. «Non penso l’avrei fatta, comunque. Se vuoi però ti faccio ascoltare con lo stetoscopio, penso che ormai si possa sentire piuttosto bene. Che ne dici?».

Accettai, ansiosa di sentirla. Volli Edward accanto a me e rimasi per tutto il tempo a guardare i suoi occhi, mentre lui guardava i miei. Come potevo pensare che quegli occhi ambrati mi avessero mentito? Non potevo. Aveva sofferto, e questo era evidente. Ma era anche evidente che continuava a soffrire, per qualcosa che non aveva nulla a che fare con quello che mi aveva raccontato. Qualcosa di cui non voleva rendermi partecipe.

«Stai rilassata Bella, abbiamo quasi finito» mi rassicurò Carlisle, notando, forse, una mia crescente agitazione.

Edward mi fece un sorriso, e mi ci aggrappai con tutte le mie forze, pur sapendo che di autentico aveva ben poco. Ma non riuscivo ad ignorare ogni loro occhiata. Ogni singola volta che si guardavano, era una bugia. Era un segreto che avevano deciso di non dirmi. Perché?

Carlisle mi assicurò che la visita era andata al meglio, che la bambina stava bene, fortunatamente, ma mi raccomandò anche di evitare ogni forma di ansia e stress. Eppure, Edward non pareva più tranquillo.

«Ecco, dai a me, ora lo trovo». Carlisle mi sorrise, facendo scorrere la placca di metallo dello stetoscopio sulla mia pancia. «Qui, lo senti?».

Sentii le ciglia inumidirsi. «Sì, sì. Lo sento» balbettai emozionata. «Oh mio Dio Edward, è bellissimo». Sorrisi, portandomi una mano sulla bocca, sentendo la stessa emozione provenire dalla bambina e fondersi con la mia. Edward mi accarezzò, ma mi sembrava assente.

«Bella, se vuoi puoi rimanere ancora un po’, quanto tempo vuoi. Quando hai finito raggiungici di là, va bene?» fece Carlisle, dirigendosi alla porta.

Anche Edward si alzò. Lo fissai, confusa. Non voleva rimanere? «Stai tranquilla, riposati un po’» disse solo, atono, seguendo in un lampo il padre.

Strinsi le labbra, ma non dissi nulla, pur sentendo un forte peso formarsi all’altezza del petto, schiacciandomi. Non riuscii a non sentirmi sola, quando la stanza fu vuota, mentre l’ansia mi sommergeva nuovamente. Mi rannicchiai in posizione fetale, tentando di calmarmi ascoltando il piccolo cuore di mia figlia battere.

Tumtumtumtumtumtum.  Non gli importava più di me? Allora perché aveva fatto ferro e fuoco per portarmi di suo padre? Perché continuava a nascondermi qualcosa che invece a Carlisle aveva detto, non mi credeva capace di aiutarlo? Perché quella mi sembrava l’unica risposta al fatto che non avesse ancora acconsentito a raccontarmi i suoi problemi. Non tutti, almeno.

Tumtumtumtumtumtum. Forse… forse gli importava solo della bambina, ormai… No. Non era e non poteva essere così. Non potevo essere gelosa di mia figlia, la dovevo smettere di auto-commiserarmi e fare quegli stupidi capricci. Semplicemente non ero abbastanza capace, non per aiutarlo, per aiutare mio marito come lui aveva fatto migliaia di volte con me.

Tumtumtumtumtumtum. Ma mi sentivo così sola, così inutile. Che cosa mi stavano nascondendo? Perché lo stavano facendo?

Mi accorsi di avere da ormai troppo tempo le guance cosparse di acqua salata. Mi strinsi maggiormente su me stessa, inerme, quasi incapace di muovermi. Pregai che non venisse nessuno a vedermi in quello stato pietoso. Ma i singhiozzi rompevano il mio respiro, rendendo il pianto rumoroso. Circondai il petto con le braccia, mentre mi sentivo sul punto di esplodere. Mentre sentivo il vuoto dentro me ingrandirsi e ingrossarsi, occupando tutto lo spazio. Troppo.

Sentii due braccia fredde circondarmi da dietro e mi voltai di scatto per osservare il viso del vampiro. «Bella, cara» sussurrò Esme dispiaciuta.

Non riuscii a trattenermi e mi buttai fra le sue braccia, bisognosa di conforto, riprendendo a singhiozzare senza sosta. Mi sentivo così triste, eppure così mortificata.

«Calma» sussurrò piano, facendomi staccare da lei e aiutandomi a mettermi seduta. Mi prese le mani fra le sue. «Respira, piano, così» disse, imitando il ritmo del respiro che avrai dovuto seguire, onde evitare di avere un attacco di panico in piena regola. «Piano, piano». Posò una mano sull’attaccatura della pancia, aiutandomi.

«Scusami per questa intrusione» disse poi, mesta, quando il mio respiro fu nuovamente regolare.

Mi asciugai gli occhi gonfi e secchi con il fazzolettino che mi aveva dato. «Figurati, Esme. È la tua stanza» mormorai, la voce arrochita dalle lacrime, guardando fisso il copriletto.

«Ti va di parlarne?» mi chiese discreta.

Spostai lo sguardo su un altro punto. «Dov’è Edward?». Perché non era venuto lui? Gli importava così poco ormai?

Esme mi fissò per un istante, sospettosa. «Si è allontanato con Carlisle, verso i boschi». Rimasi in silenzio. «Bella». Sollevai i miei occhi nei suoi. «Edward e Carlisle hanno sempre avuto questo tipo di rapporto. Si conoscono da quasi cento anni, ormai, più di quanto non li conosca io. Hanno condiviso i loro più oscuri e inconfessabili segreti, hanno condiviso il loro essere, hanno condiviso i loro pensieri. Sono molto più di quanto un padre e un figlio, due consanguinei, sarebbero».

Mi strinsi le mani sulla pancia, non riuscendo più a contenermi, non riuscendo più a tacere. «Esme, ho così paura. Ho paura di perdere mio marito, paura che non mi voglia più… con sé» gemetti, portandomi una mano sul viso e stringendo, con l’altra, più forte la pancia, sentendomi profondamente in colpa per le emozioni negative della bambina che mi sferzavano come una frusta.

«Oh tesoro» esclamò abbracciandomi, «calmati, stai calma. Non ti devi agitare così, va bene? Quei due mascalzoni non dovrebbero farti preoccupare così tanto. Sei sempre così in ansia ultimamente, non va bene, sai?» disse preoccupata.

La porta della stanza si aprì, e subito mi ricomposi, temendo che potesse essere Edward.

«Ho sentito» disse Alice, entrando cauta «tutto bene?».

«Alice» sospirai, lasciandomi abbracciare.

«Sempre Edward?» chiese lei, staccandosi da me e scambiandosi un’occhiata con la madre. «Non ha funzionato la tua idea del pianoforte, ho visto. Ma non demordere, vacillerà».

«Non lo so Alice, non so più se…» mi nascosi il volto fra le mani, tentando di reprimere una nuova ondata di lacrime. Aspettarono il tempo necessario per farmi riacquisire il controllo di me stessa, poi mi fissarono dispiaciute, mentre mi asciugavo gli occhi.

Esme mi passò un altro clinex «Bella. Ne parlerò con Edward, sono sicura che non sta…».

«No!» presi un respiro «no, ti prego Esme, ti prego, non dirgli niente. Non voglio farlo preoccupare. Vi prego, vi prego, non fategli sapere niente di tutto questo, vi prego!» non volevo fare stupidi capricci, facendo intervenire sua madre, magari, facendolo sentire in colpa. «Non è colpa sua, in fondo, se…» deglutii «non si fida più di me, se non mi vuole più».

«Oh Bella».

«Non dire così, cara».

Mi sentii incredibilmente frustrata. «Mi ha mentito, capite? Mi ha mentito. Siamo sposati, accidenti. Io lo amo, dice di amarmi, ma… mi ha mentito!» sbottai concitata. «O almeno, non mi ha detto tutta la verità».

Alice mi strinse le mani fra le sue, fissandomi negli occhi. Lo stesso fece Esme. «Tesoro, se Edward si sta comportando così, è proprio perché ti ama, e in un modo o nell’altro sta agendo per il tuo bene, ne sono sicura».

Restai in silenzio, lasciando che le parole strisciassero nella mia coscienza e cominciassero a cozzare contro i miei dubbi. «Io… non so» biascicai, pur convita che le parole della dolce vampira avessero più che un fondo di verità.

«Bella» ricominciò. «Osserva il comportamento di Edward, con calma. Non è possibile che non ti ami, era così preoccupato per te, prima».

«Era preoccupato per la bambina» dissi in un sussurro, confessando i miei oscuri timori, vergognandomi delle mie stesse parole.

«No, tesoro, no. Lui era preoccupato per te. Non hai visto come ti guardava?».

Fissai Esme, poi Alice. Infine abbassai lo sguardo, ricordando l’espressione sul suo volto. «Sì, è vero, mi ama ancora» feci una pausa. «Ma mi ha anche mentito, quando io gli ho chiesto se ci fosse qualcosa che non andava, perché, evidentemente, qualcosa che non va c’è, e non ha quasi niente a che fare con quello che mi ha risposto lui!» esclamai, sempre più in ansia «Questo vuol dire che è inutile che io tenti di aiutarlo, perché lui già sa che non ci riuscirò, che non sarò capace di farlo! Per questo non si confida con me!».

«Oppure perché non vuole farti soffrire» puntualizzò Alice.

Sollevai di scatto la testa, fissandola. «Tu sai?».

Sollevò entrambe le braccia, in segno di difesa. «No, no, io non so niente, mi dispiace!» si affrettò a rispondere «ultimamente ho anche troppi buchi neri. Ci ho provato, ma non ho visto niente».

Sospirai, credendo alle sue parole sincere.

Alice osservò per un istante la madre, che si alzò dal letto. «Hai fame cara? Che ne dici di mangiare qui? Sarai così stanca».

Non avevo fame, anzi, sentivo la classica inappetenza da stress, ma lei non volle sentire ragioni e trasformò quella che era una domanda in un ordine, andando a cucinare per me.

La mia sorellina mi accarezzava i capelli, scrutandomi e rassicurandomi. Mi sentivo molto intontita per via delle lacrime, ma provavo a non piangere ancora per evitare che fosse troppo evidente a Edward. Anche se più di tanto non avrei potuto nasconderglielo.

Alice mi distrasse dai lenti pensieri che scorrevano nella mia testa, tutti volti a tentare di auto-convincermi delle parole rassicuranti di Esme e Alice. «Ancora niente, con Edward…?» chiese, lasciando cadere la domanda.

Mi voltai a fissarla, stranita. Negli ultimi tempi ci avevo pensato molto, ma poi il problema della ragione della tristezza di Edward aveva prevalso nella mia mente rispetto al lato fisico. Abbassai nuovamente il capo, ancora nello sconforto. «No, niente. Vedi che ho motivo di dire che…».

«No, no, aspetta. Esme ha ragione, lui lo fa perché ti ama, in ogni caso. Ma… insomma. Non si confida con te perché ha paura di sarti stare in ansia con i suoi problemi, anche se è uno zuccone e non capisce che così ti fa solo stare peggio. Ma pensaci» disse, puntando il suo volto minuto e luminoso nel mio. «Pensa, magari, se tu gli facessi capire che sei abbastanza forte da sopportare anche i suoi problemi… Insomma. Fagli vedere che non hai paura di nulla! Fagli vedere che tu sei serena e che può confidarsi! Ricordagli che lo ami. Offriti a lui» disse, facendomi l’occhiolino, pur mantenendo la massima serietà.

«Alice» biascicai, accoccolandomi maggiormente su me stessa. Era assurdo.

Vidi i suoi occhi grandi davanti ai miei. «Pensaci. L’amore fisico è qualcosa di importante, soprattutto per i vampiri. Potrebbe essere un solidissimo collante. A meno che…» mi lanciò un’occhiata «non vada a te».

Sorrisi, amaramente sarcastica. «Vado a mangiare» mormorai, ignorando le sue parole.  

Dovetti mangiare tutto quello che mi aveva preparato, sia perché me lo aveva ordinato Esme, sia perché sentivo un forte senso di dovere nei confronti di mia figlia, che, povera vittima innocente, doveva sorbire ogni istante il mio pessimo umore e i miei assurdi pensieri gelosi. E poi… volevo arrivare al dessert. Ne avevo voglia, con una proporzione diretta alla negatività del mio stato d’animo.

Affondai il cucchiaio nel gelato limone e fragola, come se lo stessi accoltellando. Avevo incuneato il barattolino fra le mie gambe, piegate, e la mia pancia. Lo mangiai con gusto, tentando di scacciare la depressione. Gli zuccheri mi tiravano su e forse, forse, avrebbero potuto farmi riflettere.

Edward mi amava, ancora. Voleva proteggermi da tutto, ancora. Perché ancora pensava che fossi una piccola e fragile umana. Sospirai, affondando ancora il cucchiaio, dando un’altra pugnalata agli zuccheri.

Dovevo dimostrargli il contrario?

Sollevai gli occhi dal dolce, portandomi il cucchiaio alle labbra.

In quel istante incontrai gli occhi ambrati di mio marito, accovacciato appena davanti a me.

Dopo un secondo lo lasciai cadere dalla mia mano, lanciandomi con le braccia al suo collo e stringendolo con tutta la mia forza.

Dovevo dimostrargli il contrario.

   
 
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