Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Yoko Hogawa    22/12/2009    9 recensioni
Abrahel è un dio della morte particolare. Affetto da una feroce intolleranza agli umani e da un disprezzo spiccato della loro razza, nell'ambiente è conosciuto come lo Shinigami delle anime oscure, il messaggero di morte per gli esseri umani pregni di malvagità.
Eric è un ragazzo come tanti altri. Studente di letteratura e nuotatore agonistico, si trova molto spesso in situazioni non esattamente tranquille grazie ad amicizie non proprio giudizievoli.
Ma il destino ha deciso di giocare con loro una partita strana ed orrenda, dal significato nascosto ma dalla crudeltà evidente.
Entrambi si troveranno improvvisamente fra le mani un problema più grosso di loro.
Quel problema, si chiama Joshua Archer.
[Linguaggio colorito][Dedicata a Shichan]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il personaggio di Noah Keynes non è di mia proprietà, ma è una creazione di Shichan. Non lo uso contro il suo volere, mi ha dato il permesso U.u
Questo penultimo capitolo mi è stato ispirato da un duetto di Jordin Sparks e Chris Brown, che però io ho ascoltato cantato dal cast del telefilm “Glee”. Il titolo è “No Air”, e la consiglio a tutti, perché è veramente bella.
______________________________________________________________________________________________________

 

Friday

Abrahel & Eric
Midnight

 

{Abrahel}

Gli carezzava i capelli, lentamente.
Solamente con la punta delle dita, in un gesto divenuto automatico dopo solo qualche istante, passando i polpastrelli fra i morbidi fili castani ancora umidi dalla doccia.
Era incredibilmente... semplice, quel movimento.
Non era niente, a ben vedere: una piccola carezza, una banale dimostrazione d’affetto.
Eppure, anche solo così, si sentiva bene. In pace con se stesso, e in pace con il mondo per la prima volta da molto, molto tempo.

Pace. Una parola che per lui non aveva significato mai nulla se non una specie di utopia irraggiungibile.
Si era sforzato, di tendere le mani verso quell’illusione. Talmente tante volte che aveva perso il conto, e con esso anche la voglia di rincorrere quella “pace” che ogni volta sfuggiva via, sempre un passo avanti a lui.
Finché non si era arreso all’evidenza che non avrebbe mai sfiorato quel bellissimo sogno. Fino a pensare di non esserne destinato, nonostante per lui il fato fosse un concetto molto relativo.
Abbassò lo sguardo su Eric, disteso sul letto fra le sue gambe, girato sul fianco sinistro. Sentiva il dolce peso della sua testa sul petto, così come il calore della sua pelle attraverso il tessuto dell’accappatoio bianco che indossava come unico indumento; similmente percepiva il fastidio della testata del letto piantata sulla propria schiena, ma non vi badò assolutamente.
Non si sarebbe mosso mai, di lì. Se avesse potuto farlo, non avrebbe nemmeno respirato pur di non far spostare Eric da quella posizione, così tranquilla ma tuttavia così intima.
Era così vicina, la pace. A qualche passo, qualche metro più in basso rispetto all’aldilà.
Aveva i capelli castani e gli occhi della tonalità del caldo legno. Aveva un’anima talmente candida da far impallidire i santi, e una sensibilità fragile come il cristallo, degna di ogni protezione.
Si chiamava Eric Everald, la “pace”, e stava riposando fra le sue braccia.
Aggrottò la fronte, fermando d’istinto la mano.
Lui non poteva proteggerlo. Da nulla. Tantomeno da lui stesso.
Lo avrebbe ucciso quella notte. Lo avrebbe ucciso stringendolo fra le braccia proprio come in quel momento; avrebbe visto la luce spegnersi, i suoi occhi velarsi e poi chiudersi, il suo sorriso svanire pian piano.
Ma in quel momento, in quel lieve battito di cuore che a malapena percepiva attraverso gli abiti e la pelle, percepiva la propria esistenza come vera vita. Non sopravviveva in quel momento, no... stava vivendo, e c’era un abisso a dividere i significati delle due parole.
Ma con essa, sopraggiunse la consapevolezza di non potersi più privare di lui. Di non poter più portare a termine il compito che gli era stato assegnato.
Non ne aveva più... il coraggio.

« Joshua? » sussurrò Eric, attirando la sua attenzione: « cosa c’è? » domandò poi, alzando lo sguardo.
La voce era ancora flebile, gli occhi rossi. L’espressione era decisamente stanca, quasi sfibrata, e la colpa era quasi sicuramente di tutte le lacrime che aveva versato nel tragitto verso casa, poi sotto la doccia, poi di nuovo fra le sue braccia. Consumate finché ne aveva, finché i suoi occhi ne ebbero abbastanza.
Piangere... chissà com’era. Chissà se faceva... male.
Sorrise, e non dovette sforzarsi più di tanto. Non voleva far pesare nient’altro sulle spalle del castano, tanto meno i propri pensieri egoistici nei suoi confronti.

« Nulla » sussurrò a sua volta, come per rispetto al tranquillo silenzio che li avvolgeva: « stai meglio? » domandò poi, passando con delicatezza il pollice sulla gota dell’altro, sentendola ancora umida.
Il castano annuì contro la sua maglia.
« Mi fanno male gli occhi » disse solamente, il tono appena strascicato.
« Non fatico a crederlo... » rispose lui, distaccando la schiena dalla testata del letto nel tentativo di alzarsi: « vado a prenderti un po’ di ghiaccio, magari si sgonfiano un po’ » aggiunse nel mentre.
Eric annuì di nuovo, lasciando che si alzasse e uscisse dalla camera. Abrahel – no, Joshua, ormai. Solo Joshua – percorse lentamente l’appartamento, sentendo solamente il rimbombo dei suoi piedi sul parquet.
Si concentrò per non pensare, bloccando qualsiasi suo pensiero per la prima volta in millenni.
Non voleva... vedere l’ovvietà.
Sarebbe successo. Girarci attorno non serviva.
L’attesa, ora, era il suo chiodo, la sua spada di Damocle. Ventiquattro ore.
Anzi, ormai ventitre e mezzo.
Un giorno. Che per lui era un intero giorno, mentre per Eric solo un giorno.
Einstein non si era sbagliato, parlando di relativismo. Le cose erano veramente relative ai diversi punti di vista da cui venivano esaminate.
Aprì il freezer, estraendone il contenitore in plastica per il ghiaccio. Le sue mani non provarono dolore al freddo pungente, così come non reagirono quando i polpastrelli delle dita toccarono in ghiaccio stesso, rimanendovi attaccate.
Poteva fingersi umano, ma non lo sarebbe mai stato. Così come poteva fingere di voler portare a termine il suo lavoro sapendo che non ne aveva più la minima intenzione.
Sapendo che avrebbe mandato a fanculo il mondo senza tanti complimenti, per salvare lui.
Nell’aprire l’acqua del lavello, aggrottò la fronte affranto dai suoi stessi pensieri.
Era “amore”, quello? Beh... se era l’amore, faceva un male fottuto.

Tornò in camera qualche minuto dopo, tenendo in mano un asciugamano in cui aveva avvolto il sacchetto di plastica contenente il ghiaccio.
Non sarebbe stato un ottimo rimedio, ma almeno sperava che avrebbe sgonfiato un po’ i suoi occhi. Faticava a tenerli aperti da quanto erano stati bistrattati, e a giudicare dal rossore dovevano anche bruciare.
Si sedette sul letto al suo fianco, passandogli l’involucro con la parte fresca girata verso il basso. Eric lo afferrò, in silenzio, e sempre silenziosamente se lo appoggiò sugli occhi chiusi.
Un solo sospiro prima di vederlo cadere di schiena sul materasso. Abrahel lo seguì con lo sguardo ma non fece e disse nulla.
Semplicemente, non sapeva che dire. Qualsiasi parola suonava ipocrita, anche se il silenzio sembrava piombo dal quanto era pesante.
Decise per la cosa più semplice, e la più idiota.
« Stai meglio? » domandò cauto, cercando di nascondere l’ansia provocatagli dai suoi continui ed inconcludenti pensieri.
Lo osservò annuire appena sotto il manipolo di tessuto bianco.
« Meglio, sì... » sussurrò, anche se non sembrava esattamente convincente.
Tuttavia si fidò, credendogli sulla parola. Si limitò a scostare lo sguardo da lui, puntandolo su un angolo qualsiasi della moquette. Solamente una settimana prima, se Dio in persona gli si fosse presentato davanti dicendogli che si sarebbe... innamorato – suonava ancora strana quella parola associata a se stesso – probabilmente gli avrebbe riso in faccia. A Dio. Sì, anche a Lui.
Ma era successo, stava succedendo anche in quel momento. Ed era combattuto, lacerato dal risentimento verso se stesso, e verso Enma, e verso il Destino, e verso tutti, tutti, nessuno escluso.
No, tranne Eric. Tutti tranne Eric, che di male non aveva fatto nulla se non avere sfortuna.
La sfortuna di avere incontrato uno come lui.
Chiuse gli occhi, massaggiandoseli con la mano destra. Sentì un fruscio alle sue spalle ma, prima che potesse voltare il capo per vedere se Eric aveva bisogno di qualcos’altro, le mani dell’altro si aggrapparono alla sua maglia e percepì la sua fronte appoggiata fra le scapole.

« Josh, cosa c’è che non va? » domandò Eric a voce bassa, come se fosse la cosa più importante del momento.
Quel ragazzo doveva rivedere la lista delle sue priorità.
Girò appena il capo in sua direzione, rimanendo in silenzio qualche istante ancora.
« Non voglio... ucciderti » non poté esimersi dal rivelare, corroso dal tormento che quella decisione stava comportando.
Eric rimase silenzioso dietro di lui, le mani sempre strette alla stoffa sulla sua schiena.
Un fremito, indecisione.
« Ti metti nei guai se non lo fai? » domandò poi, mormorando lentamente quelle parole.
Non avrebbe dovuto dargli una speranza inesistente. Non avrebbe dovuto illuderlo a quel modo.
Decise di mentirgli, però. Perché da qualche parte dentro di sé sapeva che Eric avrebbe reagito male, se avesse risposto un “sì, ci affogherei, nei guai”; ovvero se avesse detto la verità.
Anche se non lo sapeva con esattezza cosa capitasse, a chi si rifiutasse di uccidere. Nessun Shinigami si era mai tirato indietro da che il mondo esisteva, dunque non aveva precedenti con cui avere anche solo un minimo raffronto.
In ogni caso, non era niente di bello. Almeno quello era chiaro.

« No » rispose dunque, mentendo. Ma non ci credeva nemmeno lui, alla sua menzogna.
« E’... una bugia? » chiese infatti Eric, il tono di voce sempre più basso. Più triste.
Esitò:
« ...no » rispose, rendendo palese l’inganno.
Non era più capace di raggirarlo. Non poteva sopportare di farlo.
...Incredibile quanto i sentimenti potessero averlo cambiato.
Si sentì abbracciare; le mani di Eric passarono in avanti dai suoi fianchi, posandosi con gentilezza sul suo petto. Percepì la schiena a contatto con il petto dell’altro, i battiti del cuore che rimbombavano nel suo torace vuoto riempiendolo di vita.
Lo sentì respirare, e si concentrò su quel respiro. A volte veniva trattenuto, altre rilasciato in lungi sospiri, ma tutto sommato era tranquillo e... piacevole, sentire il suo fiato sulla nuca.
Prese fiato – poté sentirlo – e sussurrò:
« non mentirmi ».
Abrahel chiuse gli occhi, portando la sinistra ad afferrare una delle mani di Eric sul proprio petto. Non si scusò, né smentì, ma quel gesto conteneva tutti i significati del caso e non c’era niente da aggiungere.
Rimasero così in silenzio per un tempo che sembrò infinito, anche se forse passarono solamente pochi minuti. Fu poi di nuovo il castano ad interrompere quella specie di stallo.
Lo sentì allentare la presa fino a sciogliere l’abbraccio, portando nuovamente le mani dietro di lui. Poté catturare con l’udito un fruscio, probabilmente l’accappatoio che veniva slacciato ed abbandonato da qualche parte sul letto, poi la mano si posò sulla sua spalla facendo una lieve pressione, chiedendogli silenziosamente di girarsi.
Obbedì. Se non altro perché era una richiesta di Eric, anche se non espressa verbalmente.
La pelle nuda della sue spalle sembrava essere compatibile con la luce della luna, che la sfiorava come fosse morbida seta. Facendola sembrare tale, per di più.
E lui sapeva che era vero, che la Luna non esagerava a farla apparire tale. Perché l’aveva accarezzata, e baciata, e sfiorata con le labbra e le mani fino ad ubriacarsi, di quella pelle.
Non poté trattenersi dall’allungare la mano, saggiando solo con i polpastrelli quella morbidezza; lasciandoli scivolare sulla clavicola, lievemente, lentamente, in un tocco a malapena accennato.
L’accappatoio era abbandonato sulla sue gambe, completamente slacciato, e copriva solamente in parte il suo corpo nudo. Abrahel poté vedere i muscoli delle gambe piegate, osservarne rapito la consistenza quasi violenta in contrasto con le forme armoniche delle braccia e dei fianchi, ma soprattutto delle mani.
Portò lo sguardo al volto di Eric, cogliendone la leggera nota rossastra sulle gote. Imbarazzo; sembrava un sentimento che caratterizzava i rapporti intimi dell’altro, mostrandolo a chi gli stava vicino illuminato come da una luce soffusa che faceva tenerezza.
Teneva lo sguardo basso, Eric. Non si lasciava scrutare per paura di mostrare le sue debolezze quando, con la morte fatta persona davanti, non ve ne era nemmeno bisogno.
Quando Abrahel aveva imparato a memoria ogni sua reazione, ed espressione. Ogni suo respiro, o sospiro, e sbuffare seccato. Quando aveva ascoltato persino il più roco dei suoi gemiti e percepito il piacere in ogni suo muscolo riflesso nel proprio corpo, catturato dalla sua vita e ad essa incatenato.
Conosceva ogni cosa... persino come dovevano sembrare quegli occhi che ora li teneva nascosti facendo un torto al mondo.
Ma non parlò. Lasciò il tempo al castano di esprimersi come meglio preferiva, di dire le parole che preferiva quando gli era più congeniale.
Lasciando scorrere istanti che sembravano ore in quel silenzio, in quei respiri.

« Josh, potresti... » cominciò Eric, sottovoce: « ...vorresti... » si corresse, indeciso: « ...fare l’amore con me? » domandò infine, pronunciando quelle ultime parole lentamente nonostante l’imbarazzo tangibile di cui era venata la sua voce.
Sorrise, Abrahel, nel sentire quella richiesta. Malinconicamente, sorrise.
Ma non era come lo voleva.

« Guardami negli occhi » disse solamente, aspettandosi la reazione.
Le spalle di Eric si irrigidirono, e il dio della morte poteva quasi leggere i pensieri che vorticavano in quella mente tutta particolare: stava paragonando quella richiesta ad una sorta di rifiuto, oppure al fatto che non volesse più ripetere l’esperienza. Per quello non si mosse, probabilmente.
Ma Abrahel non si scompose, se lo era aspettato. Con la voce più tranquilla, ripeté la richiesta:
« Eric, guardami negli occhi » sussurrò divertito, immobile mentre aspettava.
Eric alzò il capo, puntando le iridi castane sulle sue bianche. Riflettevano imbarazzo, sì, ma mescolato ad esso c’era un mare di altri sentimenti, sensazioni che un essere come lui non poteva descrivere.
Ma sapeva che c’erano. Vedeva che erano lì nascoste; in fondo all’anima, in fondo al cuore.
Sorrise; un evanescente incurvarsi di labbra.
« Ora, chiedimelo di nuovo » esordì mormorando piano.
Vide il panico serpeggiare in quegli occhi. Poi una sorta di vergogna, mescolata al tentativo blando di cambiare idea e lasciar perdere.
Lui aspettava, attendeva. Sapeva che la richiesta era sincera -  lo aveva sentito chiaramente dalla voce e dal modo tutto suo di frapporre il silenzio alle parole – ma voleva che anche i suoi occhi glielo domandassero.
Voleva scrutare dentro di essi, con occhi da umano, la bianca luce della sua anima riflettersi in quel desiderio.
Il castano prese fiato una volta, due volte... e alla fine esalò la sua richiesta:
« ti andrebbe... di fare l’amore con me? » chiese, resistendo all’istinto di abbassare lo sguardo ed interrompere il contatto fra i loro occhi.
Per una sorta di ridicolo pudore, pensò Abrahel. Un pudore beffardo, che gli impediva di avere quegli specchi d’anima solo per sé.
Il moro alzò la mano destra, adagio, sfiorando con il pollice le labbra di Eric per poi scendere lungo il collo; e proseguire sulla gola, lungo lo sterno, sullo stomaco. Saggiando in quell’effimero contatto la pelle, i brividi, i respiri.

« Eric, la mia vita non vale niente » cominciò a dire in un filo di voce, il necessario perché risuonasse forte e chiaro: « sono un servo del Destino, una delle tante mani della Morte, e per tale motivo non credo che la mia si possa effettivamente definire “vita”. Il significato stesso del vocabolo, improntato su uno come me, causa un controsenso di fondo » una pausa, breve. Un momento sufficiente per far sì che gli occhi castani di Eric si posassero su di lui, attenti, desiderosi di interromperlo per dissentire.
Ma Abrahel continuò comunque. C’erano cose che sentiva fosse giusto dire.
Allungandosi verso di lui posò le sue labbra sulla spalla, succhiando appena la pelle sottile di quel punto. Era sufficientemente vicino da far sì che potesse semplicemente sussurrare, per farsi sentire.

« Non valgo nulla, su questo mondo. E non capisco ancora molte cose, ma... » una pausa, un altro bacio: « ...per le prossime ventiquattro ore, la mia esistenza ti appartiene » bisbigliò.
Sentì Eric trattenere il respiro, sussultare appena. Avvertì la sua mano farsi strada sotto la maglia, cercando la pelle, il contatto diretto. Deglutì, sospirando piano, come se avesse paura che  tutto fosse sparito se solo avesse soffiato un po’ più forte.
Le labbra di Abrahel ripresero a danzare sulla sua pelle, le dita a toccare punti strategici, nascosti a chiunque tranne che a lui. Lo sospinse all’indietro ed Eric, chiudendo gli occhi, seguì docilmente quel movimento, concedendosi a lui totalmente, anima e corpo e fiato e pensieri.
Uniti nel tutto, uniti nell’uno.

{Eric}

Giocava con la sua mano, intrecciando e sciogliendo le loro dita, carezzandone il dorso con il pollice.
Lui sorrideva di quel gesto, non riuscendo ad evitarselo.
L’acqua della vasca era calda, e i vapori di quel calore aleggiavano ancora per il bagno come una fine foschia, appannando lo specchio sopra il lavandino e rendendo opache di condensa le manopole argentate.
Ogni tanto, una goccia cadeva nell’acqua infrangendo il silenzio.
Che non era vero silenzio. Perché c’erano i loro respiri, le loro mute risate, i fruscii delle loro pelli a riempirlo.
Era tutto un insieme di percezioni. Un sovraccarico di sensazioni che proveniva da ognuno dei cinque sensi.
Il tatto percepiva il tempore del petto di Joshua contro la sua schiena, la sue gambe piegate contro le proprie, il fiato dei suoi lenti respiri sul collo. Poteva percepire i propri capelli bagnati aderire alla nuca, così come avvertiva il solletico causato da quelli di Joshua quando si chinava a baciargli il collo, lievemente, dolcemente.
La vista vedeva le loro mani congiunte, e i giochi, e le carezze delle loro dita le une sulle altre. Vedeva l’acqua arrivare appena sopra le sue spalle, lasciando scoperte quelle del moro dietro di lui, che però non aveva freddo.
L’udito percepiva il silenzio imperfetto ed i piccoli rumori che lo riempivano. Così come sentiva i sospiri lievi del ragazzo dietro di lui, e le sue brevi risate fatte solo di respiri.
Il gusto era rimasto immobile in un tempo ormai trascorso, fermo a quella notte. Aveva ancora sulla lingua il sapore della sua pelle, delle proprie lacrime, del loro sudore.
L’olfatto era stuzzicato dall’odore di sapone disciolto nell’acqua, galleggiante nell’aria. Profumo di pulito, lo stesso che avevano i capelli di Joshua.

Un’overdose.
E quella notte non era stato diverso. Tutto aveva avuto senso in quella dolce confusione, nell’ebbrezza, nell’eccitazione.
Il piacere che aveva provato e tutto ciò che aveva sentito... aveva percepito Joshua veramente, interiormente, completamente. Lo aveva accolto dentro di sé fino a sciogliersi per poi fondersi con lui, nel più recondito dei significati; si erano divorati l’un l’altro fino a far scontrare le loro ossa le une contro le altre.
Nonostante l’altro non avesse mai sfiorato le sue labbra. Nonostante fosse il sapore del suo bacio, quello che ancora mancava per completare il quadro.
Era come dover dipingere la neve senza il bianco.
Decisamente... sfibrante.

« Cosa intendi fare oggi? » la voce del dio della morte gli arrivò dolce alle orecchie, svogliata, come se nemmeno lui avesse voluto interrompere quella magia.
Eric, la testa appoggiata sulla spalla dell’altro, mugugnò appena.
Non ci aveva pensato.
Molte volte, o almeno una nel corso della vita, ci si chiede cosa si farebbe se la fine fosse vicina.
Se si cercherebbero di esaudire i desideri, o i propri sogni. C’è chi sceglierebbe il tepore della famiglia, e chi il calore di una donna.
Lui... sì, se lo era chiesto, un giorno. Inconsciamente forse, si era domandato cosa avrebbe voluto fare nei suoi ultimi giorni.
Ma la domanda era scivolata via come acqua dal suo cervello, perdendosi in qualche cassetto della memoria che poi era stato chiuso e la chiave gettata via.
Cosa si fa, l’ultimo giorno di vita? Come si vive, cosa si pensa, quali sono i rimpianti che affollano la mente?

« Voglio un appuntamento » esordì all’improvviso, facendo così tabula rasa della sua mente.
Nessun rimorso, nessun ripensamento. Basta. Solo Joshua, solo lui, perché era la cosa più bella e la più dolorosa al contempo. E la più calma, la più pacata, la più tranquilla.
Voleva ubriacarsi di lui, perché non ne aveva ancora abbastanza. Voleva dimenticare se stesso, in lui.

« Mh... » lo sentì mugugnare: « ti devo confessare che non so cosa sia » disse poi, la voce calma che scivolava lenta sulla sua pelle, facendogli nascere una risatina spontanea.
« E’ una giornata che passi in compagnia della persona che ti piace. Si fanno diverse cose, si passeggia, si pranza, si va al cinema... è un giorno normale » spiegò brevemente, guardandolo con la coda dell’occhio.
Lo vide inclinare appena il capo, fissando con le iridi candide un punto qualsiasi delle piastrelle.
« Va bene » acconsentì poi: « accetto la sfida » scherzò lievemente, sbeffeggiando la sua stessa ignoranza.
Eric sorrise allegro.
« Da dove possiamo iniziare? » cominciò poi, lanciandosi con la mente a programmare la giornata.
Non voleva niente di banale, ma non sapeva cosa uno come Joshua avrebbe potuto definire “banale”. Non aveva raffronti, né misure, né esempi per poter fare confronti.
Si rese conto improvvisamente che del moro sapeva tutto, ma al contempo non sapeva nulla.

« Mi sono appena reso conto che non so cosa ti piace fare... » sussurrò, fissando una mattonella con la fronte aggrottata: « anzi, che so pochissimo di te » aggiunse, quasi contrariato da quella sua stessa lacuna.
Dietro di lui, Joshua sospirò piano.
« Non c’è da sapere molto più di quello che sai già » giocò con le parole.
Eric lo guardò con la coda dell’occhio, curioso: il moro aveva puntato le iridi sulle loro mani ancora intrecciate e appariva concentrato esclusivamente su di esse.
Aveva tutto il sapore di una risposta elusiva.

« Ma c’è » sentenziò lui, insistendo. Non era una di quelle persone che mollano la pezza. « Per esempio, cosa fai di solito? » chiese distrattamente, andando a disegnare con la mente trame inesistenti nei disegni della tenda di plastica appesa sopra la vasca.
Fu per quella distrazione, forse, che la risposta di Joshua gli gelò il sangue nelle vene.

« Cerco di annullarmi » disse il moro, il tono piatto ed inespressivo; vero.
Staccandosi dal suo petto si girò per poterlo vedere bene negli occhi.
Erano sinceri. No, non mentiva.

« Cosa... vuol dire? » domandò controvoglia, sapendo in cuor suo che avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere quella risposta. Che non gli sarebbe piaciuta.
Joshua lo guardò per un istante, in silenzio, ed Eric capì che anche il moro aveva pensato la stessa cosa. Tuttavia rispose comunque, come se lo stesse assecondando apposta. Come se lo stesse facendo solo perché... perché era l’ultimo giorno.

« Noi Shinigami scompariamo, se non assimiliamo energia vitale per un po’ di tempo. Io semplicemente aspetto. Dormo un sonno privo di sogni, immerso nelle tenebre di un luogo cosparso di nulla, e aspetto » spiegò.
Per un qualche motivo che ancora doveva riconoscere, il castano si sentì pesantemente seccato. No... offeso.

« Quindi tu vuoi... morire? » chiese nuovamente, assottigliando gli occhi.
Il moro lo guardò distrattamente, poi negò appena con il capo. Il sollievo per Eric, però, durò fin troppo poco:
« si può dire così, ma non è la stessa cosa. Noi non moriamo... scompariamo totalmente. Ci addormentiamo e poco dopo di noi non rimane niente, nemmeno la polvere. Forse solo il ricordo » precisò ligio e accondiscendente.
Era la stessa cosa.
La morte non era annullamento? La morte non era scomparsa? Anche di lui sarebbe rimasto solo il ricordo, quando il suo corpo sarebbe stato sepolto sei piedi sotto terra a marcire insieme ai vermi in una cassa di legno foderata di seta!
E lui veniva a dirgli di voler morire, lui?! Lui che lo avrebbe ucciso, lui che avrebbe interrotto la vita a cui stava cercando di tenersi aggrappato da quando era nato, lui che non sapeva niente di cosa volesse dire vivere nel significato più recondito del termine?
La voglia di fargli del male, di scaricare la rabbia, fu troppo forte. Lo colpì, facendo vibrare lo schiaffo nell’aria immobile della stanza, espandendone il rumore acuto lungo i muri.
Non seppe se Joshua se lo stesse aspettando o fosse riuscito a coglierlo totalmente di sorpresa; semplicemente lo ignorò altamente.

« Ipocrita » sputò velenoso, arrabbiato, tradito: « proprio tu vieni a dirmi di voler morire quando non puoi nemmeno farlo... e me lo dici quando io sto per morire, io che non voglio morire! IO NON VOGLIO MORIRE, PORCA PUTTANA! » urlò, lasciando che la sua voce rimbombasse per la stanza e ferisse i timpani.
Un silenzio pesante calò fra loro dopo quello sfogo, questa volta totale e completo. Nemmeno i suoi respiri accelerati sembravano abbastanza rumorosi da poterlo riempire e spezzare.
Il dio della morte non si mosse. Stette semplicemente immobile a guardarlo serio, la guancia pallida che si stava pian piano tingendo di un rosso spento. Chiuse poi gli occhi in un sospiro e fu proprio in quell’istante che Eric si pentì del gesto.
Non era colpa di Joshua. Non era colpa sua. Ognuno desidera ciò che vuole, e...
Stava per dire qualcosa, ma il moro si alzò e uscì dalla vasca. Il corpo decisamente troppo attraente fu velocemente rinchiuso in un accappatoio e, senza dire niente, uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.
Era uno stupido.
Si alzò a sua volta, afferrando in fretta il secondo accappatoio e uscendo fuori a sua volta. Una rapida occhiata all’appartamento gli fece rendere conto che l’altro era in camera da letto; vi entrò, trovandolo di fatti intento ad abbottonarsi una camicia nera a mezze maniche, i jeans scuri appena infilati ancora slacciati.
Gli dava le spalle. Si sentì in colpa.

« Joshua... » chiamò da sulla soglia, piano. « Mi dispiace, io non volevo dire... sono solo... »
« Io sono stanco, Eric » lo interruppe il moro, la voce profonda. « Esausto. Stanco di veder mutare questo mondo in peggio ad intervalli regolari. Stanco di svegliarmi dal nulla per cadere in un altro tipo di nulla, stanco della consapevolezza di dover uccidere per continuare ad esistere anche se la mia esistenza non vale niente. Stanco... stanco di stringere fra le mani qualcosa illudendomi che durerà, per poi perderla inevitabilmente » disse, girandosi piano. Il suo sguardo esprimeva un tormento talmente grande, quegli occhi bianchi così addolorati, che il castano credette di non aver mai visto nulla del genere sul volto di nessuno.
Quelli erano occhi millenari. Non vi era altro termine per descriverli.

« Da quanto...? » domandò Eric, facendo due passi avanti: « da quanto esisti? » completò la domanda sottovoce.
Evitò il verbo “vivere” per una sorta di sottile rispetto.
Gli occhi di Joshua si chiusero, e sembrarono quelli di un vecchio reduce di guerra che rivive ancora una volta il suo combattimento sul campo.

« Non me lo ricordo. E’ passato troppo tempo, credo » rispose, afflitto. Ma era un tipo di afflizione stanca, provata, così antica da aver perso ogni traccia di dolore.
Il castano deglutì, ricoprendo velocemente la distanza che li separava fino ad abbracciarlo, affondando il volto nell’incavo fra la spalla e il collo. Joshua rispose al gesto, stringendolo a sé.

« Scusami... » gli sussurrò Eric all’orecchio, ma venne anticipato.
« Perdonami » si scusò Joshua, mormorando piano. « Non avrei dovuto parlare di queste cose, non era il caso. Non volevo farti arrabbiare » soffiò.
Eric si strinse di più a lui, chiudendo le mani sulla stoffa della camicia nera finché non gli fecero male le dita. Perché non prima? Perché non aveva potuto incontrarlo in un’altra situazione, in un altro tempo, in un altro modo?
Dipendere dal suo carnefice senza che fosse tale. Amarlo senza che ciò significasse desiderare la Morte. Avere quelle piccole gioie di cui si era privato, come vederlo dormire, o sentirlo sognare. Assaggiare le sue labbra senza che gli fosse proibito; passare le serate così, solo baciandosi, ridacchiando a qualche battuta idiota o sorridendo alla pace che sicuramente quei momenti avrebbero avuto.
Stare con lui senza l’inquietudine, l’ombra della mezzanotte a gravare su di loro.
Su di lui.

« Vestiti » gli sussurrò il dio della morte, posandogli un leggero bacio sulla tempia: « vado a prepararti qualcosa per colazione » aggiunse, sciogliendosi dall’abbraccio per dirigersi in cucina.
Eric annuì, guardandolo uscire con la coda dell’occhio.
Se solo fosse stato un essere umano...

{Abrahel}

Lui non amava particolarmente la folla.
Per una questione sì di sopportazione, ma anche per problemi tecnici legati alla sua natura di Shinigami.
Vedeva le anime della gente che gli passava accanto, sul viale principale della città; e questo significava essere circondati da un manipolo di luci di varie tonalità di grigio. Una cosa decisamente deprimente.
Solamente l’anima di Eric, al suo fianco, brillava candida e calda. Poteva sentire la lieve energia che emanava anche senza impegnarsi, semplicemente sulla pelle, percependone l’onda gentile.
Una sensazione che era aumentata pian piano, col tempo. Era quasi sicuro, adesso, che avrebbe potuto avvertire l’energia vitale di Eric anche a grande distanza.
Magari era “colpa” del loro rapporto, sia fisico che sentimentale. Poteva essere che, affezionandosi a lui in quel modo oltre misura, fosse diventato sensibile ad ogni cosa che lo riguardava. E questo, ovviamene, comprendeva anche l’anima.
Lo osservò di sottecchi, facendo attenzione a non essere visto dal castano.
Non sapeva cosa provava. Non riusciva a... capirsi.
Per lui era una cosa complicata, nuova. Sentiva il bisogno di proteggerlo; e nonostante sapesse che la minaccia più grave da cui avrebbe dovuto salvaguardarlo era proprio se stesso, non sentiva il coraggio per staccarsi da lui e lasciarlo perdere.
Ma non era una cosa che riguardava Enma, o la punizione che spetta agli dei della morte che non portano a compimento un incarico – qualunque essa fosse. Era piuttosto una sorta di... nostalgia.
Sentiva che gli sarebbe imploso il cuore, se si fosse separato da Eric. Il cuore che non aveva, ma che sembrava essere presente dal momento in cui aveva incontrato Eric fuori da quella discoteca di periferia.
Che aveva cominciato a battere piano, sottovoce, per poi farsi sentire man mano che si avvicinava al castano. Per poi esplodere nel momento in cui si erano uniti, in mezzo alle lenzuola stropicciate del letto nel suo appartamento, e aveva sentito di non poter essere più nessuno, senza l’altro. Nemmeno l’esistenza vuota e silenziosa che era sempre stato dal momento in cui era stato creato fino ad una settimana prima.
Ridacchiò sommessamente, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Patetico.
Era diventato un umano nel corpo di uno Shinigami.

« Cosa c’è? » domandò l’oggetto dei suoi pensieri, osservandolo con un cipiglio a metà fra il curioso e... il malinconico.
Abrahel lo guardò meglio, approfittando biecamente delle lenti scure per soffermarsi sui suoi occhi. C’era un’ombra nel suo sguardo che ne oscurava la luce... un pensiero, forse?
Oppure...
Chiuse gli occhi in un sospiro, non credendo a se stesso quando sentì il proprio cuore stringersi per l’aver notato quel piccolo particolare.
« Pensavo » disse semplicemente, cercando di chiudere il discorso senza planare sul torbido.
Ma era un illuso nel credere che Eric avrebbe lasciato perdere.
« E a cosa pensavi? » domandò infatti, nascondendo la sua curiosità in un tono scherzoso.
A mali estremi, estremi rimedi.
« Potrei chiederti la stessa cosa, suppongo » rispose direttamente, lanciando la freccetta esattamente al centro del bersaglio che aveva puntato.
Lo vide abbassare appena lo sguardo, un sorriso spento ad incurvargli le labbra.
« Si vede così tanto? » chiese poi, auto-ironico.
« No » replicò Joshua, tornando per un momento sulla folla intorno a lui: « solo per chi sa vederlo » chiarì, lievemente ironico a sua volta senza però suonare canzonatorio.
Eric rimase silenzioso per qualche istante, impegnato in ragionamenti tutti suoi. Dal canto suo, Abrahel non spostò mai lo sguardo dalla folla finché l’altro non si decise a rispondere.

« Pensavo a te » rivelò il castano, facendo istintivamente sorridere il moro.
« Sono un chiodo fisso? » ci scherzò sopra, facendo ridacchiare anche Eric.
« Più o meno » rispose quello, mordendosi il labbro: « mi stavo solo... chiedendo... come sarebbe stato se tu fossi un semplice umano » rivelò poi, tenendo gli occhi puntati a terra e stando bene attento a non sollevarli.
Abrahel non rispose subito. Era difficile per lui poter dire cosa potesse essere diverso, e cosa sarebbe rimasto uguale anche nell’ipotesi che lui non fosse un dio della morte. E c’erano tante, moltissime risposte a questo quesito, primo fra tutti l’assenza dell’ovvio finale.

« Sarebbe stato esattamente così » rispose invece, tornando a guardarlo: « tu ed io, per la strada, fianco a fianco. Come amici o come amanti non ha importanza, è sempre e comunque “insieme” » disse, suonando convinto di se stesso in un modo che spaventò anche lui.
Non era probabile una cosa del genere, e non era nemmeno possibile. Ma sentiva il bisogno di poter credere che lo fosse. Anche se era una bugia, un illusione con fondamenta evanescenti... in una menzogna si poteva credere comunque.
Vide Eric sorridere, e ne fu subito rincuorato. Poi girò il volto in sua direzione, con lo sguardo sereno.
« Io credo che... sarebbe diverso » mormorò: « per un semplice motivo: non mi godrei ogni istante di questa giornata. Mi sono reso conto come sia incredibile, che le persone che non sanno vivano la giornata pensando sempre a quello che faranno dopo. Anche io ero così » una piccola pausa, uno sguardo al cielo azzurro e soleggiato: « una donna cammina per strada e pensa a cosa dovrà prendere al supermercato per cena, un uomo esce dall’ufficio e pensa subito al programma di lavoro per il giorno successivo, una segretaria archivia una pratica e già la sua mente si sposta su quella successiva. Tutti inseguono il dopo come se il futuro fosse certezza, anche se solo di pochi minuti o al massimo di qualche ora ».
Un altro lieve incurvarsi di labbra, il suo avvicinarsi modesto fino a far sfiorare le loro spalle, le nocche delle loro mani abbandonate lungo i fianchi.

« Sapere, mi ha aperto gli occhi... » continuò Eric con la voce ridotta ad un mormorio fievole, che Abrahel comunque sentiva: « ...se fossimo persone normali, e se io non fossi condannato... non mi godrei ogni attimo che passo in tua compagnia. Non sarebbe così... »
« Profondo » concluse Abrahel al suo posto, incontrando l’assenso del castano al suo fianco. Allungando la mano catturò quella di Eric, così vicina, unendone i palmi e lasciandone intrecciare le dita.
Il castano non rifuggì il contatto, rendendo anzi la presa più salda.
« Ci guarderanno tutti... » sussurrò preoccupato, guardandosi intorno guardingo.
« Lascia che guardino » rispose il moro: « magari impareranno a soffermarsi sul presente ».

« Josh, è tutto ok? » gli chiese Eric con aria preoccupata, posandogli una mano sulla spalla.
Sotto al suo sedere, la panchina su cui si era seduto dopo quella diavoleria pareva l’unica cosa ferma dell’ambiente circostante.
« Non ne sono molto sicuro » bofonchiò quindi, aumentando appena la stretta sulle assi di legno a lato dei suoi fianchi.
« Può vomitare uno Shinigami? » domandò l’altro con cipiglio curioso.
« Non credo di volerlo scoprire, Eric » ribatté prontamente Abrahel, chiudendo gli occhi e riaprendoli come se, con quella mossa, il mondo potesse finalmente fermarsi.
«
Mi dispiace... » bofonchiò il ragazzo, appoggiandogli la bottiglietta dell’acqua fresca al collo: « non credevo che soffrissi le montagne russe ».
« Già. Beh, nemmeno io » schernì lui, afferrando con la mano la bottiglia e posandosela sulla fronte. « Perché gli esseri umani se non inventano di queste cose non sono felici? Cosa c’è di bello nell’andare su e giù e girare in tondo come dentro ad una centrifuga? » si lamentò, decisamente contrariato questo sviluppo inutile di tecnologia da parte della razza umana. A cosa serviva quell’affare, oggettivamente parlando?
Al suo fianco, sentì Eric ridere di gusto.
« Cos’ho detto di così divertente? » borbottò offeso, restituendogli la bottiglia. In un qualche modo, sembrava che il mondo fosse un po’ più stabile sotto i piedi.
« Sei unico, davvero! » esclamò il castano, tenendosi le stomaco per non piegarsi in due dal ridere: « sembri un vecchietto che se la prende con la generazione giovanile! » aggiunse, osservandolo di sottecchi fra le lacrime delle risate.
Abrahel assottigliò gli occhi nella sua migliore espressione omicida. Ma con Eric, si rese conto presto, non funzionava; anzi, a dire la verità non riusciva a guardarlo in quel modo nemmeno sforzandosi.

« Un vecchietto molto longevo » ironizzò poi, restituendogli la bottiglietta d’acqua con un gesto elegante.
« Beh, li porta magnificamente, signore » scherzò a sua volta Eric, assumendo un tono suadente che non si preoccupò di celare poi così tanto.
Abrahel rispose con un sorrisetto complice, avvicinandosi appena con il volto a quello dell’altro:
« non dovrebbe flirtare in questo modo sfacciato con gli anziani, giovanotto » rimase al gioco: « potrebbe incontrarne uno particolarmente spudorato da rispondere positivamente alle avances » rispose, fissandolo direttamente negli occhi con un sorrisetto malizioso.
Sorriso a cui Eric rispondeva ad arte.
« Dipenderebbe tutto da come l’anziano in questione avrebbe intenzione di trattarmi... » lasciò cadere appositamente, facendosi a sua volta un po’ più vicino ad Abrahel.
« Gentilmente. Ma il vecchietto è puntiglioso, e un corpo giovane sotto mano va esplorato con la dovuta cura e... lentezza. Estenuante lentezza, oserei dire » ipotizzò scherzosamente, arrivandogli abbastanza vicino da far scivolare “inavvertitamente” un dito lungo il profilo della sua coscia, da sopra i jeans.
Lo vide deglutire mentre seguiva con lo sguardo il percorso del dito.
« Mh... in questo caso... »
« Eric Everald?! » sentirono da qualche parte in mezzo alla folla del luna park, e la loro reazione fu simultanea nel girare la testa verso di essa.
L’unica differenza fra loro, era che lo sguardo di Eric non prometteva l’auto combustione spontanea.

« Noah? » mormorò Eric al suo fianco, puntando gli occhi su un ragazzo dalla zazzera rossiccia che salutava dalla fontana, sbracciandosi in loro direzione. Rispose al saluto con un sorriso, alzandosi.
Abrahel lo seguì.
« Chi è? » domandò poi, modulando il tono per non farlo sembrare seccato. Inutilmente.
« Noah Keynes » rispose l’altro, attirando la sua attenzione: « abitava vicino a noi prima che i suoi genitori si separassero. Quando la madre se ne andò lui e suo padre cambiarono casa » alzò nuovamente il braccio in direzione del rosso, che a sua volta si era alzato dal bordo della fontana e camminava verso di loro. « Abbiamo giocato insieme praticamente sempre, da bambini. Anche se era più piccolo di quattro anni ci divertivamo lo stesso come matti » spiegò, correndo per coprire gli ultimi metri.
Abrahel squadrò bene il ragazzo dai capelli rossi, facendosi tornare finalmente alla memoria il perché quel nome gli suonasse famigliare. Corporatura normale, occhi castani. Un viso rotondo e sorridente, un modo di parlare spigliato e gioviale, uno sguardo sincero e... un’anima candida simile a quella di Eric.
Sospirò, avvicinandosi con le mani in tasca. Due anime bianche in una settimana... roba da non credere.

« Noah! » esclamò il castano una volta abbracciato l’altro, che gli diede qualche pacca sulla spalla: « è da un’esistenza che non ci vediamo! Come va? »
« Al solito, niente di che » disse il ragazzo in risposta, osservandoli entrambi: « vi ho disturbati? » domandò poi assumendo un’espressione lievemente colpevole.
Abrahel represse l’istinto di rispondere un “perspicace” che sicuramente avrebbe fatto arrabbiare Eric. E poi, se si conoscevano non era poi così male: aveva un messaggio da consegnare.

« Lui è Joshua Archer, si è trasferito qui da poco » lo presentò il castano, indicandolo con un gesto della mano. All’allungarsi della mano del rosso, lui la strinse con un « piacere » abbastanza neutrale.
« Piacere mio » rispose l’altro con un sorriso gentile. « Cosa ci fate qui in giro raga? Niente lezioni? » domandò poi con un ghigno furbo sulle labbra.
Eric negò con il capo:
« saltate » rispose con la stessa furbizia: « e tu? Niente scuola? » chiese a sua volta.
Anche Noah negò con un sospiro:
« saltata anche io. La fidanzata di papà è tornata da poco e hanno organizzato una sorta di “uscita famigliare” o roba simile » spiegò velocemente, infilandosi le mani nelle tasche.
« Tuo padre si è trovato un’altra donna? » chiese Eric, abbassando il tono di un’ottava. Probabilmente cercava di usare del tatto, non sapendo cosa pensasse l’altro della propria situazione.
Abrahel rimase ad ascoltare, in silenzio.

« Sì, da un po’. Ma lei è archeologa, dunque non è a casa spesso » spiegò paziente: « ho un fratellastro però, più grande di me di un anno » aggiunse con un nuovo sorriso sulle labbra. Più dolce.
Anche di un secolo, pensò Abrahel sorridendo sotto i baffi. Avrebbe volentieri scoperto le carte in tavola, rivelando a Noah di conoscere Marcus, anche solo per vedere la reazione che avrebbe avuto; ma preferì lasciar perdere e continuare ad ascoltare.
Eric sorrise cortese. Non doveva essere molto ferrato sul come prendere di petto gli argomenti famigliari; in quello almeno si somigliavano.
« Andate d’accordo? » domandò infatti, rimanendo su una sorta di conversazione neutra che non andasse a parare sulla relazione di suo padre. Solitamente l’oggetto di astio era la nuova compagna del padre, non l’eventuale fratellastro.
Noah ridacchiò allegro, però, e la cosa faceva ben sperare.
« All’inizio no, mi odiava » rivelò con un sorriso divertito: « però adesso sì. Siamo... molto uniti » mormorò, abbassando lo sguardo come se dire quelle parole gli causasse imbarazzo. Il sorriso che gli piegò le labbra aveva quel sentore.
Abrahel cominciò a pensare che la trasparenza fosse una caratteristica comune delle anime bianche. Soprattutto l’imbarazzo era facilmente individuabile nei tratti delle persone – il leggero rossore, l’abbassarsi degli occhi, il tono di voce che diveniva un sussurro – ma sia Noah che Eric avevano occhi sinceri, dentro ai quali si potevano leggere molte cose.

« Beh, ora mi sa che devo andare » intervenne il rosso, indicando con il pollice la fontana: « ho promesso a mio padre che ci saremmo incontrati alla fontana, se non mi vede va in panico ».
« Va bene, divertiti allora » rispose Eric sorridendo allegro: « fatti... sentire ogni tanto » esitò un momento, per un breve istante.
Ma Noah non sembrò accorgersene.
« Certamente! » ribatté, e stava già per allontanarsi quando fu Abrahel a fermarlo. « Keynes! » chiamò, la voce ferma.
Il rosso si girò in sua direzione.
« Potresti portare un messaggio a Marcus da parte mia? » gli domandò, osservandolo con pacatezza. Noah sembrò dapprima sorpreso poi dubbioso, ma alla fine annuì con il capo.
« Digli che ora so cosa vuol dire “importante”. Lui capirà » disse, gentile.
Noah annuì di nuovo, salutando e tornando a sedersi sul bordo della fontana. Nel frattempo, loro due cominciarono ad incamminarsi in direzione dell’uscita.

« Come fai a conoscere suo fratello? » domandò Eric curioso, osservandolo di sbieco.
Abrahel sogghignò.
« L’ho conosciuto per caso » rispose poi, guardando dritto davanti a sé con ancora il ghigno sulle labbra: « i vampiri sono e saranno sempre esseri intrattabili ».

{Eric}

L'espressione "giornata normale" prevedeva anche il tipico pranzo americano: il fast food.
Nonstante Eric non fosse esattamente sicuro che Joshua avesse mai messo piede dentro un McDonald, decise comunque di tentare la sorte e di portarcelo. Non sapeva a base di cosa fosse la dieta degli Shinigami, ma almeno una volta lo aveva visto mangiare dell'insalata, dunque supponeva potesse cibarsi anche di alimenti umani.
Chissà perché riteneva Joshua una persona abbastanza schizzinosa, in fatto di cibo. E magari, pensò una volta in fila alla cassa, portare un dio della morte vegetariano in un posto in cui si vendeva solo roba a base di carne non era stata una grande idea.
L'espressione poco convinta che assunse il moro guardando i tabelloni con il menù fu una sorta di prova del nove.

« Josh, possiamo anche cambiare posto... » mormorò al ragazzo, in fila alla cassa di fianco alla sua.
« No, va benissimo » rispose quello, probabilmente troppo assorto nella sua mania di assecondarlo per mettere in primo posto i suoi bisogni alimentari.
Eric sospirò rassegnato.
« Mi sembrava di averti detto di non assecondarmi per ogni cosa! Se ti dicessi che il sogno della mia vita è vederti volare da un grattacielo di trenta piani ti butteresti dall'Empire State Building? » domandò ironico, fissandolo decisamente male.
« Tanto non morirei » fu la risposta disinteressata che ottenne.
« Lo so che non moriresti! » non era quello il punto! « E' solo che... »
« Eric » lo interruppe però Joshua, girandosi in sua direzione con un'espressione che non ammetteva repliche: « se ti ho detto che va bene vuol dire che va bene, e che ho trovato comunque qualcosa da mangiare. Perciò rilassati, ok? Non ti sto assecondando apposta » spiegò, tornando con gli occhi al menù.
Eric sospirò rassegnato.
« Ci rinuncio » borbottò a se stesso, ripassando mentalmente la propria ordinazione prima di arrivare davanti al cassiere.
« Prego? » disse quello, in attesa.
« Un menù tre, coca media, con ketchup » disse brevemente, abituato a quel tipo di ordinazioni. Con Rob e Doug non si mangiava altro quando organizzavano serate "cena, cinema e night club".
Il cassiere annuì, selezionando i prezzi sul dispaly e mandando in stampa lo scontrino; si allontanò poi dietro al bancone per recuperare il suo hamburger e il resto dell'ordinazione.
Nel frattempo, al suo fianco, Joshua arrivò alla cassa. Aveva l'aria di uno che aveva preso una decisione significativa della sua esistenza, e il suo sguardo risoluto - e a dir poco inquietante - trapassò la cassiera da parte a parte, facendola balbettare nel chiedere cosa volesse.
Joshua la fissò, e lui fissò Joshua con la coda dell'occhio. Una lista di possibilità scorse nella sua mente, come quella che vedeva l'altro ordinare un Big Mac. Con dentro ben DUE hamburger. La rivoluzione della carne made in Joshua Archer.
Deglutì, attendendo con trepidazione. Finalmente vide il moro prendere fiato, aprire la bocca...

« Un milk shake alla fragola ».
Se avesse potuto prendere il vassoio e sbatterselo in fronte, probabilmente lo avrebbe fatto. Solo, non voleva rovesciare le patatine.
Una volta ritirato il vassoio (Joshua non poté esimersi dal far notare che non c’era bisogno di un vassoio per la sua ordinazione alla cassiera che pendeva dalle sue labbra), si andarono a sedere in sala, cercando un tavolo che non fosse in un punto troppo affollato.

« Cazzo, l’hai fatto di nuovo! » esclamò una volta sedutosi, riservando all’altro un’occhiata a dir poco pungente.
Joshua, che sembrava a suo agio in qualsiasi luogo andasse, trasse dubbioso un sorso di milk shake dalla cannuccia, alzando gli occhi su di lui proprio mentre ne considerava il gusto.
« E’ schifosamente dolce » commentò, per poi aggiungere: « cosa? » in risposta, un sorriso sghembo ad incrinargli le labbra.
« La cassiera! » fece notare lui, non potendo non considerare però quanto amasse vedere quel sorrisetto sornione sul volto dell’altro. « Era ai tuoi piedi, hai notato? Ti ha persino chiesto se volevi il ketchup per tenerti alla cassa qualche minuto in più! A te che le patatine nemmeno le hai prese! » continuò lamentoso, scartando l’hamburger e sbattendone l’involucro sul tavolo.
Il moro ridacchiò divertito, appoggiandosi allo schienale della sedia.
« A me è sembrato che facesse il suo lavoro » esordì, prendendo un altro zuccheroso sorso di milk shake.
« Seh, te lo dico io che lavoro faceva quella... altro che cassiera » borbottò lui in risposta, azzannando il panino.
Per tutto il tempo in cui masticò il boccone, Joshua lo guardò con un ghigno inquietantemente compiaciuto sul volto. Solo quando si decise a parlare – ovvero quando Eric aveva finito di masticare e quindi poteva rispondergli – il castano capì che Joshua adorava fin troppo sfotterlo.

« E sei geloso? » domandò infatti, quel ghigno irritante ancora dipinto sulle labbra.
Eric sussultò appena, osservandolo da sotto le ciglia:
« perché, non posso? » domandò, bevendo un sorso di coca per avere la scusa di distogliere lo sguardo da quello dell’altro: « tu sei roba mia, insomma... » borbottò impacciato.
Vide il moro ridacchiare di gusto, e per assurdo si sentì offeso. Cos’è, si era sbagliato? Insomma, erano stati insieme e tutto il resto, era solo normale che gli girassero le palle ad elica se una cassiera random faceva la prima donna con il suo uomo!
...ok, ora era lui a sembrare una ragazzina.
Si fece scivolare sulla panca, imbarazzato, cercando di diventare tutt’uno con il pavimento.

« Ehi » chiamò però Joshua, appoggiando i gomiti sulla superficie di legno laccato e avvicinandosi a lui con il volto: « te l’ho già detto, la mia esistenza è tua. E credo di essere anche abbastanza fedele » ironizzò appena, sorridendo sbieco con lo sguardo di uno che si sta divertendo un mondo.
Eric sentì il proprio volto accaldato, e sperò in cuor suo di non essere arrossito come una ragazzina.
« Smetti di dire cose imbarazzanti... » mugugnò appena, puntando gli occhi su di una crepa improvvisamente interessante.
Sentì Joshua ridacchiare e, a sua volta, non poté trattenere un sorriso.

Non avrebbe potuto sperare in un giorno più tranquillo e piacevole di quello.
Dopo pranzo erano andati al cinema, a vedere una replica di un vecchio film in bianco e nero. Non che la pellicola fosse importante, comunque; praticamente avevano passato il tempo nell’ultima fila laterale, quella da cui non vedi quasi nulla, parlottando a bassa voce e ridacchiando per delle scemenze.
Al mercatino di china town, Eric aveva piacevolmente scoperto che Joshua conosceva la maggior parte dei rimedi farmaceutici cinesi. Sapeva le proprietà curative delle radici e di alcuni tipi di funghi, così tanto che si intrattenne almeno dieci minuti a discutere con il vecchio proprietario di un negozietto di spezie e rimedi curativi.
Allo stesso tempo, vederlo in un centro commerciale a tre piani fu la cosa più divertente della sua vita.
Ok, magari poteva risparmiarsi di portare una persona intollerante alla razza umana nel posto più incasinato per eccellenza, ma la reazione che Joshua aveva alla folla era impagabile. Anche se, ad un certo punto, aveva veramente pensato che avrebbe incenerito un bambino troppo piagnucoloso con lo sguardo.
Si fece perdonare con la biblioteca. Quello era un luogo che piaceva ad entrambi; a lui perché studiava letteratura, all’altro per l’amore considerevole che aveva per la lettura – anche se era puramente a scopo informativo, gli spiegò; li usava per conoscere ciò che si perdeva del mondo fra un “sonno” e l’altro.
Quando si fece buio, si fermarono a mangiare. Questa volta non in un fast food, per tranquillità di entrambi, anche se comunque Joshua prese un’insalata e una macedonia a confronto della sua pizza a doppia farcitura.
Usciti dalla pizzeria, presero un autobus per ritornare nei pressi del campus. Su sua richiesta deviarono dalla strada di ritorno, imboccando il viale che portava a casa Everald.
Voleva solo... vederli. Da fuori, da lontano. Magari attraverso la finestra del salone.
Ma quando arrivarono, tutte le luci erano spente. Non c’era nessuno per strada nonostante fossero solo le dieci di sera – o forse erano già le dieci – e anche le luci delle case affianco alla sua non trasparivano dalle finestre.
Avvertì Joshua afferrargli gentilmente la mano solo dopo qualche minuto, in cui era rimasto fermo ed in silenzio a guardare la casa immersa nell’immobile oscurità.
« Vuoi andare a cercarli? » domandò a bassa voce, voltando appena il capo in sua direzione.
Eric scosse il capo, chiudendo gli occhi.
« Credo non farei... in tempo » rivelò in un sussurrò, sospirando affranto.

{Abrahel & Eric}

 La città all’esterno delle vetrate brillava di colori accesi; piccole lucciole colorate confuse nel buio.
Il silenzio della sala, la cui luce non era nemmeno stata accesa per lasciare campo libero a quella fievole esterna, veniva interrotto solo dai loro respiri e dal ticchettio insistente della pendola.
Dal ricordo del tempo che correva senza fermarsi.

« Non manca molto... vero? » la voce di Eric era flebile nello sforzo di rimanere sereno, di non cedere alla paura.
Un paio d’occhi candidi guardarono di sfuggita l’ora, tornando subito dopo sulla città.
« No » fu la semplice risposta, granitica, fuori luogo.
Perché fuori luogo erano i pensieri e i dubbi. I ripensamenti come i sentimenti stessi.
Eric cercò la mano di Joshua, che non si tirò indietro nel frasi trovare. Le dita si intrecciarono, i palmi si sfiorarono l’un l’altro in un muto contratto.

« Dimmi a cosa stai pensando » il sussurro di Eric era udibile come se fosse stato pronunciato ad alta voce; la fredda calma di cui la stanza era pregna fungeva da amplificatore di ogni minimo rumore, quasi anche del battito del cuore.
Joshua rimase in silenzio, pensieroso.
« Non ti piacerebbe » rispose poi, cupo.
« Non puoi dirlo se non ci provi » ribatté il castano, girando appena il viso per vedere bene il compagno.
Il moro, notando il movimento, lo replicò.
« Non voglio ucciderti, Eric » e sembrò più una preghiera, che una rivelazione.
Il castano chiuse gli occhi, pacato.
« Ciò che vuoi e ciò che devi fare non sempre coincidono » pronunciò, riaprendo gli occhi per immergerli nuovamente in quelli di Joshua.
Avvolgendoli, cullandoli. Rassicurandolo, quasi.
Il moro si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
« Ha tutta l’aria di una citazione » ironizzò appena, amaramente, dando alla leggerezza statica di quella stanza un sapore sgradevole di stantio.

 
Intanto la pendola rintoccava, rumorosa.
Mezzanotte meno cinque minuti.


Il fruscio dei loro vestiti fu ciò che infranse il silenzio, depositandosi in esso come un sedimento. I movimenti del tutto volontari di avvicinarsi all’unisono, di abbracciarsi dolcemente.
I loro visi a pochissima distanza l’uno da quello dell’altro; i loro nasi che si sfiorano appena, le loro bocche divise in attesa di unirsi, di assaggiarsi. Finalmente.
Abrahel osservò quegli occhi castani come se rappresentassero la salvezza. Come se fossero la via per tutte le risposte ai suoi dubbi, e alle sue molteplici domande. Come se potessero guidarlo perché scegliesse, finalmente, cosa fare.
Erano rimasti dieci minuti. Il tempo stava scadendo.

« Josh... » mormorò Eric, piegando le labbra in un’ombra di sorriso gentile: « non preoccuparti. Se sei tu, va bene così ».
Parole che, nel rappresentare la risposta cercata, pesavano come macigni su un cuore fatto di nulla.

 
Esisteva Eric, ed Eric soltanto.
Così come c’era Joshua, e Joshua soltanto.
Due essenze all’unisono.
Quattro minuti.


« Abrahel ».
Gli occhi castani si assottigliarono, lo sguardo confuso al suono di quella parola.

« Il mio vero nome » chiarì allora lo shinigami, sorridendo malinconico.
Anche Eric sorrise; un lieve segno di divertimento in quella sua voce fatta di musica:
« ho letto la tua storia su di un libro, l’anno scorso... » disse appena, portando il naso a sfregare quello del moro.
« E’ probabile » annuì Joshua: « Abrahel è un dogma, per voi. Qualcosa che esiste solo perché qualcuno ha detto così ».
« Ma Joshua è reale » lo contraddisse il castano: « io posso toccarti, e vederti, e... » una lieve pausa, un silenzio infinitesimale ma al contempo infinito: « ...amarti. Sei qui, adesso. Ti sento. E non nelle polverose pagine di un libro, sottoforma di inchiostro e carta » spiegò, sfiorando al contempo la schiena dell’altro con le dita.
Il dio della morte portò una mano alla gota del castano, carezzandola con le nocche.
« Per te è una sfortuna che io sia qui... » mormorò affranto, cercando di nascondere la malinconia con un sorriso scontato.
Eric negò.
« Ringrazierei ogni giorno chi ha deciso di far sì che ci incontrassimo » sentenziò con sicurezza.
« E’ la morte che ha deciso » ribatté Abrahel con amarezza.
« E allora ringrazio la morte ».

 
L’aroma dolce di un’anima candida.
L’aspettativa ansiosa dell’unione sperata.
Desideri che si sfiorano timorosi.
Tre minuti.

 
Il castano alzò una mano, passando il polpastrello dell’indice sulle labbra di Joshua. Ne osservò lo sguardo, solo e completamente suo, facendo pian piano scomparire il leggero e dolce sorriso che ancora piegava le sue labbra.
« Cosa farai dopo? » domandò poi, colto all’improvviso da quel dubbio senza importanza.
Joshua sospirò, chiudendo gli occhi. Non rispose, e il suo silenzio non fece altro che alimentare i dubbi di Eric.

« Josh... » chiamò di nuovo.
« Cosa pensi che farò? » eluse allora Abrahel, riaprendo gli occhi per specchiarsi di nuovo in quelli castani dell’altro, così vicini ai suoi.
Eric sembrò voler rispondere, ma prese aria senza riuscire a parlare. Dovette prendere fiato una seconda volta, prima di lasciare che le parole uscissero:
« la speranza, è che tu ritorni al tuo lavoro. Il presentimento, è che cercherai di seguirmi... a modo tuo » esalò, combattuto nel rivelare quel pensiero.
Lo shinigami ghignò:
« non puoi chiedermi di far finta che non sia successo niente, ti pare? ».

 
Calore, protezione, sicurezza.
Fra le braccia dell’assassino, la sua vittima.
Perfetta utopia.
Due minuti.

 
Un sospiro da parte di Eric, la sua fronte che si posa sulla spalla del moro.
« Non riuscirò a convincerti a lasciar perdere, vero? » domandò mormorando, stringendosi all’altro ancora di più.
« No, non ci riuscirai » ribatté Abrahel, posandogli un bacio sulla tempia.
Qualche istante di silenzio, un brivido lungo la schiena dell’umano ma percepito anche dal dio della morte.
Abrahel chiuse gli occhi, stringendo a sé Eric come se dovesse rassicurarlo. Anche se non avrebbe dovuto farlo.
Anche se non aveva senso, fatto da lui.

« Non temere... » sussurrò amaro, sofferente: « sarà come svegliarsi da un incubo » pronunciò accanto al suo orecchio, piegandosi su di lui nell’assurdo tentativo di proteggerlo da qualcosa in arrivo.
Avrebbe dovuto proteggerlo da se stesso, e avrebbe dovuto farlo andandosene. Rinunciando. Sacrificando il mondo che odiava per la persona che amava.

« No... » rispose però Eric, aggrappandosi a lui nel medesimo modo. Il fiato corto non poté non rivelare le sue lacrime, dettate più dall’agitazione che dalla paura, ma pur sempre lacrime. « Sarà come riaddormentarsi dopo un sogno » aggiunse, in un soffio sofferto.

 La fine fa sentire i suoi passi.
Il sacrificio di chi si ama per la salvezza di ciò che si odia.
Vita e morte in un solo abbraccio.
Un minuto.

Si separarono lentamente, delicatamente.
Si guardarono negli occhi, l’uno scrutando quelli dell’altro, ancora. Come se non ne avessero mai abbastanza.

« Ci rivedremo? » domandò Eric in un soffio, sussurrando quella domanda come se fosse una preghiera.
Abrahel sorrise.
No. Non si sarebbero rivisti. La vita non funzionava così, così come la non-vita.
Il lieto fine non esiste.
Tuttavia si sforzò di continuare a sorridere, per non contagiare con l’amarezza anche quell’ultimo istante.

«» disse dunque: « Sì. Ci rivedremo, un giorno ».
Il primo rintocco sopraggiunse, e nel silenzio si spense.
Eric trattenne le lacrime, cercando di credere con tutto se stesso che sarebbe stato possibile. Come ultimo regalo: la speranza.

« Ti avevo detto di non mentirmi... » sussurrò tuttavia, lasciando scivolare le gocce salate all’angolo degli occhi, lungo le gote.
Era tempo.

Mezzanotte.
Un rintocco per battito di cuore.


Unirono le loro labbra.





Nel momento in cui il corpo di Eric scivolò fra le sue braccia, e lui lo seguì inginocchiandosi al suolo...
Nell’istante in cui il candido cristallo prese forma fra le sue mani, luminoso come una stella, lasciandogli fra le labbra il dolce sapore dell’anima di Eric, diverso da qualsiasi altra cosa esistente...
Nell’attimo in cui si accorse che il sapore salato che sentiva come retrogusto era quello delle proprie lacrime, che gli impedivano di tenere persino gli occhi aperti... capì.
Non sarebbe mai più potuto tornare ad essere quello di prima. Il cambiamento era stato troppo profondo.
Strinse quel corpo esanime a sé, ignorando il mondo inginocchiato su quella moquette. Nascose il viso sul suo collo, singhiozzando in silenzio.
Sì... piangere faceva male.

 

 

____________________________________________________________________________________

Non so nemmeno io come definire questo capitolo, purtroppo. Non lo so davvero.
Credo sia uscito la metà di quello che speravo, sia come sensazioni che come profondità del testo. Colpa, forse, di alcuni cambiamenti che ho dovuto apportare per questioni di lunghezza... spero solo che sia piaciuto.
Anche se non è la fine (purtroppo per voi XP). L’ultimo capitolo, l’epilogo, verrà pubblicato – spero - in tempi brevi. E con esso i dovuti ringraziamenti.
Intanto, comincio con il ringraziare le persone che hanno letto e recensito il capitolo precedente. E anche coloro che, ovviamente, si sono sorbite questo penultimo capitolo e tutta la sua sconclusionata confusione (XP)

Shichan: che me lo ha betato e che dunque me l’ha commentato in presa diretta XD Io e te ci diciamo il mondo in separata sede, in ogni caso ti ringrazio comunque per le belle parole sullo stile e il lessico. Sai che sono pignola e non ci credo, però grazie lo stesso U___u (XP)

GreedFan: Mi pareva di aver letto il tuo nick anche da qualche altra parte XD Grazie mille per tutti i complimenti, e anche per aver recensito. Prima o poi giungerà ad una fine anche St. Michael Gakuen, non la lascio alla burrasca. Spero che il capitolo sia stato di tuo gradimento, nonostante sia un tantino deprimente.

Gioielle: rileggere i tuoi papiri è sempre un piacere, sai? XD In ogni caso... sei una delle poche persone (almeno, per quello che ho sentito io) a cui piace Alex. E sì, magari avere tutte le sorelle che hai è incisivo a questo proposito XD purtroppo sì, niente sequel; all’inizio non avevo nemmeno programmato l’incontro tra i due, ma non potevo lasciare che Alex sparisse così, soprattutto dopo che si era pentito... ad un certo punto ho capito che avrei dovuto inserirlo, e così ho fatto. Anche se la sequenza non mi aveva convinta fino alla fine, e devo dire che mi fa piacere che sia piaciuta (il gioco di parole non è voluto XP).
Timoty. Eh... *sospira* Timoty purtroppo è uno di quei personaggi creati per altre cose e biecamente usati come “side characters”. Sì, si può dire che ha una storia alle spalle e, come hai detto tu, un motivo per tutti i comportamenti che mostra e tutto ciò che fa. Ma con questa storia non centrava nulla, così non mi sono spinta nell’introspezione, Magari un giorno mi butterò su qualcosa che lo riguardi... non saprei. Sono tuttavia felice che sia piaciuto, nonostante tutto XD non è un personaggio molto positivo... ma da una fan di Abrahel, suppongo di non potermi aspettare altro X°D.
La parte di Trent ho penato, per scriverla. Tutta la partita. Non solo perché di basket non ci capisco un tubo, più che altro perché dovevo trattenermi dal sistemare il rapporto fra loro e far scusare l’uomo. Mi è balenato per la mente, ma non potevo: Trent avrà un suo ruolo nell’epilogo. Però sì: è stronzo. Sono d’accordo.
Infine, tanti grazie per i complimenti sullo stile. Fa sempre piacere sentirseli dire, anche se a volte è quasi imbarazzante >//>.
Spero che questo capitolo non ti abbia delusa <3 Grazie ancora per la recensione!

Angel09: Grazie mille anche a te, anche se con tutti ‘sti “grazie” sembro ripetitiva XP sono felice che la storia ti sia piaciuta (ho visto le altre recensioni negli altri capitoli XD) e spero che il finale non ti deluderà.

CloudRibbon: è un complotto delle recensioni contro di noi, Cloud, anche se devo ammettere che si sono rimasta un attimo sorpresa, a leggere il tuo nome fra i recensori. Non ti aspettavo, a dire il vero >___> non mi capita spesso che le stesse persone leggano roba mia su diversi fandom.
Però mi fa piacere, non azzardarti a pensare il contrario °____°
Cominciamo con calma. Io... non credo di essere migliorata troppo nello stile. Nel senso, io vado molto a periodi, e dipende soprattutto quanto mi influenza ciò che sto leggendo, che sia un libro o una fanfic. Ho alti e bassi come tutti, e forse è per quello che io non vedo mai i miei miglioramenti (sempre che ce ne siano)... ma se me lo dici tu, mi fido.
Anche perché la stessa cosa che ti facevi notare per i personaggi vale anche per la scorrevolezza. Essendo personaggi miei, ho meno problemi a mantenerli IC, e non mi devo fermare ogni dieci righe a pensare se Tizio e Caio mantengano il carattere e possano o non possano dire quella determinata cosa. Da un certo punto di vista, è più facile XD
Ti ringrazio, poi, per il tuo apprezzamento sui personaggi stessi. Mi impegno per dare loro una forma senza essere troppo descrittiva e... da quello che dici, sembra che abbia raggiunto l’intento ^^’’’’ ne sono felice.
Oddio, non esageriamo... non credo di essere a livello di pubblicazione al di fuori di EFP, il mio stile non è ancora abbastanza maturo... e comunque credo sia una cosa che non farò mai ^^’’’ ci ho pensato, ma alla fine è meglio di no. Ti ringrazio comunque per il sostegno XD
Ancora tanti ringraziamenti (non finisco più >___>) per la recensione. Baci <3

 I miei migliori auguri di Natale a tutti voi!
Al prossimo capitolo <3

   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Yoko Hogawa