Epilogo
Abrahel
The eternity
of those who never die
Non
possedeva la forza, di muoversi da lì.
Aveva a
malapena dato credito a Remiel quando gli aveva tolto
dalle mani l’anima di Eric, garbatamente, con
rispetto. Quando l’aveva afferrata con gentilezza,
sussurrando parole che non aveva capito nel tono melodioso degli angeli; forse
promettendogli che l’avrebbe trattata bene, forse rassicurandolo, forse
scusandosi...
Non lo
sapeva. Ricordava solo il corpo freddo di Eric fra le
braccia, i suoi occhi chiusi, le labbra ancora socchiuse per il bacio che si
erano scambiati. Ricordava l’alba, le mani di Remiel
sull’anima di Eric, quelle di Zerachiel
sulle sue spalle... null’altro.
Sembrava
non avere registrato nient’altro, nella mente.
Almeno
fino a quel momento.
Il
funerale non era nulla di speciale. Solo... doloroso.
Cosparso
di un manto di disperazione talmente denso da sembrare tangibile.
Il cielo
era punteggiato a tratti dalle nubi, e una luce grigia illuminava il cimitero.
La lapide era stata posizionata sulla collinetta, poco
distante dalla statua dell’angelo, nella parte vecchia del campo santo.
Marmo
bianco venato di grigio perla, lettere d’oro. Poteva vederle brillare,
nonostante la distanza. Nascosto tra gli alberi della parte
di Heaven’s Park che sconfinava nel cimitero, all’ombra,
come sempre.
Attorno
alla fossa c’era un tappeto rosso, e sedie pieghevoli di legno. Sulle sedie
persone vestite di nero, dietro di esse altre persone
nere, in piedi, ammassate le une sulle altre.
Poi la
bara. Legno dalle colorazioni rossastre, lucida, quasi
importante. Un cuscino di fiori bianchi – gigli... sì, erano gigli e
rose, quelli – spiccava in mezzo ai formali abiti
scuri, sul coperchio della cassa chiusa.
Una cornice d’argento, con dentro una foto che non poteva vedere. Ma che
sicuramente non rendeva giustizia alla persona racchiusa fra quelle quattro
assi di legno finemente lavorate.
E la
gente arrivava. E piangeva. E
guardava fisso la bara senza potersi capacitare di nulla.
C’erano Robert e Douglas, i suoi amici
del sabato sera. E McFarland con la
compagnia di persone superficiali di cui si circondava solitamente.
Riconobbe
Timoty Satler, composto nel suo abito elegante, i capelli rossi raccolti in una
coda bassa sulla nuca. Chiuse gli occhi in una preghiera,
posò sulla bara una medaglia d’oro.
Poi i suoi compagni della squadra di basket, tutti in gruppo, che in
un manipolo di mani depositarono sul legno lucido la maglia rossa numero 23. Piangevano, stringendosi l’un l’altro, dandosi pacche sulle spalle.
Vide Alex,
seduto con lo sguardo basso accanto a sua madre, in una delle sedie più vicine
alla tomba. Stringeva le mani sui pantaloni, le nocche bianche dallo sforzo, e la
sua schiena sobbalzava in singhiozzi malcelati.
La madre,
con lo sguardo fisso sulla fotografia, sembrava faticasse persino a rendersi
conto di dove fosse.
Vide Trent Everald, e provò pietà.
Per la
prima volta nella sua esistenza; e ne fu disgustato.
Inginocchiato
di fianco alla bara, le mani sopra di essa e il viso
nascosto fra le braccia. Piangeva, disperato, ripetendo litanie inconcludenti
di parole come “scusami” o “perché proprio lui”.
Dolore.
Era tutto ciò che si poteva provare nel vederlo lì, inerme, devastato. Incredulo e, al contempo, lacerato dai sensi di colpa che
sicuramente lo stavano dilaniando lentamente, corrodendolo dall’interno.
Un’eco di
quel dolore lo raggiunse, e lo sommerse. Sentì nuovamente il senso di vuoto che
lo aveva avvinghiato quella notte, e dovette trarre due grossi respiri per
mantenersi quantomeno cosciente.
Per non ricadere in quell’apatia in cui non dava ragion d’essere a
niente e a nessuno.
Riportò lo sguardo sulla folla, scorrendo i volti. Alcuni li conosceva,
altri no, altri li aveva solamente visti di sfuggita... ma intravide Noah fra i tanti, stretto fra le braccia di quello che
doveva sicuramente essere suo padre, che piangeva senza ritegno, lasciando
scivolare le lacrime sulle gote dell’espressione addolorata dipinta in viso.
Per ovvi
motivi, Marcus non era presente.
Si
appoggiò con un sospiro al tronco dell’albero, puntando gli occhi sulla tonaca
rossa e bianca del sacerdote che presiedeva il rito funebre. Stava parlando,
probabilmente elogiando le qualità di Eric senza
nemmeno conoscerlo – non veramente,
non profondamente – ma lui non
riusciva a cogliere le parole che diceva. Venivano
coperte dal vento, che soffiava mite ma continuo, sferzando il parco e portando
i primi freddi d’autunno.
Si posizionò con gli occhi sui fiori ma, in quel momento, sentì
una presenza al suo fianco.
« Cazzo.
Lo avevo sentito dire, ma non ci ho voluto credere »
avvertì una voce. Conosciuta.
« Moloch » mormorò rauco, osservandolo di sbieco. « Cosa ci sei venuto a fare? » chiese,
malevolo e diretto, assottigliando gli occhi in una minaccia convincente
nonostante l’aspetto sicuramente irriconoscibile.
L’ultimo
specchio a cui aveva avuto modo di specchiarsi, gli aveva rimandato l’immagine
di un essere pallido, con le occhiaie e gli occhi rossi; e lo sguardo di chi
non crede più in niente.
Aveva
visto il dolore dell’umano negli occhi dello shinigami.
Il tormento di Joshua nel cuore di Abrahel.
L’altro,
sistemandosi la veste nera – uguale alla sua, che indossava anche lui, e che
stava odiando con tutto se stesso – lo fissò con noncuranza. « Calma, calma
collega » cercò di abbassare i toni, squadrandolo con sguardo critico da capo a
piedi: « dall’altra parte girano voci strane, così sono venuto a vedere se sono
vere. E vedo che lo sono » commentò, arricciando un
po’ il naso al suo aspetto: « ma dico, ti sei visto? Fai quasi schifo » disse
diretto, portando una mano fra le pieghe della veste nera ed estraendone un
accendino seguito da un pacchetto di sigarette.
« Detto da
te poi... » sussurrò Abrahel piano, rivolto per di
più a se stesso nonostante la pungente ironia. Continuò poi, riportando lo sguardo
sul manipolo di persone attorno alla bara: « smetti di raccontarmi balle e
dimmi chi ti ha mandato. Enma? Pietro? Oppure quel ficcanaso di Zerachiel,
sempre in vena di dare lezioni sulla vita e sulla morte? » sibilò amaramente,
lasciando che i ciuffi corvini gli calassero sugli occhi senza che li
spostasse.
Moloch
sospirò, portandosi con calma una paglia fra le labbra e accendendola. Aspirò
ed espirò il fumo, godendoselo in silenzio per qualche istante. « Non
disprezzare Zerachiel, Abrahel
» disse poi: « non vuole insegnare il mestiere a nessuno, è semplicemente
preoccupato per te ».
« Sono
commosso » sputò sarcastico, portando gli occhi candidi su quelli totalmente
simili dell’altro. « Non ho bisogno delle sue belle parole, o della tue. Non ho bisogno di comprensione o di qualsiasi
altra cazzata da angelo che Zerachiel
ti abbia convinto a dirmi. Voglio
solo stare per i cazzi miei, è abbastanza
chiaro come concetto? » precisò iracondo, dovendo però schiarirsi la voce al
termine della frase.
L’altro shinigami non rispose subito, traendo un’altra boccata di
fumo. « Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto ad
innamorarti. Solo l’amore può averti ridotto così » disse, soprapensiero
nonostante si rivolgesse a lui, lo sguardo puntato sul funerale. « Era così importante
per te quell’umano? » domandò poi, calmo.
Abrahel
sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli con una mano. « Anche se provassi a spiegartelo, probabilmente non lo
capiresti » rispose.
« Non era
altro che un essere umano come tanti altri » considerò Moloch
con leggerezza.
« Per
quello non capiresti » chiuse il discorso Abrahel,
tornando a riaprire gli occhi.
Alcuni
minuti di silenzio trascorsero, riempiti solo dai respiri di Moloch che espirava il fumo della sigaretta in nuvole
grigie.
« Senti...
» prese poi, rigirandosi quello che era ormai un mozzicone fra le dita: « io lo
devo dire ad Enma, se tu non torni di là. E vorrei veramente che mi risparmiassi questa cosa. Lui non
vede molto di buon occhio questa tua mania di fare quello che ti tira, anche se
non lo dimostra ».
« Ad Enma non frega niente di quello che faccio, Moloch » ribatté l’altro, sfinito: « mi pare sia abbastanza
palese ».
« Solo per
te » insistette però il collega. « Questa storia gli sta parecchio sullo
stomaco, ultimamente » rivelò, la voce profonda di chi parla sul serio.
Abrahel
aggrottò le sopracciglia, fissando insistentemente il funerale davanti a lui.
Nessuno sembrava fare caso a loro, così come nessuno aveva
mai voltato lo sguardo in direzioni diverse dal prete.
Enma
poteva anche tirare giù il mondo a parolacce, per quello che lo riguardava;
poteva minacciare tutti i Santi e chiunque gli capitasse
a tiro. Lui non si sarebbe mosso di lì, mai.
Perché di Eric rimaneva solo un ricordo, e quel ricordo era
simboleggiato dal suo nome su quella lapide. E Abrahel ci sarebbe rimasto aggrappato come un naufrago ad
un pezzo di legno; per tutti i secoli dei secoli, se necessario.
Almeno
finché non sarebbe scomparso anche lui.
« No »
rispose dunque, non aggiungendo nient’altro. Bastava così.
Sentì Moloch sospirare – scocciato, forse – e percepì con la coda
nell’occhio il suo buttare il mozzicone a terra per poi pestarlo con il piede. «
Senti » prese poi a dire, pronto per tornare nell’aldilà: « io sono uno
stronzo, ok? Sono addetto alle anime dei bambini, devo
esserlo. E non capisco un cazzo dell’amore, o di
qualsiasi altra cagata spirituale che ti sta scombussolando il cervello in
questo momento » una pausa, calcolata: « e riconosco che, per cambiare uno come
te così radicalmente, quest’umano doveva essere qualcosa. Tuttavia devi guardare in faccia la realtà dei fatti: un
umano e un dio della morte è contro natura » terminò,
sollevando appena la mano in saluto e sparendo nell’ombra, diretto da Enma.
Abrahel
si lasciò scivolare contro il tronco, improvvisamente esausto.
Davanti a
sé, l’eternità di chi non può morire.
Tagliò il
bocciolo di una rosa bianca, lasciandolo cadere vagamente a terra. Sull’erba
soffice dell’aldilà, il bocciolo si trasformò prima in marcio, poi in nuovo
nettare per la pianta.
Decomposizione.
I morti che nutrono i vivi in un cerchio continuo,
efficace, perfetto.
Madre
Natura sapeva il fatto suo.
Enma
sospirò arrabbiato, indugiando con le forbici d’argento cesellato sul sottile
gambo di un altro bocciolo. La ragazza bionda poco dietro di lui, intenta a
carezzare con le dita sottili i petali di una rosa in piena fioritura, smise di
canticchiare la sua canzone melodiosa.
« Quanto
tempo è passato? » domandò Enma, quasi ringhiando. Di
chi parlassero
era ormai evidente anche senza le specificazioni del caso.
Selene non
l’aveva mai sentito parlare d’altro con lei, dopotutto.
« Due
anni, credo » disse infatti, legandosi i boccoli
biondo cenere con un nastro di seta rosa spento. « O
forse tre. Ammetto che la concezione del tempo da questa parte è un tantino
differente da quella del mondo dei vivi » disse tranquillamente, tornando
all’ammirazione dei fiori.
Enma
sospirò un ringhio. « Ripetimi ancora che bisogno c’era di mandare in brodo di
giuggiole il cervello del mio unico Shinigami valido!
» ruggì poi, lanciando rabbioso le forbici contro il terreno.
Si
piantarono ai suoi piedi affondando fino all’impugnatura.
Selene sorrise serafica. « Era necessario » rispose semplicemente.
Enma
storse il naso. In millenni mai, mai
gli era capitato di perdere la sua infallibile calma. « E
perché? » chiese allora, cercando di ritornare perfettamente cosciente di sé.
Adocchiò le forbici e, al pensiero di chinarsi e raccoglierle, schifò se
stesso. Mosse la mano in un mezzo circolo nell’aria,
facendone semplicemente apparire dal nulla un altro paio.
« Lo sai
già il perché » ribatté la santa con voce melodica.
« Lo
voglio sentire di nuovo » rispose però il capo degli
dei della morte, modulando la voce senza riuscire però a togliervi la nervatura
di rabbia di cui era intrisa.
Selene
sospirò, puntando finalmente lo sguardo sulla schiena dell’altro. « Doveva imparare
ad amare, Enma. E’ una lezione che deve essere
impartita, in un modo o nell’altro, per quanto brutale possa essere » rispiegò
per l’ennesima volta, pacatamente.
« Agli shinigami non serve amare » fece notare Enma
con un ghigno sul volto: « loro devono uccidere, non amare. Devono portare
avanti e indietro le anime dal Mediano al mondo dei morti, se le amano non
fanno il loro lavoro, è un controsenso! » esclamò, cercando inutilmente di dare
un contegno alla propria agitazione.
Selene
sospirò di nuovo, esausta di quel discorso che
continuava ormai da anni. Potevano passare diversamente dal mondo mortale,
quello era vero, ma erano pur sempre anni. « Ogni essere si merita l’amore, Enma. Che sia umano o meno » spiegò per
l’ennesima volta.
Enma fece una smorfia. « Mi sembra di sentire il tuo
superiore durante una delle Sue omelie sull’amore in Paradiso-visione
» borbottò cupo, tagliando finalmente anche l’altro bocciolo di rosa.
Rimase in
silenzio poi, contemplando il lavoro svolto. Abrahel
era il più valido dei suoi shinigami solo perché non
amava, non considerava niente al di fuori del lavoro, non si affezionava a
nulla ed era formalmente disilluso su ogni cosa non fosse
il suo desiderio intrinseco di porre fine alla sua esistenza. Era facilmente
controllabile, anche se difficilmente sottomettibile, perché bastava lasciarlo
in pace per qualche secolo a crogiolarsi nella sua stessa auto-commiserazione
da quattro soldi... almeno fino a che non rischiava di annullarsi, allora
mandarlo in missione sul Mediano e permettergli di continuare ad esistere.
Era un’esistenza antica, e proprio per questo non avrebbe mai
creduto che si sarebbe infatuato di un semplice umano; un’esistenza breve e
temporanea destinata a svanire in quello che per loro era la durata un soffio
di vento.
Sospirò,
affranto.
Forse...
era il momento di lasciarlo andare.
« L’amore
è una seccatura. Inutili umani... sempre a far danni » borbottò nuovamente,
intascandosi le forbici e dirigendosi a passo lento verso l’uscita del
giardino.
Selene,
dall’alto della sua preveggenza, sorrise. « Dove stai
andando? » domandò lieve, quasi scherzosa.
Enma
si fermò in un fruscio di stoffa e seta. « A parlare con il Vecchio(*) »
rispose semplicemente, sparendo in uno sbuffo di nebbia, silenzioso.
Quanti
anni erano passati?
Novanta.
Cento. O forse duecento.
Non lo
sapeva.
Vedeva
semplicemente le cose invecchiare, e pian piano marcire e morire. Sentiva il
suo corpo perdere man mano forza e controllo.
Era
passato molto tempo, prima che avvertisse i primi cambiamenti. Trent’anni,
prima che le braccia smettessero di alzarsi oltre le spalle. Quaranta,
prima che le gambe divenissero pesanti come pietra.
Dopo le
prime settimane si era abituato al continuo senso di fame, che gli faceva
percepire odori di anime anche a grandissima distanza.
Col tempo, anche il richiamo del cibo era diventato sordo alle sue orecchie.
Rimaneva
lì. Seduto con la schiena alla lapide di Eric, bianca
e pulita finché della gente la visitava.
Poi, venne
a sapere, la sua famiglia si era trasferita. Alex aveva vinto una borsa di
studio per una qualche università famosa di cui si era dimenticato il nome in
meno di un minuto, così avevano cambiato città per stare vicini al figlio
minore – unico, ormai.
Trent Everald aveva continuato a visitare il cimitero ogni
domenica per tutti e dieci gli anni. E anche in
seguito, nell’anniversario della morte del figlio era presente.
Abrahel
si nascondeva nell’ombra non appena vedeva arrivare qualcuno. Non era un bene
per lui che lo vedessero lì, soprattutto perché
risultava indagato per l’omicidio di Eric. Nessuno aveva creduto che fosse
morto per cause naturali, anche perché l’autopsia non aveva rilevato tracce di
malattie genetiche o problemi di altro tipo.
Si era
ipotizzata la droga, o il veleno. L’omicidio, comunque,
perché nessuno riusciva a credere che Eric potesse essersi suicidato.
Nemmeno Abrahel ci avrebbe creduto, sentendolo.
Poi, il
giorno del trasloco, Trent aveva trovato il borsone
nascosto nel garage. E tutti avevano cambiato idea.
Timoty
Satler visitò saltuariamente la tomba, portando sempre poche ma essenziali
notizie. Saluti, domande inutili del tipo “come stai?” anche
se era ovvio che non potessero ricevere risposta, notizie sulle sue gare e
sulle medaglie che vinceva. Era stato selezionato per la nazionale
olimpica, ma per qualche motivo non accettò.
Poi, anche
lui smise di andare a far visita.
Douglas
e Robert, così come McFarland,
passavano solo durante le feste natalizie. Loro rimasero in città, si sposarono
ed ebbero diversi figli. Dopo una ventina d’anni non rivide più nemmeno loro.
Una notte,
ricevette la visita di Marcus e Noah.
Erano entrambi vestiti di nero, ed entrambi avevano gli occhi tendenti ad un
rosso amaranto quasi fascinoso. Intuire il perché non fu
difficile: Marcus lo aveva trasformato, alla fine.
Parlarono un poco. Gli dissero che ormai dovevano trasferirsi, perché non
era più fattibile per loro rimanere in quella città. Nonostante
uscissero solo di sera – obbligatoriamente - la gente cominciava a chiedere che
fine avesse fatto Noah, ed era pericoloso per loro.
Si sarebbero trasferiti più a nord.
Abrahel
provò invidia, per Marcus. Almeno lui poteva
scegliere una via che non prevedesse la perdita della
persona amata.
Ma li
salutò comunque con un sorriso, alzando la mano con
molta fatica. Anche i muscoli delle braccia cominciavano ad
essere rigidi, e pesanti come piombo.
Ad un
certo punto, il cimitero venne chiuso. Le voci
parlavano di un problema con la falda acquifera sottostante al camposanto, ma
trasferire le tombe già presenti era impossibile. Inutile
dire che, nonostante le misure di sicurezza, non successe nulla se non
l’incremento del degrado.
Da quel
momento, fu un semplice susseguirsi di estati afose ed
inverni gelidi. La neve e la pioggia, unite alle altre intemperie, cancellarono
pian piano il placcaggio dorato delle lettere in ottone, che pian piano
ossidarono divenendo verdastre. Il marmo si sporcò di nero in più punti, e un
rampicante d’edera vi si arrampicò sopra, ricoprendola quasi per metà.
Intanto
lui esisteva. Continuava a vegliare.
Arrivò al
punto in cui scomparvero le mezze stagioni, e le piogge acide distrussero la
maggior parte della tomba di marmo a cui ancora faceva da guardiano. Il suo
corpo non si muoveva nonostante non risentisse del freddo o del caldo, della
pioggia o della neve; nonostante non invecchiasse, non si ammalasse, non... morisse.
Steso al
fianco di quella lapide, sull’erba che ormai aveva perso ogni traccia di vita,
alternava a momenti di coscienza piena altri di coscienza lieve.
Attendeva
che il tempo passasse.
Finché
l’udito si affievolì, e perse il gusto e l’olfatto. Non era sicuro di possedere
ancora la facoltà di parola, dato che non parlava con
nessuno da secoli forse; ma sicuramente aveva perso la cognizione del tempo.
Percepiva
solo i piccoli cambiamenti che immancabilmente avevano luogo.
E
sperava mancasse poco, alla fine. Alla sua
fine, sottoforma di sparizione rapida, indolore, insapore.
Il non
poter nemmeno dormire era un tormento.
Finché
un giorno, al tramonto, dei passi lo distrassero dai ricordi con cui amava
distruggersi.
Erano
leggeri e lievi, conosciuti in un qualche angolo recondito della sua mente. Quando vide i lembi di un abito di seta pura nera, con
ricami di fiori di camelia scarlatti, alzò lo sguardo.
Enma,
dall’alto della sua tranquilla pacatezza, lo osservava.
Storse le
labbra in quello che doveva essere un sorriso, ma non fu sicuro che risultò tale. Aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma l’unica
cosa che gli uscì fu un rantolio senza consonanti.
« Non
credere di poter parlare dopo tutto questo tempo » gli sentì dire, e nonostante
Enma avesse usato tono normale, Abrahel
lo sentì come se glielo dicesse dal fondo di una galleria.
Lo vide
chinarsi sulle ginocchia, attento a non sporcare i lembi della veste con le
erbacce che erano cresciute e marcite tutte intorno.
Si scostò una ciocca di lunghi capelli corvini dal volto pallido, scoprendo per
la prima volta le sue iridi dorate dalla pupilla allungata.
Si diceva
che Enma potesse trasformarsi in corvo, se voleva.
Quegli occhi dimostravano che era vero.
« Sai
quanto tempo è passato? » domandò poi il capo degli shinigami,
osservandolo con un misto di noia e quella che sembrava seccatura.
O
almeno, così sembrava ad Abrahel.
Cercò di
muovere il capo in un cenno negativo, riuscendoci solo fino ad un certo punto.
«
Trecentoquarantasette anni. Giorno più, giorno meno » continuò comunque l’altro, posando uno sguardo critico sul paesaggio circostante.
« Questo posto fa schifo... » considerò a bassa voce, arricciando il naso in
una smorfia disgustata. Tornò poi con lo sguardo su di lui, che ancora lo
guardava con la risoluzione di chiedergli cosa volesse da lui. Stava cercando
di articolarlo a parole, a dire il vero, ma proprio parlare non gli era più
possibile.
« Smetti di fare quei versi, sono inquietanti » lo apostrofò Enma, senza però stamparsi il solito ghigno di scherno sul
volto. Lanciò uno sguardo alla lapide e, senza scostare gli occhi da essa, continuò: « ammetto di aver passato degli anni,
cercando di capire quale incantesimo ti avesse fatto questo umano per fotterti in quel modo il cervello. Perché non si conquista,
non si sottomette uno come Abrahel, che il mondo lo
distruggerebbe in un batter di ciglia se solo a me venisse voglia di
ordinarglielo » fece un po’ di scena, prendendo una breve pausa: « ma ti sei
fatto fregare comunque. Allora ho pensato a cosa potesse averti fatto provare di così bello da trattenerti
ancorato qui per i secoli dei secoli, da solo, riducendoti ad una sorta di
cadavere che respira... ma non sono riuscito a capirlo ».
Chiuse gli occhi, si massaggiò stancamente le tempie. Riaprendoli, poi, riprese il
discorso: « Mi è impossibile comprendere l’amore, Abrahel.
Io e te siamo nati così. Ma tu no, tu hai dovuto
innamorarti, stravolgere le regole magari anche inconsciamente... e questo
presuppone che ti lasci qui ad aspettare e che io, di riflesso, attenda che tu
scompaia per farmene una ragione e cercarmi un altro demone da trasformare in shinigami » terminò, l’espressione contrita da qualcosa di interiore che probabilmente lo disturbava.
Accidenti.
Non ditegli ora che Enma aveva pure una coscienza, da
qualche parte.
Abrahel
lo osservò di rimando, in grado praticamente di fare
solo quello. Se era venuto fin lì non aveva
semplicemente bisogno di gongolare, altrimenti non si sarebbe nemmeno
disturbato. No... doveva esserci sotto qualcosa.
Enma
prese fiato, guardandolo con piena serietà per la prima volta da quando si
conoscevano. « Tu sai che non potrai rivederlo mai più, vero? » domandò, la
voce profonda.
Anche
dopo tutto quel tempo, Abrahel poté sentire l’ormai
famigliare stretta a cuore. Quella domanda faceva male, di per sé, nel rendere
concreto l’evidente.
Chiuse gli
occhi, respirando profondamente.
Enma lo prese come un’affermazione. « Lo sapevi anche prima. Per
la rinascita serve un’anima, per essere ammessi nell’aldilà
serve un’anima. Per tutto ciò che riguarda la morte serve un’anima, e
noi l’anima non ce l’abbiamo » rivelò scontatamente,
osservandolo con cipiglio curioso riaprire gli occhi.
Sì, lo
sapeva. Lo sapeva anche prima di baciarlo, di... ucciderlo. Gli aveva mentito
dicendo di sì ma lo sapeva, che non lo avrebbe rivisto mai più.
Per lui
era impossibile stare vicino ad Eric per più di quel breve periodo che avevano
già trascorso insieme.
Perciò
annuì, sospirando piano nel tentativo di non riaprire quelle famigliari ferite
vecchie di secoli.
Enma
arricciò il naso in una smorfia disgustata. « Spero veramente
di aver fatto la scelta giusta, anche se ti trasformerà in un
rimbecillito... » mormorò scocciato al suo fianco, infilando la mano dentro la
veste per estrarne un cristallo.
Abrahel
lo guardò, studiandolo attentamente, ma senza capire. Aveva la famigliare forma
di un’anima, ma non risplendeva di nessuna luce. Sembrava semplicemente un
involucro vuoto, inutile, tuttavia nuovo di zecca e senza nemmeno una piccola
scheggiatura.
Stava per
chiedere spiegazioni – o almeno provare ad articolarle – quando l’altro lo
anticipò.
« Ho
parlato con il Vecchio » rivelò, sbuffando come uno che ha dovuto cercare in sé
tutta la pazienza di cui era capace: « noi non possiamo violare le regole del
mondo, perciò non potevo fare qualcosa... per te » disse, frapponendo una pausa
prima delle ultime parole, che pronunciò con un’espressione profondamente
disgustata.
Enma
che faceva qualcosa per qualcuno... il mondo sarebbe
potuto finire anche subito, per quanto gli riguardava: da quel momento
affermava con cognizione di causa di aver visto tutto.
Lo ascoltò
continuare il suo discorso: « ho chiesto al Vecchio. Lui può tutto, il mondo
l’ha creato lui e bla, bla,
bla... » cantilenò con una smorfia, chiudendo gli
occhi un istante e tornando a guardarlo: « non è stato facile, Abrahel. Lui è particolarmente affezionato alle sue regole
e non era ben disposto... in tutti i sensi. Ma... » una pausa, ancora, calcolata. Un sorrisetto quasi
incredulo a piegare le labbra sottili: « da qualche parte, un’anima in lista
per la reincarnazione faceva i capricci. Il che è strano,
dato che le anime non hanno coscienza; eppure questa non aveva intenzione di
tornare sul Mediano. Sembrava che aspettasse,
e che dovesse farlo per forza... » lasciò cadere, lanciandogli un’occhiata
carica di significato.
Abrahel
capì, e di nuovo gli si strinse il cuore.
Non era
possibile. Come aveva appena fatto notare Enma, le
anime distaccate dai loro corpi non hanno una coscienza, così come non hanno memorie e ricordi.
...di
solito.
Provò ad
alzare un braccio, spinto da quelle emozioni di cui si era drogato per tutto
quel tempo tramite i suoi ricordi. Gemette quando ogni singola articolazione
gli mandò una scarica di dolore lungo tutto il corpo, radicandosi persino nelle
ossa, ma cercò comunque di portare la mano a sfiorare
i lembi della veste di Enma.
Di
raggiungerlo, in un qualche modo. Di chiedergli
silenziosamente di smettere di mentirgli, perché non era uno scherzo
divertente, quello.
L’altro,
però, evitò facilmente quel contatto. « Non insozzarmi i vestiti » disse,
lisciandosi con la mano una piega immaginaria sulla sua tunica di tessuto
purissimo.
Abrahel
lasciò ricadere il braccio a terra, senza più la forza di tenderlo. Guardava Enma con gli occhi di qualcuno che sta
subendo una tortura psicologica non indifferente, e il capo degli Shinigami si espresse in un ghigno schifato a quella vista.
Sembrava
una barzelletta che non faceva ridere, forse, vedere il
proprio miglior Shinigami preda della speranza.
Scosse il capo, riprendendo da dove si era interrotto: « in ogni caso è
stato deciso di prendere provvedimenti. Non possiamo rimanere bloccati
con il ciclo di morte e resurrezione, i motivi mi sembrano ovvi. Perciò... » un altro sguardo, un sorrisetto che esprimeva
profonda soddisfazione di sé stessi nonostante la situazione: « saluta il tuo
nuovo futuro da comune mortale, Abrahel. Anzi no... Joshua » disse, tenendo
fra due dita quel cristallo d’anima vuoto.
La sua
chiave per rivederlo, capì.
Quella
era...
« Questa è
la struttura base di un’anima. Quando le anime vengono
reincarnate, la loro luce viene trasferita dal cristallo precedente ad uno
nuovo: questo » mosse appena l’oggetto, per poi continuare: « ne ho recuperato
uno dal Vecchio. Non chiedermi come cavolo farà a farti
reincarnare, non lo so nemmeno io. Credo sia una di quelle cose che sa
fare solo Lui, sai no? Come si chiamano... “dogma”,
ecco » spiegò per completezza, annoiato.
Ma Abrahel non lo stava più ascoltando. Non più, da quando
aveva capito che una possibilità esisteva,
alla fine.
Una. Una
sola.
Ed era
sua.
Il sorriso
gli nacque spontaneo, sulle labbra. Non poté farne a meno.
Avrebbe
riso, se solo avesse potuto farlo senza rimanere completamente senza fiato. Se solo i suoi polmoni non fossero quasi atrofizzati, a causa del
tempo che era passato dall’ultima volta che aveva anche solo sorriso in quel
modo così genuino.
Così...
umano.
L’espressione
schifata di Enma peggiorò
nel momento in cui gli occhi candidi di Abrahel si
posarono sui suoi, cercando di esprimere quello che la voce non poteva.
« Cos’è
quella, gratitudine? » sputò: « per
favore risparmiatela; queste dimostrazioni di umanità
mi fanno venire bruciore di stomaco » si lamentò poi, rialzandosi in piedi e
appoggiando il cristallo vuoto accanto allo Shinigami.
Si
guardarono per l’ultima volta, questa volta seriamente.
« Sarai
ciò che odi, lo sai? » domandò, la voce profonda.
Il dio
della morte, chiudendo gli occhi, annuì.
« ...continua
a non avere senso, per me » lo sentì sussurrare, prima di udire anche un lieve:
« buona fortuna ».
E che Enma, così com’era arrivato, sparisse.
Ora,
doveva solo aspettare… ancora un po’.
Infine, il momento arrivò.
Chiudendo gli occhi
definitivamente, il nero sbiadì i colori. Il cuore non rallentò
il battito, così come il suo corpo non incontrò la morte.
Semplicemente, la sua coscienza si
spense. Semplicemente, si addormentò.
E pian piano, in un respiro un po’ più debole... scomparve.
Erano passati tre secoli,
cinquantacinque anni, ottantadue giorni e tredici ore.
L’eternità di chi non
muore mai.
Esosfera terrestre: anello
orbitante geostazionario “Circle”
Anno domini 2386
Puntando
le sue iridi di ghiaccio sul proprio nome in graduatoria, comparsa da poco in
quella specie di schermo olografico di dimensione
aeroportuale, le sue labbra si storsero in un ghigno a metà fra lo schifato e
l’orripilato.
« Ricerca
e sviluppo » sussurrò, incredulo. « Ricerca
e sviluppo! » sputò poi, calcando sulle uniche due parole che si era
riservato di dire da quando aveva letto i risultati degli esami d’ammissione.
Il ragazzo
al suo fianco alzò un sopracciglio. « E ti lamenti
pure? » borbottò risentito, puntando a sua volta gli occhi sul nome dell’altro:
« questo viene selezionato per il più importante
gruppo lavorativo che la NASA abbia mai finanziato per la ricerca nello
spazio... e si lamenta! » esclamò contrariato, sbattendosi sconcertato le mani
lungo i fianchi: « Josh, mia madre ti prenderebbe a
schiaffi ».
« Tua
madre è un utero di plastica, Ethan » rimbeccò
scorbutico l’altro, fissando il proprio nome come se dovesse prendere fuoco.
« Ok,
allora tua madre ti prenderebbe a
schiaffi » rispose il moro.
Joshua
posò lo sguardo sul ragazzo al suo fianco, incontrandone gli occhi dorati: « ...e
tuo padre un codice a barre » rincarò la dose, vendicativo, girando i tacchi ed
incamminandosi lontano dalla folla.
« Anche noi umani artificialmente prodotti abbiamo un cuore,
sai?! » sbottò Ethan, affrettandosi però a seguirlo.
« Oh, avanti Josh! Da quanto ci conosciamo, da undici
anni? » chiese poi retorico.
«
Purtroppo » borbottò Joshua, camminando mani nelle
tasche.
« E
pensavi davvero che dopo esserti fatto il culo in
Fisica Applicata ed Ingegneria Robotica Aerospaziale ti mettessero a pilotare
uno Spaceshuttle? » domandò però ironico l’altro,
ignorando la poco sottile frecciatina nei suoi confronti.
Joshua
si fermò, fissandolo con astio: « sì, se è per un posto da pilota che ho fatto domanda! » palesò, tornando a camminare a passo di
marcia lungo i corridoi. « Se sapevo che sarei finito
chiuso in un laboratorio a riparare AI(*) mal funzionanti sarei rimasto in
Illinois a coltivare pannocchie... » aggiunse mugugnando.
Al suo
fianco, Sparrow sospirò rassegnato.
Joshua
non se lo lasciò sfuggire. « Perché, tu sei contento?
» soffiò: « “Armamenti” ti rende soddisfatto? » domandò pungente.
« Certo, e
che cavolo! » esclamò però Ethan: « Ho studiato
apposta per entrare in Armamenti, nel caso te lo fossi
dimenticato » puntualizzò con scrupolo.
Archer,
deluso nel profondo dalla poca empatia dell’amico, roteò gli occhi. « Contento
tu... » sentenziò con sufficienza.
Ethan
arricciò il naso, contrariato. « Si può sapere cosa ti ha fatto di male il mio
settore? Ne parli come se dovessi andare a fare il benzinaio » argomentò con
testardaggine, cominciando ad essere profondamente seccato dal comportamento
dell’altro.
« Stare
chiuso a sviluppare un nuovo cannone a particelle che ci permetta
di distruggere ciò che rimane di Urano non mi sembra una prospettiva più rosea
di una stazione di servizio » replicò Joshua,
incontrando poi un silenzio stizzito da parte di Ethan.
In realtà
non le pensava davvero, quelle cose. Credeva che Armamenti fosse un ottimo
impiego, così come lo era anche Ricerca e Sviluppo, da un punto di vista
oggettivo.
Ma non
era ciò che voleva.
Per tutta
la vita si era sentito come se stesse cercando qualcosa, là fuori. Da qualche
parte.
Si sentiva
ansioso, nervoso ogni volta che rimaneva in silenzio e
ci pensava, prima di dormire.
Aspettava
e al contempo cercava. Si sentiva poi, a sua volta, atteso e ricercato al
contempo.
Era una
sensazione che non lo aveva mai abbandonato da quando ne aveva
preso coscienza.
Per quello
voleva fare il pilota. Viaggiare nello spazio, magari, lo avrebbe portato a
trovare quel qualcosa che, sapeva, doveva trovare.
Perché
era... importante, farlo.
Perché
significava qualcosa di fondamentale.
Voltò lo
sguardo verso le vetrate alla sua destra, osservando rapito i loro riflessi in
semi trasparenza. Dietro di essi, lo spazio profondo e
la sua infinita oscurità.
La sua
infinita tranquillità.
Sarebbe
volentieri vissuto sempre là, se questo fosse servito
a liberarlo da quel senso senza fine di ansia e aspettativa dell’ignoto. Di
qualcosa che poteva anche non esistere, per quanto ne sapeva.
Forse fu
per il suo viaggio nell’inconscio, che non si accorse della curva a sinistra. E, non accorgendosene, non la fece nemmeno.
Forse fu
una coincidenza, oppure più probabilmente il destino. Il fato, per chi ci
crede, o il caso, per chi non lo fa.
Fatto sta
che nei corridoi non si corre, ma questa regola universalmente e storicamente
nota puntualmente aveva la sua stupenda e turbolenta
eccezione.
Eccezione che si schiantò contro di lui a testa bassa, gettandolo a
terra con forza e facendogli compagnia con una caduta altrettanto rumorosa (e
dolorosa, supponeva).
Joshua
trattenne le imprecazioni per un suo profondo e radicato senso etico
dell’educazione. O semplicemente perché non voleva
sembrare troppo ciò che era: un contadinotto
cresciuto nelle campagne dell’Illinois.
Ma la
rabbia, oh... quella non gliela toglieva nessuno. Soprattutto con le premesse
da cui partiva.
« Tua
madre non te l’ha insegnato che nei corridoi non si corre?! » esclamò irritato
– a dire il vero molto vicino ad una crisi di nervi.
Alzò lo
sguardo e, nel farlo, sembrò che il mondo avesse improvvisamente smesso di
girare.
Quelli che
lo stavano guardando con sorpresa, erano un paio d’occhi dal caldo colore
castano. Ciuffi di capelli dello stesso tono sfioravano appena le gote
arrossate dalla corsa e il suo sguardo – gli occhi sgranati e la bocca aperta
in respiri pesanti derivati dalla fatica – si poteva dire decisamente
attonito.
Come, del
resto, doveva esserlo il suo.
« Eric! »
sentirono poi chiamare da lontano, lungo il corridoio di sinistra: « tutto ok,
ti sei fatto male? » domandò un ragazzo in avvicinamento, a sua volta di corsa.
A sentire il nome, sembrò che una mano gli avesse stretto il cuore. Lo mimò con
le labbra, senza un motivo, solo per assaporare la sensazione che dava farlo.
Quasi
contemporaneamente, Ethan fu al suo fianco. « Ohi Josh, tutto al suo posto? » domandò, porgendogli la mano
per aiutarlo a rialzarsi.
Mano che afferrò più per prontezza di riflessi che per vero volere. Gli occhi erano ancora incatenati
in quelli castani dell’altro che, dal canto suo, sembrava non avere intenzione
di staccare i propri dai suoi.
Lo vide trattenere il respiro al suono del suo nome, e muovere le
labbra come se anche lui, silenziosamente, lo avesse ripetuto.
Solamente
quando anche l’amico del castano gli fu al fianco, e lo aiutò a rialzarsi, sembrarono
ritrovare entrambi la buona educazione temporaneamente
resettata dai rispettivi cervelli.
« Mi
dispiace, andavo di fretta... » si scusò quell’Eric, tendendogli la mano: « non
ho ancora visto le graduatorie e... comunque sono Eric. Eric Everald » si presentò, cordiale.
Normalmente
non avrebbe risposto alla stretta di mano. Non quando l’interlocutore del caso
gli veniva addosso con la scusa patetica di andare a vedere una graduatoria che
rimaneva sui tabelloni per tutto il pomeriggio.
Già,
normalmente. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che
quell’incontro, quel momento, era tutt’altro che normale.
Alla scetticità di Ethan
al suo fianco che si esprimeva in una smorfia preoccupata – la faceva ogni
volta che si aspettava da lui un’uscita sgarbata e anti-sociale – lui rispose
ricambiando il gesto.
E dal
momento che le loro mani si incontrarono, qualcosa
cambiò.
No, anzi...
« Joshua Archer » rispose
brevemente, prolungando la stretta di mano più del necessario.
Cosa
che fece anche Eric, d’altronde.
« Senti...
» cominciò poi Eric, aggrottando appena le sopracciglia nell’osservarlo bene: «
ti sembrerà strano ma... noi per caso... »
« Ci siamo
già visti da qualche parte? » concluse però Joshua,
anticipandolo sulla domanda che probabilmente anche il castano voleva fare.
Aveva come
un senso di deja-vu che gli scorreva irrequieto sotto
la pelle.
La mano
che stringeva nella sua, in quel saluto convenzionale durato più del dovuto,
era calda e... familiare.
Troppo
familiare.
« Non... lo so » balbettò Eric, stranito.
Uno
schiarirsi di voci portò le loro mani a separarsi, richiamati all’ordine che le
convenzioni sociali volevano per gli sconosciuti incontrati per la prima volta.
Sempre secondo la stessa logica, si presentarono anche gli altri due, prima fra
loro poi con lui ed Eric.
Ma sempre,
per tutto il tempo... anche quando il castano e l’amico si congedarono – il
primo più dubbiosamente, più controvoglia – la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso non lo abbandonava.
Accorgersi
che lo aveva seguito sempre con lo sguardo, poi, fu decisamente
insolito.
Si girò,
ma non appena stava per riprendere la camminata si sentì richiamare.
« Archer! » esclamò Eric a qualche metro di distanza: « sei
occupato per pranzo? » domandò.
Gli sfuggì
un sorriso. « No! » rispose, soddisfatto per cosa non
sapeva.
« Allora sei
prenotato! » ribatté il castano, sorridendo a sua volta.
Da qualche
parte, qualcosa era cambiato.
No,
anzi...
Da qualche
parte, qualcosa... era ritornata al suo
posto.
~
Owari.
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* Con
“Vecchio” Enma si riferisce a Dio.
* “AI” sta
per Artificial Intelligence, ovvero Intelligenza
Artificiale.
* Remiel: nel libro di Enoch è il
sesto arcangelo, responsabile della speranza nel mondo. Uno dei suoi campiti è
trasportare le anime dei fedeli in paradiso.
* Moloch:
sono diverse le interpretazioni di questo personaggio, e cambiano a seconda della cultura e del popolo considerato, partendo
dai Fenici. La maggior parte delle interpretazioni, tuttavia, lo vede come un demone
che si fa sacrificare bambini (spesso primogeniti) tramite il fuoco. Mi collego
a questa versione e, cambiandola un pelo con un poco di libertà artistica, in
questa fanfic viene
trasformato in uno shinigami addetto alle anime dei
bambini.
E’ finita.
Mi sembra
impossibile poterlo dire, ma è finita. Io che ho la fobia degli ultimi
capitoli, lo ammetto, sono quasi orgogliosa di me stessa...
...anche se è venuto tutto l’opposto di quello che doveva
venire. Pazienza, è finita, e questo è l’importante.
Siccome è
l’ultimo capitolo, non mi dilungherò molto sulle risposte ad personam. Risponderò in separata sede a coloro che hanno commentato e che, se ne hanno voglia,
commenteranno anche l’epilogo.
Qui, invece,
ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente: angel15, dea73, Gioielle, Angel09 e CloudRibbon. Le vostre
recensioni mi hanno aiutata molto a superare le crisi
del “finale-che-non-deve-venire-banale-ma-che-sarà-così”
XD
Ringrazio
inoltre, e rinnovo la dedica a, Shichan
per le varie consulenze, i betaggi, la sopportazione
e tutto quel resto che ad elencarlo non finirei più. O peggio, cadrei sul melenso, e allora sì che Enma
avrebbe bisogno di uno psichiatra (XP).
Infine,
ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fanfic nei capitoli precedenti, che l’hanno letta anche
solo senza farlo e che l’hanno inserita nei loro preferiti.
Con la
speranza di non avervi deluso con questo finale, (se vorrete) alla prossima.
Ja ne!
<3