7.
Takaishi Takeru
“Sei sempre la
solita stupida, Naoko. Perché non stai attenta?”
“Non sono stupida!
Sei tu che non mi hai aspettato: perché non vuoi mai stare con me?”
“Perché sei una
femmina, no?”
Stavano ancora
bisticciando tra loro. Appena aveva riportato Naoko al parco, tutti i suoi
compagni di giochi le si erano avvicinati preoccupati. Ma Shinji non avrebbe
mai ammesso di essersi spaventato per l’improvvisa sparizione della piccola:
arrabbiarsi con lei era l’unico modo di nascondere l’apprensione che lo aveva
sopraffatto in sua assenza.
Il problema era che
Naoko questo non riusciva a capirlo: i suoi occhi cominciavano a riempirsi di
nuove lacrime. Era meglio intervenire subito.
“Dai, adesso basta,
Shinji-chan” disse Yagami Hikari al bambino dai capelli castano chiaro,
mettendogli una mano sulla spalla per zittirlo. “L’importante è che non è
successo nulla di male a Naoko-chan. Possiamo evitare di litigare, adesso?
Perché non giocate insieme?”
Gli sorrise,
incoraggiante. Era davvero difficile far sparire quel broncio dal viso del
bambino: spesso nessuno ci riusciva, nemmeno Taichi, che era la persona con cui
andava più d’accordo. Eppure, sperava davvero che la sua mancanza di attenzione
rivolta a Naoko qualche tempo prima non scatenasse altre lacrime o altra voglia
di farsi i dispetti.
Il volto di Shinji
si fece ancora più scuro. “Ha fatto preoccupare tutti! E’ colpa sua!” si
difese, imbronciato più che mai. “Non ho fatto niente, io!”
“Io non mi sono
preoccupata!”
L’improvviso
intervento di Asami fece zittire tutti quanti: Hikari osservò, divertita,
l’aria di rimprovero, di sorpresa e di sgomento che ogni bambino aveva assunto.
Persino Shinji era a corto di parole.
Eppure, la piccola
con i capelli neri corti fino al mento appariva tranquilla, come se avesse
detto qualcosa di scontato. E la giovane sapeva che il suo intento non era
malvagio: ci doveva essere una spiegazione logica a un comportamento
all’apparenza tanto scorretto.
“Sei cattiva a dire
così, Asami-chan!” la riprese Junichi, che quando non si scatenava negli sport
adorava mettere fine alle discordie del gruppo usando il suo ruolo da maggiore:
per lui, otto anni erano abbastanza per essere grande. “Si è spaventata tanto,
non vedi?”
Asami sgranò i suoi
grandi occhi scuri, sorpresa. “Lo so! Ma perché sono cattiva?” domandò.
“Pensavo che Sora l’avesse portata a comprare quel gelato che voleva, quindi
non mi sono preoccupata!”
Hikari rise. Non
sarebbe mai cambiata, di questo era sicura. “E non hai visto che Sora era con
noi?” le chiese, cercando di non dare l’impressione che stesse ridendo per
prenderla in giro: non voleva ferire i suoi sentimenti.
Asami scosse la
testa. “No… quando è sparita eravamo vicino alla pasticceria, e stavo guardando
i dolci dalla vetrina!” rispose tranquillamente.
“Tu pensi sempre
solo ai dolci!”
I piccoli
ascoltatori avevano cominciato a sbuffare e a scuotere la testa, commentando la
grande passione di Asami con aria scettica. Quando cominciavano a discutere tra
loro in quella maniera, l’unica cosa che andava fatta era lasciarli divertire
da soli.
Hikari si allontanò
dal gruppetto, osservando suo fratello Taichi e Sora mentre spingevano
sull’altalena alcuni bambini, che ridevano e strillavano divertiti. Sorrise tra
sé, beandosi di quella scena di grande serenità. Quell’uscita pomeridiana era
stata davvero un colpo di genio: c’era un sole splendido, e in quel parco verde
pieno di bambini dell’orfanotrofio si respirava un clima di gioia e
spensieratezza.
Proprio quello che
ci voleva loro dopo l’ansia della ricerca di poco prima.
“Sei triste?”
Sobbalzò, presa
alla sprovvista da quella voce così conosciuta e così sincera. Non si era
accorta della presenza di qualcuno accanto a sé, tanto era stato silenzioso ad
arrivare.
Keiji la osservava
con i suoi occhi castani sempre attenti, i capelli viola –come sempre-
scompigliati e una lattina di aranciata in mano. L’espressione di viva
curiosità era ben visibile sul suo volto.
Gli sorrise. “Mi
hai spaventata” ammise, e un sorrisetto birichino piegò le labbra del bambino.
“Ti spavento sempre”
disse con semplicità. “Mi sembri triste: sei tutta sola.”
Aveva sempre una
maniera tutta sua per interessarsi agli umori degli altri: alle volte, Hikari
aveva quasi la sensazione che la limpidezza del suo animo non venisse mai
intaccato dalla negatività della gente. Più tempo passava, più sentiva di voler
bene a quel bambino.
Scosse la testa,
aggiustandogli i capelli scompigliati. “No, non ti preoccupare, Keiji-chan:
stavo solo riflettendo, tutto qui” gli rispose. “E tu dov’eri? Hai visto che
abbiamo ritrovato Naoko-chan?”
Keiji annuì,
osservando il gruppo di bambini che le si era radunato attorno con aria seria.
Pareva che non ci fosse modo per sorprenderlo, si ritrovò a pensare la ragazza
divertita.
“Sì, però non
voglio andare lì.” Disse soltanto. “Litigano.”
“E allora resta un
po’ con me, ti va?” gli chiese dolcemente. Solo lei era a conoscenza dell’odio
di Keiji per le discussioni dei suoi amici: aveva un carattere molto
tranquillo, e i pianti, gli spintoni e i dispetti lo infastidivano e lo portavano
a isolarsi inconsapevolmente.
Lui le lanciò
un’occhiata curiosa. “Cosa facciamo?”
“Vediamo:
potremmo…”
“Aspetta! Ti prego,
voglio parlarti!”
L’urlo inaspettato,
proveniente dall’entrata al parco, la fece fermare, sorpresa. Malgrado il tono
fosse totalmente nuovo, essendo pieno di una supplica quasi disperata e di
affanno, Hikari era sicura di averlo già sentito in precedenza.
Si girò
automaticamente, per scoprire se aveva avuto ragione.
E sgranò gli occhi,
totalmente presa alla sprovvista.
Correva verso di
lei, con il fiato corto, un cappello bianco sui capelli biondi e un’aria
determinata a raggiungere il suo obiettivo ben visibile nei suoi occhi azzurro
chiaro.
Era il ragazzo che
aveva cercato di aiutare Naoko in sua assenza.
E non aveva dubbi
sul fatto che stesse cercando lei: il suo sguardo era fermo sulla sua figura da
quando si era voltata verso di lui.
“Ci ha seguiti fin
qui?” disse tra sé, non riuscendo a capire. “Deve aver dimenticato di dirmi
qualcosa…”
“Cosa vuole da te?”
chiese Keiji. La ragazza si stupì nel constatare che il bambino era rigido, e
che il suo sguardo penetrante non perdeva un singolo movimento del ragazzo dai
capelli biondi in avvicinamento.
“Keiji-chan, cosa
c’è?” gli domandò, preoccupata.
Ma Keiji non ebbe
il tempo di rispondere. Il giovane sembrava avere molta fretta di raggiungerla:
in pochi istanti era accanto a loro, ansimante, mentre la osservava con uno
sguardo che non le riuscì di interpretare. Le parve quasi che stesse cercando
in lei qualcosa che gli serviva in quel preciso istante.
“Scusa… scusa se ti
ho seguita… fin qui” riuscì a dire il ragazzo chiamato Takaishi Takeru, non
appena ebbe recuperato un po’ di fiato. “Mi serviva solo un’informazione, se
posso… E’ che vorrei tanto… conoscere la risposta alla mia domanda.”
Un’informazione da
lei? Hikari era davvero perplessa. Avrebbe potuto chiedere a chiunque: perché
mai si era scomodato di correre sulle sue tracce?
In ogni caso, gli
sorrise, stupita. “Certo. Come posso aiutarti?”
Takeru esitò,
probabilmente cercando la maniera più giusta per esprimersi. “Hai detto di
chiamarti… Yagami, vero? Come il nome della famiglia che gestisce
l’orfanotrofio. Io… mi chiedevo se tu fossi un componente di quella famiglia.”
Ora era sorpresa.
Era curioso che avesse fatto subito il collegamento: non si sarebbe mai
aspettata che la domanda del giovane avrebbe riguardato l’orfanotrofio e la sua
famiglia.
“Sono una delle
figlie di Yagami Yuuko, la fondatrice” rispose al ragazzo biondo, osservandolo
con curiosità. “Posso chiederti come fai a conoscere il nome della mia
famiglia? Conosci per caso mio padre, o… hai conosciuto mia madre?”
Il pensiero la
riempì improvvisamente di uno strano sentimento. Si scoprì a desiderare che
fosse vero: mai come in quelle circostanze aveva bisogno di sentire che sua
madre le era vicina, e sapere che un suo conoscente aveva deciso di incontrarla
era stranamente rassicurante. Sembrava quasi che il suo spirito avesse deciso
di assisterli in quelle difficoltà, e dire loro che non dovevano arrendersi per
nessun motivo.
Ma la risposta
interdetta di Takeru fece morire rapidamente quella speranza.
“Che? No” si
affrettò a dire, comprendendo che c’era stato un malinteso. “Non li ho mai
conosciuti.”
Hikari si
rimproverò per quel senso di delusione bruciante che aveva attanagliato il suo
cuore. Non poteva dare la colpa al suo interlocutore, che se ne stava in totale
silenzio in attesa di trovare le parole giuste per dare voce ai suoi pensieri: non
poteva biasimare qualcun altro solo perché lei era così tanto alla ricerca di un
aiuto indiretto da parte di sua madre defunta.
“E allora perché
conoscevi il mio nome?” chiese infine, tentando di non far trasparire
ulteriormente la sua tristezza dal suo tono di voce.
Il giovane sembrò
imbarazzato per qualche motivo sconosciuto: lei lo osservò in attesa di una
risposta, non capendo cosa gli stesse succedendo. “Io… io vivo accanto a voi,
così mi sono informato. Ecco tutto” fu la sua risposta, dopo che ebbe abbassato
improvvisamente lo sguardo sulle mani che si tormentava. “E… beh, so che vi
fate in quattro per gli ospiti del vostro orfanotrofio.”
Hikari sorrise
imbarazzata, non sapendo bene come rispondere. “Siamo felici di renderci utili”
commentò con tono incerto.
Qualcosa cambiò in
Takeru quando lei finì di parlare: le parve che all’improvviso i suoi occhi
azzurri, sollevati nuovamente a guardarla, si fossero riempiti di pura angoscia
e sofferenza. Non riusciva a capire cosa avesse detto per rendere il suo
sguardo così tormentato, e fu quasi spaventata da quello che vide.
“Ho detto qualcosa
che non… “provò a dire, ma lui la precedette.
“Come fate?”
Rimase così
attonita dal tono dell’altro da zittirsi di colpo. “Eh?”
Non lesse alcuna
traccia di esitazione sul volto del giovane, mentre rispondeva. Sembrava che
avesse finalmente formulato la domanda che lo aveva spinto a seguirla.
“Non dev’essere
certo facile quello che fate, eppure continuate a occuparvi di tutti quei
bambini come se fosse un gioco da ragazzi. Ci vuole tanta, troppa attenzione
per fare in modo che ogni ospite del vostro orfanotrofio non stia male, eppure
non demordete. Siete solo dei ragazzi, ma sapete trovare la soluzione ad ogni
problema senza alcuno sforzo. Dovete avere per forza una carica in più, e
vorrei sapere qual è, per capire cosa vi spinge ad essere così sicuri di quello
che fate.”
Il silenzio che
seguì sembrò protrarsi per un tempo illimitato.
Hikari era
immobile, con lo sguardo fisso su quello di Takeru, improvvisamente a corto di
parole. Era pietrificata dal tormento che leggeva negli occhi del suo interlocutore,
e sapeva che lui si aspettava da lei la risposta a questa spinosa questione.
Non riusciva a capire cosa lo portasse a quasi supplicare una cosa del genere,
ma sapeva che non sarebbe mai andato via senza aver ottenuto quello che voleva.
Ma la giovane non
sapeva cosa rispondere. Lei conduceva la sua vita nella maniera che riteneva
più giusta, sempre alla ricerca della soluzione migliore per la salute dei suoi
cari e cercando di non lamentarsi mai per le cose che andavano in maniera
diversa da quella che aveva immaginato, ma sapeva di non essere infallibile,
sovrannaturale, o speciale in alcuna maniera.
Pareva, invece, che
Takaishi Takeru volesse parlare con un’eroina.
“Non abbiamo
nessuna carica in più, te lo posso assicurare” cercò di spiegare, con voce
insicura. Si vide costretta ad abbassare lo sguardo, non riuscendo a sostenere
per troppo tempo l’insistenza disperata sul volto del giovane. “L’unica cosa
che ci spinge è la nostra fede in quello che facciamo, e l’affetto per i
bambini. Nient’altro…”
“Non posso
crederci.”
Sembrava non
volesse comprendere. Era fermamente convinto che ci fosse dell’altro.
Quando Hikari lo
vide fare un involontario passo in avanti, sussultò, presa alla sprovvista. La
sofferenza incisa sul volto di lui era così intensa da essere addirittura
spaventosa.
“Davanti alle
difficoltà pensate alla fede in quello che fate? Rimanete saldi ad affrontare
di tutto senza scoraggiarvi? Io non riesco a capire come facciate a non
demordere! Mi sembrate in grado di evitare ogni disgrazia, e credo ci sia
dell’altro. Vorrei davvero saperlo.”
“Mi dispiace, ma
non so davvero come rispondere…” disse piano Hikari, ritraendosi leggermente.
Perché tutte quelle domande? E perché la verità sembrava essere così insita
nelle sue azioni da non volersi rivelare nemmeno a lei stessa?
“Non avete
problemi? Problemi di mantenimento, organizzazione, povertà, studio… Qualunque
cosa? Come li risolvete?” insistette Takeru, testardo.
L’affermazione la
colpì come un pugno in pieno stomaco.
Le parve più vivida
che mai la paura di fallire, la paura di perdere ogni bene, di non poter
continuare ad accudire i bambini dell’orfanotrofio. La mancanza di fondi che
preoccupava tutti da qualche tempo le sembrò un ostacolo insormontabile, e
rimase senza respiro.
Ne avevano eccome di
problemi.
Ma non sapevano
risolverli. Non sapeva risolverli.
Sentì i suoi occhi
farsi lucidi, ma si sforzò di non versare nemmeno una lacrima.
Affrontò, invece,
lo sguardo di Takeru, accettando la verità.
“Non lo so. Certe
volte non si riesce a trovare subito la risposta. Siamo esseri umani, come te:
sbagliamo tante volte, ci abbattiamo, ma non demordiamo semplicemente per il
motivo di cui ti parlavo prima. Mi dispiace di non poterti aiutare.”
Ci fu altro
silenzio. Takeru apriva e chiudeva la bocca senza riuscire a dire nulla, ma
Hikari lesse una delusione cocente sul suo viso. Lo vide abbassare la testa, e
osservare i fili d’erba del parco, preso da chissà quale pensiero, e il suo
cuore si riempì di pietà per lui.
Sembrava un’anima
tormentata, che non riusciva a trovare pace.
“Mi dispiace
davvero” gli disse poi in maniera più dolce. “Ma perché ti interessava tanto?”
“Io…” fece per
rispondere Takeru, ma una voce lo interruppe.
“Qualche problema,
Hikari?”
Si voltò, presa
alla sprovvista, e solo in quel momento si rese conto che Keiji era sparito da
qualche tempo. Al suo posto c’era Taichi, che fissava ora lei ora Takeru con le
sopracciglia corrugate. Sembrava perplesso, e anche preoccupato.
Capì solo in quel
momento di quanto la scena dovesse apparire strana.
Si sforzò di
sorridere, un azione che le risultò quasi fuori luogo. “No, nessuno,
tranquillo” rispose, allontanandosi di un passo da Takeru. “Lui è il ragazzo
che ha trovato Naoko-chan prima: era qui per…”
Si fermò,
imbarazzata, non sapendo come continuare.
Ma Taichi la tolse
d’impaccio. Pur perplesso, gli sorrise cordiale. “Beh, ti ringrazio per quello
che hai fatto, ma non ti sentire in debito, d’accordo? Va tutto bene.”
Hikari notò che
Takeru si torceva le mani, alzando lo sguardo solo raramente. Avrebbe tanto
voluto sapere a cosa stesse pensando.
“Felice… di essere
stato utile.” Disse, con uno strano sorriso amaro. Poi lo guardò, facendogli un
cenno di saluto. “Ora devo andare.”
Prima di voltarsi e
dirigersi verso destinazioni ignote, però, il ragazzo si voltò a fissarla. Quel
sorriso non era ancora scomparso dal suo viso.
“Scusa per il
disturbo.”
Hikari avrebbe
voluto rispondergli che non ce n’era stato alcuno, che anzi avrebbe voluto
essergli d’aiuto, ma lui non le diede il tempo di fare nulla: un istante dopo
era già andato via, perso nei suoi pensieri.
Rimase in silenzio,
non sapendo come reagire a quello che aveva visto. Cosa avrebbe voluto sapere
da lei? E quanto era rimasto deluso dalle risposte che lei gli aveva fornito?
Era inutile
pensarci, dopotutto: non lo avrebbe scoperto mai. Ma non riusciva a togliersi
dalla mente quegli occhi azzurri così pieni di dolore che non le riusciva di
comprendere.
“Ma cosa voleva da
te quel ragazzo?” fece ad un tratto Taichi, osservandola con curiosità mista a
uno strano sospetto. “E’ venuto a chiamarmi Keiji prima, e credo di non averlo
mai visto con un’aria così allarmata. E’ successo qualcosa, sorellina?”
Hikari sorrise tra
sé. Ecco spiegato il motivo della presenza di suo fratello accanto a lei: non
avrebbe potuto accorgersi da solo di quello che le stava accadendo, dato che
era impegnato con i bambini insieme a Sora. Per qualche strano motivo, Keiji
doveva essere più teso del solito: se ne chiese la ragione per un istante, non
trovando risposta.
Guardò ancora verso
la direzione dove Takaishi Takeru era sparito, sospirando.
“Non voleva nulla
di importante: voleva sapere se ero una dei ragazzi che lavorano
all’orfanotrofio, dato che ha fatto il collegamento col mio nome.” Rispose.
Per qualche motivo,
non riuscì a dirgli tutto: sentiva che ciò che era successo era ancora troppo
personale per essere rivelato agli altri, persino a suo fratello. Glielo
avrebbe detto in un altro momento, decise.
Taichi scrollò le
spalle. “Allora mi sono preoccupato per niente? Meglio così” le disse,
sorridendo e cingendole le spalle con un braccio. “Dai, andiamo di là, o Sora
minaccerà di prendermi a calci: sta lavorando da sola…”
Hikari ridacchiò.
“Allora facciamo in fretta.”
Si sentiva protetta
nell’abbraccio di suo fratello maggiore. Il calore che sentiva fisicamente
riusciva a allontanare momentaneamente il ricordo di Takeru dalla sua mente, e
sapeva di averne bisogno per non rattristare i bambini.
Era importante che
il suo stato d’animo non fosse mai turbato, quando era con loro.
***
“Occorre fare il
punto della situazione, ragazzi.”
Izumi Koushiro era
un ragazzo che raramente appariva preoccupato per qualcosa: chi lo conosceva
sapeva bene che il suo carattere sempre alla ricerca di qualsiasi soluzione gli
impediva di scoraggiarsi facilmente, o di cedere alla sua preoccupazione.
Ma quella sera, gli
occhi castani del ragazzo dai capelli rossi esprimevano tutta l’enormità del
problema che voleva esporre.
Hikari non riusciva
a sopportare il clima di quella riunione. Erano tutti tesi: persino suo
fratello Taichi aveva la fronte corrugata, segno che non era assolutamente
tempo di scherzare. L’aria di Mimi esprimeva tutta l’angoscia per il discorso
che stavano per affrontare, e la giovane non poteva assolutamente biasimarla;
Sora aveva lo sguardo basso, fisso sul pavimento, probabilmente preparandosi
psicologicamente a qualsiasi cosa avesse detto Koushiro; e non aveva mai visto
Jyou così allarmato, sebbene fosse il suo atteggiamento naturale verso chiunque
a cui teneva.
Hikari sentiva le
sue mani tremarle, ma non poteva sottrarsi a quella riunione. Era suo dovere
essere informata sulla reale portata dei problemi che si erano presentati
tutt’a un tratto: era giusto prendere in mano la situazione.
Eppure, si sentiva
stranamente distrutta, quasi distante dal resto del gruppo. Era come se fosse
presente ma assente allo stesso tempo, e non sapeva spiegarsi questo miscuglio
di emozioni.
“Quest’orfanotrofio
rischia davvero di non avere più fondi per continuare ad essere mantenuto,
nonostante il lavoro provvisorio di cui mi sto occupando” continuò Koushiro,
osservandoli uno ad uno con aria insolitamente seria. “Le donazioni giornaliere
che riceviamo non sono sufficienti a raggiungere quell’agiatezza che ci serve.
Di questo passo, metteremo a rischio la vita di tutti i bambini.”
“Non possiamo!”
esclamò Mimi, con aria piena di orrore. “Che fine farebbero tutti quanti? E
abbiamo anche ospiti di pochi mesi! Non possiamo metterli sulla strada di
nuovo, Koushiro-kun!”
“Purtroppo non
dipende da me” rispose lui, con tono grave. “Non so davvero come potremmo
portare avanti il progetto.”
Hikari pensò al
volto di ogni bambino, ai loro giochi e all’affetto che provava per loro e che
sapeva essere corrisposto, e con una fitta al cuore si rese conto di non sapere
cosa fare per evitare la disgrazia. Li avrebbe lasciati a morire di fame, senza
trovare rimedio?
Se solo fossi ancora viva, mamma, sapresti
cosa fare, pensò,
disperata, senza riuscire ad aprire bocca.
“Calmiamoci,
adesso” disse all’improvviso Taichi, con la solita fermezza e determinazione
che sempre lo aveva contraddistinto. Seppe di non essere l’unica a volgersi
verso di lui come all’unica persona che poteva trovare una via d’uscita: da
sempre, suo fratello aveva dimostrato di avere lo spirito del capo, e tutti
sapevano che avrebbe cercato una soluzione fino all’ultimo, senza arrendersi
mai. “Non siamo sul lastrico: stiamo solo attraversando un brutto periodo,
tutto qui. Ma nessuno di noi ha intenzione di rinunciare, vero? E allora
ragioniamo, senza perdere altro tempo.”
Hikari sorrise
leggermente. Caro, vecchio Taichi: era grazie a lui che lo spirito del gruppo
era sempre alto. Senza di lui non sarebbero stati nulla, e sapeva di non essere
l’unica a pensarlo.
“Taichi-kun ha
ragione” intervenne Sora, sollevando, infine, lo sguardo. “Se non riusciamo a
farci bastare quello che guadagna Koushiro-kun con il suo lavoro informatico,
allora anche alcuni di noi dovrebbero trovarsi un piccolo lavoretto: forse,
racimolando il tutto, potremo ottenere risultati migliori.”
“Sì, ma c’è un
problema” rispose Jyou, preoccupato. “Abbiamo tanti bambini da accudire, e noi
siamo già in pochi per tutti quanti. Chi baderà a loro, se alcuni di noi
saranno impegnati?”
“Era proprio per
questo che non l’ho proposto” aggiunse Koushiro, con tono abbattuto. “Non
abbiamo nessuno che ci aiuti in questa situazione.”
Come sembrava
vivido, in quel momento.
Il volto di
Takaishi Takeru, incredulo, davanti a lei. Gli occhi penetranti, fissi sui
suoi.
Le sue parole.
“Non avete problemi? Come li risolvete?”
Era scioccato,
determinato a credere che lei volesse nasconderglielo.
Si sbagliava.
Erano solo un
gruppo di ragazzi che sognavano un futuro migliore, ma senza i mezzi per farlo.
Stavano mettendo in pericolo la vita di tanti bambini, senza colpa, senza
nessun diritto di essere allontanati dopo aver trovato, infine, un rifugio per
loro.
Era tremendo.
Avevano deciso loro di prendersi cura di loro fin da quando Yagami Yuuko era
ancora viva, e adesso, per il disinteresse generale, stavano per fallire.
Era logico che
Takeru fosse incredulo. Solo dopo aver parlato con lui aveva scoperto che la
situazione in cui si trovavano era davvero abominevole.
Era loro dovere
prendersi cura dei loro piccoli. E non riuscivano a farlo.
Avrebbe pianto, se
non si fosse sentita così distrutta.
“Potremmo cercare
lavori che non occupino tutta la settimana, in modo tale da renderci più
disponibili possibile” intervenne Taichi, sospirando. “E’ tutto quello che
posso proporre.”
“Ma basterà?”
chiese ansiosa Mimi, afferrandogli il braccio con aria supplichevole.
“Dovrà bastare. Non
c’è altra soluzione.” Fu la risposta.
“In ogni caso, la
situazione non può che migliorare, seppur di poco” aggiunse Koushiro,
leggermente più rinfrancato. “Qualsiasi aiuto ci porterà sulla buona strada.
Senza contare che non ho intenzione di smettere di lavorare.”
Sora annuì, Jyou
esclamò un “Sono d’accordo”, Mimi lasciò il braccio di Taichi con un sospiro.
Hikari non riuscì ancora a dire una sola parola. Nonostante il piccolo conforto
dato dalla soluzione momentanea di Taichi, sapeva che il problema non era stato
risolto.
Sapeva che si
sarebbero nuovamente riuniti nello studio di Koushiro tra qualche tempo, alla
ricerca di un sistema più duraturo e soddisfacente.
“Bene, direi che la
seduta è sciolta” affermò suo fratello maggiore, alzandosi in piedi. “Quando
qualcuno di noi avrà trovato un lavoro che possa fare al caso nostro, lo dirà,
siamo intesi?”
“Intesi, capo!”
rispose Jyou, con una strana irruenza che solitamente non aveva.
“Hikari-chan, tutto
bene?”
Hikari si riscosse
dai suoi pensieri, sorpresa. Si volse verso Sora, al suo fianco, e la vide
preoccupata, come se temesse per la sua salute. Erano tutti molto buoni con
lei, come al solito.
“Sì…” disse
esitante. “Sono solo… preoccupata. Stiamo facendo la cosa giusta? Se mia madre
fosse qui… farebbe le stesse scelte?”
Si accorse solo
dopo aver finito di parlare che la voce le tremava.
Sora le sorrise, un
sorriso triste e comprensivo, prima di abbracciarla stretta.
“Siamo tutti
preoccupati” le disse piano. “Non possiamo sapere cosa avrebbe fatto tua madre
se fosse stata qui adesso, ma possiamo cercare di immaginarlo, e tirare avanti.
Sta’ solo tranquilla, capito? Non lasceremo che le ultime volontà della signora
Yagami cadano nell’oblio. Resteremo saldi tutti insieme, perché so quanto tu e
tuo fratello ci teniate.”
Hikari, sorpresa,
commossa e grata per le parole che la sua amica le stava rivolgendo, ricambiò
l’abbraccio. Sapeva di avere un disperato bisogno di tutti loro per andare
avanti, e non solo per dirigere l’orfanotrofio.
Suo fratello, i
suoi amici e i bambini che accudiva erano il dono più prezioso che le era stato
fatto nella vita, e non ne sarebbe mai stata grata abbastanza.
“Grazie, Sora-san”
rispose, staccandosi da lei e sorridendole. “Sono così felice che tu e gli
altri abbiate deciso di starci accanto.”
“Figurati.” Rispose
la maggiore, con un sorriso altrettanto largo.
“Sora-chan, non
vieni?” giunse la voce di Mimi, che si sbracciava sulla porta per attirare
l’attenzione della ragazza dai capelli ramati. “Ho promesso a Ryoko che questa
volta anche tu avresti vestito le sue bambole insieme a noi! Sei attesa, lo
sai?”
Hikari ridacchiò,
osservando l’espressione esasperata sul viso di Sora. “Te l’avrò detto mille
volte, Mimi-chan: io non me ne intendo di moda!” disse in risposta.
Mimi non si
scoraggiò: le sue labbra si incurvarono in un sorriso malizioso. “Molto, molto
male: bisogna rimediare, sai? E’ la tua occasione, non puoi perderla!”
Quando la giovane
dai lunghi capelli castani si intestardiva su qualcosa, era quasi impossibile
farle cambiare idea. Ed era una vita che cercava di convincere Sora a
rinunciare al suo abbigliamento semplice e decidersi ad essere più femminile.
E nemmeno lei
poteva spegnere questo spirito intraprendente.
“Arrivo” si arrese
alla fine, raggiungendo Mimi e sorridendo sconfitta.
“Vedrai che te lo
farò piacere!”
Era bello sapere
che l’angoscia di poco tempo prima sembrava essere momentaneamente messa da
parte: forse era questa l’unica cosa che li faceva essere così determinati.
Sospirò,
affacciandosi alla finestra. Vide i bambini riuniti in cerchio, intenti ad
ascoltare, con vivo interesse, le piccole recite abitudinarie che Taro amava
mettere in scena.
Erano sempre così
spensierati, così semplici: sembrava che i problemi non appartenessero loro, in
nessun momento della giornata.
Non potevano sapere
che il loro destino era così precario. Non lo avrebbero saputo.
Hikari sapeva che
avrebbe dovuto essere forte: avrebbe lavorato fino allo stremo delle sue forze,
si sarebbe impegnata affinché i sogni di sua madre non andassero perduti, non
si sarebbe arresa, come le aveva spesso sconsigliato suo fratello Taichi nei
momenti di sconforto.
Solo…
Sorrise tra sé,
scuotendo la testa.
Era davvero un
pensiero sciocco, ma sapeva quanto desiderasse che fosse vero.
Avrebbe voluto
essere davvero infallibile come Takeru aveva creduto, quel pomeriggio.
Sarebbe stato di
grande conforto, sapere che la possibilità di mettere sulla strada tutti quei
bambini per cui avrebbe dato tutto non fosse lontanamente immaginabile.
Doveva essere
rassicurante essere un’eroina: non pensare mai di essere una limitata umana, il
cui destino dipendeva dalla quantità di fondi guadagnata…
Avere il potere di
non far piangere o soffrire i suoi piccoli…
Proteggerli come solo una vera mamma poteva fare…
Salve a tutti! A Natale trascorso, sono davvero felice di proporvi l'aggiornamento di questa storia, che va avanti grazie anche agli incoraggiamenti a continuare che ricevo dai miei lettori! ** Ora stiamo entrando nel pieno dell'azione: riprendendo il punto lasciato dal capitolo 5, ecco l'incontro bloccato precedentemente tra Takeru e Hikari! Che spero vi sia piaciuto, naturalmente.Ringrazio Shine, sempre la prima a recensire quando si tratta di un certo personaggio xD! Allora, che posso dirti? Ricordo perfettamente ogni annesso e connesso, ma allora non sapevo che il capitolo ti fosse piaciuto tanto: per questo è stata una bella sorpresa leggere i tuoi commenti. :) La scena in libreria aveva proprio l'intento di creare quella situazione paradossale: persino io mi sono divertita a scriverla! Per quanto riguarda la scena a casa Inoue, sono felice che ti abbia colpito tanto -così come la richiesta finale! Ricordi? ^^ Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è sapere che sei stata attenta ad osservare anche Osamu, che in questo capitolo ha un ruolo marginale... Grazie per l'attenzione! ** E per i complimenti, e per la costanza! Aspetto tuoi commenti appena potrai, intanto ti saluto con un bacione! Ti voglio bene!
Per Mystery Anakin io spero che l'attesa non sia stata troppo lunga! Mi dispiace di metterci tanto ad aggiornare questa storia... ^//^ Mi fa piacere che tu abbia trovato lo scorso capitolo avvincente: credimi, è una grande soddisfazione, considerando tutto il tempo che ci ho messo per rendere quelle scene al meglio! ** E sì, mi piace molto troncare i capitoli in stile film a puntate: fa più effetto! :) Se continuerai a seguirmi, forse avrai le risposte che cerchi! Per intanto non posso che ringraziarti per quello che fai per me - e credimi, è tanto! Aspetto di sentirti, ti voglio bene!
Da quello che ho potuto capire dalla recensione, Roe, ho notato che tu sia dubbiosa su alcune questioni! Sbaglio? ;) Proverò a dirti qualcosa con discrezione. Non penso che il nascondiglio di Miyako sia così incomprensibile, perciò non credo sia uno spoiler rivelarlo ai lettori u.u davvero eri così sorpresa nel vederla lì? E per quanto riguarda la signora Inoue, data la sua instabilità è normale che tu non abbia ancora capito che fine hanno fatto i fratelli di Miyako. Lo vedrai più in là :) Per il diario strappato non posso dirti nulla, mi dispiace! Infine, per l'incidente... Beh, ti basti sapere che personalmente non mi piace scrivere di particolari privi di senso -quindi non lo è-, che in realtà è un bambino e non una bambina, e che sì, era Miyako la salvatrice! In ogni caso, ti ringrazio per aver letto e gradito il cap! ^^ Spero di trovare altre tue recensioni, a presto! Tvb :)
Vi aspetto al prossimo capitolo, a presto!
Padme Undomiel