Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: keska    27/12/2009    39 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Sollevai rapidamente gli occhi dal libro, come se davvero Edward non si potesse accorgere che lo stessi spiando.

Lui, dall’altra stanza, ricominciò a parlare velocemente al telefono. O meglio, sibilare. Aveva un’espressione vacua e neutra, come se stesse tentando di trattenersi. Ed era andato avanti così per tre giorni, dopo il nostro quasi incidente ancora inspiegabile.

Ma non demordevo.

Dopo un iniziale esitazione avevo deciso di fare qualcosa. Ero stata, ancora una volta, un’egoista, rimanendo a compiangermi senza aiutare in alcun modo Edward. Ero stata stupida, lasciando che l’effetto che mi facevano i suoi problemi prendesse il sopravvento sui problemi stessi. Mi ora avrei corretto i miei sbagli, e visto che sola non mi ero dimostrata capace di farlo sola mi ero completamente affidata ad Alice, che aveva insistito tanto per chiedere consigli anche a Rosalie. Più esperta in queste cose. Così aveva detto. Così mi ero fatta incastrare. Quello che non avevano previsto era che io non avevo nulla a che fare con… quel genere di cose.

Mi mordicchiai le labbra, abbassando lo sguardo e sentendomi avvampare. La bambina era decisamente divertita dal mio imbarazzo. Piccola peste. L’avevo chiesto a Carlisle e lui aveva risposto che era impossibile che ridesse di me. Al più, reagiva così perché era quello che mi aspettavo che facesse.

Comunque stessero le cose, si era molto divertita, in quei giorni, a tutti i miei tentativi di sedurre Edward, che, anche se non me l’aveva mai detto espressamente, non poteva minimamente pensare che non avessi compreso che non voleva fare l’amore con me. Avevo cominciato quasi innocuamente, piegandomi con la schiena piuttosto che con le ginocchia ogni volta che mi chinavo, lanciando sguardi e occhiate, facendo allusioni. Puntualmente, ogni volta, veniva da me e mi baciava con dolcezza, faceva un sorriso gentile, mi accarezzava la pancia. Io arrossivo, e lui svaniva. I miei tentativi andavano tutti in fumo, e tutto si condensava in una vaschetta di gelato e una nuova consulenza con le sorelle Cullen.

«Sì, questa sera Carlisle, ho capito» sentii, mentre sfrecciava a velocità vampiresca da una parte all’altra della stanza, camminando nervosamente.

Sospirai, perdendomi ancora nei miei pensieri. La seconda fase era stata ancor più imbarazzante, e decisamente poteva essere quasi definita un attentato, dal mio pudico punto di vista. L’avevo chiamato, nuda, sotto la doccia, con la scusa del sapone negli occhi. Era venuto in un istante, e mi aveva subito aiutata. E, di certo, non gli ero rimasta indifferente. Tuttavia, dopo essersi accertato che tutto andasse bene era scomparso in un lampo, lasciandomi sotto il getto caldo della doccia e nuovamente in balia del gelato e delle sue sorelle.

Ma nulla sarebbe stato più imbarazzante della terza fase.

«Bella, tutto bene?» chiese, facendomi sobbalzare.

Mi portai una mano alla pancia, spostando gli occhi lontano dal suo viso, facendoli saettare da un lato all’altro, come un bambino appena beccato con le mani nel barattolo di marmellata.

La sua espressione si fece confusa. «Sei tutta rossa» mormorò, poi posò una mano sulla mia fronte. Scrollò le spalle, sorridendomi.

Forse la terza fase poteva essere anticipata.

«Andremo a caccia, con Carlisle, Esme, Rosalie e Alice. Jasper e Emmett rimangono con te».

«Ma Edward» mi lamentai, querula, «non posso rimanere sola? Mi prenderanno in giro tutta la sera». Non potevo permettermi di avere due vampiri tra i piedi. Soprattutto se uno dei due era Emmett, questo sarebbe indubbiamente andato contro i miei piani!

«Sono sicuro che si comporteranno bene» ribatté tranquillo.

Misi il broncio, poggiando la testa sui gomiti. «Scommetteranno su qualsiasi cosa. Non possono rimanere Alice e Rosalie?».

Sospirò, alzando gli occhi scuri al cielo. «Alice ci serve di più con noi. Jasper e Emmett ti sapranno proteggere meglio» spiegò gentile.

«Ma io…» avrei dannatamente avuto bisogno di loro per realizzare i miei piani, che non potevano più essere rimandati!

«Ti prego Bella, non fare così» disse lui, prendendomi il viso fra le mani. «È già abbastanza difficile separarsi da te per tutto questo tempo» mi avvicinò, lasciandomi senza fiato con un bacio tormentato, come se in quello volesse imprimermi tutto il suo amore.

Mi sorrise, la sua fronte attaccata alla mia, mentre ancora mi riprendevo. «Facciamo così, li faccio rimanere a distanza, okay? Avrai tutta la casa per te. Mi raccomando, riposati, rilassati, e stai tranquilla. Non ti addormentare… stasera dobbiamo andare da Carlisle» pronunciò lentamente, come se quella frase avesse un immenso valore. «Mi raccomando» rimarcò ancora.

«Sì, certo» mormorai, toccando nuovamente le mie labbra con le sue, stringendo i capelli nelle mie mani, avida di averlo ancora accanto, più vicino.

Dopo qualche secondo si staccò, ansante, come l’avesse appena attraversato una scossa elettrica, lasciandomi il vuoto fra le mani, dove prima c’era la sua testa. Deglutì, senza staccare gli occhi da me. «Vado» sussurrò, poi sparì.

Sospirai, guardando il vuoto lasciato dalla sua meravigliosa figura. Fui tentata di seguire la mia voglia e andare ancora ad attingere alle risorse di gelato, ma poi pensai che ingrassare sarebbe stato contro tutti i piani congeniati. Ma come avrei fatto, ora che non avevo più il supporto diretto di Alice e Rosalie? Magari avrei potuto posticipare la cosiddetta “terza fase”. Ero già imbarazzata solo al pensiero di dover…

Lo sguardo mi cadde su un dettaglio che sino ad allora non avevo notato. Era un biglietto, appeso alla spalliera del divano, scritto con la calligrafia di Alice. Diceva che avrei, per l’appunto, dovuto cavarmela da sola e che, entrambe, non ammettevano defezioni da parte mia.

Hai tre ore di tempo, mi raccomando, non sprecarle! Ti abbiamo lasciato tutto nell’attico.

Buona fortuna!

Sospirai, sentendomi incredibilmente ridicola, ora che ero sola, senza nessuno che mi spronasse a compiere quelle fesserie. Il cameratismo mi aiutava a sopprimere l’imbarazzo. Sentii un amalgama di sentimenti e emozioni nascere dalla bambina. «Oh, tesoro» farfugliai, accarezzandomi la pancia. La determinazione crebbe pian piano, sopprimendo sempre più il senso di disagio e il rossore sulla mia pelle. Dovevo farlo, per lei.

Cominciai a darmi da fare, dandomi coraggio. Nella grande stanza avevano lasciato una miriade di pacchi e pacchetti, con un grande foglio e un bigliettino su ciascuno di essi che ne descriveva il contenuto. Cominciai a preparare le cose così come erano presentate nell’elenco, tentando di non soffermarmi troppo con la mente su quello che prendevo, toccavo, spostavo.

Ero sicura che questo sarebbe servito a Edward, per questo lo stavo facendo, come dovere di moglie. Edward cambierà idea, stasera sarà di nuovo con te. Questo mi ripetevo, e questo mi aiutava ad andare avanti nell’assurdo piano. Lui non mi avrebbe mai detto di no, ci saremmo amati, come non mai, e saremmo stati di nuovo felici, ancora una volta, affrontando insieme le particolarità di questa gravidanza.

Particolarità fuggevoli e molteplici, così avevano scoperto Emmett e Jasper, ricercando negli antichi testi e nelle vecchie leggende, dall’assurda rarità. Questo era quello che ci avevano riferito, il giorno del nostro quasi incidente. E anche se Carlisle non me l’aveva ancora detto, mi aveva chiaramente fatto capire che partorire mia figlia normalmente sarebbe stato quasi impossibile. Esternare il mio dispiacere era inutile e superfluo, soprattutto con tutti gli altri problemi che avevamo. Comunque la bambina sarebbe stata bene, e io dovevo fare che era meglio per lei e non creare nuovi motivi di tensioni. Sicuramente per Edward sarebbe stato meglio così.

Sistemai tutto l’ambiente, creando l’atmosfera adatta e accendendo al massimo i riscaldamenti. Mi sentivo stanca e accaldata, eppure continuavo a sistemare, in modo che ogni singola cosa fosse davvero perfetta. Quando tutta l’enorme stanza fu completamente circondata da candele, quando il letto a tre piazze e mezzo fu ricoperto da foulard e veli di ogni tipo, quando un aroma intenso e caldo riempiva l’aria, spessa di 30 gradi di temperatura, mi sedetti sul mio posto, in silenzio, prendendo un grosso respiro nell’aria ambrata.

Mi sentivo molto a disagio per quello che stavo facendo. Avevo immaginato da ragazzina, quando ancora vivevo con mia madre, il mio matrimonio. Avevo immaginato mio marito e pensato scherzosamente che l’avrei sedotto. Lo vedevo quasi come un dovere coniugale, qualcosa di divertente, qualcosa di possibile. Ma niente mi aveva preparata al senso di disagio che sentivo. Dopo i fatti accaduti con Jacob la mia mente si era automaticamente difesa. Era molto istintivo per me tentare di proteggere il mio corpo, me stessa, non incappare negli stessi meccanismi che mi avevano quasi portata alla violenza.

Sospirai. Edward non era Jacob.

Costrinsi le braccia a liberare le gambe e i seni, quasi completamente nudi. Presi un grosso respiro, prima che l’aria mi mancasse nei polmoni. Indossavo un succinto intimo di pizzo, nulla di volgare. Nero. Classico, sgambato al punto giusto. Avevo lavato e sciolto i capelli, facendoli cadere, morbidi, sulle spalle.

E mi costava molto fare tutto quello anche perché sapevo perfettamente che pur tentando di essere più bella e sexy, non avrei mai potuto neppure sperare di essere un decimo di quello che era lui.

Sospirai, muovendomi a disagio, e mettendo le mani sotto le gambe. Dannazione! Non stavo facendo nulla di male, perché in fondo Edward era mio marito, e tutto quello era lecito, e dovevo, dovevo farlo. Non potevo più commettere errori, non potevo più temporeggiare! Non potevo più fermarmi a compiangermi. Edward mi avrebbe detto tutta la verità. Risolvere uno dei nostri problemi sarebbe stato un passo avanti per risolverli tutti.

Guardai l’orologio appeso sulla parete drappeggiata. Erano passate due ore e mezza, e se Alice aveva detto tre, voleva dire che mancava appena mezz’ora. Un improvviso, nuovo, ennesimo dubbio mi balenò in mente: come e dove avrei dovuto farmi trovare?

Stesa? Seduta? Inginocchiata…?

Mi mordicchiai un labbro, imbarazzata, nascondendo poi il mio viso fra le mani. Mi mossi, velocemente, nervosa, risollevandomi. Mi sedetti su letto, premendo una mano sulla pancia e costringendomi quel respiro che tanto mi rimaneva bloccato nel petto. Accidenti, non era il caso di farsi venire una crisi poco prima dover sedurre il proprio marito.

Tentai di riconcentrarmi, di assumere nuovamente il controllo di me stessa. In fondo, non sarebbe accaduto nulla. Edward sarebbe tornato, mi avrebbe trovata nella stanza… tutta piena di candele… vestita in un intimo succinto…

Sentii il fiato tra i denti e un bollore diffuso alle guance. No, accidenti, dovevo pensare ad altro. Spostai lo sguardo sulla pancia, e naturalmente i miei pensieri confluirono verso il piccolo amore che c’era rinchiuso dentro. Era piccola, cinque mesi, appena compiuti. Difatti quella sera stessa Alice aveva insistito tanto perché andassimo a trovarli per festeggiarlo. Solo in una famiglia di vampiri potevano essere festeggiate certe ricorrenze! E questo mi faceva solo capire quanto le loro vite fossero state condizionate dal mio ingresso in famiglia e dalla scoperta della gravidanza. Era stato un magnifico imprevisto per loro, tanto che la loro vita sembrava ormai ruotare attorno a quella di mia figlia.

Sorrisi, ricordando l’ultimo dialogo che avevo avuto con Jasper. Gli avevo chiesto se avesse notato nulla di stano in Edward, e lui aveva risposto, sempre intento a giocare con le mie emozioni e quelle della bambina, che… «Edward? Edward era preoccupato, come al solito», il tutto accompagnato da un tono poco interessato e un impeto di anormale euforia per me.

«Bella».

Impallidii, ritornando immediatamente con i piedi per terra, quando sentii pronunciare il mio nome da quella che era inequivocabilmente la voce di mio marito. Sgranai gli occhi, guardandomi velocemente attorno, nella vana ricerca di un posto e un modo per sistemarmi. Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e sarebbe stato inutile tentare di fermarlo, perché di sicuro se n’era già accorto.

Mi voltai terrorizzata verso la rampa di scale.

«Bella, sei qui su? Cosa stai facendo…?». Quando la sua figura fu completamente visibile, io mi ero già nascosta dietro il baldacchino del letto.

Avevo la schiena completamente addossata ad uno dei pilastri e una mano premuta sul petto nel tentativo di fermare i forti sussulti da cui era scosso. Non volevo neppure immaginare la sua espressione alla vista di tutte le candele e i foulard. Ero rossa, rossa come un pomodoro, e avevo imbarazzo e vergogna. Ma ormai era tutto fatto, non potevo permettermi di temporeggiare.

Strizzai gli occhi, posando una mano sulla pancia. Per Edward. Trattenni il fiato, uscendo dal mio nascondiglio e aprendo gli occhi.

Edward era immobile, in piedi al centro della stanza, ad appena cinque metri da me. Il suo viso era un imperturbabile maschera di cera.

Deglutii. Non se n’era ancora andato, e questo era un bene, decisamente. Forse potevo davvero avere una possibilità.

Feci velocemente il tratto che ci divideva, bloccandomi a un metro da lui. Si mosse impercettibilmente, spostando le iridi dorate sul mio corpo e lasciando sfuggire un rantolo dalle labbra.

Non pensai neppure più, compii l’ultimo gesto come se fossi un’altra me stessa e stessi fantasticando su qualcosa di impossibile.  

«Edward» mormorai, accorciando definitivamente le distanze. La mia bocca fu sulla sua, veloce, impetuosa, passionale. Allo stesso modo le mie mani che vagavano tremanti sul suo corpo senza sosta, toccandolo, sfiorandolo, lambendolo. Volevo imprimere la perfezione, la durezza, il freddo della sua pelle, sui miei palmi. Volevo averlo con me, per me, in me.

Lo trascinai, con forza, sul letto. Nonostante rimanesse pressoché fermo, si lasciò trasportare senza opporre alcuna resistenza. «Edward, Edward» sussurrai, baciandogli la mascella perfettamente squadrata. Lo feci cadere sul letto, di schiena, e subito fui su di lui, senza lasciargli il tempo di un inutile respiro.

Mi staccai per un attimo, ansante, seduta sul suo bacino, osservando famelica il suo viso, sconvolto e sorpreso. Mi spinsi su di lui, perseverando nei baci con la stessa passione. Non riuscii a trattenere un sorriso quando lo sentii, finalmente, rispondere al bacio.

Tutta la passione che gli avevo buttato addosso come un fiume in piena stava pian piano facendo braccia fra i suoi argini. Immaginare cosa sarebbe accaduto, una volta esplosa la diga, era un lusso che la mia mente si concedeva volentieri. Era timoroso, delicato, lambiva il mio labbro superiore con le labbra e la lingua ghiacciata, facendomi vibrare dal piacere, e lo sentivo, sotto di me, corrispondere la mia stessa eccitazione.

Era da così tanto tempo che non ero così speranzosa, così serena, così felice.

Mosse le mani, finalmente. Mi accarezzò le braccia e salì fino a stringermi i polsi, le mani immerse fra i suoi morbidissimi capelli. Sentivo il tonfo sordo del mio cuore scontrarsi contro il petto, quando in un solo fluido movimento ribaltò le posizioni, trovandosi su di me, senza gravarmi col suo peso.

Sostenni il suo sguardo, fissandolo coi miei occhi nei suoi, liquidi di passione. «Bella» esalò, roco, scendendo con esasperante lentezza fino al mio viso. Spostò le mani dai miei polsi, intrappolando il mio viso e facendo scorrere la punta del suo naso sul mio.

Mi mancò quasi il respiro quando mi accorsi che c’era qualcosa che non andava.

Chiuse le palpebre, sofferente, serrando la mascella e tremando, tentando di bloccare ogni suo movimento. «Ti prego» farfugliò, attraverso le labbra frementi e tremanti «è già abbastanza difficile… non… rendere tutto più complicato…».

Scostò la testa di scatto, gli occhi sempre serrati, e in un unico gesto si sedette sul letto, a un metro da me, la testa fra le mani.

Ero immobile, semplicemente immobile e paradossalmente rapita dal più pungente dei freddi. Perché questo non veniva dall’esterno, partiva direttamente dal cuore, congelandomi da dentro. Trovai una mano posata sulla bocca, non consapevole del gesto appena compiuto, a sfiorare le labbra, peccatrici. Il gelo imperversava in me, impedendomi ogni movimento, impedendomi di pensare, ma non impedendo al vento, artico, di soffiare nella mia mente, consolidando ciò che fino a quel momento era rimasto dubbio.

Lui non mi voleva.

Riuscii persino a sentire il mio gemito sconvolto, mentre i miei peggiori incubi diventavano realtà. Sentii il ghiaccio esplodere da dentro, formando mille schegge ghiacciate che si conficcavano nella mia carne, tagliavano la mia pelle, mi pungevano come spilli sottili e velenosi.

Alzai la testa di scatto, sollevandomi e correndo con tutta la mia velocità umana verso le scale. Nascondendomi con le braccia, nascondendo imbarazzata il mio corpo.

Sentii una mano ghiacciata sulla spalla.

«Edward» gemetti in un sussurro, scrollandola, piano, perché l’allontanasse, senza voltarmi a guadarlo in faccia, ricominciando a correre.

«Bella, ti prego» disse, fermandomi nuovamente dopo pochi gradini.

«Edward!» sbottai più forte, la voce distorta dal dolore, ricominciando a correre, allontanando tremante con una mano la sua, raggiungendo velocemente la nostra camera da letto.

«Bella ti prego, fermati».

Mi voltai di scatto al centro della stanza, guardandolo finalmente in faccia, e costretta dalle sue parole gli feci vedere i due abbondanti rivoli di lacrime che scendevano dai miei occhi.

Trattenne un sussulto. «Bella» disse addolorato, facendo un passo nella mia direzione e posando il palmo sul mio viso.

Lo allontanai, riversando tutta la mia angoscia, la mia frustrazione, la mia rabbia. «Non mi toccare Edward, non mi toccare!» piansi, sprofondando nel mio dolore tanto quanto sapevo di causarne a lui «Non mi vuoi, allora perché mi tocchi? Cosa cerchi? Non c’è niente che ti posso dare!».

Strinse le labbra in un’espressione sofferente, vedendomi sgattaiolare verso la cabina armadio, ansiosa di celare la mia nudità. Indossai il primo paio di jeans che trovai, rischiando più volte di cadere per via delle lacrime che inondavano la mia visuale. Le asciugai rapidamente con il dorso della mano, tirando su col naso. Trovai una maglietta e la misi, augurandomi di averla indossata nel verso giusto.

Inciampai quando tentai di mettere le scarpe, e subito ci furono le sue braccia a sorreggermi. «Non ti azzardare a toccarmi!» sibilai, liberandomi da lui e lasciando perdere quelle dannate scarpe.

«Bella, amore, ti prego! Non è vero quello che dici, non è così» fece, sofferente.

Mi voltai, rabbiosa, verso di lui. «È anche questo allora? Oltre al fatto che non mi vuoi più pensi anche che io sia troppo stupida per capire, Edward? Lo pensi?» sbottai, i pungi stretti lungo i fianchi. Sentivo un grossissimo peso sul petto, che mi impediva ogni respiro. Ma era un dolore peggiore di quello fisico. Mi comprimeva, e non lasciava più spazio ai miei dolorosi dubbi, che si condensavano in certezze e venivano naturalmente esternati, in dolorosissime parole. «È più di un mese che mi respingi!».

Non mi rispose, fissandomi senza dire nulla.

Abbassai gli occhi, pentendomi delle mie parole. In fondo che colpa aveva lui se non mi voleva più? Sentii le lacrime ricominciare a sgorgare senza sosta. «Ti prego Edward» singhiozzai «lo so che non è colpa tua, ma… mi sento già piuttosto… umiliata… il fatto che tu cerchi di giustificarti mi fa solo stare peggio». All’ennesimo singhiozzo corsi via, in cucina, chiudendomi dentro.

Posai la testa sulla porta, lasciandomi scivolare con la schiena lungo il legno bianco. Lo sentivo, avvertivo la sua presenza ad appena pochi centimetri da me. «Va via» rantolai.

«No, no. Ti prego, esci di lì. Sai che non mi costerebbe nulla entrare».

Sussultai. «Non farlo se ritieni di dovermi almeno un po’ di rispetto». Singhiozzai più forte, sollevandomi, diretta verso il frigo. Aprii, tremante, lo sportello bianco, ma non ci trovai nulla di quello che volevo per saziarmi, per sfogarmi, per tentare in qualche modo di non pensare e di lenire il mio corpo martoriato. Urlai, distrutta, quando non trovai niente di ciò che cercavo. Persino quello! Non bastava quello che avevo subito, persino quel piccolo, inutile, idiota dettaglio!

«Bella! Bella, cosa stai facendo?».

Mi asciugai nuovamente le lacrime, prendendo un grosso respiro. Quando schizzai via lo trovai, come mi aspettavo, appena dietro la porta. Non lo degnai di uno sguardo, non potevo permettermi di indugiare sulla sofferenza del suo volto, sulla sua espressione affranta. Non potevo, perché sapevo che le schegge di ghiaccio infilzate nel mio cuore sarebbero scese più in profondità, senza alcuna pietà.

Riuscii a mettere le scarpe, nonostante il tremore, nonostante le lacrime. Infilai velocemente il primo giaccone che trovai, e scappai via verso l’ingresso, afferrando al volo le chiavi della mia auto.

«Dove stai andando?» chiese sbarrandomi la strada.

Presi un respiro, guardandolo, sofferente. «Fammi passare».

«No» ribatté, secco.

«Edward! Non puoi farmi anche questo! Fammi passare dannazione!» esclamai, tentando inutilmente di farlo.

«No» ribadì ancora, spostandosi alla sua velocità a seconda dei miei movimenti. Non era arrabbiato, non era determinato. Solo mortificato. «Dove stai andando?».

«Voglio solo» feci un respiro secco, lasciando cadere la braccia lungo i fianchi «voglio solo andare a comprare… una cosa. Fammi passare, non hai alcun diritto di tenermi qui» dissi dura, cattiva. Volevo solo andare via. Volevo solo sfogarmi e smettere, dannazione, smettere di fargli del male. Perché era la sola cosa che mi riusciva in quel istante.

Come prevedibile rimase immobile, consentendomi di passare. Corsi in garage e mi chiusi nella mia macchina, respirando affannosamente e facendo in pochi secondi appannare tutti i vetri. Accesi gli sbrinatori e misi in moto, premendo sull’acceleratore e facendo girare il motore a vuoto, rabbioso.

«Bella». Sussultai sentendo la sua voce ovattata, dall’altra parte del finestrino. «Ti prego, non fare sciocchezze, non sei in condizione di guidare».

Tirai giù tutte le sicure, lasciando la frizione e sgommando via. Era il crepuscolo, già buio lungo le strade di Forks, e la visibilità era molto scarsa a causa della pioggia scrosciante. Così potevo anche permettermi di non pensare a nulla, tranne che alla strada e alla guida, e allo sciame d’api che sembrava essermi entrato dentro. Arrivai in poco tempo al piccolo supermercato di Forks, parcheggiai la macchina, occupando ben tre dei pochi posti a disposizione, e mi fiondai all’esterno sotto la pioggia.

A sbarrarmi la strada vidi la figura di mio marito, i capelli incollati all’addolorato viso angelico. Mi aveva seguita, come prevedibile. Con un grande sforzo lo ignorai, passandogli accanto e sgattaiolando nel supermercato. Non era per me tutta quella bellezza.

I suoi passi sciaguattavano accanto ai miei, molto più rumorosi. Mi diressi, decisa, verso quello che cercavo. Sentivo la sua presenza, bruciante, accanto a me, ma facevo finta di non vedere, di non sentire. Non volevo farlo. A che pro? Lui non mi voleva, semplice. Ogni giustificazione sarebbe stata mortificante e dolorosa.

Mi avviai in silenzio verso la cassa, sbuffando quando notai la fila di gente che si era formata.

«Dai a me, pesa».

«No» sibilai, stringendo al petto i miei quattro chili di gelato, presa da quell’inopportuna e fastidiosa voglia che mi stava scombussolando lo stomaco.

«Bella» disse, in tono di rimprovero.

«No. No. No».

Le persone che stavano in fila davanti a noi si voltarono, guardandoci.

«Fate passare avanti quella donna incinta» disse una vecchina.

«Sì, sì» concordarono gli altri.

Edward fece un gesto con un braccio per farmi camminare fra il varco che avevano creato. Strinsi la mascella, fissandolo arrabbiata. «No» dissi testarda. «Non ce n’è bisogno».

«Non essere sciocca» ribatté lui «Grazie» disse poi, rivolto agli altri, spingendomi dolcemente in avanti.

Vedendo i visi e le espressioni curiose delle persone che mi guardavano fui costretta ad accettare, sempre più arrabbiata, sempre più innervosita, per evitare nuovamente di scoppiare a piangere davanti a tutti. Pagai velocemente quello che avevo preso e corsi via, sotto la pioggia, lasciando cadere le lacrime.

«Bella, ti prego. Non puoi guidare così. Vuoi fare del male a tutte e due?». La voce addolorata di mio marito mi raggiunse alle spalle. Era logico che si preoccupasse di sua figlia… lei… lei non aveva nessuna colpa. Lasciai che mi sfilasse le chiavi di mano e mi sedetti sul sedile del passeggero, in silenzio, stringendo il grosso sacco di cartone al petto e guadando fisso fuori dal finestrino.

Era la prima volta che litigavo con Edward. Ed era molto più doloroso di quanto mai avrei potuto immaginare. Ma mi sentivo tradita, mi sentivo umiliata, mi sentivo svuotata. Mi sentivo maledettamente arrabbiata.

«Non puoi mangiare tutto quel gelato, ti sentirai male».

«Non importa».

«A me importa».

Feci scioccare la lingua. «Certo» mormorai a denti stretti.

Scattai fuori dall’auto, entrando in casa non appena ne ebbi l’opportunità. Edward continuava a seguirmi, passo dopo passo, molto più veloce di me. Mi voltai verso di lui, ad appena quattro metri da me, non riuscendo più a rimanere in silenzio. «Lasciami. In. Pace!» esclamai, urlando.

«Bella, amore».

Lasciai cadere con un tanfo secco il gelato sul tavolo del soggiorno. «Che cosa vuoi ancora, che cosa vuoi?! Vuoi che me ne vada io?! Me ne vado!» sbottai, riprovando ad uscire.

«No» mormorò afflitto.

«Allora vattene, vattene Edward! Vai via! Se non mi vuoi più potevi almeno avere la decenza di trattarmi meglio, potevi almeno avere la decenza di non farmi sentire un maledetto schifo!».

«Non è vero che non ti voglio più» scandì con tono controllato, sconsolato.

Quelle parole mi fecero solo infuriare di più. «E allora che c’è? Eh? Che c’è?».

Rimase in silenzio, a disagio.

«Certo. Io non sono abbastanza per capire, non sono abbastanza per comprendere, non posso pretendere di sapere niente, io!».

«Non è così Bella, non hai capito».

«Infatti, è proprio questo il punto! Lo vedi come continui a ferirmi, lo vedi? Vai via Edward, vai via, voglio stare da sola».

«No, Bella. Ti prego, calmati. Non fare così, amore».

«Non chiamarmi amore!» urlai, rossa in viso. Afferrai il primo, stupido, suppellettile che trovai, senza neppure pensarci un secondo, scagliandoglielo addosso. «Con quale cazzo di coraggio mi chiami amore, dove sta l’amore?!».

«Bella, ti prego. Ti stai agitando troppo» fece timoroso, non tentando neppure di afferrare o schivare gli oggetti che gli lanciavo.

«Vai via!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Mi ritrovai, ansante, a fissarlo con disprezzo e disperazione. La testa era compressa in una morsa, pulsava, le mai mi formicolavano e sentivo la gola incendiata per le urla. Ma mentre la mia voce gridava quello, nella mia testa avevo tutt’altro tipo di frasi. «Non mi lasciare, non mi abbandonare. Ti prego, abbracciami e guarisci tutte le ferite che tu stesso hai causato» parole che non potevo pronunciare, ma che mi rimbombavano dentro come un’eco.

«Calmati» ribadì ancora, sollevando le mani come in segno di resa.

«Me lo dovevi dire prima calmati, Edward! Non sono più calma!» esclamai, indicandomi con una mano tremante, mentre mi mordevo le labbra per impedirmi di piangere ancora. Il fatto che si giustificasse, che non tentasse di difendersi, che pensava ancora a me, alla bambina, mi faceva solo sentire sempre peggio e sempre più arrabbiata.

«Io mi sono vestita così per te, capisci, per te! Tu non puoi sapere quanto mi sia costato tutto questo, non puoi! Dannazione, Edward! Volevo sedurti, semplicemente sedurti! Pensi che sia stata una passeggiata? Sai quanto è difficile per me, dopo tutto quello che ho passato, dopo tutto quello che mi è stato fatto. Mi sono detta “Bella, come fai a non capire, tuo marito ha un problema, ha bisogno di te! Sei stata stupida, non hai fatto abbastanza per lui!”. Ti chiedevo, ogni giorno, se ci fosse qualcosa che non andasse. Se ne volessi parlare con me. ma tu “No, va tutto bene!”» sbraitai, furente. Lui mi osservava colpevole, non cercando neppure di ammansirmi.

«E ancora, ancora mi sono sentita in colpa! In colpa, capisci? Mi sono sentita uno schifo di moglie, un’incapace. Allora ho deciso di offrirti l’unica cosa che mi rimaneva, nonostante mi facesse soffrire, patire, il solo pensare di dover offrire, di mia spontanea volontà, il mio corpo! Ma tu ne te sei fregato!» urlai con tutto il fiato che avevo, la testa che mi pulsava per il sangue che velocemente l’aveva raggiunta, lanciando l’ultimo oggetto che mi rimaneva a portata di mano.

Vidi le sue dita bianche bloccarlo prima che si frantumasse contro di lui come tutti gli altri oggetti.

«No, Bella, no, accidenti!» sbraitò improvvisamente, facendomi sgranare gli occhi. Non l’avevo mai sentito gridare così. Non l’avevo mai sentito arrabbiato. Non si era mai arrabbiato con me.

Respirava anche lui affannosamente, malgrado non ce ne fosse alcun bisogno. «Io lo so, lo perfettamente quello che hai passato! Cosa credi? C’ero anch’io a tuo fianco, e ti vedevo soffrire. Ero lì oggi volta che non mangiavi, che non parlavi, quando piangevi. Ero lì ad ogni incubo e ad ogni attacco di panico. E soffrivo, soffrivo con te, ti aiutavo a mettere insieme i cocci. Pensando ogni singolo giorno che tu non saresti stata, che non sarai, più mia! Io c’ero!».

Mi ripresi dallo stupore in pochi istanti, e poi subito risposi.

«E allora perché ti comporti così? Perché?». Il tono delle nostre voci era lo stesso, ormai. «Pensi sul serio che non ci sia più nulla in me? Cosa vuoi, cosa c’è, cosa non va? Tu non mi consideri tua moglie, mi consideri un mucchio di rottami da aggiustare!».

«Ma ti rendi conto di quello che dici Bella? Pensi seriamente che sarei ancora qui se non t’amassi? Io ho solo cercato di proteggerti! Lo facevo, lo farò, e lo sto facendo, ancora!».

«Da cosa? Proteggermi da cosa?».

«Da te stessa!» urlò, irrigidito, fermo nella sua posizione, tremante di rabbia.

Puntò i suoi occhi fiammeggianti nei miei, stringendo con forza titanica i pugni delle mani, lasciando scorrere fiumi di puro dolore fra le sue parole. «Io c’ero, e ci sono, accanto a te. Ogni volta che ti blocchi nel tuo oblio. Ogni volta che guardo i tuoi occhi vitrei, neri. Ogni volta. Ogni volta che gridi, e ti dimeni. Ogni volta che, preda del tormento, urli il nome di Jacob. Io, ci sono. Ogni volta, ogni singola, millesima volta, che chiudi gli occhi, e li riapri, il cuore che sembra voler scappare dal tuo petto, il respiro troppo corto per bastarti, la fronte imperlata di sudore. Non ricordando nulla».

«C-Cosa…?» rantolai, retrocedendo automaticamente.

Chiuse gli occhi, poi li riaprì, piano. «È così. Quasi ogni singola notte. E tre giorni fa è successo anche mentre eri sveglia. È così… da quasi due mesi, ormai» biascicò atono.

Lo fissai, sconvolta, improvvisamente azzittita, mentre le urla lasciavano spazio al silenzio.

   
 
Leggi le 39 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: keska