Sollevai rapidamente gli occhi dal
libro, come se davvero
Edward non si potesse accorgere che lo stessi spiando.
Lui, dall’altra stanza,
ricominciò a parlare
velocemente al telefono. O meglio, sibilare. Aveva
un’espressione vacua e
neutra, come se stesse tentando di trattenersi. Ed era andato avanti
così per tre
giorni, dopo il nostro quasi incidente ancora inspiegabile.
Ma non demordevo.
Dopo un iniziale esitazione avevo
deciso di fare
qualcosa. Ero stata, ancora una volta, un’egoista, rimanendo
a compiangermi
senza aiutare in alcun modo Edward. Ero stata stupida, lasciando che
l’effetto
che mi facevano i suoi problemi prendesse il sopravvento sui problemi
stessi.
Mi ora avrei corretto i miei sbagli, e visto che sola non mi ero
dimostrata
capace di farlo sola mi ero completamente affidata ad Alice, che aveva
insistito tanto per chiedere consigli anche a Rosalie. Più
esperta in queste cose. Così aveva detto.
Così mi ero fatta
incastrare. Quello che non avevano previsto era che io non avevo nulla
a che
fare con… quel genere di
cose.
Mi mordicchiai le labbra,
abbassando lo sguardo e
sentendomi avvampare. La bambina era decisamente divertita dal mio
imbarazzo.
Piccola peste. L’avevo chiesto a Carlisle e lui aveva
risposto che era
impossibile che ridesse di me. Al più, reagiva
così perché era quello che mi
aspettavo che facesse.
Comunque stessero le cose, si era
molto divertita, in
quei giorni, a tutti i miei tentativi di sedurre Edward, che, anche se
non me
l’aveva mai detto espressamente, non poteva minimamente
pensare che non avessi
compreso che non voleva fare l’amore con me. Avevo cominciato
quasi
innocuamente, piegandomi con la schiena piuttosto che con le ginocchia
ogni
volta che mi chinavo, lanciando sguardi e occhiate, facendo allusioni.
Puntualmente, ogni volta, veniva da me e mi baciava con dolcezza,
faceva un
sorriso gentile, mi accarezzava la pancia. Io arrossivo, e lui svaniva.
I miei
tentativi andavano tutti in fumo, e tutto si condensava in una
vaschetta di
gelato e una nuova consulenza con le sorelle Cullen.
«Sì, questa
sera Carlisle, ho capito» sentii, mentre
sfrecciava a velocità vampiresca da una parte
all’altra della stanza,
camminando nervosamente.
Sospirai, perdendomi ancora nei
miei pensieri. La
seconda fase era stata ancor più imbarazzante, e decisamente
poteva essere
quasi definita un attentato, dal mio pudico punto di vista.
L’avevo chiamato,
nuda, sotto la doccia, con la scusa del sapone negli occhi. Era venuto
in un
istante, e mi aveva subito aiutata. E, di certo, non gli ero rimasta
indifferente. Tuttavia, dopo essersi accertato che tutto andasse bene
era scomparso
in un lampo, lasciandomi sotto il getto caldo della doccia e nuovamente
in
balia del gelato e delle sue sorelle.
Ma nulla sarebbe stato
più imbarazzante della terza
fase.
«Bella, tutto
bene?» chiese, facendomi sobbalzare.
Mi portai una mano alla pancia,
spostando gli occhi
lontano dal suo viso, facendoli saettare da un lato
all’altro, come un bambino
appena beccato con le mani nel barattolo di marmellata.
La sua espressione si fece confusa.
«Sei tutta rossa»
mormorò, poi posò una mano sulla mia fronte.
Scrollò le spalle, sorridendomi.
Forse la terza fase poteva essere
anticipata.
«Andremo a caccia, con
Carlisle, Esme, Rosalie e
Alice. Jasper e Emmett
rimangono con te».
«Ma Edward» mi
lamentai, querula, «non posso rimanere
sola? Mi prenderanno in giro tutta la sera». Non potevo
permettermi di avere
due vampiri tra i piedi. Soprattutto se uno dei due era
Emmett, questo sarebbe indubbiamente andato contro i miei piani!
«Sono sicuro che si
comporteranno bene» ribatté
tranquillo.
Misi il broncio, poggiando la testa
sui gomiti.
«Scommetteranno su qualsiasi cosa. Non possono rimanere Alice
e Rosalie?».
Sospirò, alzando gli
occhi scuri al cielo. «Alice ci
serve di più con noi. Jasper e
Emmett ti sapranno
proteggere meglio» spiegò gentile.
«Ma
io…» avrei dannatamente avuto bisogno di loro per
realizzare i miei piani, che non potevano più essere
rimandati!
«Ti prego Bella, non fare
così» disse lui, prendendomi
il viso fra le mani. «È già abbastanza
difficile separarsi da te per tutto
questo tempo» mi avvicinò, lasciandomi senza fiato
con un bacio tormentato,
come se in quello volesse imprimermi tutto il suo amore.
Mi sorrise, la sua fronte attaccata
alla mia, mentre
ancora mi riprendevo. «Facciamo così, li faccio
rimanere a distanza, okay?
Avrai tutta la casa per te. Mi raccomando, riposati, rilassati, e stai
tranquilla. Non ti addormentare…
stasera dobbiamo andare da Carlisle» pronunciò
lentamente, come se quella frase
avesse un immenso valore. «Mi raccomando»
rimarcò ancora.
«Sì,
certo» mormorai, toccando nuovamente le mie
labbra con le sue, stringendo i capelli nelle mie mani, avida di averlo
ancora
accanto, più vicino.
Dopo
qualche secondo si staccò, ansante,
come l’avesse appena attraversato
una scossa elettrica, lasciandomi il vuoto fra le mani, dove prima
c’era la sua
testa. Deglutì, senza staccare gli occhi da me.
«Vado» sussurrò, poi sparì.
Sospirai, guardando il vuoto
lasciato dalla sua
meravigliosa figura. Fui tentata di seguire la mia voglia e andare
ancora ad
attingere alle risorse di gelato, ma poi pensai che ingrassare sarebbe
stato
contro tutti i piani congeniati. Ma come avrei fatto, ora che non avevo
più il
supporto diretto di Alice e Rosalie? Magari avrei potuto posticipare la
cosiddetta “terza fase”. Ero già
imbarazzata solo al pensiero di dover…
Lo sguardo mi cadde su un dettaglio
che sino ad allora
non avevo notato. Era un biglietto, appeso alla spalliera del divano,
scritto
con la calligrafia di Alice. Diceva che avrei, per l’appunto,
dovuto cavarmela
da sola e che, entrambe, non ammettevano defezioni da parte mia.
Hai
tre ore di tempo,
mi raccomando, non sprecarle! Ti abbiamo lasciato tutto
nell’attico.
Buona
fortuna!
Sospirai, sentendomi
incredibilmente ridicola, ora che
ero sola, senza nessuno che mi spronasse a compiere quelle fesserie. Il
cameratismo mi aiutava a sopprimere l’imbarazzo. Sentii un
amalgama di sentimenti
e emozioni nascere dalla
bambina. «Oh, tesoro»
farfugliai, accarezzandomi la pancia. La determinazione crebbe pian
piano,
sopprimendo sempre più il senso di disagio e il rossore
sulla mia pelle. Dovevo
farlo, per lei.
Cominciai a darmi da fare, dandomi
coraggio. Nella grande
stanza avevano lasciato una miriade di pacchi e pacchetti, con un
grande foglio
e un bigliettino su ciascuno di essi che ne descriveva il contenuto.
Cominciai
a preparare le cose così come erano presentate
nell’elenco, tentando di non
soffermarmi troppo con la mente su quello che prendevo, toccavo,
spostavo.
Ero sicura che questo sarebbe
servito a Edward, per
questo lo stavo facendo, come dovere di moglie. Edward
cambierà idea, stasera sarà di nuovo con te.
Questo mi
ripetevo, e questo mi aiutava ad andare avanti nell’assurdo
piano. Lui non mi
avrebbe mai detto di no, ci saremmo amati, come non mai, e saremmo
stati di nuovo
felici, ancora una volta, affrontando insieme le
particolarità di questa
gravidanza.
Particolarità fuggevoli
e molteplici, così avevano
scoperto Emmett e Jasper, ricercando negli antichi testi e nelle
vecchie
leggende, dall’assurda rarità. Questo era quello
che ci avevano riferito, il
giorno del nostro quasi incidente. E anche se Carlisle non me
l’aveva ancora
detto, mi aveva chiaramente fatto capire che partorire mia figlia
normalmente
sarebbe stato quasi impossibile. Esternare il mio dispiacere era
inutile e
superfluo, soprattutto con tutti gli altri problemi che avevamo. Comunque la bambina sarebbe stata
bene, e io dovevo fare che
era meglio per lei e non creare nuovi motivi di tensioni. Sicuramente
per
Edward sarebbe stato meglio così.
Sistemai tutto
l’ambiente, creando l’atmosfera adatta
e accendendo al massimo i riscaldamenti. Mi sentivo stanca e accaldata,
eppure
continuavo a sistemare, in modo che ogni singola cosa fosse davvero
perfetta.
Quando tutta l’enorme stanza fu completamente circondata da
candele, quando il
letto a tre piazze e mezzo fu ricoperto da foulard e veli di ogni tipo,
quando
un aroma intenso e caldo riempiva l’aria, spessa di 30 gradi
di temperatura, mi
sedetti sul mio posto, in silenzio, prendendo un grosso respiro
nell’aria
ambrata.
Mi sentivo molto a disagio per
quello che stavo
facendo. Avevo immaginato da ragazzina, quando ancora vivevo con mia
madre, il
mio matrimonio. Avevo immaginato mio marito e pensato scherzosamente
che
l’avrei sedotto. Lo vedevo quasi come un dovere coniugale,
qualcosa di
divertente, qualcosa di possibile. Ma niente mi aveva preparata al
senso di
disagio che sentivo. Dopo i fatti accaduti con Jacob la mia mente si
era
automaticamente difesa. Era molto istintivo per me tentare di
proteggere il mio
corpo, me stessa, non incappare negli stessi meccanismi che mi avevano
quasi
portata alla violenza.
Sospirai. Edward non era Jacob.
Costrinsi le braccia a liberare le
gambe e i seni,
quasi completamente nudi. Presi un grosso respiro, prima che
l’aria mi mancasse
nei polmoni. Indossavo un succinto intimo di pizzo, nulla di volgare.
Nero.
Classico, sgambato al punto giusto. Avevo lavato e sciolto i capelli,
facendoli
cadere, morbidi, sulle spalle.
E mi costava molto fare tutto
quello anche perché sapevo
perfettamente che pur tentando di essere più bella e sexy,
non avrei mai potuto
neppure sperare di essere un decimo di quello che era lui.
Sospirai, muovendomi a disagio, e
mettendo le mani
sotto le gambe. Dannazione! Non stavo facendo nulla di male,
perché in fondo
Edward era mio marito, e tutto quello era lecito, e dovevo, dovevo
farlo. Non
potevo più commettere errori, non potevo più
temporeggiare! Non potevo più
fermarmi a compiangermi. Edward mi avrebbe detto tutta la
verità. Risolvere uno
dei nostri problemi sarebbe stato un passo avanti per risolverli tutti.
Guardai l’orologio appeso
sulla parete drappeggiata.
Erano passate due ore e mezza, e se Alice aveva
detto tre,
voleva dire che mancava appena mezz’ora. Un
improvviso, nuovo, ennesimo
dubbio mi balenò in mente: come e dove avrei dovuto farmi
trovare?
Stesa? Seduta?
Inginocchiata…?
Mi mordicchiai un labbro,
imbarazzata, nascondendo poi
il mio viso fra le mani. Mi mossi, velocemente, nervosa,
risollevandomi. Mi
sedetti su letto, premendo una mano sulla pancia e costringendomi quel
respiro
che tanto mi rimaneva bloccato nel petto. Accidenti, non era il caso di
farsi
venire una crisi poco prima dover sedurre il proprio marito.
Tentai di riconcentrarmi, di
assumere nuovamente il
controllo di me stessa. In fondo, non sarebbe accaduto nulla. Edward
sarebbe
tornato, mi avrebbe trovata nella stanza… tutta piena di
candele… vestita in un
intimo succinto…
Sentii il fiato tra i denti e un
bollore diffuso alle
guance. No, accidenti, dovevo pensare ad altro. Spostai lo sguardo
sulla
pancia, e naturalmente i miei pensieri confluirono verso il piccolo
amore che
c’era rinchiuso dentro. Era piccola, cinque mesi, appena
compiuti. Difatti
quella sera stessa Alice aveva insistito tanto perché
andassimo a trovarli per
festeggiarlo. Solo in una famiglia di vampiri potevano essere
festeggiate certe
ricorrenze! E questo mi faceva solo capire quanto le loro vite fossero
state
condizionate dal mio ingresso in famiglia e dalla scoperta della
gravidanza.
Era stato un magnifico imprevisto per loro, tanto che la loro vita
sembrava
ormai ruotare attorno a quella di mia figlia.
Sorrisi, ricordando
l’ultimo dialogo che avevo avuto
con Jasper. Gli avevo chiesto se avesse notato nulla di stano in
Edward, e lui
aveva risposto, sempre intento a giocare con le mie emozioni e quelle
della
bambina, che… «Edward?
Edward era
preoccupato, come al solito», il tutto accompagnato
da un tono poco
interessato e un impeto di anormale euforia per me.
«Bella».
Impallidii, ritornando
immediatamente con i piedi per
terra, quando sentii pronunciare il mio nome da quella che era
inequivocabilmente la voce di mio marito. Sgranai gli occhi,
guardandomi velocemente
attorno, nella vana ricerca di un posto e un modo per sistemarmi.
Sentivo il
cuore battere forsennato nel petto e sarebbe stato inutile tentare di
fermarlo,
perché di sicuro se n’era già accorto.
Mi voltai terrorizzata verso la
rampa di scale.
«Bella, sei qui su? Cosa
stai facendo…?». Quando la
sua figura fu completamente visibile, io mi ero già nascosta
dietro il
baldacchino del letto.
Avevo la schiena completamente
addossata ad uno dei
pilastri e una mano premuta sul petto nel tentativo di fermare i forti
sussulti
da cui era scosso. Non volevo neppure immaginare la sua espressione
alla vista
di tutte le candele e i foulard. Ero rossa, rossa come un pomodoro, e
avevo
imbarazzo e vergogna. Ma ormai era tutto fatto, non potevo permettermi
di temporeggiare.
Strizzai gli occhi, posando una
mano sulla pancia. Per Edward.
Trattenni il fiato, uscendo
dal mio nascondiglio e aprendo gli occhi.
Edward era immobile, in piedi al
centro della stanza,
ad appena cinque metri da me. Il suo viso era un imperturbabile
maschera di
cera.
Deglutii. Non se n’era
ancora andato, e questo era un
bene, decisamente. Forse potevo davvero avere una
possibilità.
Feci velocemente il tratto che ci
divideva,
bloccandomi a un metro da lui. Si mosse impercettibilmente, spostando
le iridi
dorate sul mio corpo e lasciando sfuggire un rantolo dalle labbra.
Non pensai neppure più,
compii l’ultimo gesto come se
fossi un’altra me stessa e stessi fantasticando su qualcosa
di impossibile.
«Edward»
mormorai, accorciando definitivamente le
distanze. La mia bocca fu sulla sua, veloce, impetuosa, passionale.
Allo stesso
modo le mie mani che vagavano tremanti sul suo corpo senza sosta,
toccandolo,
sfiorandolo, lambendolo. Volevo imprimere la perfezione, la durezza, il
freddo
della sua pelle, sui miei palmi. Volevo averlo con me, per me, in me.
Lo trascinai, con forza, sul letto.
Nonostante
rimanesse pressoché fermo, si lasciò trasportare
senza opporre alcuna resistenza.
«Edward, Edward» sussurrai, baciandogli la mascella
perfettamente squadrata. Lo
feci cadere sul letto, di schiena, e subito fui su di lui, senza
lasciargli il
tempo di un inutile respiro.
Mi staccai per un attimo, ansante,
seduta sul suo
bacino, osservando famelica il suo viso, sconvolto e sorpreso. Mi
spinsi su di
lui, perseverando nei baci con la stessa passione. Non riuscii a
trattenere un
sorriso quando lo sentii, finalmente, rispondere al bacio.
Tutta la passione che gli avevo
buttato addosso come
un fiume in piena stava pian piano facendo braccia fra i suoi argini.
Immaginare cosa sarebbe accaduto, una volta esplosa la diga, era un
lusso che
la mia mente si concedeva volentieri. Era timoroso, delicato, lambiva
il mio
labbro superiore con le labbra e la lingua ghiacciata, facendomi
vibrare dal
piacere, e lo sentivo, sotto di me, corrispondere la mia stessa
eccitazione.
Era da così tanto tempo
che non ero così speranzosa,
così serena, così felice.
Mosse le mani, finalmente. Mi
accarezzò le braccia e
salì fino a stringermi i polsi, le mani immerse fra i suoi
morbidissimi
capelli. Sentivo il tonfo sordo del mio cuore scontrarsi contro il
petto, quando
in un solo fluido movimento ribaltò le posizioni, trovandosi
su di me, senza
gravarmi col suo peso.
Sostenni il suo sguardo, fissandolo
coi miei occhi nei
suoi, liquidi di passione. «Bella»
esalò, roco, scendendo con esasperante
lentezza fino al mio viso. Spostò le mani dai miei polsi,
intrappolando il mio
viso e facendo scorrere la punta del suo naso sul mio.
Mi mancò quasi il
respiro quando mi accorsi che c’era
qualcosa che non andava.
Chiuse le palpebre, sofferente,
serrando la mascella e
tremando, tentando di bloccare ogni suo movimento. «Ti
prego» farfugliò,
attraverso le labbra frementi e tremanti «è
già abbastanza difficile… non…
rendere tutto più complicato…».
Scostò la testa di
scatto, gli occhi sempre serrati, e
in un unico gesto si sedette sul letto, a un metro da me, la testa fra
le mani.
Ero immobile, semplicemente
immobile e paradossalmente
rapita dal più pungente dei freddi. Perché questo
non veniva dall’esterno,
partiva direttamente dal cuore, congelandomi da dentro. Trovai una mano
posata
sulla bocca, non consapevole del gesto appena compiuto, a sfiorare le
labbra,
peccatrici. Il gelo imperversava in me, impedendomi ogni movimento,
impedendomi
di pensare, ma non impedendo al vento, artico, di soffiare nella mia
mente,
consolidando ciò che fino a quel momento era rimasto dubbio.
Lui non
mi
voleva.
Riuscii persino a sentire il mio
gemito sconvolto,
mentre i miei peggiori incubi diventavano realtà. Sentii il
ghiaccio esplodere
da dentro, formando mille schegge ghiacciate che si conficcavano nella
mia
carne, tagliavano la mia pelle, mi pungevano come spilli sottili e
velenosi.
Alzai la testa di scatto,
sollevandomi e correndo con
tutta la mia velocità umana verso le scale. Nascondendomi
con le braccia,
nascondendo imbarazzata il mio corpo.
Sentii una mano ghiacciata sulla
spalla.
«Edward»
gemetti in un sussurro, scrollandola, piano,
perché l’allontanasse, senza voltarmi a guadarlo
in faccia, ricominciando a
correre.
«Bella, ti
prego» disse, fermandomi nuovamente dopo
pochi gradini.
«Edward!»
sbottai più forte, la voce distorta dal
dolore, ricominciando a correre, allontanando tremante con una mano la
sua,
raggiungendo velocemente la nostra camera da letto.
«Bella ti prego,
fermati».
Mi voltai di scatto al centro della
stanza, guardandolo
finalmente in faccia, e costretta dalle sue parole gli feci vedere i
due
abbondanti rivoli di lacrime che scendevano dai miei occhi.
Trattenne un sussulto.
«Bella» disse addolorato,
facendo un passo nella mia direzione e posando il palmo sul mio viso.
Lo allontanai, riversando tutta la
mia angoscia, la
mia frustrazione, la mia rabbia. «Non mi toccare Edward, non
mi toccare!»
piansi, sprofondando nel mio dolore tanto quanto sapevo di causarne a
lui «Non
mi vuoi, allora perché mi tocchi? Cosa cerchi? Non
c’è niente che ti posso
dare!».
Strinse le labbra in
un’espressione sofferente,
vedendomi sgattaiolare verso la cabina armadio, ansiosa di celare la
mia nudità.
Indossai il primo paio di jeans che trovai, rischiando più
volte di cadere per
via delle lacrime che inondavano la mia visuale. Le asciugai
rapidamente con il
dorso della mano, tirando su col naso. Trovai una maglietta e la misi,
augurandomi di averla indossata nel verso giusto.
Inciampai quando tentai di mettere
le scarpe, e subito
ci furono le sue braccia a sorreggermi. «Non ti azzardare a
toccarmi!» sibilai,
liberandomi da lui e lasciando perdere quelle dannate scarpe.
«Bella, amore, ti prego!
Non è vero quello che dici,
non è così» fece, sofferente.
Mi voltai, rabbiosa, verso di lui.
«È anche questo
allora? Oltre al fatto che non mi vuoi più pensi anche che
io sia troppo
stupida per capire, Edward? Lo pensi?» sbottai, i pungi
stretti lungo i fianchi.
Sentivo un grossissimo peso sul petto, che mi impediva ogni respiro. Ma
era un
dolore peggiore di quello fisico. Mi comprimeva, e non lasciava
più spazio ai
miei dolorosi dubbi, che si condensavano in certezze e venivano
naturalmente
esternati, in dolorosissime parole. «È
più di un mese che mi respingi!».
Non mi rispose, fissandomi senza
dire nulla.
Abbassai gli occhi, pentendomi
delle mie parole. In
fondo che colpa aveva lui se non mi voleva più? Sentii le
lacrime ricominciare
a sgorgare senza sosta. «Ti prego Edward»
singhiozzai «lo so che non è colpa
tua, ma… mi sento già piuttosto…
umiliata… il fatto che tu cerchi di
giustificarti mi fa solo stare peggio».
All’ennesimo singhiozzo corsi via, in
cucina, chiudendomi dentro.
Posai la testa sulla porta,
lasciandomi scivolare con
la schiena lungo il legno bianco. Lo sentivo, avvertivo la sua presenza
ad
appena pochi centimetri da me. «Va via» rantolai.
«No, no. Ti prego, esci
di lì. Sai che non mi
costerebbe nulla entrare».
Sussultai. «Non farlo se
ritieni di dovermi almeno un
po’ di rispetto». Singhiozzai più forte,
sollevandomi, diretta verso il frigo. Aprii,
tremante, lo sportello bianco, ma non ci trovai nulla di quello che
volevo per
saziarmi, per sfogarmi, per tentare in qualche modo di non pensare e di
lenire
il mio corpo martoriato. Urlai, distrutta, quando non trovai niente di
ciò che
cercavo. Persino quello! Non bastava quello che avevo subito, persino
quel
piccolo, inutile, idiota dettaglio!
«Bella! Bella, cosa stai
facendo?».
Mi asciugai nuovamente le lacrime,
prendendo un grosso
respiro. Quando schizzai via lo trovai, come mi aspettavo, appena
dietro la
porta. Non lo degnai di uno sguardo, non potevo permettermi di
indugiare sulla
sofferenza del suo volto, sulla sua espressione affranta. Non potevo,
perché
sapevo che le schegge di ghiaccio infilzate nel mio cuore sarebbero
scese più in
profondità, senza alcuna pietà.
Riuscii a mettere le scarpe,
nonostante il tremore,
nonostante le lacrime. Infilai velocemente il primo giaccone che
trovai, e
scappai via verso l’ingresso, afferrando al volo le chiavi
della mia auto.
«Dove stai
andando?» chiese sbarrandomi la strada.
Presi un respiro, guardandolo,
sofferente. «Fammi
passare».
«No» ribatté, secco.
«Edward! Non puoi farmi
anche questo! Fammi passare
dannazione!» esclamai, tentando inutilmente di farlo.
«No» ribadì ancora,
spostandosi alla sua velocità a
seconda dei miei movimenti. Non era arrabbiato, non era determinato.
Solo
mortificato. «Dove stai andando?».
«Voglio solo»
feci un respiro secco, lasciando cadere
la braccia lungo i fianchi «voglio solo andare a
comprare… una cosa. Fammi
passare, non hai alcun diritto di tenermi qui» dissi dura,
cattiva. Volevo solo
andare via. Volevo solo sfogarmi e smettere, dannazione, smettere di
fargli del
male. Perché era la sola cosa che mi riusciva in quel
istante.
Come prevedibile rimase immobile,
consentendomi di
passare. Corsi in garage e mi chiusi nella mia macchina, respirando
affannosamente e facendo in pochi secondi appannare tutti i vetri.
Accesi gli
sbrinatori e misi in moto, premendo sull’acceleratore e
facendo girare il
motore a vuoto, rabbioso.
«Bella».
Sussultai sentendo la sua voce ovattata,
dall’altra parte del finestrino. «Ti prego, non
fare sciocchezze, non sei in
condizione di guidare».
Tirai giù tutte le
sicure, lasciando la frizione e
sgommando via. Era il crepuscolo, già buio lungo le strade
di Forks, e la
visibilità era molto scarsa a causa della pioggia
scrosciante. Così potevo
anche permettermi di non pensare a nulla, tranne che alla strada e alla
guida,
e allo sciame d’api che sembrava essermi entrato dentro.
Arrivai in poco tempo
al piccolo supermercato di Forks, parcheggiai la macchina, occupando
ben tre
dei pochi posti a disposizione, e mi fiondai all’esterno
sotto la pioggia.
A sbarrarmi la strada vidi la
figura di mio marito, i
capelli incollati all’addolorato viso angelico. Mi aveva
seguita, come
prevedibile. Con un grande sforzo lo ignorai, passandogli accanto e
sgattaiolando nel supermercato. Non era per me tutta quella bellezza.
I suoi passi sciaguattavano accanto
ai miei, molto più
rumorosi. Mi diressi, decisa, verso quello che cercavo. Sentivo la sua
presenza, bruciante, accanto a me, ma facevo finta di non vedere, di
non
sentire. Non volevo farlo. A che pro? Lui non mi voleva, semplice. Ogni
giustificazione sarebbe stata mortificante e dolorosa.
Mi avviai in silenzio verso la
cassa, sbuffando quando
notai la fila di gente che si era formata.
«Dai a me,
pesa».
«No» sibilai, stringendo al petto i
miei quattro chili di
gelato, presa da quell’inopportuna e fastidiosa voglia che mi
stava
scombussolando lo stomaco.
«Bella» disse,
in tono di rimprovero.
«No. No. No».
Le persone che stavano in fila
davanti a noi si
voltarono, guardandoci.
«Fate passare avanti
quella donna incinta» disse una
vecchina.
«Sì,
sì» concordarono gli altri.
Edward fece un gesto con un braccio
per farmi
camminare fra il varco che avevano creato. Strinsi la mascella,
fissandolo
arrabbiata. «No»
dissi testarda. «Non ce n’è
bisogno».
«Non essere
sciocca» ribatté lui «Grazie»
disse poi,
rivolto agli altri, spingendomi dolcemente in avanti.
Vedendo i visi e le espressioni
curiose delle persone
che mi guardavano fui costretta ad accettare, sempre più
arrabbiata, sempre più
innervosita, per evitare nuovamente di scoppiare a piangere davanti a
tutti. Pagai
velocemente quello che avevo preso e corsi via, sotto la pioggia,
lasciando
cadere le lacrime.
«Bella, ti prego. Non
puoi guidare così. Vuoi fare del
male a tutte e due?». La voce addolorata di mio marito mi
raggiunse alle
spalle. Era logico che si preoccupasse di sua figlia…
lei… lei non aveva
nessuna colpa. Lasciai che mi sfilasse le chiavi di mano e mi sedetti
sul
sedile del passeggero, in silenzio, stringendo il grosso sacco di
cartone al
petto e guadando fisso fuori dal finestrino.
Era la prima volta che litigavo con
Edward. Ed era
molto più doloroso di quanto mai avrei potuto immaginare. Ma
mi sentivo
tradita, mi sentivo umiliata, mi sentivo svuotata. Mi sentivo
maledettamente
arrabbiata.
«Non puoi mangiare tutto
quel gelato, ti sentirai male».
«Non importa».
«A me importa».
Feci scioccare la lingua.
«Certo» mormorai
a denti stretti.
Scattai fuori dall’auto,
entrando in casa non appena
ne ebbi l’opportunità. Edward continuava a
seguirmi, passo dopo passo, molto
più veloce di me. Mi voltai verso di lui, ad appena quattro
metri da me, non
riuscendo più a rimanere in silenzio. «Lasciami.
In. Pace!» esclamai, urlando.
«Bella, amore».
Lasciai cadere con un tanfo secco
il gelato sul tavolo
del soggiorno. «Che cosa vuoi ancora, che cosa vuoi?! Vuoi
che me ne vada io?!
Me ne vado!» sbottai, riprovando ad uscire.
«No» mormorò afflitto.
«Allora vattene, vattene
Edward! Vai via! Se non mi
vuoi più potevi almeno avere la decenza di trattarmi meglio,
potevi almeno
avere la decenza di non farmi sentire un maledetto schifo!».
«Non è vero
che non ti voglio più» scandì con tono
controllato, sconsolato.
Quelle parole mi fecero solo
infuriare di più. «E
allora che c’è? Eh? Che
c’è?».
Rimase in silenzio, a disagio.
«Certo. Io non sono
abbastanza per capire, non sono
abbastanza per comprendere, non posso pretendere di sapere niente, io!».
«Non è
così Bella, non hai capito».
«Infatti, è
proprio questo il punto! Lo vedi come
continui a ferirmi, lo vedi? Vai via Edward, vai via, voglio stare da
sola».
«No, Bella. Ti prego,
calmati. Non fare così, amore».
«Non chiamarmi
amore!» urlai, rossa in viso. Afferrai
il primo, stupido, suppellettile che trovai, senza neppure pensarci un
secondo,
scagliandoglielo addosso. «Con quale cazzo di coraggio mi
chiami amore, dove
sta l’amore?!».
«Bella, ti prego. Ti stai
agitando troppo» fece
timoroso, non tentando neppure di afferrare o schivare gli oggetti che
gli
lanciavo.
«Vai via!»
gridai con tutto il fiato che avevo in
corpo. Mi ritrovai, ansante, a fissarlo con disprezzo e disperazione.
La testa
era compressa in una morsa, pulsava, le mai mi formicolavano e sentivo
la gola
incendiata per le urla. Ma mentre la mia voce gridava quello, nella mia
testa
avevo tutt’altro tipo di frasi. «Non
mi
lasciare, non mi abbandonare. Ti prego, abbracciami e guarisci tutte le
ferite
che tu stesso hai causato» parole che non potevo
pronunciare, ma che mi
rimbombavano dentro come un’eco.
«Calmati»
ribadì ancora, sollevando le mani come in
segno di resa.
«Me lo dovevi dire prima
calmati, Edward! Non sono più
calma!» esclamai, indicandomi con una mano tremante, mentre
mi mordevo le
labbra per impedirmi di piangere ancora. Il fatto che si giustificasse,
che non
tentasse di difendersi, che pensava ancora a me, alla bambina, mi
faceva solo
sentire sempre peggio e sempre più arrabbiata.
«Io mi sono vestita
così per te, capisci, per te! Tu
non puoi sapere quanto mi sia costato tutto questo, non puoi!
Dannazione,
Edward! Volevo sedurti, semplicemente sedurti! Pensi che sia stata una
passeggiata? Sai quanto è difficile per me, dopo tutto
quello che ho passato,
dopo tutto quello che mi è stato fatto. Mi sono detta
“Bella, come fai a non capire, tuo
marito ha un problema, ha bisogno di
te! Sei stata stupida, non hai fatto abbastanza per lui!”.
Ti chiedevo,
ogni giorno, se ci fosse qualcosa che non andasse. Se ne volessi
parlare con me.
ma tu “No, va tutto bene!”»
sbraitai,
furente. Lui mi osservava colpevole, non cercando neppure di ammansirmi.
«E ancora, ancora mi sono
sentita in colpa! In colpa,
capisci? Mi sono sentita uno
schifo di moglie, un’incapace. Allora ho deciso di offrirti
l’unica cosa che mi
rimaneva, nonostante mi facesse soffrire, patire, il solo pensare di
dover offrire, di mia spontanea volontà, il mio corpo!
Ma tu ne te sei fregato!» urlai con tutto il fiato che
avevo, la testa che mi pulsava per il sangue che velocemente
l’aveva raggiunta,
lanciando l’ultimo oggetto che mi rimaneva a portata di mano.
Vidi le sue dita bianche bloccarlo
prima che si
frantumasse contro di lui come tutti gli altri oggetti.
«No, Bella, no,
accidenti!» sbraitò improvvisamente,
facendomi sgranare gli occhi. Non l’avevo mai sentito gridare
così. Non l’avevo
mai sentito arrabbiato. Non si era mai arrabbiato con me.
Respirava anche lui affannosamente,
malgrado non ce ne
fosse alcun bisogno. «Io lo so, lo perfettamente quello che
hai passato! Cosa
credi? C’ero anch’io a tuo fianco, e ti vedevo
soffrire. Ero lì oggi volta che
non mangiavi, che non parlavi, quando piangevi. Ero lì ad
ogni incubo e ad ogni
attacco di panico. E soffrivo, soffrivo con te, ti aiutavo a mettere
insieme i
cocci. Pensando ogni singolo giorno che tu non saresti stata, che non
sarai,
più mia! Io c’ero!».
Mi ripresi dallo stupore in pochi
istanti, e poi
subito risposi.
«E allora
perché ti comporti così?
Perché?». Il tono
delle nostre voci era lo stesso, ormai. «Pensi sul serio che
non ci sia più
nulla in me? Cosa vuoi, cosa c’è, cosa non va?
Tu non mi consideri tua moglie, mi consideri un mucchio di rottami da
aggiustare!».
«Ma ti rendi conto di
quello che dici Bella? Pensi
seriamente che sarei ancora qui se non t’amassi? Io ho solo
cercato di
proteggerti! Lo facevo, lo farò, e lo sto facendo,
ancora!».
«Da cosa? Proteggermi da
cosa?».
«Da
te stessa!»
urlò, irrigidito, fermo nella
sua posizione, tremante di rabbia.
Puntò i suoi occhi
fiammeggianti nei miei, stringendo
con forza titanica i pugni delle mani, lasciando scorrere fiumi di puro
dolore
fra le sue parole. «Io c’ero, e ci sono, accanto a
te. Ogni volta che ti
blocchi nel tuo oblio. Ogni volta
che
guardo i tuoi occhi vitrei, neri.
Ogni volta. Ogni volta che gridi, e
ti dimeni. Ogni volta che, preda
del
tormento, urli il nome di Jacob.
Io,
ci sono. Ogni volta, ogni singola, millesima volta, che chiudi gli
occhi, e li
riapri, il cuore che sembra voler scappare dal tuo petto, il respiro
troppo
corto per bastarti, la fronte imperlata di sudore. Non
ricordando nulla».
«C-Cosa…?»
rantolai, retrocedendo automaticamente.
Chiuse gli occhi, poi li
riaprì, piano. «È così.
Quasi
ogni singola notte. E tre giorni fa è successo anche mentre
eri sveglia. È
così… da quasi due mesi, ormai»
biascicò atono.
Lo fissai, sconvolta,
improvvisamente azzittita,
mentre le urla lasciavano spazio al silenzio.