Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: Cassandra Morgana    28/12/2009    2 recensioni
Un tiranno ed una città a un soffio dalla guerra civile.
Un gruppo di ragazzi improvvisati ribelli, persi nelle sfuggenti sfaccettature del loro essere e del loro ruolo, fra le trame di un complesso interagire nel mondo.
Una minaccia soffusa che aleggia nell'aria...
Un luogo immaginario e un momento storico immaginario, "riconducibile" al XVIII secolo europeo.
Benvenuti a Noir Trésor!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Noir Trésor ~'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 25

Conosci te stesso

 

 

Una tacita sinfonia di sguardi percorse la stanza in un crescendo di tensioni taciute, un allacciarsi sussultante e reciproco.

Fernand sbatté le palpebre, il respiro impigliato in fondo alla gola come un pugno vibrato sullo sterno. Osservò il volto di Auguste: lo sguardo febbrile, così solenne sul volto cereo – solo un istante prima! – pareva aver smarrito la sua forza galoppante nell’istante stesso in cui l’ultima sillaba era rotolata giù dalle labbra, costrette in un’espressione rigida.

Lo vide voltarsi di scatto, provò a catturare per un istante il tumulto di quegli occhi luccicanti, le pieghe sottili che fino a quel momento gli avevano contratto la fronte sotto la stretta di una decisione in atto, prossime a disciogliersi sul suo viso come una coltre di lacrime, come un velo scomodo. E poi il suo sguardo si era fatto esausto, vuoto, una mano che correva a reggere la fronte, ogni traccia dell’antica energia dissipata in una nube scura di deliranti propositi.

E fu forse in quell’istante che comprese che no, stavolta Auguste non sarebbe tornato indietro, neppure se fosse precipitato in fondo al baratro, sempre più giù.

Fernand lasciò ricadere il proprio sguardo a lambire il suolo, abbandonata ogni frenetica velleità di guardare in faccia Auguste, d’intrecciare il proprio sguardo con il suo e domandargli perché. Per un attimo temette che sarebbero crollati a terra entrambi, privi di forze, in un’inquietante, grottesca simultaneità.

Invece riuscì soltanto a raccogliere gli ultimi residui di coraggio e fissare nuovamente in viso i presenti. I capelli di Dorian ricadevano indolenti come pigri raggi di sole sulle spalle rilassate, sul volto inquadrato in un ritratto di noia e cerea incredulità. Dorian, immobile come una scultura fredda, immerso nel suo angolo isolato, l’espressione diffidente.

Fernand sentì una fitta d’angoscia attraversarlo, come un’eco dolorosa sulla pelle. Lo voleva.

E poi un sospiro rassegnato, l’intensità di una frustata capace di scuotere l’aria immota tutt’intorno. Quasi non riuscì a sintetizzare nella propria mente, a collocare nello schema di una successione lineare, la marcia indignata che condusse Dorian fuori dalla stanza, un ampio gesto delle mani a sottintendere un nervoso disappunto.

È solo una sceneggiata allestita su due piedi, Fernand, gli parve di sentirlo ruminare fra i denti, la rete di un’apatica, sdegnosa indolenza a imbrigliare potenziali slanci di collera. Vuole soltanto fare l’eroe ribelle. Tranquillo, ha tutto sotto controllo. Come sempre.

Fernand scosse il capo, combattuto, frenesia in punta di dita. Quasi non avvertì la stanza scorrere dinnanzi a lui né i suoi stessi passi echeggiare sul pavimento lungo la sua traiettoria. Avvertì però chiaramente gli stupidi svolazzi della camicia di Auguste arricciarsi fra le proprie dita strette a tenaglia, e lo scossone violento che costrinse il cadavere che gli stava davanti a rivolgere forzatamente lo sguardo su di lui, i capelli svolazzanti intorno al viso, fuggiti allo straccetto inutile che gli penzolava sulla spalla. Auguste che lottava per fuggire il suo sguardo.

Fernand sentì le proprie dita tremare, chiuse intorno al suo trofeo. Per un attimo fu tentato di scrollarlo fino a cavare da quel buco nero che era la sua testa una spiegazione plausibile a tutto ciò, ma poi fu sfiorato dal terrore che Auguste potesse intuire in lui l’impronta di un pianto sapientemente trattenuto, gli occhi come tizzoni ardenti.

- Era… era davvero questa la tua… sorpresa? – gli soffiò con voce incolore – Era questa la tua fantomatica soluzione a ogni problema? Tutto orrendamente… premeditato, e tu lo sapevi. Due giorni fa… Mi hai ingannato. I tuoi bei discorsi… Ti sarai divertito, ti sarai goduto la mia faccia di fronte alle tue bugie?

Serrò le palpebre. Avrebbe voluto piangere, gridargli addosso e scalfire a suon di schiaffi quelle gote di gesso fino a veder mutare quell’espressione orrendamente assente, persa in un abisso d’angoscia, di recenti e antiche menzogne. A costo di vedere il sangue.

Furono due paia di mani ferme a staccarlo da lui. Il volto colmo d’apprensione, Ambrosie osservava Auguste, le sopracciglia corrugate sul viso delicato e la superficie mutevole degli occhi accesa di un umido bagliore. Le mani di Raphäel lo trattenevano in una presa quasi gentile, vellutata su di lui, le dita sottili come ganci metallici ancorati alle spalle. Avvertì le proprie labbra incresparsi impercettibilmente in un singulto di pianto, la voce smarrirsi.

- Fernand, ora basta! – gli ingiunse bonariamente Ambrosie, l’espressione allarmata del viso stemperata dalla calma apparente che cercava di infondervi – Almeno per ora. Non vedi che sta male?

E Dorian che sostava altezzoso sul limitare della porta, le membra nervose fasciate dagli indumenti eleganti, inquietante binomio con l’espressione insofferente che conferiva al suo volto una sfumatura quasi inumana. Annuì con un secco cenno del capo.

- Ha ragione lei, Fernand – acconsentì, lo sguardo basso sul pavimento – Non è il momento; non otterrai nulla, se lo prenderai a pugni.

E poi, tutto precipitava. Inesorabile, come una valanga in procinto di venirgli addosso, e i suoi piedi ancorati al suolo.

- Fernand… – come un sogno, vide Auguste barcollare incerto verso di lui, fino a trovare un precario appiglio su Raphäel.

Deglutì, a disagio, lo sguardo fisso su quegli occhi febbricitanti, su quelle labbra distese in un mezzo sorriso sarcastico, privo di qualunque venatura di gioia.

- Fernand… – sussurrò, beffardo – Basta sceneggiate. Dovresti solo essere felice, immagino: non c’è più nessuno a tenerti alla catena, come vedi; nessuno a rimetterti al tuo posto o ad annoiarti con discorsi da vecchi pusillanimi e rincretiniti. Nessun capetto borioso ad ostacolarti con le sue chiacchiere inutili: sono tutti andati via, guarda un po’! – una risata amara, prossima all’aggressione verbale, uno squillo di campane funebri – Non vedi la nostra piccola congrega? È tua, ora. Fanne ciò che preferisci… nei limiti in cui gli altri saranno d’accordo, ben inteso. Per il resto, è tutto tuo. Come volevi. Era il tuo sogno. Ora, divertiti!

- Che diavolo stai farneticando? – Fernand sentì due fiotti di lacrime scorrergli senza preavviso sul volto, come lava incandescente – Cosa significa questo? Sei impazzito? Era… Mentivi, allora. Mentivi, l’altro giorno. Tutti i tuoi fottuti discorsi da manipolatore schifoso… Mi ritieni solo un… un odioso parassita capace nonostante tutto di approfittare della tua debolezza per ottenere quello che desidera. Come osi? Mi hai preso in giro. Volevi tastare le mie reazioni, volevi veder scorrere il sangue e assestarmi il colpo di grazia. È la tua vendetta? Di cosa dovevi vendicarti, stavolta?

 

Del fatto che ti amo, maledetto figlio di puttana?

 

- Non ho detto che vuoi approfittare della mia difficoltà – Auguste pareva quasi aver recuperato un barlume di lucidità, dopo le deliranti, caustiche insinuazioni che gli aveva vomitato addosso – Ho detto soltanto che con questo bel progetto che vedi davanti a te, io non c’entro più nulla. Fanne quello che preferisci! Ti chiedo però di perdonarmi, se in questo momento la tua vista potrebbe urtarmi leggermente. È… è più forte di me. Forse non sei il ragazzino ficcanaso e arrivista che credevo fino a non molto tempo fa… Ma proprio non riesco a sopportare la tua congrega, la tua iniziativa un istante di più. La tua dannata bramosia di agire che ha finito per ammorbare tutto, per trascinarci ancora più a fondo in questa follia. Quell’entusiasmo malato, eppure così stranamente opportuno. Quasi… provvidenziale. Ecco, da questo momento in poi, a me non importa più nulla. Sarete voi gli artefici.

- Stai mentendo… Menti anche adesso, e forse neppure t’importa che la tua farsa sia così malriuscita da sfiorare il ridicolo. Almeno, spero per te che sia così. Perché io non voglio nemmeno crederci – Fernand si sforzò di ricacciare indietro un groppo di tristezza inchiodato al petto che difficilmente, comprese, sarebbe riuscito a sopprimere del tutto.

Non era vero niente. Era solo il desiderio malato e fuori luogo di autoconvincersi che si trattasse dell’ennesima, maldestra recita di Auguste. Aveva ragione Dorian, per forza, e non poteva essere diversamente.

- Se questo ti aiuta a stare meglio, sogna, Fernand!

- Preferisco pensare che tu sia completamente ubriaco, che magari ti sia bevuto il cervello, oppure che questo sia il tuo ennesimo tentativo di prenderci in giro a dovere, intorbidare un po’ le acque per poi riprendere a fare i tuoi comodi con il benestare di tutti. A confondermi le idee, a spedirmi sull’altare o all’inferno a seconda di come ti svegli al mattino o dall’atteggiamento che di volta in volta ti si rivela utile per manovrare la situazione a puntino. Ma com’è buono Auguste, com’è saggio Auguste! – Fernand proruppe in uno scroscio di risa isteriche – Perché questa, tutto sommato, è la cosa che ti riesce meglio. Se davvero è così, permettimi almeno di chiamare le cose con il loro nome. E queste, se me lo concedi, non sono altro che le patetiche acrobazie di un vigliacco impostore.

Fernand tentò di mordersi la lingua, convulsamente, ma le parole che gli premevano sulle labbra erano sgorgate via di getto, come lacrime non trattenute. Aveva usato la parola magica, e qualcosa, per un istante, gli parve balenare in fondo alle iridi di Auguste. Arretrò, d’istinto, afferrandosi provvidenzialmente al braccio di Ambrosie, quando vide Auguste riscuotersi dal suo torpore allucinato, divincolarsi da Raphäel e gettarsi sulla sua traiettoria.

- Questo no, Fernand! – gli soffiò – Sei libero di pensare ciò che preferisci, ma io non sono un vigliacco né, tanto meno, un impostore.

- E allora dimmelo tu, in queste circostanze, che cosa sei. Qual è l’appellativo che ti descrive meglio, sentiamo… – Fernand si morse nervosamente il labbro, temendo un epilogo violento da un momento all’altro.

Lo vide distogliere lo sguardo, scuotere il capo, rassegnato.

- Di me non hai capito un accidente, Fernand.

- E non credo di essere l’unico, qua dentro – lo interruppe Fernand, una sensazione fredda come veleno che gli corrodeva la gola – E sono convinto che la cosa non sia mai stata tanto reciproca, fra noi.

- Non ho mai chiesto di capirti né di entrare nella tua testa. Ho detto solo che non m’immischierò più in faccende di vitale importanza che ora, com’è giusto che sia, dipenderanno esclusivamente da voi e non più da me. Ho sbagliato… Forse eri tu la persona adatta a coordinare l’iniziativa, sin dall’inizio. Non lo so, ma non vedo neppure perché dovrei sforzarmi di sopportare ancora a lungo – concluse con un mezzo sorriso – Alla luce di questo, Fernand, mi meraviglio soltanto di come tu possa pensare che io non nutra stima e fiducia nei tuoi riguardi. Non sei contento, almeno un po’? Ti sto cedendo tutto, se non l’hai capito. Che diavolo vuoi ancora? Non è abbastanza? Hai vinto.

Fernand sentiva la testa vorticargli come in preda al mal di mare e, per un istante, gli parve di scorgere sul volto tirato di Auguste una nota di rimpianto accuratamente dissimulata in strafottenza, un messaggio da decifrare.

- Non… non era così che volevo che andasse – gemette – Non era ciò che volevo. A te non importa nulla, non mi apprezzi, non ti fidi di me e l’altro giorno mi hai solo riempito la testa di parole vuote. Non t’importa di sapere se la tua è una decisione appropriata oppure no. Vuoi scaricare parte della tua responsabilità su qualcun altro, perché è troppo gravoso accollartela da solo. Vuoi... umiliarmi, chissà! Lavarti la coscienza. Ed io della tua generosa concessione non so che farmene, se vuoi metterla su questo piano. Credevi che stessi qui a dannarmi l’esistenza giorno e notte e a condividere il tuo fardello per intrufolarmi nel tuo impero di menzogne e rubarti il cibo di bocca, prendendomi meriti che non mi appartengono… E con questo posso solo dire che di come sono, Auguste, di cosa volevo in realtà, non hai capito un cazzo.

 

* * *

 

- Auguste. Cosa significa… questo? Avremmo… ripreso quel discorso, se ne avessi sentito il bisogno. Cos’è successo, ora?

 

Ambrosie.

Arriva la seconda dose. Non è stato ancora abbastanza.

 

Auguste si sentì stringere la nuca da un doloroso riflusso di rimpianto. Se lo chiedeva anche lui: cos’era successo, in quel frattempo? Perché Ambrosie aveva le mani rigidamente piantate sui fianchi, perché qualunque vaga impronta d’indulgenza sembrava scomparsa dal suo viso? Gli stessi occhi blu di Fernand, lo sguardo strettamente incollato al suo.

Sembravano trascorsi secoli. Lei aveva mantenuto viva la speranza in quella discussione dall’impronta ragionevole, la mente aperta alla novità, alla scintilla di un risvolto ottimistico.

Auguste lasciò ingannare la propria vista nel riverbero di luce sulla parete.

- Vorrei sapere dov’è che non vedi il nesso, Ambrosie. O forse, proprio non ricordi cosa si era detto a proposito di tuo fratello. La mia fiducia come irrinunciabile pegno di pace, come inizio. È così importante, ora, che la mia presenza non sia più inclusa nel pacchetto?

Lei scosse il capo, uno sfolgorio d’indignazione in fondo alle pupille. La mano di Raphäel le copriva la spalla. Forse assentiva, o chissà cos’altro gli stesse dicendo la sua mente contorta.

- Sarà l’inizio di un bel nulla, Auguste. Ti prendi gioco di lui, poi improvvisamente gli vuoi far carico di qualcosa che reputi già scomodo per te, quasi per spregio. Dio, Auguste! Ti sei bevuto il cervello?

Auguste si sentì attraversare da un freddo riverbero d’irritazione. Chinò lo sguardo, risentito. Dieci anni in meno di lui, fuoco liquido in fondo alle iridi come specchi d’acqua in tempesta, un impeto d’istintivo, feroce dissenso. Troppo causticamente dissonante, lì davanti a lui; troppo simile a Fernand. Incontrollabile. Poi, inaspettatamente, avvertì una risata liberatoria bruciargli in fondo alla gola, le labbra tirate in un sorriso non voluto.

- Perché no? E tu saresti la sua luogotenente ideale.

- Ti ringrazio da parte di Fernand per il regalo – un sibilo freddo pervase la voce di Ambrosie, l’espressione piccata.

Auguste si morse nervosamente il labbro. Lasciò saettare lo sguardo intorno alla stanza, alla ricerca di un indizio utile.

 

Lasciami in pace, donna. Non sei che un cucciolo dal cuore sazio d’informe ambizione di protagonismo, un ragazzo mancato. E tuo fratello, la manifestazione visibile della mia deliziosa, personale maledizione!

Fernand, Ambrosie, Raphäel, Dorian: un esperimento degno di suscitare il mio morboso interesse. Se soltanto fosse almeno tale, se solo vi sforzaste di capire. Ma io non sarò più qui. Rien ne va plus.

 

- Ho sbagliato, Ambrosie. Avrei dovuto comprenderlo… molto tempo addietro. La vostra fottuta missione sentiva il bisogno di una seppur minima componente d’irrazionalità. Di… un moto ideale a far da sottofondo, una passione in gioco, una volontà appassionata, non una specie d’impalcatura indefinita, retta da nient’altro che un impersonale senso del dovere campato in aria, nel quale non riesci più a credere nemmeno tu. Di un cuore, dopotutto, oltre che di una mente logica. Un coraggio spontaneo, audace, fantasioso. Mi piace Fernand, da questo punto di vista. Sarebbe semplicemente fantastico. Ed io ho capito che non ero la persona giusta: sappi che mi fa male ammetterlo, ma è tutto qui, nulla di cervellotico.

- Ci prendi in giro, Auguste. Oppure sei completamente impazzito. È il tuo ennesimo colpo di testa. Tu e Lucien non parlavate così.

- Lucien, certo. Lui era il sistema compiuto. In lui c’era… una coerenza logica tra aspirazione e gesti concreti, tra mente e cuore. Una base notevole, un sogno, la persona di cui in quel momento avevamo bisogno. Cosa nega, ora, che questa specie di chimera possa essere incarnata proprio da Fernand? Mi meraviglio solo che proprio tu, che lo conosci meglio di chiunque altro, proprio non riesca a riconoscerne lo slancio. Nemmeno lui stesso, del resto. Eppure ha tutte le carte in regola.

Gli occhi di Ambrosie si strinsero minacciosamente. Scosse il capo, scettica.

- Io invece mi chiedo che senso ha ora arrovellarsi il cervello, cercare di estrapolare qualcosa di buono da un calderone di assurdità assortite. Lo farai di nuovo, Auguste. Lo umilierai nello stesso modo in cui adesso sembri volergli elargire una possibilità in cui non credi neppure tu. Ti godrai il canovaccio in anteprima? E poi, cos’altro farai?

- Ne sei veramente convinta, Ambrosie. Cosa pensi in realtà?

- Credo che Fernand non meriti i tuoi stupidi regali. Che non è un inetto. E, se le cose dovessero davvero andare come dici tu, se non altro con lui non dovremmo guardarci da bugie, improvvisi salti nel buio e teatrini mal imbastiti.

- È assoldato: non riesci proprio ad accettare che l’opportunità che ho dato a Fernand sia qualcosa su cui meditavo da tempo e che per me ha una ragion d’essere. Lo istruirò su tutto quello che vorrà, se ce ne sarà bisogno. Sarò a sua totale disposizione. Ma no, Ambrosie, non chiedermi d’includere anche me al vostro fianco come prova della mia credibilità. Da questo momento, siete liberi di considerare prive di valore le mie parole e gestirvi come meglio preferite. A me non importa più nulla, stavolta non entrerò in merito.

Ambrosie si strinse nelle spalle, lo sguardo che dardeggiava tagliente su di lui, inchiodandolo al pavimento, in attesa dell’appellativo calzante da indirizzargli.

- Mi hai deluso – chinò il capo – Il tuo è solo un… modo non troppo villano di uscirtene comodamente di scena, anche se non del tutto. Ti conosco, ormai.

Auguste strinse la presa sul legno rassicurante della sedia cui si era provvidenzialmente aggrappato, le membra molli, sopraffatte dalla sconfitta come in seguito ad una lotta dalla quale fosse uscito malconcio.

- Come tu desideri, Ambrosie – le sorrise, la scrutò di sottecchi.

Seguì a denti stretti il moto collerico del capo che le fece danzare i capelli intorno al volto, un bagliore confuso davanti a lui.

- Preferirei parlarne con te quando avrai lasciato smaltire del tutto gli strascichi dell’alcool, Auguste. E ora è meglio che tu vada a riposare, sul serio, e che la smetta di fare discorsi astrusi.

Auguste distolse lo sguardo. Osservò Raphäel. Stava compunto al fianco della ragazza, lo sguardo rigido davanti a sé, distaccato, come di fronte ad un manipolo di attori mediocri intenti ad agitarsi sulla scena in modo poco credibile. Un moto d’irritazione gli attraversò le membra.

Ambrosie aveva il volto stanco, pervaso di una sottile indignazione; Raphäel sembrava quasi divertito di fronte ad uno spettacolo vano.

 

E tu da che parte stai, Raphäel, stavolta? Sei ambiguo, non parli più. Sei d’accordo con lei? Vi siete riempiti entrambi la bocca delle medesime, confusionarie idee? E tu condividi il suo pensiero, la sua opinione su di me e sulle mie decisioni, o, in alternativa, ci reputi tutti quanti stupidi.

 

- Ambrosie, basta, ora. Auguste non sta bene.

Per un istante, gli parve di scorgere il viso della ragazza solcato da una collera silenziosa, quasi smorzata, tremante. Gli occhi scintillanti. Poi, di colpo, si sottrasse alla mano che la tratteneva: all’improvviso, sembrava non importarle troppo.

Raphäel teneva le braccia intrecciate sul petto, l’abbozzo di un sorriso freddo che gli increspava un angolo della bocca. Auguste si sentì tremare.

- Prova a farlo ragionare tu, Raphäel, se ci riesci – rimarcò Ambrosie, pungente, gli occhi fissi sul ragazzo come su una statua indifferente – Quando non è ubriaco, magari.

 

E non è altro che un gioco, dunque, una farsa patetica che rischia di consumare le nostre energie, che ci sta trascinando alla deriva, dietro qualcosa che non vale la pena, forse? Lo credi anche tu, Ambrosie?

Io sono ubriaco, d’accordo. Sono molto ubriaco. Potrei mettermi a danzare per la stanza, se questo servisse ad avvallare ulteriormente un dato inequivocabile. Vorrei soltanto essere lasciato solo, ora; sul serio, lo vorrei disperatamente.

 

Si sentì barcollare, i passi incerti. Avrebbe bevuto di nuovo, forse, avrebbe baciato ancora Fernand, com’era stato in quel lontano giorno di festa, e si sarebbe goduto la sua confusione, la sua faccia sconvolta, il tremolio delle labbra. L’avrebbe accarezzato fino a vederlo avvampare, sciogliersi sotto il suo tocco, gli occhi assenti, venati di follia. Fino ad annientare il suo fantasma ineffabile.

 

* * *

 

Fernand era pressoché certo che quel vestito color tortora dalla stoffa morbida avesse visto circostanze migliori, rispetto all’ormai monotono rituale delle sue lacrime che ne inumidivano il davanti. Tutto ciò lo faceva sentire umiliato, se ne rendeva conto: era come ripercorrere una trama già scritta di cui non potesse fare a meno. Più forte di lui, di nuovo.

Era schizzato fuori dalla stanza, un attimo prima di esplodere, incerto se vomitare tutta la sua rabbia addosso a quel pazzo o saltargli alla gola, oppure abbandonarsi al profondo smarrimento che gli offuscava la vista e lasciarsi crollare di fronte ai suoi occhi gelidi e folli.

 

Ambrosie, abbracciami!

 

Le dita strette sulle sue spalle, il viso nascosto nel suo petto, tra le sue braccia, i capelli ondulati che si confondevano nei suoi.

 

Non volevo realmente incontrare lui, immergermi nel suo mondo come in un lago di pece e restarne invischiato fino a tal punto.

E forse non sarei nemmeno dovuto scappare come un reietto, abbandonando la mia casa con un pretesto casuale. Mi sarebbe bastato restare con te, Ambrosie. Vorrei soltanto restare così, chiuso fra queste braccia.

 

- Era completamente, orrendamente ubriaco. Non aveva mai parlato così.

- Non ce la faccio più… Fernand si sentiva cedere, le forze che scemavano sotto l’imperio di un abbraccio.

Avvertiva alle proprie spalle la presenza di Dorian, qualcosa che gli vibrava sulla nuca scossa da singulti. Non se ne curava. Lo sguardo ceruleo del suo amico scorreva su di lui, poi su Ambrosie e viceversa.

- Non credo ad una parola di tutto ciò che ha detto.

 

Diversamente, caro Dorian, non si spiega il motivo per cui sei rimasto così calmo e indifferente, e Raphäel con te. Siete ottimisti, quasi fiduciosi, per quanto concerne Auguste: non riuscite neppure a concepire che possa arrivare a tanto. A perdere il lume della ragione e riporre tutto nelle mani di quell’inenarrabile testa calda di Fernand. Auguste dovrebbe essere come minimo impazzito, ad aver rivalutato nell’arco di una notte il suo tradizionale avversario. Invece, ha preferito tirarsi fuori lui: troppi i galli dalla cresta ben spiegata che richiedevano costante attenzione.

 

- …Perché, se dovessi prendere come attendibile ogni singola cazzata che ha detto poco fa, sarei costretto a farmi di lui l’idea di un pazzo furioso a cui per caso è frullata in testa l’idea di giocare un tiro crudele ai danni del suo compagno più giovane.

 

Basta così, Dorian.

 

Fernand serrò le palpebre. Era come percorrere fedelmente, dinnanzi a sé, il gesticolare nervoso con cui Dorian accompagnava le proprie parole, i riccioli dorati che vorticavano intorno alle gote arrossate.

Si morse il labbro, mentre l’immagine, il ricordo prepotente balzava ai suoi occhi a tradimento. La sera prima, il volto estatico di Dorian a un filo dall’orgasmo, un grido soffocato in fondo alle iridi delicate, come un segreto fra loro. Il corpo teso e meraviglioso che si agitava lentamente, fino a contrarsi in uno spasmo quasi doloroso.

Dorian che gli scompigliava affettuosamente i capelli, che confabulava sottovoce con Ambrosie, sguardi furtivi che s’intrecciavano, cospiratori nell’ombra.

 

Vattene, Dorian. Non contaminare il mio momento. Non dopo avermi respinto miseramente. Lasciami a lei.

 

Dorian lo accarezzava lentamente, gli torturava i capelli fra le dita, sussurrandogli parole rassicuranti sulla pelle. Un quadro meraviglioso nella sua mente. Stretto fra le braccia di Ambrosie, il pianto che scemava e le carezze di Dorian che gli piovevano sul capo.

Ora, mio Dorian. Faresti ancora l’amore con me?

 

- Fernand, forse dovresti… Provare a riparlare con Auguste in un secondo momento – azzardò Ambrosie dopo un lasso di tempo che a tutti e tre i presenti era parso poco meno che eterno – Quando… Avrà ripreso a ragionare, dico.

Fernand ebbe la sensazione di riemergere da una sorta di limbo d’ovatta, le voci soffuse intorno a lui. Per un istante temette di essere sprofondato nel sonno e di aver smarrito qualche nodo fondamentale, i capelli appiccicati alle guance arrossate.

- Che diavolo dovrei dirgli ancora? – sussurrò, confuso – Di andare a farsi fottere, lui e i suoi lampi di genio? Neppure tu riesci a renderti conto che Auguste, nella sua follia, questa volta stava parlando sul serio. Non è forse così? – si prese il capo fra le mani, esasperato, i capelli arruffati strettamente avviluppati nel movimento convulso delle dita – Mi sembra di stare nel bel mezzo di una congiura. È la congiura degli scettici!

- No, non è neanche così – Ambrosie scosse il capo, lo sguardo vago, soprappensiero.

- E allora, è troppo chiedere di essere resi edotti su certe raffinate sottigliezze che solo voi riuscite a cogliere? – incalzò Fernand, spazientito.

- C’è qualcos’altro. Auguste non era completamente in preda alla follia di un disegno assurdo che solo la sua mente sembrava conoscere – una pausa imbarazzata, alla ricerca delle parole giuste attraverso le quali propinare ad un interlocutore la più bizzarra delle teorie – Però, credo che abbia volutamente omesso qualcosa. Così, forse, la sua ultima trovata potrebbe anche acquistare un senso.

- Sarebbe bello. Peccato che io non sia così stupido da lasciarmi abbagliare un’altra volta dalle sue occasionali lusinghe. Che diavolo vuole da me, stavolta? Aspetterà che metta un piede in fallo, per poi riprendere il vecchio discorso da capo?

- Fernand ha ragione – Dorian mosse un passo in avanti, il volto pensoso – Auguste non ha in mente nulla in particolare. È solo stanco, distrutto dalla situazione; ha tessuto tante di quelle trame che ora non sa più nemmeno lui come districarsi, dove riafferrare il bandolo. Vorrà soltanto… Gettare l’esca, prendere un po’ di tempo. Farsi coccolare, sentirsi dire quanto è meraviglioso e speciale, la sua presenza irrinunciabile, per poi riprendere in pugno la situazione non appena si sentirà abbastanza corteggiato.

- Eppure… – Ambrosie si strinse nelle spalle, persa nelle sue riflessioni – L’idea di Auguste, ripensandoci, non è poi così assurda come può sembrare. Solo, vorrei che gettasse via la maschera sulle sue intenzioni e chiarisse per filo e per segno quali saranno i limiti del gioco, stavolta. Penso che dovrebbe parlare chiaramente, Fernand, senza lasciare zone d’ombra, evitando di farti carico del suo ennesimo colpo di testa per poi nascondersi con noncuranza.

Fernand indugiò su Ambrosie e Dorian, i loro occhi fissi su di lui, in attesa di una risposta. Sua sorella e il suo miglior amico.

A calamitare definitivamente la sua attenzione fu la fasciatura sottile che avvolgeva la mano di Dorian e, dalla disinvoltura del suo gesticolare e del suo imprimere la presa sugli oggetti, Fernand dedusse che doveva essere completamente pazzo, a non prestarvi attenzione neppure per un istante. Oppure, che la ferita fosse davvero superficiale.

Distolse lo sguardo, stordito.

- Ora basta! – scosse il capo – Vi rendete almeno conto di che razza di teorie assurde state sviscerando? Vi ascoltate, almeno, mentre parlate? Io… Continuo a non capirci nulla, sul serio.

- Fernand, lascia stare. Una cosa soltanto – Ambrosie catturò repentinamente il suo sguardo, e a Fernand parve quasi di avvertire, come un’ombra, una sorta di tacito consenso da parte di Dorian – Cerca di parlare con Auguste. È lui che può, che deve chiarirti le sue trovate, nel momento in cui stavolta ti riguardano così da vicino. Prendilo per i capelli, se sarà necessario, fa’ come preferisci, ma cerca di farti spiegare come stanno davvero le cose, che razza di idea ha partorito stavolta.

- Grazie dello spassionato suggerimento! – Fernand distolse lo sguardo, un’impronta di lieve sarcasmo sul volto tirato.

Forse Ambrosie non lo pensava sul serio, rifletté. Non era del tutto prevenuta nei riguardi di Auguste, o forse aveva qualche asso nella manica pronto nell’evenienza. A che gioco stava giocando, anche lei?

E Dorian sembrava sulle spine, teso come se il suo corpo fosse fatto di corda, l’espressione del viso resa volutamente imperscrutabile da qualche scintilla di disperato autocontrollo.

 

* * *

 

Dorian scosse il capo, quasi a volersi liberare di un pensiero ancora nebuloso, embrionale, eppure insopportabilmente fastidioso. Troppe cose che non andavano, passaggi troppo sfuggenti e repentini per riuscire a coglierli in tutta la loro pienezza, ad attribuirvi un significato ed una sistemazione.

- Dorian, qualcosa non va? Sei pallido…

 

Taci, Raphäel. Taci, ché è meglio per tutti. È un consiglio spassionato, il mio. Non esasperare la situazione, perché sarà sufficiente una piuma, stavolta, per far pendere l’ago da una parte o dall’altra.

 

Volse il capo, quasi infastidito dalla sua presenza, da quella mano diretta sulla sua spalla.

 

È troppo comodo, ora, Raphäel. Mi hai illuso, anche tu. Hai simulato abilmente un’amicizia nei miei riguardi che in realtà era ben lungi da te. Almeno, finché ti sono stato utile per estorcermi con calma tutte le informazioni che desideravi. Ora il quadro sarà di certo più chiaro nella tua mente. Giochi con me, o è solo la mia impressione?

 

- Non c’è nulla che non va, davvero – le sue dita si strinsero intorno alla falda del cappello che teneva fra le mani, quasi non sapesse che cosa farne.

Accennò con un breve cenno del capo alla stanza di fianco, la porta semiaperta che lasciava filtrare uno spiraglio di luce.

- Come sta Auguste? È rinsavito, oppure dobbiamo aspettarci altre bestialità?

Vide Raphäel chinare per un istante lo sguardo, come se davvero gli fosse importato qualcosa. Alla sua destra, Ambrosie incalzava, lo sguardo mobile, vivo.

 

Per caso non è ancora paga di aver spedito suo fratello dritto dritto nella tana del leone?

Persino tu, Dorian: l’hai incoraggiato, hai annuito di fronte alla sua idea. Non gli hai detto “fermati, lascia stare, lascialo perdere, lascialo cuocere ancora un po’ nel suo brodo”.

Che imperdonabili incoscienti!

 

- Considerato che è reduce da una notte in cui ha alzato un po’ troppo il gomito e che mangia poco e nulla da giorni, direi neanche troppo male.

 

Che diavolo vi siete detti, in quella stanza? Che diavolo ha da confabulare, in questo preciso istante, con Fernand?

 

Ambrosie sembrava tesa come una corda di violino, gli occhi scintillanti. Dalla foga nervosa con cui cercava di convogliare le proprie parole in una richiesta non troppo impertinente, Dorian dedusse che gli interrogativi che le si addensavano nella mente non dovevano discostarsi troppo dai suoi.

- Cosa vi siete detti? – proruppe infine.

Dorian fu preso da un insolito impulso ilare che per un istante gli contrasse le labbra in una specie di sorriso di scherno. Ambrosie non aveva retto alla smania di sapere ed aveva finito per parlare per entrambi. Un vero calcio in faccia alla diplomazia.

Raphäel scosse il capo in un cenno di diniego.

- Nulla di particolare. Solo che aveva bevuto e che preferiva parlarne in un secondo momento. Sono riuscito a propinargli una scodella di minestra, tanto per riscaldarsi un po’ lo stomaco, e a convincerlo a riposare.

- E… Fernand?

Se Ambrosie sembrava sull’orlo di una crisi di nervi, Raphäel sembrava non dare gran peso alle domande che gli erano rivolte.

 

Ce l’hai spedito tu in questa situazione, mia cara, avrebbe voluto gettarle in faccia Dorian. Hai fatto leva sulle sue crescenti perplessità. Che cosa pretendi, adesso?

Che bravi amici, noi due!

 

- Nulla. Ha detto soltanto che avrebbe voluto riparlarne direttamente con lui.

- …E ci ha praticamente sbattuti fuori – concluse Dorian al suo posto, una malcelata punta d’orgoglio nello sguardo a mascherare la leggera indignazione.

E da dove gli derivava, ora, quello scintillio d’angoscia che lo faceva sentire malfermo sulla sua rassicurante postazione?

Si tirò su in piedi, di scatto.

- Che ti prende, Dorian? Non vorrai metterti a… origliare i loro discorsi? – Ambrosie gli rivolse un’occhiata complice.

- Perché no? Non è qualcosa che riguarda soltanto loro – azzardò, avvertendo le proprie guance avvampare incomprensibilmente.

 

Cos’era che non andava, per l’ennesima volta?

 

- Ne sei davvero sicuro, Dorian?

 

Dannazione, Dorian! Non eri neppure l’unico a non sapere.

 

- Andiamo… – proseguì la ragazza, conciliante – È chiaro come il sole che il problema di Auguste si chiama Fernand Laroche.

 

Almeno ha la decenza di arrossire, meditò Dorian fra sé.

Gran bella gabbia di matti: i miei complimenti. Una gabbia di matti in cui ognuno si compiace della reciproca follia come dogma condiviso.

Fra te e tuo fratello, Ambrosie, non so davvero chi…

 

Fu Raphäel a spezzare quell’ineffabile gioco di sguardi.

- Bene, bene: a quanto pare, il segreto di Pulcinella non è più un segreto per nessuno. A questo punto, dico, potremmo anche avere il buongusto di togliere il disturbo, non trovate?

Dorian sentì un accesso di collera esplodergli in volto. Collera che riuscì agevolmente a convogliare in un moto sarcastico.

- Tu sei il peggiore di tutti, Raphäel – ringhiò – Davvero, mi rifiuto di immaginare cosa stia pasticciando in questo momento nella tua mente. Mi vengono i brividi al solo pensiero.

- Non essere ingenuo, amico mio.

Dorian colse l’impercettibile, fulmineo inarcamento del sopracciglio sotto i riccioli scuri che gli ricadevano mollemente sul viso.

Distolse lo sguardo.

Possibile debba far così male?

- Cominciate pure ad andare, davvero.

- Tu che diavolo farai, ora? – Ambrosie gli si era aggrappata al braccio, quasi implorante, lo sguardo colmo di febbrile agitazione.

Le labbra di Dorian si distesero in un sorriso.

- Ti riferirò, naturalmente – le soffiò, circospetto, stretto nella morsa di un’evanescente promessa.

Sarebbe bastato portare i propri passi verso quella maledetta porta in fondo alla stanza e buttarvi dentro lo sguardo con disinvolta noncuranza. Deglutì a fatica.

 

Ce l’ho spinto io, Fernand, in questa situazione. Io gli ho infilato il tarlo nella testa, e Ambrosie ha fatto il resto. E ora, a chi crediamo di darla a bere, la nostra beata ingenuità?

Vadano al diavolo anche Raphäel e la sua espressione sagace, le iridi come schegge pronte a conficcarsi nella mia carne. Bravo, Raphäel, perché non ci voleva un genio per arrivarci: come dici, scusa? Soffrirò? Ci resterò male, qualunque cosa vedrò al di là di quella dannata porta? Bella scoperta. Fernand mi farà male, d’accordo. Ma non che tu sia riuscito a fare meglio. Vi equivalete, in questo senso.

 

Era una voce che gli martellava in fondo alla testa: l’hai voluto tu, Dorian. Hai caldeggiato per bene l’epilogo ideale di questa situazione. E hai avuto l’occhio lungo. Cosa puoi desiderare di più, adesso? Il prodotto resterà comunque uguale.

 

Forzò la propria vista sotto la luce diretta che per un istante l’aveva abbagliato, cogliendolo di sorpresa. Si costrinse poi a posare uno sguardo fugace sulle due figure immobili su quel letto spoglio, impersonale, le lenzuola immacolate.

C’era un grosso gatto grigio fumo che ronfava placidamente, acciambellato ai piedi del suo padrone.

Dorian respirò profondamente. Si era avveduto solo in quel momento della presenza dell’animale.

Scorse sulla figura di Auguste, le lunghe gambe distese. E Fernand, i capelli arruffati sulla nuca, spalle rivolte verso di lui. Si era costretto ad osservarlo solo in quel momento, venuta meno in lui l’ostinazione di lasciar impigliare la propria attenzione in giro per la stanza, indugiando su particolari di scarsa rilevanza. Come il gatto che si stiracchiava inarcando la schiena o la giacca di Auguste abbandonata su una sedia.

E poi Auguste si era mosso, l’eleganza di un cigno impressa nelle membra stanche. Così diverso dalla creatura pallida e arruffata di poc’anzi, in preda ad un’autentica crisi di nervi, mentre accusava Fernand.

E ora. Attirava Fernand su di sé come se si trattasse del gesto più naturale del mondo, e Dorian in un primo momento aveva faticato a discernere dove terminassero i capelli dell’uno e iniziassero quelli dell’altro. Sfumavano l’uno nell’altro in una sorta di umida carezza, come di labbra che si strofinano lentamente le une sulle altre ad assaporare il reciproco contatto.

Un palpito ipnotico aveva riempito la stanza dinnanzi ai suoi occhi, denso come una patina di fumo. Dorian aveva distolto lo sguardo, cercando di autoconvincersi che serrare le palpebre sino a farsi dolere i muscoli della faccia sarebbe stata la soluzione ideale. Aveva portato i propri passi lontano da lì senza neppure accorgersene, per poi crollare inerme sul pavimento, ginocchia strette contro il petto. Come se qualcosa gli avesse impedito di respirare per un lasso di tempo interminabile, ed ora si trovasse suo malgrado a lottare per riemergere dal fondo, da una lunga, forzata apnea. Come se qualcuno gli avesse cacciato la testa dentro un recipiente colmo di veleno, costringendolo a respirarne gli effluvi. Intossicato.

 

Dannazione, Dorian. Respira! Che diavolo ti aspettavi di diverso? L’hai voluto tu, ficcatelo bene in testa, affinché ora non te ne vada a nasconderti dietro al solito, delicato dito. Hai fatto carte false per spingere Fernand verso l’inevitabile. Verso ciò che sapevi, dopotutto. Ed ora, se la cosa non ti dispiace, potresti anche iniziare a raccogliere i frutti.

 

Scappare: era l’unica azione coerente che le sue membra si sentissero di mettere in atto. Uscire da quella casa prima di diventare matto.

Perché si sentiva… così, maledizione? Cosa gliene dava il diritto?

La luce, lo spazio aperto della via antistante gli dava le vertigini, i vicoli maledettamente polverosi che turbinavano sotto i suoi piedi.

 

Non ti è andata così male, Dorian. È tutto sotto controllo, come previsto, senza sbavature. Pulito, una volta tanto, nello stesso modo che avevi facilmente pronosticato. O così sembra.

 

Eppure, alla luce di tutto questo, cosa diavolo sono quelle stupide lacrime sulla tua faccia? Che diavolo è successo?

 

Auguste l’ha umiliato, ancora una volta. Soltanto mezz’ora fa. Gli ha sputato addosso il veleno della sua immane frustrazione.

Ed ora – proprio in questo momento – cosa gli dà il diritto di fare ciò che fa?

C’è qualcosa che sfugge: frammenti smarriti malauguratamente nel fondo del baratro. Ho perso qualche nodo fondamentale. Cosa manca a completare il quadro? E… mi è mai importato tanto, dopotutto?

 

Va’ al diavolo, Auguste! E prova a restarci abbastanza a lungo, stavolta, se la cosa non è di troppo disturbo.

 

* * *

 

Il chiarore tremolante di una candela, solitaria nella stanza, vibrava fra le pieghe delle tende che piovevano dall’alto baldacchino. Schermavano il dormiente da sguardi indiscreti.

Un lampo in fondo alle iridi, nostalgia di un inganno feroce; dinnanzi a lui, la luce si confondeva fra le pieghe della stoffa pesante, creando zone d’ombra quasi livide. Troppo debole per ferire i suoi occhi, non era che la pallida imitazione del brivido crudele che ogni giorno gli incuneava nella mente, come un morbo, la smania di una sfida personale, tracotante ai limiti della stoltezza. Così contraria ad una natura che ancora si sforzava di non accettare come ineluttabile.

E poi quel lusso, quel lusso sfacciato che non era nelle sue corde: non lo era mai stato, non avrebbe cominciato adesso, e il ricordo di lenzuola di seta, arazzi e tende di fine broccato bruciava ancora sulla pelle. Quella stanza lo metteva orribilmente in soggezione, per contrasto, come una macchia scura su un pavimento immacolato, mille dita puntate contro come spade sguainate, giudici inflessibili poco inclini al perdono. Come trovarsi al di fuori del proprio elemento.

Un istante, un unico gesto istintivo, secco. Quasi strappò quelle stupide tende poste come schermo ingannevole, un’ansia bramosa e febbrile che gli serpeggiava nelle dita pallide. Cinque ganci acuminati protesi verso la stoffa scura, come vermi pronti a corrodere quella stanza voluttuosa, l’impatto beffardo dinnanzi ai suoi occhi.

E poi, un sorriso si allargò sulle sue labbra sottili, un fremito d’insolita dolcezza che scorreva nelle sue vene come un balsamo refrigerante. Avrebbe pianto, se non si fosse affrettato a soffocare quanto prima il tumulto di un sentimento improvviso. E se la mente capricciosa non l’avesse riportato, prepotente, sull’urgenza incalzante della sete che gli tormentava la gola riarsa. Si sentì quasi vacillare, quando il suo corpo finalmente acconsentì a lasciarsi andare sul bordo del letto, ad imitare una postura seduta; piano, per non svegliarlo troppo bruscamente. Lui, lì, pochi passi ritagliati nello spazio che li separava.

- Ben svegliata, mia splendida stella.

L’altro si mosse veloce, tirandosi su a sedere, le palpebre stanche, pesanti di sonno residuo.

E lui riusciva a percepire la sua mente come in un bozzolo di nebbia.

- Che diavolo… – afferrò il movimento delle labbra incolori: no, non era un buon segno, e lui non aveva ancora molto tempo a disposizione.

Attraverso il tocco leggero delle dita che tentavano di allacciarsi timidamente alle sue, poté percepire la confusione, il profondo senso di vertigine che gli faceva portare le mani a massaggiare le tempie, come a lenire un dolore immaginario, illusorio. Ma no, non doveva sentire male, in realtà.

Sospirò: avrebbe provveduto a lui come aveva fatto tutte le notti, dacché l’aveva osservato dormire sul suo letto, avvolto da un pesante torpore. Ma le sue sole forze, stavolta, non gliel’avrebbero concesso. Doveva uscire, costruire la sua libertà, fornirgliene lo strumento irrinunciabile. Si era cullato troppo a lungo nell’attesa, ma ormai era tempo di agire.

- Non sei più la mia stella? – gli soffiò, un’inconsapevole venatura capricciosa nella voce, come una nenia infantile – Ora sei la mia stella. La mia splendida stella della sera – soggiunse in un mugolio impercettibile, dalla consistenza evanescente di un pensiero, la mano che correva ad accarezzargli i capelli, possessiva.

Lui era suo. La sua creatura meravigliosa. Ed era pronto ad affrontarne le conseguenze.

Lo vide sorridere, beffardo. Sembrava un gioco protratto troppo a lungo.

- Non scherzare. Che cosa vuoi dire?

- Shh… – sibilò fra i denti, tracciando un’immaginaria linea verticale sulle labbra dell’altro, come ad intimargli dolcemente il silenzio – Dico che ti devo delle scuse… A dire il vero.

Il semplice gesto di sfiorarlo fu una scossa che serpeggiò fra le loro carni, una sorta di ponte ideale.

E le sue labbra, così pallide. Preoccupante, orrendamente preoccupante. Sarebbe cominciato così: una generica mancanza che ti serpeggia addosso, una sorta di disagio, come starsene infilati dentro una veste troppo stretta. E poi sarebbe arrivato il tormento della sete, come una stilettata, come uno scatto fulmineo a tenderti i muscoli di tutto il corpo, a privarti della tua ragione.

Doveva fare qualcosa, al più presto.

Quel che temevo: un quarto d’ora, per la verità.

- Non ti ho chiesto delle scuse – gli ingiunse l’altro con fare conciliante – Mi accontenterei… di una spiegazione. Solo questo.

Ma lui aveva già scosso il capo in un cenno di muto diniego, interrompendolo di colpo attraverso quel linguaggio non verbale che, in capo a qualche tempo, sarebbe divenuto il tramite ideale, la forza di una crescente intimità. Un filo invisibile fra loro, un solo gesto dalla potenza disarmante di una fucilata, un messaggio stampato a chiare lettere, sospeso fra loro, intrappolato fra due solitudini.

- Il fatto è che… Temo di aver esagerato con il laudano, amico mio. Tutto qui – si affrettò a replicare – Sei rimasto incosciente tre notti di fila. Guarda un po’…!

Distolse lo sguardo. L’altro rideva, la camicia che, dispettosa,  gli scivolava giù dalla spalla, scoprendo la perfezione lattea della pelle come uno squarcio su marmo ben levigato; era quasi inquietante: una statua dagli occhi vividi, la materia dura quasi opalescente sotto quel debole bagliore ormai agonizzante.

- Davvero fa … ridere?

- Rido perché ciò che vedo davanti a me parla chiaro. Non resisterai ancora a lungo, amico. È la tua natura.

E lui, a quelle parole, avvertì i propri lineamenti indurirsi involontariamente sul viso, la pelle tirare come uncinata da fili invisibili pronti a tenderla a loro piacimento. L’espressione aspra, categorica, priva di sfumature.

 

Sta’ zitto e ascolta! Raccogli quanto più di ciò che è necessario sapere, perché non ci sarà una “prossima volta”. Non sarà neanche necessario, a dir la verità.

 

- Non è un gioco. La mia… natura? – sorrise – La controllo come e quando voglio, credimi, e non sarà questo il mio problema. Imparerai anche tu.

- Bugiardo.

Sentiva la collera martellargli nel petto. Ed ora, se le sue azioni fossero state abbastanza impulsive da sgusciare via dal suo rigido autocontrollo, gli si sarebbe avventato addosso, inchiodandolo al suolo sotto il proprio peso.

No: tutto sarebbe sfociato in una lotta inutile, come due ubriachi o due cani selvatici che si contendono un osso. E, se avessero indugiato ancora in quelle stanze, sarebbe giunto presto il momento in cui ognuno di loro non sarebbe stato in grado di aiutare l’altro. Dovevano uscire. Prima possibile.

- Vestiti, anziché stare lì a fissarmi – lo apostrofò con voce incolore, lo sguardo che fuggiva – Devo mostrarti una cosa. È fondamentale – lasciò che le sue parole si colorassero di una velatura maliziosa, sibillina.

- Ti sei deciso a… istruirmi, dunque?

 

Come una madre farebbe con la sua creatura: esattamente.

 

Il suo sguardo saettò ancora un istante intorno alla stanza, collerico, come una bestia braccata e ferita. Assottigliò minacciosamente le palpebre. Il pensiero di ciò che sarebbe accaduto in capo a pochi minuti era sufficiente a gelargli il cuore in una morsa di spine.

- Penso solo che sia giunto il nostro momento. E, bada bene, sarà la prima e l’ultima volta che ti lascerò il privilegio di… assistere – puntualizzò, perentorio.

Avvertì soltanto l’eco delle sue ultime parole, smarrite in qualche angolo oscuro dei suoi appartamenti, impigliate in un’immaginaria voluta di quell’aria tiepida e rarefatta che colmava il vuoto fra loro. E forse, con un po’ di fortuna, quell’ultimo strascico sospeso fra parola e pensiero doveva essere stato pressoché impercettibile fra loro. Sarebbe restato così, latente, una frase in sospeso, uno sguardo complice scoccato di sfuggita nell’atto di abbandonare la stanza con passo leggero, per poi fermarsi e misurare la breve attesa.

Prima ed unica volta, amico mio.

Penso non mi vedrai farlo di nuovo, stella mia. Non in tua presenza.

Manterrò il mio sepolcrale riserbo, e ti sarà sufficiente ciò che vedrai.

 

- Sta’ indietro! – l’aveva investito con voce ringhiosa, entrambi avvolti nella penombra sotto il vecchio arco di pietra che fungeva da filtro provvisorio tra i quartieri popolani e Noir Trésor la bella, la cittadella ben arroccata con i palazzi aristocratici e il castello del duca e le mura dall’impatto severo.

La consistenza della pietra sotto il palmo delicato era tiepida, ruvida, come un vibrare di vita propria, di antichi segreti da cui abbeverarsi attraverso i sensi. Socchiuse le palpebre. Isolati, inaccessibili frammenti di vita, remoti, perduti; antico e presente. E le sue dita erano fredde.

Si sforzò di procedere, un sibilo appena accennato all’altezza dell’orecchio, la voce ferma che tentava di sottrarsi all’ansia crescente.

- Mi hai sentito? Non devi muoverti né prendere iniziative o, peggio, fermarti a discutere su quanto ti dirò. E, soprattutto – proseguì in un gemito roco, gravido di una complicità quasi perversa, le dita contratte ad artigliargli la spalla – Cerca di tenere su quel maledetto cappuccio. Guai se qualcuno ci vedesse – lo redarguì.

Il suo sguardo vagò per qualche istante sui lunghi capelli che spuntavano dal bavero tirato fin sulla bocca, ombre soffici e mutevoli su guance d’alabastro.

Trasalì, e la frustata di una cocente necessità vibrò fin sulla punta delle dita, un’isteria oscura a far da cornice alla sua maledizione, pronta a risolversi in una reazione incontrollabile, qualora avesse disatteso un istante di più l’improrogabile urgenza. Un bieco istinto d’autoconservazione o qualcosa di ben più terribile, di inafferrabile? Come una battaglia con se stesso perduta in partenza. Deglutì a vuoto.

 

Osserva bene, figlio; impara bene la lezione; dopo, sarai libero di maledire e detestare questo per tutti i giorni in cui continuerai a calcare questo mondo con i tuoi passi.

 

- Lui… – la sua voce vibrò, i lineamenti del volto che si contraevano nella follia – Lui che corre! Le lacrime bruciano ancora…

Riuscì a percepire un lieve fremito d’orrore sul volto del compagno. Un gemito infernale che implodeva nella sua testa. Un grido privo di voce, una specie di “no” dall’eco infinita. Le ultime forze di quella fievole scintilla che aveva lottato strenuamente, venivano meno, si ritraevano, sconfitte. L’ultimo fremito di un’umana consapevolezza che si dimenava in lui, a vuoto, e non accettava l’ineluttabilità crudele. Prima dell’inevitabile.

Hai perso di nuovo la tua scommessa, caro mio.

Collassò su se stesso.

 

La sua dolce, piccola preda piangeva, schiena contro il muro… Oh, la dolcezza inafferrabile della mano con cui si strofinava goffamente la faccia, desiderio manifesto di disperdere nel vento le lacrime, il dolore che gli pungeva il petto. E quanto male inutile, intorno a quell’essenza così delicata…

E forse sarebbe stato sufficientemente accorto da rendersi conto per tempo dell’orrido esserino dalle grandi ali scure che zigzagava da un capo all’altro dello stretto viottolo. Se solo la sua visuale non fosse stata compromessa a tal punto dalle lacrime che gli bruciavano gli occhi, tanto da infrangere la porzione di mondo che si mostrava dinnanzi a lui.

Lo sentiva: i riccioli biondi scomposti, la trama sfilacciata di un pensiero in tumulto.

E poi lo vide annaspare a vuoto, le braccia protese davanti al viso, pallido tentativo di scongiurare il rischio di uno scontro di cui si era avveduto troppo tardi; troppo tardi, per poterlo eludere del tutto.

L’impatto gli esplose addosso, espandendosi dal centro da cui traeva origine ogni fibra del piccolo corpo, quando, in quel preciso frangente, il diabolico incantesimo s’infranse. Un urlo inudibile, la materia che costituiva il suo corpo ormai in procinto di riprendere la forma originaria, di trasformarsi e ridar vita ai muscoli deliziosamente allungati sulla solida impalcatura delle ossa, alle dita simili ad affilate, graziose propaggini per indagare l’ignoto, forzarlo alla propria mercé.

 

Un pipistrello ingannato dai propri sensi sottili, acuti come minuscole lame?

Certo non ti sarà capitato spesso: è tutto così grottescamente surreale, e tu sei un ragazzo giudizioso, Dorian, poco incline a lasciarti ingannare.

 

Neppure la presenza alle sue spalle, celata dal lungo mantello, doveva essere troppo dissimile, ai suoi occhi stravolti dal terrore, da quei sogni angosciosi nelle prime ore del mattino, quando il torpore che avviluppa i sensi si sfalda in un risveglio che ti coglie di soprassalto, la coscienza ancora impregnata di paura.

 

Ben svegliato, Dorian. Credo che non sia mai stato splendido come in questo momento.

 

Sapeva cosa fare. Qualcosa tipo attirarlo a sé, una mano premuta sulla bocca a soffocare l’urlo che presto gli sarebbe salito alla gola sotto l’imperio dell’istinto; e l’altra mano, attenta a non spezzargli qualche osso sotto la pressione di una forza dirompente sulla materia cedevole.

 

Sei così fragile e delicato. Da divorare dolcemente, senza alcuna fretta a rovinare il nostro momento.

Lotti come una piccola belva costretta in cattività, le dita tese ad artigliare il vuoto, come a voler dilaniare il tuo assalitore, e il tuo corpo si dibatte invano.

 

L’ultimo indugio fu il movimento impalpabile con cui provvide a scostargli i capelli che celavano il collo alla sua vista. Un gesto soave della mano lo indusse a reclinare dolcemente il capo sotto la sola luce dell’istinto, rivelando il candore paradisiaco di quel ritaglio di pelle fra orecchio e collo, la mandibola deliziosamente contratta sotto la cute alabastrina, pulsante di sangue e di vita; e, di lì, il suo sguardo prese a scorrere sempre più giù, lungo il percorso della gola, prima d’inabissarsi oltre le vesti.

Intuì il percorso della giugulare, il battito ben scandito sotto le sue dita mentre lo sfiorava e protendeva il volto verso di lui, lambendo per un attimo in punta di labbra il tracciato spezzato e tortuoso di una lacrima sulla guancia rovente, spazzata via dalla furia di quegli ultimi istanti.

E poi non vide più nulla, nel momento in cui s’immerse prepotente in lui, piccoli denti acuminati come spilli contro la carne tenera di quella gola fantastica. Nient’altro, se non la sua essenza che esplodeva viva dentro di lui: il sangue di Dorian, il suo corpo che si tendeva inconsapevole verso di lui nella morsa di un delirio selvaggio, devastante, i sensi che si confondevano in una danza infernale, fino a sbiadire l’uno nell’altro.

 

Sei tanto, tanto bello, mio piccolo Dorian…

Respira anche per me e per la mia giovane creatura, mio Dorian, e te ne sarò quanto mai grato.

Perché, in capo a qualche ora, quando l’estasi mi avrà abbandonato e sarò tornato in me, allora giacerò sotto il peso della più cocente disperazione, e la colpa mi corroderà le viscere.

Respira anche per me, stanotte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ps: dedico questo capitolo – l’ultima parte in particolare^^ – alla mia carissima Witch che ama tanto i vampiri… Sperando di non aver strizzato troppo l’occhio ad Anne Rice, scrittrice che, parentesi, adoro.

 

Pps: ultimo capitolo per questo 2009 che va ormai agli sgoccioli, in cui approfitto anche per lasciare a chi passerà da queste parti i miei più cari auguri per uno splendido 2010.

A presto!

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: Cassandra Morgana