Hopelessly Devoted To You <3
Capitolo 2. Good morning New York.
Lei.
Avevano
alloggiato
in un lussuoso hotel sulla Park Avenue nell'ultima settimana, mentre
attendevano che arrivassero dall'Inghilterra gli ultimi effetti
personali. Le camere degli hotel la stranivano, le trasmettevano un
senso di instabilità. Ad Hannah piaceva avere nuovamente uno
spazio
da poter chiamare “casa”, se casa poteva definirsi.
A
Manhattan non si
trovano delle unifamiliari con giardino annesso come a Londra, quindi
suo padre si era dovuto accontentare di un lussuosissimo ed enorme
appartamento all'ultimo piano di un imponente palazzo di nuova
costruzione. Il che le piaceva tutto sommato, e poteva essere
considerato a tutti gli effetti un successo. Non era tipo da
entusiasmarsi e lasciarsi andare in eclatanti dimostrazioni di
felicità. Tutt'altro.
La
zona in cui
sorgeva l'edificio era una delle più rinomate della
città, l'Upper
East Side. La cosa non impressionava per nulla Hannah, semmai
l'impensieriva. La scuola che avrebbe frequentato si trovava a breve
distanza da casa, poteva quindi facilmente immaginare quali individui
vi avrebbe incontrato. Sarebbe stata a stretto contatto con i pupilli
dell'alta società newyorchese, ragazzi ricchi e viziati, per
nulla
diversi dai coetanei inglesi che durante tutta la sua vita, privata e
scolastica, aveva sempre evitato.
Fin
da piccola era
stata timida, piuttosto introversa, un misto tra diffidenza e
quell'ingenua bontà tipica di chi il mondo non lo conosce
affatto.
Avendo sempre vissuto in una bolla, evitando ogni contatto con il
resto della popolazione mondiale, non aveva il desiderio di farsi
degli amici ne l'attitudine a socializzare. Gli unici amici che
lasciava in patria erano i cavalli e i cani da caccia dei nonni.
Era
una ragazza
sola, e così stava bene. Non si era mia chiesta se ci fosse
qualcosa
di meglio, al di là del confine del suo piccolo mondo. Non
voleva
chiederselo. Avrebbe significato fare dei cambiamenti. E lei non li
voleva. Così andava avanti, dicendosi che in fondo non si
può
desiderare qualcosa che non si conosce.
Trovava
normale e
scontato vivere come aveva sempre vissuto, con la consapevolezza che
il suo nome avrebbe potuto aprirle qualsiasi porta, ma non vi trovava
nulla di cui vantarsi non avendone alcun merito se non una fortuna
sfacciata. Non comprendeva il bisogno ossessivo mostrato dalla
maggior parte dei figli della nobiltà inglese di far sfoggio
di
antenati illustri o delle grandi somme di denaro: io
erediterò
questo e quello, io prenderò tale cifra, io quella famosa
società,
io tale titolo nobiliare.
Non
sentiva dire
altro. Una simile cultura era tanto radicata in alcuni suoi coetanei
che, mentre lei si preoccupava solo di giocare con le bambole, loro
già calcolavano la loro futura fortuna, consapevoli senza
sapere
bene il perché, che un titolo e una grossa somma di denaro
chiusa
nel caveau di una banca li avrebbero resi migliori degli altri.
Hannah
trovava
noiose quelle chiacchiere profonde quanto una pozzanghera, ed era
refrattaria alle attenzioni di chi era interessato solo ai soldi di
suo padre, o a quanto sangue blu ci fosse nelle sue vene.
Non
voleva essere
inglobata da quel mondo di falsità, fatto di sorrisi vuoti e
vanità.
Se proprio fosse stata costretta a socializzare, avrebbe dovuto
piacere per quel che era, non per chi sarebbe stata un giorno.
Il
suo essere
schiva, l'aveva sempre protetta da tutto questo, ma pian piano
l'aveva anche irrimediabilmente allontanata da tutti. Non aveva amici
della sua età, ed era sicura di non desiderarne. Non si
illudeva che
cambiare stato potesse cambiare la situazione.
L'unica
persona di
cui si fidava, era la sua tata. L'aveva cresciuta da quando aveva
cinque anni, ed era ciò di più vicino ad una
madre che conoscesse.
A lei e solo a lei, confidava le preoccupazioni e gli affanni di
quell'età così difficile, e poteva ben dire che
la corpulenta
cinquantenne scozzese, con i capelli rossi e il volto lentigginoso
segnato da qualche ruga fosse la sua unica amica.
***
-
Hannie,
svegliati!- La tata la scosse appena, destandola dal suo sonno
leggero. Si affrettò a scostare le tende dalla finestra ed
aprire le
imposte, così che il sole in tutto il suo splendore
settembrino
inondasse la stanza, spazzando via anche le ultime tracce di sonno.
Hannah si alzò senza fare storie, stiracchiandosi appena.
Sbadigliò,
coprendosi educatamente la bocca con una mano, prima di biascicare un
buongiorno con voce impastata.
Con
un sorriso, la
donna le porse una pila di vestiti ben piegati, e la spinse verso il
bagno. - Avanti, cara. Siamo perfettamente in orario ma la colazione
è già pronta, tuo padre ha già
terminato. Ti aspetta di sotto.
Pensa, ha deciso di guidare fino alla scuola! Lo conosco, arriverete
sicuramente in ritardo! Buon Dio! Quell'uomo è
incorreggibile!-
Cinguettò, mentre canticchiando riordinava la stanza.
Nonostante
l'aspetto burbero, era una donna dolce e affabile, dalla voce morbida e
vellutata, di quelle che ti cullano dolcemente ad ogni sillaba.
La
ragazza annuì,
e presi gli abiti che le venivano porti, si diresse verso il bagno.
Non era solita indugiare davanti allo specchio, non amava truccarsi,
ne acconciava i capelli in modo particolare, quindi fu pronta in
breve tempo.
Quando
scese di
sotto, indossava la divisa della nuova scuola perfettamente stirata e
in ordine, i lunghi capelli castani erano legati in una coda alta,
che le dava un aria ordinata, da studentessa diligente quale era.
Portava con se già la tracolla, colma dei libri da riporre
nell'armadietto che le avrebbero destinato. La poggiò su una
seggiola libera, prima di sedere ad un capo del tavolo e
sbocconcellare la propria colazione.
La
solita vecchia
colazione, la solita brocca di spremuta a dividerli, il solito tram
tram mattutino, il solito silenzio snervante.
Non
appena ebbe
finito, la tata le porse la borsa e si affrettò a portare
via i
resti del pasto dal tavolo.
George
aspettava
sua figlia alla porta, senza nascondere un moto d'impazienza che la
sorprese. Neppure quando doveva tenere delle lezioni in un college
mostrava segni così evidenti di nervosismo.
In
macchina non
parlarono. Hannah fissava edifici sconosciuti sfilare l'uno accanto
all'altro, eleganti e lussuosi, tutti simili in qualche modo, tutti
privi di anima. Bellissimi esempi di architettura contemporanea senza
significato. La St. John non era da meno.
Quando
vi
arrivarono il cortile antistante all'entrata era già
deserto. La
prima lezione doveva essere già iniziata, e il preside
Miller li
attendeva all'ingresso, con un sorriso divertito sul volto.
-
Sapevo che
saresti arrivato in ritardo! Certe cose non cambiano mai, amico mio!
Ti avevo detto di assumere un autista!- Scoppiò in una
fragorosa
risata, allegra e contagiosa.- Ne sono certo, tu hai sbagliato
strada!-
Ed
era proprio
così.
Lui.
Il
primo giorno di
scuola arrivò in un lampo. Jace ne era poco entusiasta.
Detestava il
solo pensiero di dover passare i prossimi mesi con una ragazzina
perennemente alle costole.
Non
poteva essere
altrimenti. Aveva bisogno di quella borsa di studio: aveva presentato
domanda in vari college, partecipato agli esami di ammissione,
compresi quelli per la NYU e la Columbia, ed era a quest'ultima che
lui ambiva. Non c'era neppure da discuterne, se era necessario fare
anche questo, beh, lui l'avrebbe fatto.
La
sveglia suonava
chissà da quanto, quando si decise ad aprire gli occhi.
Cercò di
spegnerla buttandola a terra, con un grugnito di disapprovazione,
perché quella invece di zittirsi, cominciò a
trillare con ancor più
foga.
-Va bene, va bene! Mi alzo! Stupido aggeggio!- Brontolò, puntando i gomiti contro il materasso, per tirarsi su. I capelli biondi erano un groviglio informe, più criniera che altro. Gli occhi grigi e profondi erano assonnati e stanchi, come se nove ore di sonno profondo e ininterrotto non fossero state abbastanza per loro. Jace faticava a tenerli aperti, ma quando si posarono su quelle lancette, si spalancarono.
-Va bene, va bene! Mi alzo! Stupido aggeggio!- Brontolò, puntando i gomiti contro il materasso, per tirarsi su. I capelli biondi erano un groviglio informe, più criniera che altro. Gli occhi grigi e profondi erano assonnati e stanchi, come se nove ore di sonno profondo e ininterrotto non fossero state abbastanza per loro. Jace faticava a tenerli aperti, ma quando si posarono su quelle lancette, si spalancarono.
-
Le 7.30?! Oh
santissima merda!- Sbottò, scaraventandosi giù
dal letto. Afferrò
la divisa, sparpagliata per la stanza e si infilò nell'unico
bagno
di tutta la casa. -Ma dai! Il tappeto è bagnato!-
Urlò, quando vi
mise sopra i piedi scalzi. -Zuppo! Ma dico io... Come diavolo fa
quella donna a ridurre il bagno in un lago ogni maledetta mattina!-
Continuò
a
borbottare come una locomotiva, anche mentre si pettinava (il che
equivaleva a passarsi una mano tra i capelli nel vano tentativo di
renderli meno simili a qualcosa di animalesco) e si lavava i denti.
Scalciò via il tappetino fradicio e si vestì.
Corse in cucina
saltellando su un piede solo, mentre cercava di infilarsi una scarpa.
Attaccata alla macchina del caffè, sua prima e
più grande passione,
stava attaccato un post-it:
“Scommetto
che sei in ritardo!Ricordati lo zaino... E le chiavi di casa! Buona
fortuna per il tuo primo giorno di scuola!Ci vediamo li! XXX Mamma
<3”
Il
ragazzo lesse il biglietto, e lo voltò
“P.S.
Non ti lamentare se il caffè è tiepido! Sei tu
quello in
ritardo! “
Ridacchiò
e lo infilò in tasca. Si versò una tazza di
caffè
-Bleah! É freddo! Altro che tiepido!- che venne subito
abbandonata
sul tavolo. Raccattò chiavi e uscì di corsa,
chiudendosi la porta
alle spalle. Scese le scale di fretta, come se ne andasse della sua
stessa vita e quando finalmente raggiunse la porta d'ingresso della
palazzina...
-Oh
santissima merda! Lo zaino!-