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Autore: Noony    28/12/2009    1 recensioni
Hannah e Jace non hanno nulla in comune. Vengono da mondi differenti, sono la principessa e il povero dei giorni nostri. Sono due persone che nonostante tutto, si trovano e si innamorano delle proprie differenze.
Lei ha solo sedici anni quando si trasferisce a New York con suo padre. Lascia alle sue spalle un'esistenza vuota, e nessun amico a cui dire addio. Non ha nulla da portare con se nella sua nuova vita. Una vita che non vuole, perché identica alla precedente. É ricca, ma povera di affetti. É una ragazza sola, taciturna,malinconica.
Lui vive con la madre in un appartamento malconcio ad Harlem, frequenta un'esclusiva scuola privata solo perchè ha ottenuto una borsa di studio. Ma è una vita piena la sua, di affetti, di amici, di ricordi felici. Ha solo diciassette anni ma ha già in se un forte desiderio di rivalsa. Ha già progettato tutto il suo futuro, e sa come riuscire a raggiungere i propri obbiettivi: lavorando duramente. É ottimista, intraprendente, bello e carismatico.
Sullo sfondo della loro storia d'amore si intrecciano le vicende di amici e genitori, ognuno con i propri drammi e amori. Questa è una storia banale, una storia come tante altre già scritte e già raccontate.
Dal capitolo 8. Il cambiamento: E sapeva che non pensava di perdere un'amica, pensava di
perdere Hannah. Hannah era Hannah, un mondo a se stante nel suo
universo. Non era un'amica, forse non lo era mai stata.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Hopelessly Devoted To You
<3

Capitolo 1. Da cieli differenti.


Lei.
-... E per tutti questi motivi, sono sicuro che trasferirci a New York sia la scelta migliore per la tua crescita. Necessiti di un salutare cambiamento, di conoscere altri modi di vivere, vedere nuovi luoghi, e l'offerta di cominciare ad insegnare seriamente, fattami da Bert, data cade proprio a fagiolo, come direbbe la tua cara tata. Non deve spaventarti la lontananza dall'Inghilterra, sono certo vorrai fare ritorno tra due anni, per frequentare il college. Oxford è per te la scelta migliore, come lo è stata per me, per mio padre, per il padre di mio padre e via dicendo.- E concluse così, con un leggero roteare una mano in aria, il  monologo così ben preparato, durante il quale non aveva sollevato mai il naso dal suo giornale del mattino, che detto per inciso, veniva eretto spesso e volentieri a mò di barriera, a difenderlo dalle insidie dell'adolescenza.
Non la propria, ovvio, ma quella di sua figlia, Hannah, una sedicenne seria e assennata, ma ahimè, soggetta a tutti quei fastidiosi cambiamenti che davanti agli occhi di George, la stavano trasformando velocemente in una donna.
La sua copia del Daily Mail era di certo più facile da comprendere, non chiedeva consigli, non aveva problemi, riportava semplicemente i fatti salienti accaduti il giorno precedente, senza pretendere però che cercasse una soluzione per uno qualsiasi di quei fattacci.
In effetti, neppure Hannah lo faceva, ma d'altronde aveva assunto tata Eleanor proprio per questo.
Durante il suo bel discorso, George le aveva elencato tutti gli innumerevoli vantaggi del loro imminente trasferimento negli Stati Uniti, che sarebbe avvenuto di lì a un mese, e Hannah l'aveva ascoltato senza fiatare, annuendo di tanto in tanto, e mostrandosi totalmente d'accordo con ognuna delle giustificazioni fornitele. Non che avesse molta scelta, e in fondo non le importava. Se poteva portare con se la sua adorata tata, sarebbe andata volentieri ovunque.
C'era però un pizzico di tristezza che la prendeva, al pensare a quegli ultimi giorni della sua vecchia vita prima di immergersi in una completamente nuova. Amava la sua patria, ma non era il pensiero di doverla lasciare a renderla triste. Era il cambiamento in se, a tramortirla. Ne era terrorizzata, perché i pochi cambiamenti che c'erano stati nel corso dei suoi sedici anni, avevano avuto conseguenze catastrofiche sul suo piccolo mondo dorato. Ma questo a suo padre non poteva dirlo, certa com'era che non avrebbe capito.
Il massiccio orologio a pendolo dell'ingresso suonò l'ora, le otto in punto. Hannah bevve un altro sorso di tè, e fece per alzarsi.
- Aspetta, Hannah.- Riprese George, prima che la ragazza avesse il tempo di lasciare la sala da pranzo. - Da oggi non avrai più lezione, ho già preso accordi con la signorina Burton. Voglio che tu utilizzi il tempo che ti rimane per prepararti alla partenza. Ti ho già iscritta alla St. John E. Rivers, dove insegnerò, quindi non hai più bisogno di seguire delle lezioni private per i tuoi A-Levels. Ti diplomerai all'estero. Frequenterai la scuola gestita da Bert, quindi ti viene assicurata una preparazione di prima qualità.- Detto ciò torno a chiudersi nel suo ostinato silenzio, sollevando ancor di più il quotidiano, finché le sue pagine grigiastre non ne nascosero completamente il volto, e Hannah comprese che la loro conversazione finiva lì.
- Va bene, papà.- Rispose solamente, e emettendo un flebile sospiro, abbandonò la sala, ponendo fine al loro rituale mattutino.
Padre e figlia si vedevano solo per la colazione e raramente per la cena,e ogni mattina era identica alla precedente. Stessa colazione, stesso tè al latte, nelle stesse tazze di pregiata porcellana, stesso pane imburrato posato sugli stessi eleganti piattini, stessa brocca di spremuta d'arancia al centro del lungo tavolo che sembrava dividerli più di chilometri interi,e che nessuno dei due toccava, quasi avesse paura di avvicinarsi troppo all'altro, ma che doveva esserci, come fosse anch'essa un commensale. Identici erano anche i discorsi, che si limitavano a essere i soliti formali convenevoli: Hai dormito bene? Si grazie, e tu? Stupendamente, o a seconda del tempo orrendamente. Hannah voglio tu faccia questo e quest'altro oggi. Certo papà, come vuoi tu... E via dicendo.
La loro non era una famiglia appassionata, ne felice. Apparentemente serena forse, ma felice mai. George e Hannah erano a tutti gli effetti due estranei, legati solo da un'elica di DNA. Non avevano altro in comune se non un inscindibile vincolo genetico. Da quando di sua moglie Zara si era uccisa, undici anni prima, egli aveva smesso di interessarsi a sua figlia, aveva smesso di interessarsi a tutto, tranne che al suo lavoro. Paradossalmente i suoi studi sul genoma umano in quegli anni bui, erano sempre venuti prima dell'unica persona con cui condivideva il proprio corredo genetico. La ricerca veniva prima dei suoi successi scolastici, della sua condotta irreprensibile, della sua buona educazione, e di qualsiasi altra cosa la riguardasse. Il lavoro lo liberava da tristi e dolorosi ricordi, e a lui andava bene così, isolarsi per andare avanti era necessario.


Lui.
- “Gentilissimo Signor Stein, La informo con gioia che, dati i Suoi successi scolastici, Le viene data l'opportunità di entrare a far parte del nostro esclusivo programma di tutoraggio. So che sarà lieto di aiutare ad ambientarsi e mettersi in pari con i suoi futuri compagni la signorina Hannah Zara Georgia Barnes, figlia di un mio caro e stimatissimo amico.
Le Sue doti innate, la Sua vivace intelligenza, e il Suo carattere naturalmente espansivo, aiuteranno la signorina Barnes ad adattarsi al meglio ad un sistema scolastico tanto differente da quello britannico. Le ricordo, che simili attività sono molto apprezzate dalla commissione esaminatrice di un certo prestigioso college, e non potranno che agevolarla riguardo a quella sostanziosa borsa di studio di cui abbiamo tanto discusso Sua madre ed io. Spero non vorrà deludere le mie anzi, le nostre aspettative. Distinti saluti, il preside Albert Miller.”
-
Il silenzio calò nella piccola e disordinata cucina del loro piccolo e disordinato appartamento ad Harlem, quando Greta, con le lacrime agli occhi per l'emozione e l'orgoglio, terminò di leggere la lettera che stringeva ancora tra le mani.
-Tesoro, è un'occasione stupenda!- Cinguettò, mentre Jace, affacciato all'unica finestra della loro minuscola cucina all'ultimo piano di un grigio e vecchio palazzone, osservava il via vai di persone per la strada, piccole come formiche, dall'alto del tredicesimo piano.
Il ragazzo sbuffò, voltandosi poi verso la madre. - Non voglio farlo, lo sai vero?-
Greta lo fissò corrugando la fronte. -Certo, ma tu lo farai. Hai lavorato tanto per arrivare a questo punto per buttare tutto al vento.- Il tono era implorante, o quasi. Oh, non sarebbe arrivata certo al punto ad implorarlo, sapeva bene come convincere il suo ragazzo a darle ascolto, e commuoverlo era il modo più sicuro per indurlo (o meglio costringerlo) a seguire i suoi consigli. Si avvicinò ad un cassettino,lo aprì e vi rovistò per un minuto buono, prima di tirare fuori trionfalmente un pacchetto di sigarette schiacciato e ammaccato. - Ecco qua. Ti sei meritato una sigaretta. Sali sul tetto, prendi un po' d'aria, ci pensi un po' su e quando torno dal lavoro ne riparliamo, va bene?- Si chinò a poggiare il pacchetto sul davanzale della finestra e a scoccare un bacio sulla guancia al suo bambino ormai troppo cresciuto. - Sono molto fiera di te. Ti voglio bene.- Gli sorrise amorevolmente, e Jace specchiandosi in quegli occhi grigi così simili ai suoi, comprese di non avere scelta.
- Mamma, sei malefica. Un vero demonio!Chissà quanti uomini avrai circuito con le tue arti seduttive!- Bofonchiò, rivolgendole però un largo sorriso, seguendola con lo sguardo nel suo muoversi attraverso la stanzetta.
-Meno di quel che credi, insolente! A stasera!- Rispose Greta, ridendo. Afferrò la borsa e usci senza aggiungere niente altro.
L'appartamento si fece silenzioso. Jace continuava a guardarsi intorno, e tutto gli parve meno luminoso, addirittura monotono senza la sua presenza.
Amava profondamente sua madre, una donna in gamba e forte che per suo figlio aveva sacrificato tutto, che aveva assunto anche il ruolo di padre quando quello vero era scappato, lasciando dietro di se solo innumerevoli debiti e un bimbo da crescere. Lei era la sua migliore amica, la persona che più amava al mondo, e dubitava di poter provare mai affetto di tale intensità per un altro essere umano.
-Credo dovrò farlo...- Mormorò infine tra se e se, storcendo le labbra in una smorfia di fastidio. Prese le sigarette, le chiavi di casa, e uscì.
Al tetto del palazzo si accedeva attraverso una scala in ferro piuttosto malferma, vecchia come tutto il resto dell'edificio e arrugginita in qualche punto. A Jace piaceva stare li, guardare il quartiere e la città dall'alto, lo aiutava a riflettere sulle cose, a prendere decisioni importanti. Ancor meglio se poteva portare con se una sigaretta.
Quando aveva tredici anni, Jace fu beccato da sua madre a fumare. Lo faceva da qualche mesi, ma non era stato abbastanza furbo da non farsi beccare. In realtà, fumare gli piaceva ma non tanto da farlo diventare un vizio. Era solo un ragazzino che voleva sentirsi uomo prima del tempo. Greta comprese che se si fosse impuntata non avrebbe ottenuto nulla, così madre e figlio fecero un patto: ogni volta che Jace se lo fosse meritato, avrebbe avuto in premio una sigaretta.
Per i quattro anni successivi il ragazzo non fumò una sola sigaretta, anche quando gli sarebbe spettata di diritto. Sapeva di aver deluso sua madre, e credeva con tutto il cuore che se avesse superato quella prova, rifiutando quel premio tanto ambito, avrebbe potuto riparare al torto fatto. Ma ormai aveva quasi diciotto anni, e più maturo e ormai adulto, sentiva di poter godere di quel premio in tutta tranquillità.

Per tutto quel pomeriggio rimase nel suo pensatoio, a rimuginare e rimuginare ancora.
Fregato. Jace era stato fregato. Sembrava che ci fosse una cospirazione contro di lui.
Lui neppure aveva presentato domanda di partecipazione a quel tanto ostentato programma di tutoraggio.
Le viene data l'opportunità”  aveva scritto il preside Miller. La realtà era ben diversa: era obbligato a star dietro a questa Hannah.
La fervida fantasia del ragazzo viaggiava a tutto vapore. Immaginava già di vedersi appioppare quella che quasi certamente sarebbe stata una ragazzina con la puzza sotto il naso, magari un'ochetta del primo anno, oppure una specie di Hermione Granger, ma più brutta, più stupida e certamente molto più svenevole...E ovviamente con dei denti orribili... Si, proprio come quelli del principe Carlo, per intenderci. D'altronde Barnes era un cognome inglese, e il preside stesso lo era da parte di madre (e ne andava parecchio fiero), quindi sentiva di avere il diritto di aspettarsi un'inglesuccia scialba.
Non poteva immaginare sacrificio più arduo, e gli costava parecchio dover sottostare a quello che sentiva essere un ricatto bell'e buono, ma doveva troppo a sua madre per poter rifiutare quell'offerta a cuor leggero. Sentiva di avere nei suoi confronti un enorme debito, qualcosa che la sua coscienza non gli permetteva d'ignorare, perché costantemente e totalmente conscio dei sacrifici che lei compiva per lui.
Greta non gli rinfacciava mai nulla, com'è ovvio, non faceva mai pesare nulla al suo ragazzo, cercava di nascondergli le sue preoccupazioni quando ne aveva qualcuna e la stanchezza, ma lui era più che empatico verso la madre, e riusciva a capire con un solo sguardo se qualcosa non andava per il verso giusto. E quando accadeva, Jace ne soffriva terribilmente.
Sentiva su di se il peso di enormi responsabilità, un peso che egli stesso aveva deciso di addossarsi. Loro non erano ricchi, vivevano in un appartamento malandato in uno dei quartieri peggiori della città, sua madre lavorava come infermiera ma non era raro che svolgesse qualche altro lavoretto per arrotondare. Jace era intenzionato a ribaltare quella situazione, a lavorare sodo, a ripagare sua madre di tutti i sacrifici. L'affetto che provava per lei, era ciò che lo spingeva più di tutto, ad andare avanti, nonostante gli ostacoli, per quanto la strada potesse essere lunga e tortuosa.





  
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