Hopelessly Devoted To You <3
Capitolo 1. Da cieli differenti.
Lei.
-...
E per tutti
questi motivi, sono sicuro che trasferirci a New York sia la scelta
migliore per la tua crescita. Necessiti di un salutare cambiamento,
di conoscere altri modi di vivere, vedere nuovi luoghi, e l'offerta
di cominciare ad insegnare seriamente, fattami da Bert, data cade
proprio a fagiolo, come direbbe la tua cara tata. Non deve
spaventarti la lontananza dall'Inghilterra, sono certo vorrai fare
ritorno tra due anni, per frequentare il college. Oxford è
per te la
scelta migliore, come lo è stata per me, per mio padre, per
il padre
di mio padre e via dicendo.- E concluse così, con un leggero
roteare
una mano in aria, il monologo così ben preparato,
durante il quale non aveva sollevato
mai il naso dal suo giornale del mattino, che detto per inciso,
veniva eretto spesso e volentieri a mò di barriera, a
difenderlo
dalle insidie dell'adolescenza.
Non
la propria,
ovvio, ma quella di sua figlia, Hannah, una sedicenne seria e
assennata, ma ahimè, soggetta a tutti quei fastidiosi
cambiamenti
che davanti agli occhi di George, la stavano trasformando velocemente
in una donna.
La
sua copia del
Daily Mail era di certo più facile da
comprendere, non
chiedeva consigli, non aveva problemi, riportava semplicemente i
fatti salienti accaduti il giorno precedente, senza pretendere
però
che cercasse una soluzione per uno qualsiasi di quei fattacci.
In
effetti, neppure
Hannah lo faceva, ma d'altronde aveva assunto tata Eleanor proprio
per questo.
Durante
il suo bel
discorso, George le aveva elencato tutti gli innumerevoli vantaggi
del loro imminente trasferimento negli Stati Uniti, che sarebbe
avvenuto di lì a un mese, e Hannah l'aveva ascoltato senza
fiatare,
annuendo di tanto in tanto, e mostrandosi totalmente d'accordo con
ognuna delle giustificazioni fornitele. Non che avesse molta scelta,
e in fondo non le importava. Se poteva portare con se la sua adorata
tata, sarebbe andata volentieri ovunque.
C'era
però un
pizzico di tristezza che la prendeva, al pensare a quegli ultimi giorni
della sua
vecchia vita prima di immergersi in una completamente nuova. Amava la
sua patria, ma non era il pensiero di doverla lasciare a renderla
triste. Era il cambiamento in se, a tramortirla. Ne era terrorizzata,
perché i pochi cambiamenti che c'erano stati nel corso dei
suoi
sedici anni, avevano avuto conseguenze catastrofiche sul suo piccolo
mondo dorato. Ma questo a suo padre non poteva dirlo, certa com'era
che non avrebbe capito.
Il
massiccio
orologio a pendolo dell'ingresso suonò l'ora, le otto in
punto.
Hannah bevve un altro sorso di tè, e fece per alzarsi.
-
Aspetta, Hannah.-
Riprese George, prima che la ragazza avesse il tempo di lasciare la
sala da pranzo. - Da oggi non avrai più lezione, ho
già preso
accordi con la signorina Burton. Voglio che tu utilizzi il tempo che
ti rimane per prepararti alla partenza. Ti ho già iscritta
alla St.
John E. Rivers, dove insegnerò, quindi non hai
più bisogno di
seguire delle lezioni private per i tuoi A-Levels. Ti diplomerai
all'estero. Frequenterai la scuola gestita da Bert, quindi ti viene
assicurata una preparazione di prima qualità.- Detto
ciò torno a
chiudersi nel suo ostinato silenzio, sollevando ancor di più
il
quotidiano, finché le sue pagine grigiastre non ne nascosero
completamente il volto, e Hannah comprese che la loro conversazione
finiva lì.
-
Va bene, papà.-
Rispose solamente, e emettendo un flebile sospiro, abbandonò
la
sala, ponendo fine al loro rituale mattutino.
Padre
e figlia si
vedevano solo per la colazione e raramente per la cena,e ogni mattina
era identica alla precedente. Stessa colazione, stesso tè al
latte,
nelle stesse tazze di pregiata porcellana, stesso pane imburrato
posato sugli stessi eleganti piattini, stessa brocca di spremuta
d'arancia al centro del lungo tavolo che sembrava dividerli
più di
chilometri interi,e che nessuno dei due toccava, quasi avesse paura
di avvicinarsi troppo all'altro, ma che doveva esserci, come fosse
anch'essa un commensale. Identici erano anche i discorsi, che si
limitavano a essere i soliti formali convenevoli: Hai dormito bene?
Si grazie, e tu? Stupendamente, o a seconda del tempo orrendamente.
Hannah voglio tu faccia questo e quest'altro oggi. Certo
papà, come
vuoi tu... E via dicendo.
La
loro non era una
famiglia appassionata, ne felice. Apparentemente serena forse, ma
felice mai. George e Hannah erano a tutti gli effetti due estranei,
legati solo da un'elica di DNA. Non avevano altro in comune se non un
inscindibile vincolo genetico. Da quando di sua moglie Zara si era
uccisa, undici anni prima, egli aveva smesso di interessarsi a sua
figlia, aveva smesso di interessarsi a tutto, tranne che al suo
lavoro. Paradossalmente i suoi studi sul genoma umano in quegli anni
bui, erano sempre venuti prima dell'unica persona con cui condivideva
il proprio corredo genetico. La ricerca veniva prima dei suoi
successi scolastici, della sua condotta irreprensibile, della sua
buona educazione, e di qualsiasi altra cosa la riguardasse. Il lavoro
lo liberava da tristi e dolorosi ricordi, e a lui andava bene
così,
isolarsi per andare avanti era necessario.
Lui.
-
“Gentilissimo
Signor Stein, La informo con gioia che, dati i Suoi successi
scolastici, Le viene data l'opportunità di entrare a far
parte del
nostro esclusivo programma di tutoraggio. So che sarà lieto
di
aiutare ad ambientarsi e mettersi in pari con i suoi futuri compagni
la signorina Hannah Zara Georgia Barnes, figlia di un mio caro e
stimatissimo amico.
Le Sue doti innate, la Sua vivace intelligenza, e il Suo carattere naturalmente espansivo, aiuteranno la signorina Barnes ad adattarsi al meglio ad un sistema scolastico tanto differente da quello britannico. Le ricordo, che simili attività sono molto apprezzate dalla commissione esaminatrice di un certo prestigioso college, e non potranno che agevolarla riguardo a quella sostanziosa borsa di studio di cui abbiamo tanto discusso Sua madre ed io. Spero non vorrà deludere le mie anzi, le nostre aspettative. Distinti saluti, il preside Albert Miller.”-
Le Sue doti innate, la Sua vivace intelligenza, e il Suo carattere naturalmente espansivo, aiuteranno la signorina Barnes ad adattarsi al meglio ad un sistema scolastico tanto differente da quello britannico. Le ricordo, che simili attività sono molto apprezzate dalla commissione esaminatrice di un certo prestigioso college, e non potranno che agevolarla riguardo a quella sostanziosa borsa di studio di cui abbiamo tanto discusso Sua madre ed io. Spero non vorrà deludere le mie anzi, le nostre aspettative. Distinti saluti, il preside Albert Miller.”-
Il
silenzio calò
nella piccola e disordinata cucina del loro piccolo e disordinato
appartamento ad Harlem, quando Greta, con le lacrime agli occhi per
l'emozione e l'orgoglio, terminò di leggere la lettera che
stringeva
ancora tra le mani.
-Tesoro,
è
un'occasione stupenda!- Cinguettò, mentre Jace, affacciato
all'unica
finestra della loro minuscola cucina all'ultimo piano di un grigio e
vecchio palazzone, osservava il via vai di persone per la strada,
piccole come formiche, dall'alto del tredicesimo piano.
Il
ragazzo sbuffò,
voltandosi poi verso la madre. - Non voglio farlo, lo sai vero?-
Greta
lo fissò
corrugando la fronte. -Certo, ma tu lo farai. Hai lavorato tanto per
arrivare a questo punto per buttare tutto al vento.- Il tono era
implorante, o quasi. Oh, non sarebbe arrivata certo al punto ad
implorarlo, sapeva bene come convincere il suo ragazzo a darle
ascolto, e commuoverlo era il modo più sicuro per indurlo (o
meglio
costringerlo) a seguire i suoi consigli. Si avvicinò ad un
cassettino,lo aprì e vi rovistò per un minuto
buono, prima di
tirare fuori trionfalmente un pacchetto di sigarette schiacciato e
ammaccato. - Ecco qua. Ti sei meritato una sigaretta. Sali sul tetto,
prendi un po' d'aria, ci pensi un po' su e quando torno dal lavoro ne
riparliamo, va bene?- Si chinò a poggiare il pacchetto sul
davanzale
della finestra e a scoccare un bacio sulla guancia al suo bambino
ormai troppo cresciuto. - Sono molto fiera di te. Ti voglio bene.-
Gli sorrise amorevolmente, e Jace specchiandosi in quegli occhi grigi
così simili ai suoi, comprese di non avere scelta.
-
Mamma, sei
malefica. Un vero demonio!Chissà quanti uomini avrai
circuito con le
tue arti seduttive!- Bofonchiò, rivolgendole però
un largo sorriso,
seguendola con lo sguardo nel suo muoversi attraverso la stanzetta.
-Meno
di quel che
credi, insolente! A stasera!- Rispose Greta, ridendo.
Afferrò la
borsa e usci senza aggiungere niente altro.
L'appartamento
si
fece silenzioso. Jace continuava a guardarsi intorno, e tutto gli
parve meno luminoso, addirittura monotono senza la sua presenza.
Amava
profondamente
sua madre, una donna in gamba e forte che per suo figlio aveva
sacrificato tutto, che
aveva assunto anche il ruolo di padre quando quello vero era
scappato, lasciando dietro di se solo innumerevoli debiti e un bimbo
da crescere. Lei era la sua migliore amica, la persona che
più amava
al mondo, e dubitava di poter provare mai affetto di tale
intensità
per un altro essere umano.
-Credo
dovrò
farlo...- Mormorò infine tra se e se, storcendo le labbra in
una
smorfia di fastidio. Prese le sigarette, le chiavi di casa, e
uscì.
Al
tetto del
palazzo si accedeva attraverso una scala in ferro piuttosto malferma,
vecchia come tutto il resto dell'edificio e arrugginita in qualche
punto. A Jace piaceva stare li, guardare il quartiere e la
città
dall'alto, lo aiutava a riflettere sulle cose, a prendere decisioni
importanti. Ancor meglio se poteva portare con se una sigaretta.
Quando
aveva
tredici anni, Jace fu beccato da sua madre a fumare. Lo faceva da
qualche mesi, ma non era stato abbastanza furbo da non farsi beccare.
In realtà, fumare gli piaceva ma non tanto da farlo
diventare un
vizio. Era solo un ragazzino che voleva sentirsi uomo prima del
tempo. Greta comprese che se si fosse impuntata non avrebbe ottenuto
nulla, così madre e figlio fecero un patto: ogni volta che
Jace se
lo fosse meritato, avrebbe avuto in premio una sigaretta.
Per
i quattro anni
successivi il ragazzo non fumò una sola sigaretta, anche
quando gli
sarebbe spettata di diritto. Sapeva di aver deluso sua madre, e
credeva con tutto il cuore che se avesse superato quella prova,
rifiutando quel premio tanto ambito, avrebbe potuto riparare al torto
fatto. Ma ormai aveva quasi diciotto anni, e più maturo e
ormai
adulto, sentiva di poter godere di quel premio in tutta
tranquillità.
Per tutto quel pomeriggio rimase nel suo pensatoio, a rimuginare e rimuginare ancora.
Fregato.
Jace era
stato fregato. Sembrava che ci fosse una cospirazione contro di lui.
Lui
neppure aveva
presentato domanda di partecipazione a quel tanto ostentato programma
di tutoraggio.
“Le
viene data
l'opportunità” aveva scritto
il preside Miller. La realtà era
ben diversa: era obbligato a star dietro a questa Hannah.
La
fervida fantasia
del ragazzo viaggiava a tutto vapore. Immaginava già di
vedersi
appioppare quella che quasi certamente sarebbe stata una ragazzina
con la puzza sotto il naso, magari un'ochetta del primo anno, oppure
una specie di Hermione Granger, ma più brutta,
più stupida e
certamente molto più svenevole...E ovviamente con dei denti
orribili... Si, proprio come quelli del principe Carlo, per
intenderci. D'altronde Barnes era un cognome inglese, e il preside
stesso lo era da parte di madre (e ne andava parecchio fiero), quindi
sentiva di avere il diritto di aspettarsi un'inglesuccia scialba.
Non
poteva
immaginare sacrificio più arduo, e gli costava parecchio
dover
sottostare a quello che sentiva essere un ricatto bell'e buono, ma
doveva troppo a sua madre per poter rifiutare quell'offerta a cuor
leggero. Sentiva di avere nei suoi confronti un enorme debito,
qualcosa che la sua coscienza non gli permetteva d'ignorare,
perché
costantemente e totalmente conscio dei sacrifici che lei compiva per
lui.
Greta
non gli
rinfacciava mai nulla, com'è ovvio, non faceva mai pesare
nulla al
suo ragazzo, cercava di nascondergli le sue preoccupazioni quando ne
aveva qualcuna e la stanchezza, ma lui era più che empatico
verso la
madre, e riusciva a capire con un solo sguardo se qualcosa non andava
per il verso giusto. E quando accadeva, Jace ne soffriva
terribilmente.
Sentiva
su di se il
peso di enormi responsabilità, un peso che egli stesso aveva
deciso
di addossarsi. Loro non erano ricchi, vivevano in un appartamento
malandato in uno dei quartieri peggiori della città, sua
madre
lavorava come infermiera ma non era raro che svolgesse qualche altro
lavoretto per arrotondare. Jace era intenzionato a ribaltare quella
situazione, a lavorare sodo, a ripagare sua madre di tutti i
sacrifici. L'affetto che provava per lei, era ciò che lo
spingeva
più di tutto, ad andare avanti, nonostante gli ostacoli, per
quanto
la strada potesse essere lunga e tortuosa.