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Autore: Willow Whisper    29/12/2009    2 recensioni
Postato capitolo 14-parte seconda (POV SAM-ABRAHAM) del libro III
[LIBRO PRIMO- terminato]
(POV Sammy+ UN SOLO CAPITOLO POV Laura)
[LIBRO SECONDO- terminato]
(POV Sammy+ POV Laura + UN SOLO CAPITOLO POV Seth)
[LIBRO TERZO- iniziato]
*Second life- when you are a Cold*
(POV Sammy, Laura, Seth, Gabriel, Nessie & sorprese)
"Stare in mezzo a loro non mi piaceva.
Era orribile essere circondata dai nemici, dal pericolo.
Eppure ero lì, pronta a sacrificarmi per difendere chi amavo.
Mi ero chiesta tante volte se la mia seconda vita
sarebbe stata migliore della prima,
ma la risposta non c’era mai stata,
o almeno, fino a quel momento...
No. Non era affatto come speravo."
Genere: Dark, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Serie "Dream"'
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Capitolo 11



Sammy (Friends- Band of skulls)
Ian si rivelò un buon compagno di viaggio.
Parlava di cose interessanti, o che riuscissero comunque a farmi pesare un po’ meno la dura realtà del tempo che passava, secondo dopo secondo.
Uno degli argomenti migliori, riguardò la sua famiglia…
-…Mia moglie, Christie, si è trasferita a Tacoma due anni prima che ci conoscessimo. A quei tempi, io avevo ventitre anni. Lei, invece, diciassette. I suoi genitori non volevano che stessimo assieme, pensavano che fossi uno scansafatiche e che non sarei riuscito a renderla felice…oltretutto, sembrava pesargli la differenza d’età-.
Si era preso una pausa, sorridendo al ricordo. Lo sguardo era sereno, come se il pensiero di quei giorni andati non gli pesasse.
Mi venne spontaneo domandare –E allora come avete fatto a restare insieme?-. Lui fece spallucce prima di lanciarmi uno sguardo gentile –Beh…fuggimmo a Las Vegas per sposarci-.
Alzai le sopracciglia –Davvero?-.
Lui scoppiò a ridere notando il mio tono incredulo e si sbrigò ad aggiungere –Certo che no! Ma…fui tentato di proporglielo. In realtà, una sera decisi di andare a casa sua, a parlare a quattrocchi col padre, Arthur. Quello mi ascoltò tutto il tempo senza fare una piega, seduto sulla sua poltrona ad aggiustarsi i grossi baffi biondicci, fissandomi con gli occhi grigi come se volesse mettermi in soggezione fino a farmi fuggire da quell’abitazione. Quando terminai di esporgli le ragioni per cui ero disposto a stare con Christie, sospirò e disse alla moglie, Josephine: “Cara, andresti a prendermi il fucile, per favore?”. Perfino lei restò un attimo perplessa, così chiese prima che lo facesse la figlia, o io “E che vorresti farci?!”…-.
Ian fece una seconda pausa, lanciandomi un’occhiata veloce, forse aspettandosi che fossi rimasta scioccata ma, naturalmente, non lo ero. Il fatto che lui fosse lì, vivo, implicava che nessuno gli avesse sparato contro. Sembrò un po’ deluso, ma continuò sorridente, e visibilmente divertito -…L’uomo aggrottò la fronte e disse “Andarci a caccia di cervi, naturalmente!”. Sia io che Christie cercammo di comprendere, ma Arthie non volle darci altre spiegazioni. Si avvicinò e mi diede una pacca un po’ troppo forte sulla schiena esclamando “Io e te, giovanotto, abbiamo tanto di cui parlare!”. Rideva, perciò capii che lo avevo convinto-;
sospirò per poi dire tra sé, in un sussurro –Il giorno seguente andammo insieme a caccia sui monti…e quattro mesi dopo, diventai suo genero-.
Sorrisi sinceramente intenerita dalla sua storia, poi mi venne in mente che non aveva accennato a qualche figlio, così chiesi, curiosa.
Lui rispose un po’ più in imbarazzo. Lo percepii dal tono basso della voce.
-No, non abbiamo bambini…purtroppo-.
Mi decisi a lasciar cadere il discorso, per non entrare troppo nel personale, e mi accorsi che portavo al dito la fede, proprio come lui. Feci il gesto rapido di togliermela, ma Ian l’aveva già notata in precedenza senza accennare al fatto, forse aspettando il momento giusto per chiedere o cercando di resistere alla curiosità.
-E tu, invece…???- iniziò la frase, e non lasciai che terminasse, rispondendo rapida –Oh…questa non è mia. Era di mia madre. E’ morta tre anni fa…e prima di lasciare soli me e mio padre ha voluto che tenessi quest’anello-.
Recitai la parte della ragazzina con l’aria triste e nostalgica senza sforzarmi troppo. Sotto certi aspetti, potevo dire che i miei genitori mi avessero lasciato.
O meglio, ero io ad averli lasciati. Ad avergli causato tanto dolore fingendo di essere morta in un fatidico incidente stradale, restando bloccata nell’auto in fiamme senza speranza di salvarmi…
Sospirai.
Ian ascoltò tenendo le sopracciglia abbassate, la fronte corrucciata. Quando parlò di nuovo, disse –Beh, mi…dispiace, davvero molto-.
Rimasi in silenzio un istante, concentrata sulla risposta da dare alla sua prossima domanda, mentre intanto annuivo alle sue parole e sussurravo –Ormai è passato…-, poi decidemmo entrambi di cambiare discorso, e Ian mi chiese perché fossi diretta a Seattle, se arrivavo da Forks.
Gli risposi che a Forks avevo alcuni amici, e che mi ero fermata da loro per qualche giorno, prima di decidere di fare trekking e tornare a casa, a Seattle, per conto mio.
La strada verso la città non fu breve; l’uomo guidava a velocità poco elevata, cercando milioni di argomenti allegri, come per non farmi pesare il viaggio. Sarebbe stato un buon padre, secondo me.
Quando mi disse che erano le sei e mezza, sobbalzai ma, per mia fortuna, lui non se ne accorse e continuò a tenere lo sguardo fisso sulla corsia destra. Il fuso orario significava tutto, per me. Dovevo sperare di arrivare in Italia quando il sole si fosse trovato almeno vicino al crepuscolo. Rischiare di espormi alla sua luce, proprio nella terra dei Volturi, non avrebbe di certo aiutato molto. Fissai fuori dal finestrino il paesaggio, poco a poco meno selvaggio e viscido. Seattle era formata da piccole abitazioni di tre o quattro piani sparsi, prima di addentrarsi all’interno, nel cuore della città, dove svettavano palazzi e costruzioni davvero ben fatte, dall’aria resistente.
Non ero mai arrivata fin lì con mio marito o mio figlio, tutti disinteressati a visitare la città, forse perché troppo abituati alla strana pace monotona e incessante che c’era a Forks, e quindi anche a La Push.
Sospirai.
Forse, se fossi riuscita a tornare a casa assieme a Laura, avrei potuto proporre un’uscita a Seth, pensai.
Mi soffermai a guardare i negozi, le strade brulicanti di auto e persone. Ascoltai i milioni di suoni, uniti a formare un’unica grande melodia, e per un istante riuscii a tornare con la mente a quand’ero ancora umana. Quando avevo solo quindici anni e mezzo e vivevo a Roma, così caotica e dispersiva, piena di bellezze antiche e moderne mischiate assieme.
La nostalgia riuscì quasi a impossessarsi di me, più di quanto non avesse già fatto. Cercai di restare lucida, trattenendo i lamenti che, se non fossi stata una vampira, si sarebbero trasformati in singhiozzi, certamente seguiti da lacrime copiose.
Ian frenò al lato di un marciapiede e disse, allegramente –Eccoci qui, nella grande e chiassosa Seattle…-.
Gli sorrisi e cercai di dire con la voce più calma e serena che riuscissi a imitare –Grazie infinite Ian. Davvero, non avrei saputo come fare altrimenti, cominciavo ad essere stanca di camminare-.
Rise, con calore, prima di ribattere –Nessun problema, non c’è bisogno che tu mi ringrazi. E’ stato un piacere viaggiare in compagnia, non capita spesso-.
Lo guardai riconoscente, poi mormorai –Beh…ora è meglio che vada-. Ci salutammo con una stretta di mano, e fui titubante comunque, temendo che percepisse la temperatura sotto lo zero della mia pelle anche da sotto i guanti.
Scesi dal camion tenendomi stretta lo zainetto e osservai il cielo. Nuvole, nuvole ovunque. Perfetto.
Sorrisi tra me, mi voltai a salutare con una mano Ian un ultima volta prima che ripartisse, poi mi guardai attorno e notai con gran compiacimento che il mio nuovo amico umano mi aveva portato nei pressi dell’aeroporto, poco distante dalla strada in cui mi trovavo.
M’illuminai e iniziai a correre, sforzandomi di mantenere una velocità umana, fino ad arrivare all’ingresso con le porte girevoli. Mi sbrigai ad entrare all’interno dell’edificio, stracolmo di uomini e donne intenti a partire o attendere i propri bagagli, impazienti.
Feci quasi per dirigermi subito da una delle donne alla reception, ma mi paralizzai, pensando che erano già quattro giorni che non cacciavo, e avevo bisogno di nutrimento.
Fissai lo zaino che stringevo al petto e mi decisi a fare quello che Emmett avrebbe scherzosamente definito come “uno snack”.
Puntai rapida verso il bagno delle donne e una volta entrata mi chiusi all’interno di una delle cabine, tirando fuori una delle sacche di sangue. Un altro vampiro vegetariano al posto mio ci avrebbe pensato su. Era pur sempre umano, no? Ma io non potevo permettermi tentennamenti e, in ogni caso, quel sangue non era stato preso con la forza da nessun uomo. Presa dalla fretta, decisi di mordere direttamente la plastica, iniziando a bere avidamente, cercando di restare almeno un poco lucida. Non era facile, infatti, controllare i propri sensi se ci si ritrovava impegnati a bere quel tipo di sangue.
Il sapore non sarebbe stato affatto magnifico, se avessi già avuto modo in precedenza di cacciare orsi o puma sui monti, ma dovetti accontentarmi e la coscienza iniziò a gridarmi –sottoforma di voce stridula, terribilmente penetrante e fastidiosa- che quello era uno degli sbagli più grossi che avessi mai commesso.
Sicuramente, il peggiore di tutti era stato quello di andare in cerca dei Volturi, quel giorno di tanti anni prima, quando ancora ero una piccola e fragile umana, proprio come disse James a Bella, in quella stramaledetta scuola di danza, alle origini di tutto.
Bevvi con così tanta rapidità da non farci quasi caso ed, in fine, mi sbrigai a rimettere tutto nella borsa, passando davanti allo specchio per essere certa che non ci fossero residui di sangue sulle mie labbra. Gocce fuggite alla mia sete.
Tutto apposto, così uscii da lì, fingendo la migliore disinvoltura di cui fossi capace, e mi misi a fare la fila per pagarmi un biglietto per il viaggio oltreoceano.
Non mi ero portata la carta di credito datami da Carlisle, sapendo che avrebbero potuto rintracciarmi tramite il conto bancario intestato a lui. Pagai in contanti e, dopo aver fatto ceck-in e ceck-up, salii sul grosso aereo, lasciando che una giovane hostess –Tiffanie Hardwood, lessi sulla targhetta- mi indicasse cordialmente e con fare professionale il mio posto. Mi sbrigai a raggiungerlo e subito coprii il vetro dell’oblò. Accanto a me finì un bambino e, il posto affianco, della fila centrale, venne occupato dal padre.
Ringrazia il cielo, perché sapevo che quella creaturina non mi avrebbe dato fastidi. Mi bastò dare una sbirciatina veloce al viaggio che mi si prospettava davanti, nell’immediato futuro.
Quel ragazzino, Davon, di massimo sei anni, coi capelli castani e disordinati e due immensi occhi verdi, non avrebbe mai chiesto cortesemente di poter osservare il cielo fuori dal finestrino, con le nuvole simili a zucchero filato impegnate a passarci accanto.
Non appena fui certa di avere un po’ di tempo per riflettere, poggiai la testa al sedile e chiusi gli occhi, fingendo una posa umana abbastanza rilassata, seppur non ce ne fosse molto bisogno visto il piccolo compagno di viaggio che mi ritrovavo vicino.
Respirai con lentezza calcolata, catturando l’odore dei caffè, dei drink o del cibo che le hostess portavano ai passeggeri, con professionale rapidità. Era pur sempre la prima classe di un volo diretto in Italia.
La mia mente iniziò subito a lasciar spazio all’immenso afflusso di pensieri che vorticavano senza sosta al suo interno.
Per prima cosa, avevo lo spiacevolissimo dubbio che Laura non fosse solo stata rapita ma che, in un qualche modo, avesse scelto di seguire i soldati mandati da Aro (ero certa che il biglietto fosse stato scritto da Demetri) spontaneamente.
Questa era comunque un’ipotesi che preferivo escludere, a priori.
Per seconda, non riuscivo a comprendere perché Aro avesse deciso di compiere un atto tanto meschino. Stava puntando ad un ricatto? Uno scambio, un accordo? Insomma, cosa aveva tramato il vampiro dal sorriso di ghiaccio e gli occhi di fuoco?
Tremai leggermente, senza rendermi conto che Davon, al mio fianco, si era deciso di fissarmi tutto il tempo, incuriosito.
-Hai freddo?-. Mi diede del tu, com’è solito dei piccoli.
Aprii gli occhi, guardandolo, e lui sussultò. Mi paralizzai solo immaginando cosa avesse potuto notare, poi sorrisi fingendomi serena e risposi –No, ma sei davvero tanto gentile a preoccuparti, sai?-. Non dovetti impegnarmi molto per usare il tono di voce più suadente di cui fossi in grado.
Lui sembrò credermi e, dopo aver incrociato una seconda i miei occhi, tornò a fissarsi le mani, visibilmente annoiato.
Mi fece tenerezza, ed ebbi per un istante l’impeto di parlargli di me, di raccontargli storie fantastiche, con mostri bevitori di sangue e lupi che difendevano indiani non ancora privati delle loro terre dai visi pallidi.
Sicuramente le avrebbe gradite, mi dissi, ma non sono la cosa migliore di cui discutere ora come ora.
Tornai quindi ad ignorarlo, dispiaciuta, e ricominciai a riflettere.
Aro aveva un piano, aveva un piano che Laura sicuramente non conosceva, ma in cui doveva essersi ritrovata coinvolta per sbaglio. Tutto un tragico errore, niente di più.
Speravo di riuscire a risolverlo in meno tempo possibile, per la salvezza di entrambe o, perlomeno, quella di lei.
Buffo, no? Invece che preoccuparmi della mia intera esistenza, mi trastullavo su come salvare la vita umana di Laura…
Mi paralizzai, di colpo.
L’idea mi entrò nella testa come un fulmine durante un giorno di pioggia, e scacciarla fu quasi faticoso.
Cosa avrei fatto se la mia amica non fosse stata più sé stessa? Come avrei reagito ritrovandomi a fissarla diversa da come la ricordavo? Con occhi e labbra rosse come il sangue?
Se possibile, impallidii. Quell’idea non mi era mai balenata per la testa durante tutta la mia corsa verso l’aeroporto, lontano da casa.
Pregai così intensamente di aver ipotizzato male che in fine riuscii a convincermene.
Laura era viva, Laura era umana, Laura stava aspettando.

L’aereo atterrò a Pisa, dopo un viaggio durato più di dodici ore. In Italia, erano le otto e un quarto di sera, e la luna già brillava sospesa nel vuoto del cielo scuro.
Era quasi piena, le mancava uno spicchio per completarsi.
La osservai affascinata, come mi accadeva ogni volta, anche da umana, poi mi soffermai sulla città. Solo un istante, visto che non avevo per niente tempo di fare un giro turistico.
Strinsi i pugni, poi iniziai a correre a velocità umana verso una fermata dell’autobus. Non sapevo bene come orientarmi, ma lì c’erano molte persone, uomini e donne, che forse avrebbero potuto essermi d’aiuto.
Mi avvicinai al gruppo in attesa del mezzo pubblico –sette anziani e una comitiva di giovani- e iniziai ad ascoltare le varie conversazioni.
“Roberto non si è ancora deciso a tornare dal suo viaggio in Francia…”
“E’ giovane, gli piace girare…”
Questo si dicevano due donne sulla settantina, forse parlando del nipote di una delle due.
Più in là, sempre con un forte accento toscano, la comitiva rideva ed i ragazzi si scambiavano battute.
Osservare quella gente, ascoltare e comprendere in modo tanto naturale la lingua con cui comunicavano, mi fece sentire a casa.
Decisi di concentrarmi sui discorsi di quei teenagers.
“Domani compito di matematica, che tu sei pronto, Luca?”
“Ma che, io la matematica proprio non la capisco…”
“Stavo pensando che potremmo uscire insieme, io e te, qualche volta…”
“Beh…ecco…va bene!”
Tante parole. Così tante da farmi quasi confondere, girare la testa, ma nel bel mezzo di quell’attimo, un giovane, in particolar modo, catturò la mia attenzione.
Capelli neri, sorriso allegro, sguardo gentile.
Fu come un debole deja-vù, una sensazione di “già vissuto” estremamente flebile, quasi invisibile. Quel ragazzo, io già lo conoscevo, anche se non direttamente. Smisi di respirare, prima di decidermi a farmi avanti.
Lui era impegnato a parlare del tanto temuto compito di algebra assieme ad altri suoi amici, ma non mi creai problemi ad interromperli, dicendo –Ciao, scusate il disturbo…- a cui uno dei due, forse Luca, rispose sottovoce, guardandomi spaesato, con un “Oh no, disturba pure quanto ti pare…”.
Sorrisi melliflua, poi mi concentrai su Andrea.
Eh già, quel giovane, che mi fissava incuriosito, era lo stesso di un sogno che avevo fatto tanti, tanti anni prima, quando l’immortalità non mi era ancora stata cucita addosso.
-Volevo sapere se per caso voi foste a conoscenza di un modo per arrivare a Volterra. Per me è molto urgente raggiungerla al più presto…-
-Uhm…Volterra? Beh, sì…di mezzi non ce ne sono molti. Se vuoi posso portartici io-. Fissai Andrea quasi senza credere davvero alle mie orecchie, eppure, mi sarebbe bastato sbirciare il futuro un minuto prima per essere certa che avrebbe proposto una cosa simile.
L’entusiasmo, la soddisfazione, s’impossessarono di me, tutto all’improvviso, ed esclamai –Fantastico! Grazie, grazie infinite Andrea-.
Restò perplesso, aggrottando la fronte, poi iniziò a chiedermi –Come fai a…-
-Sembri la persona adatta per questo nome- risposi rapida -…Semplice intuito-. Gli amici sghignazzarono, gli diedero qualche gomitata scherzosa e gli mormorarono di “darci dentro”, facendo alzare gli occhi al cielo sia a me che a lui, poi lo lasciarono libero di camminare al mio fianco fino ad una piccola Punto grigia, non proprio di ultima generazione, come auto.
Non mi scomodai ad aspettare che m’invitasse a salire, e mi sistemai al posto vicino a quello del guidatore. Il ragazzo sembrava un po’ nervoso, ma era bravo a non darlo a vedere. Decisi di classificare il suo modo di passarsi una mano tra i capelli e di grattarsi la punta del naso come imbarazzo.
Sorrisi tra me e poi mormorai, forse controllando troppo poco il tono suadente e cristallino della voce –Qualcosa non va?-.
Sobbalzò, poi intanto che metteva in moto, si voltò a guardarmi e rispose, sorridendo –No, no figurati! È tutto apposto-.
Gli porsi la mano, ancora coperta dai guanti, e mi presentai –Scusa, non mi sono ancora presentata. Io sono Samantha, Samantha Altarozzi-.
Erano anni, secoli quasi, che non dicevo più il mio vecchio cognome. Ero stata per più di trent’anni la signora Cullen, in Clearweater, senza dar peso alla mancanza delle mie origini, ma ora, di fronte a quel giovanotto toscano, tutto sembrava essere svanito.
Mi trovavo in Italia, seppur con tutta l’intenzione di andarmene il prima possibile, quindi perché mai non avrei dovuto fare un piccolo tuffo nel passato, visto che più frequentemente mi divertivo a sguazzare nel futuro?












Aggiornamento veloce!+w+
- Ecco il capitolo 11, un pò più lungo dei precedenti, spero che possa piacervi. Ho cercato di far sentire il distacco dall'anormale, cioè da un mondo popolato da vampiri, lupi mannari, mutaforma e chissà cos'altro. C'è un completo ritorno all'umanità, prima grazie alle conversazioni con Ian, poi la piccola scena col bambino, in aereo, ed in fine, eccolo qui per voi, Andrea, il giovane che avevo sognato nel Libro II.
Sono certa che molte di voi apprezzeranno questo piccolo cambio di rotta, mentre altre forse avrebbero ancora preferito la presenza di vampiri o roba del genere. Comunque non disperate, non sono così pazza da togliervi il divertimentoXD

However…
Grazie, come sempre, a tutte voi. A chi legge, chi commenta, chi segue.
Grazie a Laura, che continua a collaborare con me, e che ora se ne sta oltre i confini italiani ;)...
e...beh, niente.
A presto!
By Sammy C.

   
 
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