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Autore: theSwamp    04/01/2010    2 recensioni
Renesmee è cresciuta, e della bambina deliziosa che incantava chiunque è rimasto davvero poco, rimane solo una ragazza costretta a vivere una vita sul filo di due mondi totalmente diversi. E arriverà il momento in cui dovrà capire quale sia il vero significato dell'amore.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Renesmee Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Dovunque scegliessi di andare, la pioggia mi seguiva

Per una volta rispetto le scadenze! Dopo quello di oggi pomeriggio,ecco il capitolo della sera. Allora per prima cosa grazie a tutti quelli che hanno letto e leggeranno, mi fa piacere che qualcuno riesca ancora a riprendere il filo della storia (o almeno lo spero! :s) o comunque ad interessarsi. seconda cosa: devo precisare che il capitolo è ambientato un anno dopo rispetto a quello precedente, e anche il luogo non è più lo stesso, mentre la voce narrante è sempre quella di Nessie!

Buona serata e un bacio

Giuls

 

 

 

 

Dovunque scegliessi di andare, la pioggia mi seguiva.

Batteva sui vetri, sui tetti delle case che abitavo, sulle auto che usavo, sulla mia pelle bollente.

Mentre preparavo di nuovo la valigia, ripensavo al tempo che avevo passato in quella casa. Era stato così assurdo da sembrare un sogno, e seguendo la stessa logica pazzesca, mentre riponevo tutto le mie cose nella grossa valigia grigia mi sembrava di poter esaminare con inaspettata chiarezza tutto quello che mi era successo. Piegavo delicatamente i maglioni, i cappoti, i cardigan di cachemire , assaporavo ancora una volta lo strano odore di antico, e di legna che brucia, e di muschio ed erica bagnate di quella casa che era stata il mio rifugio. Mi fermai un istante ad osservare la distesa verde e marrone, bassa e robusta, bagnata dalla nebbia, ritmata da meschini muretti di torba, che era la brughiera.  La piccola strada che ci avrebbe condotti alla civiltà, e poi all’autostrada, e di lì a Londra, spezzava con discrezione il paesaggio, tanto era insignificante. Quando, un anno prima, ero arrivata in quel posto, quell’infinita solitudine mi era sembrata una vista insopportabile. Ora che mi preparavo a lasciarla, sentivo la certezza che l’avrei portata per sempre dentro di me. Il vento che compiva il suo giro tra i bassi cespugli di erica robusta scorreva nelle mie vene allo stesso modo del sangue. Mi ero abituata alla bellezza selvatica di quelle distese umide, allo splendore del cielo increspato da nuvole maestose, o illuminato da una luce cristallina, della stessa tonalità della mia pelle ai raggi del sole, ai profumi semplici di torba e muschio, che riempivano l’aria anche nelle giornate di neve.

Benjamin al piano di sotto stava parlando al telefono con Thomas, forse per le ultime direttive da parte sua: la casa ce l’aveva prestata proprio Thomas. Era stato molto premuroso,a modo suo. A volte veniva a trovarci, “per controllare lo stato della proprietà, se organizzavamo festini o se le tubature erano a posto, perché si faceva presto a svalutare un bene, con i tempi che correvano”. Ma era molto legato a Benjamin, e di conseguenza anche a me, anche se continuavo a sospettare che mi considerasse più come una specie di accessorio del suo amico piuttosto che come una persona vera e propria. Avevamo passato dei bei momenti in quella casa: forse non era proprio esatto chiamarli “belli”, forse sarebbe più appropriato “sensazionali”, o semplicemente importanti. Non c’erano gloriosi ricordi d’amore, tra quelle mura, in quelle stanze, tra i mobili pesanti e fuori moda. C’era qualcosa di molto più freddo, ma così vero da togliere qualsiasi dubbio. Non era un sogno, e me ne ero accorta proprio lì. E ogni emozione, positiva o negativa che fosse, non era mai più stata attutita da nulla.

I primi tempi non erano stati duri: ero eccitata dalla novità, confusa dalla situazione e troppo piena di emozioni per poter pensare. Per poter fermarmi a considerare, così, in silenzio, per un paio di minuti. Mi muovevo, facevo, esploravo, leggevo, ballavo. Fu quando ricominciai a ritornare in me, lentamente, come se l’effetto di un narcotico svanisse, che cominciai a sentire distintamente tutte le ferite che mi ero fatta. E fu quando cominciai a non trovare alcuno sfogo nella danza, né alcun interesse in un libro, né nessuna bellezza nel paesaggio, che cominciai a non avere la forza di alzarmi dal letto, la mattina. Volevo che la notte non finisse mai, che il sonno potesse cullarmi sempre. Avevo smesso di nutrirmi, prendevo solo cibo: non ci avevo mai provato, o meglio non avevo mai voluto provarlo. Fu molto strano:divenni magra, piuttosto gracile. Non avevo mai avuto una corporatura particolarmente ossuta, ed era strano vedere le ossa dei polsi e delle caviglie tirare la pelle, tanto sottile che pensavo avrebbe potuto strapparsi da un momento all’altro. La mia carnagione diafana, luminosamente alabastrina, assunse uno strano colore, tra il giallo chiaro e il bianco sporco. Mi venne qualche piccola ruga, vicino agli occhi.

Scoprii che potevo morire, , perché il mio corpo poteva deperire, se rinunciavo al sangue, e io sapevo rinunciarci. Una mattina mi guardai allo specchio, e vidi che ero brutta: avevo degli orribili capelli sfatti e radi, perché avevo cominciato a perdere molti capelli, delle occhiaie profonde e violacee, il viso smunto, non avevo più le guance, ma due incavi profondi. Notai una nuova ruga, ad un angolo della bocca, e sorrisi debolmente, mentre i miei occhi iniettati di sangue sprizzavano gioia. Non capivo, in quel momento, a quale folle causa avessi deciso di votarmi, senza nemmeno accorgermene.

Volevo solo espiare tutte le mie colpe, dopotutto. Sarei ritornata innocente come una volta.

Quella mattina, mentre procedevo alla mia solita routine, cioè farmi una doccia veloce, mangiare qualche pezzo di cibo imprecisato e poi ritornare a letto a cercare di riaddormentarmi, percepii qualcosa di diverso. Un’impressione, forse. Ma c’era davvero qualcosa di diverso, nell’atmosfera della casa: mancava qualcosa, un odore, un colore, un oggetto. Ritornai a letto e cacciai un urlo: avevo capito qual era il pezzo mancante. Di fianco a me, sul letto, o sulla poltrona vicino al camino acceso, mancava Benjamin. Immediatamente mi alzai, feci qualche giro della camera da letto come se potesse ricomparire da una parete. Notai le ceneri fredde del braciere del camino: nessuno lo aveva acceso. Per la prima volta da un bel po’ di tempo, uscii di casa, e per la prima volta da tantissimo tempo, usai i miei sensi per cercare qualcosa. Con uno scopo. Percepii la sua scia all’istante, la seguii: volevo correre, e mi sforzavo, ma non riuscivo ad andare più veloce di quanto potesse fare un essere umano. Il mio corpo era troppo intorpidito per rispondere agli impulsi e troppo debole per soddisfarli. Mi fermai a riprendere fiato, mi sedetti a terra, per un istante mi sembrò di averne perso la scia. Sentii il respiro affannarsi nei polmoni, l’aria mancare, l’ossigeno venirmi meno. mi sforzai di respirare e ripresi a correre. Non sono mai stata un vero essere umano, tranne che forse in quel momento, mentre mi sforzavo di non cadere mentre correvo.

Ma alla fine, quando già sentivo venirmi di nuovo meno il respiro, lo vidi.

Mi aspettava in piedi, di fronte a me,e  mentre arrancavo lungo la salita della collina, cercavo invano di decifrare il suo viso. Ma non capivo, e mi ricordai solo allora che era molto tempo che non gli avevo più prestato attenzione. Benjamin aspettava fermo, immobile irraggiungibile. Arrivai, e presi fiato per qualche secondo perché mi girava la testa. Nessuno mi sorreggeva.

-Non pensavo che saresti venuta-. Si accese velocemente una sigaretta, guardò un po’ per aria, si concentrò su di me. Il suo sguardo poteva essere così aspro da infastidire. Rimasi in silenzio, perché ancora avevo bisogno di riprendere fiato. –Ma riesci sempre a stupirmi-. Strinse gli occhi, mi studiò, piegando leggermente la testa.

-Te ne eri andato-

-Anche ieri me ne ero andato, e anche il giorno prima-. Ancora silenzio.

-Non è vero-

-Non puoi sempre avere ragione Nes. Ti hanno viziata un po’ troppo-

-Tu te ne sei andato oggi-

-Certo che no, ma ultimamente sei troppo impegnata a suicidarti per accorgerti degli altri. D’altronde, è un’occupazione a tempo pieno. Sono comprensivo-. Una risata roca e spiacevole, e anche io risi. Sembrò contrariato.

-Non prendermi in giro, sei andato via oggi-

-Tornerai a casa, Renesmee. Adesso andrai a vestirti, a prendere il passaporto e tornerai a casa-

Mi bruciava la testa, mi facevano male le ossa, dovevo tornare a dormire.

-Sei impazzito?- sibilai tra i denti.

-Torna dai tuoi genitori, Renesmee. E da Jacob. Perché io non posso prendermi cura di te-

-No-. Avrei voluto piantare i piedi a terra, e assumere un’espressione decisa.

-E perché non dovresti? Perché mi ami?-. Piegò la testa di lato, mi sfidò apertamente, ma non ero ancora sicura per che cosa stessimo lottando. Mi sentii addosso tutto il peso delle mie ossa, dei miei capelli radi, della mia carnagione malata, e mi resi conto che lui aveva bisogno di me, nello stesso identico modo in cui io avevo bisogno di lui.  Tutta la paura, lo smarrimento che avevo provato quando mi ero resa conto che mancava, dovevano essere solo un’idea imperfetta di ciò che io avevo fatto a lui.

Io avevo voluto andarmene.

-Non voglio abbandonarti-

Silenzio.

Era chiaro come il sole che eravamo felici di rivederci, finalmente. Sapevo che era solo colpa mia, che avevo cercato di spegnermi, ma Benjamin non è mai stato uno che porta rancore, per mia fortuna, perché ho sempre avuto la tendenza a fare un casino di errori. Mi perdonò subito.

Tornammo a casa decisi a fare del nostro meglio, nel futuro.

Nei mesi successivi, ritornai me stessa, più o meno. bere sangue mi fece bene: recuperai il peso e il colore, i miei capelli ritornarono folti e sani, anche se un po’ più lisci e sottili di prima. Cominciai a fare cose, a pensare, ad avere uno scopo nelle mie giornate: io e Benjamin passavamo il tempo a leggere, guardare film, parlare. Mi chiese tantissime cose, di quando ero piccola, di quando ero nata, di che cosa pensassi in quel momento riguardo a tante cose. A volte mi chiese qualcosa sull’imprinting di Jacob: gli dissi quello che sapevo, e che ero sicura che per me sarebbe stato sempre una persona a sé stante, in una dimensione privilegiata. Non si sbilanciò molto, ma ero certa che dentro fosse un po’ amareggiato. Gli piaceva avere la mia attenzione totale, che lo guardassi, che facessi attenzione a lui. Non capivo se era sempre stato così, o se lo era diventato dopo quel brutto periodo. Mi chiese se da piccola avevo mai giocato, come fanno i bambini, con le costruzioni e i peluches. La mia cameretta di quando ero piccola era stata piena di peluche, sempre perfetti e ben lavati, senza un granello di polvere, ma non ne avevo mai usato uno. non ero mai stata abbastanza immatura da sentire il bisogno di giocare. La mia infanzia, se possibile, era stata ancora più desolante della mia adolescenza, che era durata sì e no un paio di anni e che era stata caratterizzata da un’inquietante consapevolezza dei cambiamenti esagerati del mio corpo, come un medico che può controllare freddamente gli sviluppi di un male incurabile e aggressivo sul suo corpo inerme. Nel giro di un mese o poco più, da bambina piatta ero diventata una ragazzina prosperosa. Il particolare lo fece ridere un po’, ma come biasimarlo? La situazione era stata piuttosto grottesca: soprattutto con mio nonno, per quanto abituato da un bel pezzo alle mie stranezze, la cosa era stata piuttosto ridicola. Aveva chiesto per due volte ai miei, a bassa voce, pensando non potessi sentire, se avessi assunto qualcosa di strano. Il povero Charlie proprio non ci si raccapezzava. Era molto che non lo rivedevo, e mi mancava, e mi mancava ancora di più se pensavo che lui non era indeterminato, come tutti noi, ma faceva parte di quella categoria di esseri viventi che hanno una fine davanti a sé, nel momento stesso in cui vengono al mondo.

Invidiavo Charlie.

Allora decisi di tornare a casa. Non me lo aspettavo, ma Benjamin non gradì il cambiamento: non era per niente contento di tornare a casa. Non volevo litigare con lui, perciò restai bene attenta a insinuare l’idea che il suo unico problema fosse Jacob. Ero diventata un’osservatrice acuta, e a quel punto mi era assolutamente chiaro che Benjamin era assolutamente, ossessivamente, geloso di me. Allontanandomi da lui, avevo perso un po’ della sua fiducia: non lo sentivo più lontano, semplicemente più attento, come se fossi stata sul punto di scappare da un momento all’altro. L’idea che tornassi dalla mia famiglia, e da Jacob, lo turbava, ma non me lo fece mai capire apertamente. Decisi di tornare comunque per affrontare un po’ di cose, e così, di malumore e piuttosto dubbiosi, lasciammo la casa in cui eravamo arrivati l’autunno precedente.

 

 

 

 

Angolo masochismo:

secondo me questo capitolo non era il massimo, spero di rifarmi con i prossimi! XD

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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