Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Beatrix Bonnie    05/01/2010    2 recensioni
"Sono rimasta vedova da qualche mese. La morte di mio marito, che aveva ottantacinque anni, ha lasciato dentro di me un vuoto incolmabile. Forse è per questo che ho deciso di scrivere la storia della nostra vita insieme, un matrimonio decisamente fuori dal comune. In realtà, leggendo le mie memore, non solo conoscerete la storia della mia famiglia, ma anche il coraggio di molti eroi che hanno combattuto e sono morti al mio fianco. Ho scritto queste pagine non per orgoglio personale, per lucidarmi le medaglie o per dimostrare da che parte stava la verità.
Le ho scritte perché il mondo non abbia a dimenticare,
perché l'Italia abbia di nuovo i suoi eroi e i giovani qualcosa in cui credere."
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Addio Ribelle!


La vita riprese a scorrere lentamente nella nuova brigata Perlasca. Eravamo orgogliosi del nome scelto che rendeva memoria al capitano Zenit. Nessuno poi riusciva a immaginare il grande rispetto e quel poco di amicizia che avevo provato nei suoi confronti: lui era quello che mi aveva accettata, a dispetto del mio essere donna, tanto piccola e magra da meritarmi l'appellativo di scricciolo.

Inoltre ora c'era una novità nella grande famiglia della brigata: io ero diventata la signora Donati e ciò poteva significare solamente che nemmeno la guerra e gli orrori più disumani potevano impedire alla vita di continuare a all'amore di illuminare i nostri giorni. Damiano era diventato molto protettivo nei miei confronti, ma quello che si divertiva di più per la nuova situazione era certamente Tita: non si stancava mai di ridacchiare alle nostre spalle e di canticchiare allegro la marcia nuziale, che si era sostituita ai motivetti popolari che fischiettava di solito. Nonostante tutto ero serena e mi apprestavo a passare l'inverno con animo tranquillo. Non potevo immaginare che un altro lutto gettava ombre cupe sulla mia speranza rinata.

Accadde tutto la sera del 25 Agosto. Stavamo tornando da una missione perciò, al calar della notte, avevamo deciso di accamparci alla baita di Paio. C'eravamo io, Damiano, Tita, Aldo e altri ragazzi. Tuttavia non eravamo tranquilli, c'era una tensione nell'aria che ci insospettiva. E avevamo ragione.

Un imponente schieramento di forze tedesche, coadiuvate da truppe fasciste, si portò all’imbocco delle strade, delle mulattiere e dei sentieri che portavano in Corna Blacca. Il rastrellamento iniziò all'alba contemporaneamente per tutti i reparti impegnati. Immediatamente Tita decise di raggiungere il Comando per rendersi definitivamente conto di quanto stava avvenendo; ci eravamo appena avviati, quando iniziò una violenta sparatoria da parte dei tedeschi che, nel frattempo, avevano circondato la zona di Paio. L’unica via di fuga possibile era quella verso il basso, dopo aver superato un dislivello. -Correte!- strillò Tita. Non ce lo facemmo ripetere due volte.

Corsi via, veloce come il vento, senza guardarmi alle spalle. Persi di vista tutti i miei compagni nel giro di pochi metri: ci eravamo sparpagliati, nella speranza di non essere rintracciati. Il vento notturno mi sputava in faccia, mentre i rami delle piante mi frustavano di continuo, ma io non mi fermai né persi tempo a scansarli. Attraversavo il bosco di corsa, senza avere la minima percezione di dove stessi andando. Sentivo le urla dei soldati tedeschi e i latrati dei cani talmente vicini che ogni volta temevo che mi avrebbero raggiunto. Mi sembrava di essere una preda in trappola, mi sentivo braccata da ogni parte. Fuggivo, fuggivo, fuggivo e basta.

Fu un urlo. E poi uno sparo.

Mi gettai a terra per evitare di essere colpita.

-Vorsicht! Halt!- E poi altre imprecazioni in tedesco. Mi coprii la nuca con le braccia, immobile nella posizione supina in cui mi trovavo. -Fermo o ti uccido!- sbraitò il soldato tedesco. Quella voce... la conoscevo. Mi venne un tuffo al cuore appena ricordai a chi appartenesse. Il soldato mi si avvicinò, puntandomi il fucile tra le scapole. Aveva il respiro affannoso di chi ha appena corso, ma potevo benissimo immaginare il sorriso di trionfo che gli si era disegnato sulle labbra. Mi tirò un calcio nel fianco per farmi girare. Il fiato mi si mozzò in gola per il colpo ricevuto, ma rimasi nella posizione supina. Questa volta il calcio arrivò in faccia. Strizzai gli occhi per il dolore e sentii il sapore ferreo del sangue in bocca, ma restai immobile. -Girati, bastardo!- ululò il soldato, afferrandomi per il maglione e costringendomi a voltarmi. Appena mi vide in volto, mollò la presa cosicché caddi rovinosamente al suolo. Osai anche io guardarlo in viso: gli occhi azzurri di cui un tempo mi ero innamorata, le labbra rosee che avevo baciato erano contratte da smorfie di rabbia mista a sorpresa.

-Irma...- sussurrò Hans tra i denti. Restammo immobili a scrutare l'uno l'espressione dell'altro per diversi minuti, incapaci entrambi di proferire parola. Riuscivo a leggergli negli occhi cristallini la lotta interiore che lo stava divorando: consegnarmi nelle mani dei suoi superiori in quanto ribelle o, in nome dell'antico amore che ci aveva legati, lasciarmi fuggire? Quanto mi odiava, ora che ero passata al nemico, abbandonandolo il giorno di Natale senza nemmeno salutarlo? Quanto amava l'ideologia fascista? Quanta umanità gli aveva levato dal corpo la sua fede?

Mi accorsi di aver trattenuto il respiro, solo quando i miei polmoni reclamarono l'aria. Respirai il più silenziosamente possibile: non sapevo se parlargli avrebbe reso Hans meno aggressivo, perciò optai per un più diplomatico silenzio. Non mi mossi nemmeno.

Furono delle voci di altri soldati a smuovere la situazione di stallo. -Was passiert?- domandò qualcuno. Hans non si voltò verso dove proveniva la voce, ma rimase fermo a guardarmi. -Nichts. Hier gibt es niemanden- rispose con voce piatta dopo qualche attimo di silenzio. Niemanden, aveva detto che non c'era nessuno. Questo significava che ero libera, che sull'ideologia aveva vinto l'umanità! Cercai senza risultato di trattenere le lacrime che mi pizzicavano gli occhi. Mi avvicinai di poco a Hans, tendendo la mano verso di lui per accarezzarlo un'ultima volta. -Grazie...- sussurrai tra le lacrime, ma il suo volto fu attraversato da un lampo di rabbia tale che ne ebbi paura. Mi ritrassi immediatamente da lui e scappai via senza voltarmi. Il suo urlo e la raffica di proiettili che mi scagliò contro mi accompagnarono nella fuga. -Io ti odio!- sbraitò con la voce alterata da una rabbia cieca.

Continuai a correre a perdifiato, ignorando la stanchezza che mi attanagliava le membra. Non riuscivo più a riconoscere le montagne che mi circondavano perciò non ero in grado di capire dove mi trovassi, né di riconoscere la strada verso il Comando. Tuttavia non fermai la mia corsa perché ero terrorizzata dall'idea che mi trovassero e soprattutto che mi trovasse Hans. Era quasi l'alba quando finalmente sentii una voce che mi rivolse parole non in tedesco. -Fermo, fatti riconoscere.- Non avevo più forze per rispondere a quell'ordine, perciò sollevai il pugno destro, dove avevo legato il fazzoletto della brigata. L'uomo mi si fece in contro per sorreggermi e mi riconobbe subito. -Devi essere Scricciolo. Ti stavamo aspettando con ansia.- disse, mentre mi prendeva sottobraccio per portarmi al riparo.

Ero stanca. Avevo bisogno di sedermi. Le palpebre mi si chiusero contro la mia volontà. Il partigiano mi adagiò delicatamente su una panchina all'interno di una sala troppo chiassosa per i miei gusti. C'era un sacco di gente che continuava a parlare con un tono di voce troppo alto per le mie orecchie. Non potevano mostrarsi un po' più cortesi? Non si accorgevano che ero stanca?

-È Scricciolo!- strillò qualcuno. Riconoscevo la voce, ero sicura di averla già sentita, ma non ricordavo a chi appartenesse. -Andate a chiamare Giotto.- continuò l'urlatore sconosciuto. Anche il nome Giotto non mi era nuovo, ma non rievocava nessun ricordo preciso: c'era qualcosa che lottava per riaffiorare alla memoria, ma continuava a sfuggirmi. Divenne tutto più chiaro quando un'altra voce arrivò alle mie orecchie. La sua voce. E poi delle braccia che mi stringevano a sé. Le sue braccia.

-Damiano.- sussurrai nuovamente presente a me stessa. Ricambiai l'abbraccio, mentre mio marito mi baciava delicatamente i capelli e la fronte. Sentivo le sue lacrime mescolarsi alle mie, in un unico pianto di sollievo. -Irma, amore mio, temevo ti avessero preso. Non arrivavi più.- sussurrò al mio orecchio, ma mi resi conto che la stanchezza mi aveva sopraffatta di nuovo. Chiusi gli occhi e scivolai lentamente nel sonno.

Furono dei brusii sottomessi a svegliarmi. Ero ancora sdraiata sulla panca di legno e non sapevo quanto avessi dormito. Cercai di sbattere le palpebre, ma un brandello di conversazione che giunse al mio orecchio, mi congelò il sangue. -Franco e Aldo sono stati presi, con altri quattro. L'ha confermato un contadino che li ha visti sfilare legati ad un carro: li stavano trascinando come un trofeo lungo la val Sabbia.-

Scattai in piedi tanto velocemente che dovetti appoggiarmi al muro per evitare di cadere. Un'angoscia terribile mi invase e fui sul punto di piangere. Non Tita, il caro Tita, quello che canticchiava sempre, che trovava il modo di restituirmi il buon umore, quello che adorava scalare le montagne, giocare a palle di neve, sorridere a tutti. Quello che sapeva essere serio o deciso quando la situazione lo richiedeva, quello che avrebbe dato la vita per salvare i suoi compagni, perché li riteneva il bene più prezioso. -Tita...- sussurrai tra le lacrime, proprio mentre Damiano mi si faceva incontro per sorreggermi. Mi strinse forte a sé e capii subito che condividevamo lo stesso dolore, che Tita rappresentava per entrambi l'amico più caro.

Furono i giorni più terribili della mia giovane via, quelli che seguirono l'arresto di Tita. Cominciarono subito le trattative per tentare uno scambio o cedere una ricompensa per la liberazione dei compagni, ma sapevo che sarebbero andate tutte in fumo, perché era assolutamente impossibile salvare tutti e Tita non avrebbe mai accettato i essere l'unico a sopravvivere. Rizzardo Secchi, il padre di Tita, che ci aveva raggiunto appena aveva scoperto che il figlio era stato catturato, aveva detto di essere disposto a qualsiasi sacrificio purché non uscisse solo suo figlio, ma anche tutti i suoi compagni di cattura, perché Tita non glie la avrebbe mai più perdonata se fosse uscito da solo. Nel frattempo io continuavo a rivedere il mio amico intento nelle sue attività preferite, fumare una sigaretta o fischiettare tranquillo all'ombra di un pino. Non avevo ancora realizzato che presto se ne sarebbe andato, che non l'avrei mai più rivisto. Ogni tanto mi ritrovavo a pensare cose del tipo “questa devo proprio raccontarla a Tita” per poi ricordare all'improvviso che non c'era più. Tutte le volte sentivo una fitta tremenda al costato, proprio all'altezza del cuore. C'era un vuoto dentro di me che non riusciva a colmare: era il vuoto che aveva lasciato Tita andandosene, in cui ora vagavano sbiaditi i ricordi che avevo di lui.

La conferma ad ogni mio timore giunse pochi giorni dopo l'avvio delle trattative. Fu Rizzardo a riportarci le esatte parole che il mio amico aveva pronunciato, quando aveva appreso che sarebbe stato liberato da solo in cambio di un'ingente quantità d'oro: “O tutti o nessuno”. Esattamente come temevo. Vedevo il mio stesso strazio anche negli occhi del padre: anche lui, come me, aveva presagito la risposta del figlio. -Il mio Tita, il mio povero figliuolo.- ripeteva spesso, come una dolorosa litania. Questo mondo era troppo crudele: un padre non avrebbe dovuto sopravvivere al figlio, il lutto da sopportare era immenso. Quanto dolore può contenere il fragile cuore umano?

Fu proprio Rizzardo a raccontarci come avevano catturato Tita: era riuscito a passare oltre l'accerchiamento di tedeschi ed aveva raggiunto un boschetto, più sotto, dove si era messo a raccogliere della legna fingendosi un montanaro. Una trovata tipica di Tita. Una pattuglia di tedeschi gli si era avvicinata per controllare; stava comunque allontanandosi quando uno di essi gli aveva visto spuntare dalla tasca dei pantaloni un foglietto. Lo aveva preso: era un foglio con l’intestazione della brigata Perlasca. Immediatamente lo avevano arrestato e portato via.

Quando avevo capito che non c'era modo di salvare Tita, avevo deciso che l'ultima cosa che avesse visto sarebbe stato il fazzoletto verde della brigata con in sottofondo il motto del giuramento: “insistere e resistere”. Sapevo che sarebbe stato giustiziato con gli altri cinque la mattina del sedici settembre. Ci impiegai due giorni per arrivare a Brescia, ma non mi importava quanto avrei dovuto faticare per raggiungere il mio scopo. Non mi importava nemmeno se rischiavo di farmi catturare. Per Tita questo ed altro. Indossavo un abito da donna, nel tentativo di passare inosservata. Nella borsetta avevo il fazzoletto, ben nascosto da tante altre cianfrusaglie femminili. Camminavo spedita attraverso le viuzze del centro per raggiungere il maneggio del 30° Artiglieria; per fortuna nessuno mi notò.

Quando raggiunsi la caserma, scelsi un albero del viale ben nascosto e ancora in ombra per potermi arrampicare senza essere vista. La gonna mi impediva i movimenti, ma riuscii ad aggrapparmi ad un ramo sufficientemente alto in modo da dominare la scena che si svolgeva all'interno del maneggio. Avrei voluto saltare sul muro di cinta per vedere meglio, ma il filo spinato che lo circondava, non me lo concedeva.

Lanciai uno sguardo all'interno. Un autocarro con il motore acceso per soffocare il rumore dei mitra, riempiva l'aria del cortile di denso fumo nero, rendendola irrespirabile. Eccoli là, schierati contro il muro, come per un macabro concorso di bellezza. Estrassi il fazzoletto dalla borsa proprio mentre il generale strillava ai soldati l'ordine di imbracciare i fucili. Il primo raggio di sole illuminò il fazzoletto verde stretto nel mio pugno levato al cielo. Lo strinsi sempre più forte per impedire alle lacrime di rigarmi il volto. Vedevo il ciuffo ribelle di Tita svolazzare alla brezza del mattino.

Un secondo, il secondo prima che partisse la raffica dei mitra.

-Tita! Insistere e Resistere!-

Lui alzò gli occhi. Sorrise. Il mio fazzoletto verde fu l'ultima cosa che vide prima di accasciarsi a terra lasciando sul muro dietro di sé una striscia rossa.



Questo capitolo è il mio preferito, sin da quando l'ho scritto, e tutte le volte che lo rileggo mi strappa un dolce sorriso per Tita Secchi (il personaggio è realmente esistito e la storia della sua cattura è descritta come realmente avvenne nell'agosto del '44). Spero di essere riuscita a commuovere anche voi.

Beatrix

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Beatrix Bonnie