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Autore: keska    11/01/2010    47 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Edward

 

La strinsi più forte a me, in un disperato quanto inutile tentativo di proteggerla da quello che presto sarebbe arrivato.

La liberai dal mio abbraccio fin troppo stretto non appena le sue palpebre tremolarono verso il basso e i suoi occhi si rovesciarono all’indietro. Mi ero già pentito di tutto. Le baciai piano le labbra, serrando le palpebre e aspettando.

Non potevo più tirarmi indietro, in quell’istante dovevo fare ciò che era meglio per lei. Ciò che era meglio per la bambina. Ciò che avevamo deciso di fare, nonostante le conseguenze delle nostre azioni.

Il suo cuore iniziò ad accelerare il suo ritmo, proprio mentre sentivo il respiro farsi più affrettato e il sangue nelle sue vene pulsare contro la mia pelle immobile. Aprii gli occhi e la vidi. I suoi occhi neri, sbarrati, fissavano il vuoto, le pupille completamente spalancate.

Sentii una fitta, troppo familiare ormai, al cuore. Dovevo stare calmo, rimanere concentrato e tentare di ascoltare i pensieri della bambina, altrimenti ogni cosa sarebbe stata inutile.

Rantolò e mentre si tendeva come una corda di violino la sua schiena si sollevò dal materasso. La strinsi fra le braccia, disperato, tentando di tenerla ferma. Un sibilo le uscì dalle labbra ceree, dello stesso pallido colore grigiastro del viso, già imperlato da una miriade di piccole gocce di sudore.

«Bella… Bella, amore, sono qui…». Malgrado la mia testa avesse uno spazio immenso dove far scorrere i pensieri, ora c’era solo lei, e non riuscii ad impedire alle parole soffocate di uscire dalla mia gola.

Serrai gli occhi, abbandonando la testa sul suo petto, stringendola ed evitando che si dibattesse. La facilità con un la immobilizzavo mi faceva male. Pensavo quanto fosse fragile e vulnerabile.

Dovevo concentrarmi. Glielo dovevo.

Abbassai il capo sul suo ventre, fino a percepire con estrema chiarezza il battito costante della nostra bambina addormentata. Rimasi immobile, come solo un vampiro poteva fare, e nonostante le urla di mia moglie mi stessero penetrando senza remore imponevo al mio essere di portare avanti il mio compito.

«Jacob…» un rantolo sputato fra i denti «Jacob!».

Sentivo che la crisi era quasi all’apice e ancora non avevo sentito nulla. Come previsto, ogni cosa sarebbe stata vana. Tutto quel dolore, inutile.

Ruppi la mia statuarietà, sollevando il capo e fissando addolorato di mia moglie. «Bella, amore mio, sono qui. Sono qui Bella» la chiamai disperato, conscio del fatto che non mi avrebbe ascoltato.  Come potevo aver acconsentito a quello scempio? Come potevo io stesso esserne stato fautore?

Abbassai nuovamente il viso sul suo ventre pieno, sentendo il mio corpo marmoreo scosso da pesanti singulti. «Basta amore. Basta, basta». La baciai, proprio dove la sua pelle era più fredda e chiara appena sotto la superficie. «Basta».

In un attimo, come una stoccata, i miei pensieri furono attraversati da una cometa bianca. Ansimai, osservando mia moglie. Si stava agitando, anche più violentemente di prima, mordendo l’aria davanti al viso.

Ancora una volta. Bianco.

Chiusi gli occhi, tentando di concentrarmi. E fu allora che lo vidi, attingendo direttamente ai pensieri della bambina.

Vagavo, fluttuando in uno sfondo completamente bianco. Quello che mi sorprese fu che avvertivo il mio corpo come una massa perfettamente incorporea. Cercai di registrare tutti i dettagli, e fu così che mi accorsi di quello che sentivo. Ricerca. Stavo cercando qualcosa. Cercavo disperatamente e velocemente qualcosa.

Ma cosa? I pensieri della bambina non erano così forti da permettermi di comprenderlo, e avevo paura che tutto sarebbe finito troppo presto.

Ancora, sentii un altro desiderio. Dovevo avvicinarmi… Dovevo andare più vicino in modo da poter…

Tutto scivolò via, e tentare di riprendere quei pensieri sarebbe stato come tentare di afferrare l’acqua. Impossibile anche per me.

Sollevai gli occhi sul viso di mia moglie, proprio mentre lei chiudeva i suoi. Mi sollevai, andandole accanto e abbracciandola, accarezzandole il viso mentre il sangue, spinto forzatamente dal suo cuore, tornava prepotente sulle sue guance lasciandole un innaturale contrasto con le labbra, ancora bianche.

Tentai di concentrarmi sul calore irradiato dal suo piccolo corpicino, rannicchiato fra le mie braccia, per calmarmi io stesso e dare una priorità a tutta la miriade di pensieri confusi che mi occupavano la mente.

«E-Ed…ward…» farfugliò poco coerentemente fra gli ansiti. Solo grazie al mio udito riuscì a comprendere il mio nome.

Le baciai la fronte umida, inspirando il suo forte odore. «Sono qui amore, sono qui».

Sbatté le palpebre velocemente e poi lo fece ancora, con maggiore lentezza. Vidi immediatamente i suoi occhi marrone fuso e tutte le pagliuzze imperfette della sua iride, mentre mi guardava spaesata. Mi rasserenai.

Portò in un gesto automatico la mano, tremante, al petto, tentando di arrestare la sua folle corsa. Sentii il suo cuore rallentare il ritmo con tonfi sordi e umidi.

Le accarezzai il viso, scostandole i capelli che erano rimasti incollati alla fronte, con la mano che non era impegnata a stringerla forte contro la mia pelle nuda, come la sua.

Le lasciai tutto il tempo di fare mente locale. Notai persino la sua tenera espressione imbronciata, e quasi non mi sfuggì un sorriso sulle labbra. Peccato che l’impulso fu troppo debole fra i pressanti pensieri per riuscire a farlo realmente.

Tremò, e si strinse più forte a me in cerca di un calore che non potevo darle. Mi sollevai di poco, tenendola fra le mie braccia, e tirai via le coperte dal letto, avvolgendola nel piumone caldo. Mi sedetti sul letto e la portai sulle mie gambe, abbracciandola.

Mi fissò, disorientata dalla velocità dei miei movimenti. Poi fece una smorfia, comprendendo ogni cosa. Questa volta non riuscii a rattenere il leggero ghigno. Anche lei, come me, avrebbe voluto rimanere a contatto col mio corpo. Peccato che per lungo tempo ci sarebbe stato ancora precluso.

«Edward» la sua voce tremante permise a larga parte della mia mente di concentrarmi su di lei. Si schiarii la gola, in un vano tentativo di apparire meno provata. «Sei riuscito…?». Lasciò cadere la domanda, certa che avrei compreso.

Ma la parte di me che molto spesso emergeva, e che desiderava in ogni modo proteggerla ebbe la meglio. «Stai bene?» chiesi osservando il suo incarnato pallido e tutti i segni di pronunciata astenia.

Le sue labbra si contrassero in una posa stizzita. Non amava che le facessi quel genere di domande, ma le trovavo di vitale importanza. Accertarmi del suo benessere, della sua salute, rientrava nel mio istinto di auto-conservazione. Perché la sua vita era la mia, e se non ci fosse stata lei, non ci sarei potuto essere neppure io.

Eppure mi rendevo conto che per lei era importante conoscere la verità, era importante sentire come mi fidassi di lei, come la considerassi tanto acuta e intelligente da poter comprendere, così le rivelai quello che ero riuscito a leggere, tentando di essere il più possibile delicato.

Per tutto quel tempo avevo tentato di proteggere la sua fragile esistenza umana. Avevo cercato di evitarle ogni forma di ansia o stress. Carlisle, durante il primo trimestre di gravidanza, mi aveva chiaramente detto che Bella era uno dei pazienti più sensibili ed emotivi che avesse mai avuto e che dovevo fare molta attenzione in questo particolare periodo, soprattutto per la natura ignota del feto. Ma poi era stato lui stesso a consigliarmi, anzi, ordinarmi, di rivelarle tutto. Proprio quando ciò che stavo cercando di evitarle la stava opprimendo.

«Tu… hai… idea di quello che possa significare?» chiese debolmente, arrancando con le braccia fra la coperta, infastidita dall’eccessivo calore.

Soffiai leggermente fra i suoi capelli il mio fiato freddo. Al contrario di quanto mi sarei aspettato, non avevo trovato nulla nei suoi pensieri che mi riportasse al terrore, all’angoscia, alla paura che mi aspettavo di trovarci. C’erano sensazioni intense, forti, ma nulla di tutto quello.

Dopo qualche secondo parlai. «No, ci stavo pensando. Ma l’unica conclusione a cui mi sembra di arrivare è che la bambina non soffre, sta sostanzialmente bene. Il resto mi rimane oscuro» mi costrinsi a sorridere e aggiunsi a suo beneficio, con la massima sincerità «sono certo che con la tua perspicacia arriverai alla verità molto prima di me».

Lei abbassò lo sguardo, distogliendolo da me.

Il suo gesto mi ferì, facendomi comprendere quanto l’avessi fatta soffrire, calpestando il suo orgoglio. «Mi aspetto cose eccezionali da te, amore. So che saprai sorprendermi, ne sono certo» dissi, col mo miglior tono persuasivo.

Si portò, piano, entrambe le mani al ventre arrotondato. Poi si voltò, fino a immergere il viso sul mio petto. Aprì bocca, come se volesse parlare, poi la richiuse. Aspettai paziente che dicesse qualcosa, e quando pensai che non avrebbe più parlato mi preparai a farlo io.

«Davvero?» chiese piano, interrompendo le mie parole sul nascere. «Davvero hai questa alta considerazione di me?».

Chiusi gli occhi, dandomi mille volte dell’idiota per aver minato, per tutto quel tempo, la sua fragile insicurezza. «Sai» cominciai, modulando il mio tono in modo tranquillo e sicuro «non puoi immaginare come mi senta sollevato, ora che conosci tutta la verità. Ovviamente» precisai «avrei voluto che lo venissi a sapere in modo più… tranquillo. Ma… nascondertelo… per tutto questo tempo, è stato orribile» confessai amareggiato.

Ripensai a poche ore prima, a quando tutto l’universo sembrava stesse per crollarmi addosso. Pensavo impossibile che tutto lo spazio infinito della mia mente fosse occupato da un solo pensiero, eppure era stato così, sempre più, per ben due mesi. Mi ero paradossalmente sentito invecchiare, corrompere dal tempo e dal male. Ero stato costretto a fingere, creare infinite maschere, che si assottigliavano man mano che lo spazio diminuiva, evidenziando agli occhi di mia moglie il mio tormento.

«Bella» dissi carezzevole, convinto «tu sei stata la prima, la sola, ad accorgerti che qualcosa non andasse in me. Neppure Esme, o Jasper, o ancora di più, Alice, sono riusciti a notarlo. Questo dimostra quanto tu sia perspicace» la fissai adorante, mentre i suoi occhi ricambiavano sorpresi il mio sguardo. «Sei stata una moglie perfetta».

Mi avvicinai, posando le labbra sulle sue, piano, modellando il morbido contorno della sua bocca, «Davvero, davvero perfetta» mormorai roco, facendola arrossire.

Sorrisi, tentando di trovare qualcosa che l’allontanasse da quegli assurdi ed erronei pensieri. «Anche quando mi tiravi dietro le cose» feci divertito.

Si ricosse, e subito il sangue le imporporò le guance. «Oh, mi dispiace. L’ho già detto che mi dispiace tanto? Mi dispiace Edward» fece una pausa tra il fiume di parole «ti… sei fatto male?» chiese, torturandosi con i denti il labbro inferiore.

Scoppiai in una risata allegra e ben presto anche la sua, dolce e meravigliosamente imperfetta, mi raggiunse.

«Sul serio, mi dispiace per aver urlato così» aggiunge mortificata, accarezzando concentrata un lembo della mia pelle. «Non so che mi è preso» disse arrossendo.

Rabbrividii e i suoi occhi tornarono nei miei. Le accarezzai una guancia, ripensando a quando, mentre urlava, si era macchiata di vampate rosso sangue, insieme all’arteria sulla sua tempia che non smetteva di pulsare, insistente. «Non ti dovrei scusare per questo. Mi hai fatto preoccupare, non oso immaginare a che livelli possa essere salita la tua pressione e avevo il terrore che ti sentissi male da un secondo all’altro».

Sorrise furba. «Però Alice aveva ragione, quando ti arrabbi dici sempre la verit… Oh» esclamò d’un tratto, sussultando e portandosi una mano alla pancia. Sentii anch’io, contemporaneamente, un accenno di pensiero provenire da mia figlia. Quello che era un primario input di movimento.

Portai una mano accanto a quella di mia moglie, sulla pancia. Confrontai questo semplicissimo pensiero con quello del sogno. Il primo era un basilare e semplice impulso, che raramente avvertivo nei pensieri di altri esseri, mischiato ad altri molto più complessi pensieri. Quelli che sembravano costituire ciò che avevo avvertito durante il sogno. Decisamente, sembravano due cose molto differenti.

Percepii un movimento ai bordi del mio campo visivo e il colore di una piccola mano sulla guancia. La strinsi a me, sollevandomi in piedi e tenendo il suo corpo fra le braccia. «Andiamo da Carlisle. Ci aspettano».

Feci rapidamente tre passi, poi mi bloccai, osservando il suo viso. Sembrava stanca e provata. «Te la senti?» chiesi osservandola «possono venire qui, se vuoi». Non volevo che mi mentisse sulle sue condizioni, ed era difficile controllare la mia parte apprensiva.

Sussultò, stranita. «Sono sicura di farcela» fece convinta, poi sorrise «e poi… Alice era tanto contenta di festeggiare i cinque mesi». Sembrava sincera, anche perché non sarebbe mai stata capace di mentire adeguatamente, così decisi di fidarmi.

Impiegai molto meno tempo di lei a cambiarmi, e ne approfittai per sistemare ogni cosa al piano superiore e pulire i cocci rotti degli oggetti che mi aveva lanciato addosso. Notai il gelato, già mezzo sciolto, sul tavolo, e sorrisi, sistemando tutto.

Ora che l’opprimente inquietudine di dover mentire a mia moglie mi aveva abbandonato, rimaneva quella dettata dall’ignota causa del malessere della bambina e suo.

«Edward» il gemito stizzito di Bella mi costrinse a correre da lei. La ritrovai incantevolmente vestita di un abito di velluto blu, un paio di calze pesanti avorio a fasciare le sue gambe snelle. «Aiutami» sbottò innervosita, saltellando e tentando di afferrare il gancetto della cerniera che chiudeva l’abito lungo la schiena.

«Aspetta» mormorai delicato, intrappolando nelle mie le sue mani frenetiche. Non appena le lasciai andare fece con le mani una coda dei suoi lunghissimi capelli, facendo arrivare una folata del suo profumo meraviglioso direttamente alle mie narici. Sollevai con facilità la zip, e le sfilai i capelli dalla mano, facendoli ricadere morbidi lungo la schiena. Sorrisi, poggiando il mento sulla sua spalla e le mani sulla piccola pancia. Era molto magra nel complesso, me ne accorgevo dalle braccia e dalle gambe sottili, oltre che dal viso magro. Aveva acquisito un discreto volume sui glutei e sul seno, che la rendevano ancora più desiderabile del solito. Il pancione non era eccessivo, anzi, leggermente piccolo per la sua età gestazionale. Il secondo trimestre l’aveva resa una piccola, tenera, incantevole dea della fertilità.

«L’ho messo per Alice» borbottò arrossendo «il vestito. Sarà meno arrabbiata per il nostro ritardo» i suoi occhi incontrarono i miei e le mani corsero sul ventre, accanto alle mie.

Capii che voleva iniziare un altro genere di discorso, riferito a ciò che di più caro avevamo al mondo, lo vedevo dallo sguardo adorante con cui parlava di ciò che era rinchiuso dentro sé. «Voglio che sia tranquilla e che non corra alcun rischio, anche se ora so che non soffre. Lo so che per un po’ non potremmo più…» arrossì «stare insieme. Ma l’importate è saperlo. Lo sopporterò per lei».

«Certo amore, sì» asserii, comprendendo ancora una volta quanto dovesse essere stato doloroso tutto quello per lei. «Ti prego di perdonarmi. Per tutte le volte che ti ho mentito» supplicai afflitto, sapendo al contempo di non meritare il suo perdono.

«Non importa» si affettò ad aggiungere, ansiosa. «Ma d’ora in poi mi dirai la verità Edward, vero?» chiese voltandosi e prendendomi il viso fra le mani.

«Te lo giuro» affermai sincero. «Te lo giuro» ripetei, avvicinandomi a baciandole la fronte rosea e vellutata.

Durante il percorso in auto fu piuttosto silenziosa. «Edward» mi chiamò ad un certo punto. Sentire il mio nome sulle sue labbra era sempre una maraviglia. Mi inchiodò con il suo sguardo dolce. «Ci hai ripensato riguardo alla questione del… del pianoforte, delle esibizioni?» chiese titubante.

Sospirai, tentando di non dimostrare la mia irritazione. Non che il pensiero di suonare non mi allettasse, ma non mi attraeva particolarmente esibirmi davanti ad una platea di umani. E decisamente non mi sarebbe piaciuto separarmi da mia moglie. Decisi di rimanere calmo. In fondo, potevo ancora temporeggiare per molto. «Conosci le mie motivazioni».

«Sì, ma…» riprese, come se avesse trovato qualcosa che potesse persuadermi «pensa a quanto sarei contenta vedendoti suonare all’opera, in smoking nero, con tutto il tuo splendore. Applaudirti insieme al pubblico» tratteggiò il ritratto incantevole, contemplandolo e tentando di convincermi «e poi, pensa ai miei. Dovrò pur dirgli che il loro genero si sta cimentando in qualcosa, no?».

Scossi il capo, con un sorriso divertito, pur riconoscendo la giustificazione delle sue parole.

Lei sospirò, lasciandosi andare con la schiena sul sedile e voltandosi verso il finestrino. Era per quello che era rimasta taciturna? Per congeniare un piano per incastrarmi? Avevo ragione a pensare che fosse intelligente, considerando che ogni suo attacco si faceva più marcato.

«Pensa» sussurrò a bassa voce «pensa a quanto ne sarebbe orgogliosa tua figlia».

Sentii un fremito di piacere a quel pensiero, eppure non mi concessi di pensarci troppo a lungo.  Due secondi dopo feci per contraddirla in qualche modo, ma capii che non sarebbe stato necessario quando la sentii respirare lentamente nel sonno. Evidentemente il silenzio, oltre che alla riflessione, era dovuto alla stanchezza. Molto probabilmente la crisi di poco prima le aveva portato via molte energie.

Accesi il riscaldamento, considerando che era addormentata e che non avrebbe potuto lamentarsi del caldo, come faceva di solito. Ancora non riuscivo a capire come non si ammalasse mai, pur stando così tanto tempo a contatto con il freddo, da lei tanto amato. Scossi la testa, sorridendo. Poi la osservai, distesa sul sedile, per nulla offuscata ai miei sensi dall’oscurità della sera.

Immediatamente le immagini di tre giorni fa riaffiorarono nella mia vivida memoria.

 

Avevo seguito con attenzione i suoi movimenti finché la mia mente non era stata occupata dai pensieri altrui. Come al solito avevo tentato di scacciare quelle congetture che riuscivano a causarmi solo dolore e di non dimostrare la mia lotta interiore. Proprio in quell’istante mi ero reso conto che qualcosa non andasse in Bella.

«Bella? Amore?» l’avevo chiamata, tentando di farla voltare verso di me, sentendo il suo cuore battere veloce nel petto e il respiro farsi sempre più corto. Il terribile sospetto si era già insinuato in me. «Ti senti male? Bella?», quando il suo volto fu davanti al mio ne ottenni la conferma. I suoi occhi erano neri.

«Dannazione» avevo imprecato fra i denti, sentendomi incredibilmente morire all’idea di quello che stava accadendo. Era sveglia, accidenti! «Bella, Bella, sono qui, mi senti?» avevo chiesto frenetico, stringendola a me con un braccio, appena aveva iniziato a rantolare.

Quello andava ben oltre ciò che avrei potuto accettare. Ben oltre ciò che la mia mente vampira potesse contenere.

Mi accorsi dell’auto solo quando ci fu quasi addosso.

 

Guardai il viso di mia moglie disteso nel sonno. Eravamo arrivati, ma non sarei riuscito a svegliarla, non ancora, non quando dormiva così dolcemente. Non quando le gote le si imporporavano di un lieve e profumato rosato ad ogni respiro, ritmato dal movimento delle sue piccole e sbilanciate labbra umide.

Negli ultimi tempi era stata molto in ansia, e non potevo far finta di credere che non fosse stato a causa mia. Ero pentito di averle nascosto la verità, di avergliela rivelata in maniera così brutale… Sospirai. Lei era stata un angelo, invece. Un angelo che non meritavo.

 

Carlisle aveva immediatamente notato il suo stato di forte tensione, non appena l’avevo portata da lui per avere la conferma che fosse avvenuto quello che immaginavo, e che sia Bella che la bambina stessero bene.

«Edward, voglio controllare» aveva pensato, e mi ero spaventato ancor di più avvertendo il tono teso persino nella sua voce «tutto questo le sta causando molto stress, e ho paura che l’andamento della gravidanza possa risentirne. Voglio anticipare la visita».

Dentro di me era nata una nuova, forte, tensione. Avrei voluto sapere come stesse, ma avevo anche bisogno di parlare con Carlisle, solo, per valutare l’evolversi della tragica situazione. Mi si era spezzato il cuore quando avevo dovuto lasciarla sola, e avevo sperato con tutte e forze che la bambina colmasse un po’ di quel vuoto.

«Edward» mi aveva rimproverato mio padre con tono deciso «non puoi tenerle ancora nascosta la verità, ne sta soffrendo molto. Più di quanto ne soffrirebbe se la conoscesse», poi aveva aggiunto, in tono più mite «devi dirglielo figliolo, per il vostro bene».

«Lo so» avevo mormorato.

 

Scesi velocemente dall’auto, ritrovandomi in un diciottesimo di secondo davanti alla portiera destra. L’aprii senza far rumore e slacciai piano la cintura di sicurezza, attento a non svegliarla. Valutai la differenza di temperatura con l’ambiente esterno e decisi di prendere una delle coperte che stavano sul sedile posteriore, sollevandola fra le braccia e avvolgendola completamente dentro.

Strinsi con una mano la sua testa sulla mia spalla, chiudendo con facilità la portiera e avviandomi verso il vialetto, beandomi del tepore del suo corpo sul mio, rassicurante. Sentivo già i pensieri dei miei familiari, piuttosto distinti fra loro, tutti trepidanti del nostro arrivo.

Avvertivo ancora molta tensione, considerando che stavo per rivelare qualcosa di sconcertante alle persone a me care. Ma lo scoglio più difficile era stato superato, ora Bella sapeva tutto, e non c’era nulla che potessi temere così tanto.

La sentii mugugnare qualcosa, e la sua mano strinse il mio maglione. «Edward» biascicò, aprendo gli occhi «ho caldo…». Sbatté le palpebre, guardandosi intorno per quando riuscisse con l’impedimento della coperta. «Dove siamo?».

Capii che una risposta non era necessaria quando mise a fuoco il portone della casa.

«Fammi scendere» sussurrò solo.

«Sei sicura?».

Annuì e subito l’accontentai, mettendole una mano sulla vita. Si stropicciò gli occhi, sbadigliò, e mi sorrise, con gli occhi lucidi.

Sorrisi anch’io, baciandole la fronte.

«Edward, Bella» ci salutò Esme, venendo ad aprirci alla porta. «Entra cara, fuori fa freddo».

Prima ancora delle parole, mi giunsero i pensieri infuriati di Alice. «Traditori! Avete fatto un ritardo terribile!» ci additò, correndo a sedersi accanto a suo marito, sull’ultimo gradino delle scale. Eppure, nella sua mente, vorticava anche la preoccupazione. Aveva intuito, grazie alle sue visioni incomplete, che fosse accaduto qualcosa di strano.

«Mi dispiace, scusa. Non era nostra intenzione» sussurrò Bella, posando la testa sul mio fianco, non appena Emmett smise di divertirsi con la sua pancia.

Carlisle si mise in piedi, facendo passare lo sguardo da me a lei. «È successo ancora?» pensò, osservando allarmato il pallore sul volto di mia moglie, decisamente marcato per l’attenzione di un vampiro, soprattutto per un medico.

Esitai, incerto su come rispondere, e fu allora che notai gli occhi attenti di mia moglie su di me. «Edward, posso…» avvicinò la sua mano alla mia in un gesto inequivocabile, così intrecciai le dita. «Posso raccontarlo io se vuoi».

Mentre tutti i vampiri prestavano attenzione alle parole di Bella, curiosi, Carlisle la fissò sorpreso, poi capì. «Ben fatto, figliolo» pensò soddisfatto.

Lasciai che cominciasse a spiegare a tutti, mentre la guardavo, orgoglioso della sua determinazione. Riuscii man mano ad inserirmi nel discorso e a prendere in mano la situazione. Vedevo le facce sgomente della mia famiglia, leggevo, addirittura, i loro pensieri, ma continuavo a raccontare, perché sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché Bella era lì, seduta accanto a me, a sostenermi.

«Ma vuol dire che la bambina riesce a influenzare Bella in questo modo? E cosa c’entra Jacob? E perché soffre?».

«Rosalie, tempera la tua audacia» rispose Carlisle «credo che queste domande siano ancora irrisolte anche per loro».

«Non è proprio così Carlisle. In realtà sappiamo più di quanto tu non sappia già» i suoi occhi si spostarono su di me e si chiusero in due fessure, curiosi, così come i suoi pensieri. «Tutto è cambiato, dopo che Bella è riuscita a sentirla» dissi soddisfatto, accarezzandole la pancia.

Sentii un attimo di vuoto nella mente di Rosalie. «L’hai sentita muoversi?» chiese a Bella.

Lei mi lanciò un’occhiata, stringendosi a me e arrossendo. «Beh, in realtà l’abbiamo sentita. Anche Edward» gli occhi e i pensieri di tutti si spostarono su di me «lui ha sentito i suoi pensieri».

«Oh ma è meraviglioso!» esclamò Esme adorante, abbracciandola. Poi si ritirò, guardandoci addolorata. «Ma ragazzi, cosa intendete fare ora con il problema della bambina e…» assottigliò lo sguardo su di me, pensando a come e perché avessi deciso di rivelare a Bella la cosa dopo tanto silenzio, considerando che avevo omesso la nostra piccola discussione, «è questo che ci tenevi nascosto?» il suo viso saettò inevitabilmente verso suo marito. Leggevo nei suoi pensieri che aveva chiaramente intuito quanto fosse coinvolto.

Lui stesso le prese una mano fra le sue, stringendola, e si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole qualcosa. Distolsi l’attenzione per qualche istante, attento a non invadere la loro privacy.

Jasper stava tentando disperatamente di trovare un collegamento, nelle nostre parole, fra i movimenti della bambina e i suoi sogni.

«Bella ha avuto un interessante intuizione» dissi, rispondendo ai suoi pensieri e facendo nuovamente tornare l’attenzione di tutti su di me. «Sono riuscito a leggere i pensieri della bambina durante uno dei sogni».

«Oh… oh… che cosa interessante!» esclamò Alice, leggendo nell’immediato futuro.

«Già, lo è» mormorò Bella, accarezzandosi la pancia «non è fantastico che pensi a queste cose? E poi, Edward dice che non soffre» aggiunse concitata, fissando i miei occhi per cercare la verità, «che non sono pensieri tristi. Così… così va bene» disse annuendo a sé stessa «possiamo capire tutto con calma» sentii la sua voce vibrare in punti strani.

Presi il suo viso fra le mie mani e lo strinsi, tentando di comprenderla. «Ma… soffri tu» dissi piano, sollevando un sopracciglio.

Sussultò distogliendo lo sguardo, lievemente attraversato da una patina lucida. «Non importa visto che non ricordo nulla» disse velocemente, mordendosi il labbro, nervosa.

Feci per rispondere, ma fui interrotto dalla pressante curiosità degli altri. «Cosa hai sentito?» chiese Rosalie.

Sospirai, accingendomi a raccontare ogni cosa come già avevo fatto con Bella. Tutti iniziarono a ipotizzare possibili spiegazioni, ma neppure una riusciva a convincermi. Lei stava sostanzialmente in silenzio, probabilmente ancora molto stanca.

«Ma i sogni non potrebbero semplicemente appartenere alla bambina e alla sua natura?  In fondo il nome pronunciato da Bella potrebbe dipendere unicamente da lei e dalle emozioni che sente» propose Alice.

«In effetti, abbiamo già notato un processo simile tempo fa, quando la bambina irruppe nei suoi pensieri, no?» rimarcò Rosalie.

Jasper annuì. «È vero, la bambina sfrutta le emozioni di Bella in maniera singolare!».

Tutti, dopo aver appreso la notizia, si stavano dando da fare per scoprire la verità. Avevo letto nei loro pensieri un certo rimprovero nei miei confronti, più che per non aver rivelato la verità a loro, per non averlo fatto a Bella. Subito dopo avevo letto la comprensione, l’immedesimazione, nel caso che una cosa del genere fosse avvenuta al loro rispettivo compagno; infine il senso di colpa per non aver capito tutto prima.

«Pensate che non possa più stare in pubblico, insomma, se le accadesse mentre è fra gli umani?» continuò Jasper.

Bella, accanto a me, sussultò, stropicciandosi gli occhi e riprendendosi dal torpore.

«È un’ipotesi a cui abbiamo pensato, con Edward in queste settimane» intervenne Carlisle «ritengo che Bella, ora che sa quello che potrebbe accadere, sarà molto più vigile. Inoltre, penso che dipenda anche in larga parte dalla vicinanza di Edward, quindi non penso che sia necessario. Possiamo sempre prendere una decisone in base a quello che succederà, ma tenerla segregata potrebbe peggiorare il suo stato emotivo al punto da rendere queste crisi più gravi e frequenti».

Bella gli sorrise, timida e grata, accovacciandosi nuovamente contro di me, assonnata.

«Edward, forse è davvero arrivato il momento di riprendere gli antidepressivi» pensò Rosalie preoccupata, guardando Bella, «potrebbero aiutarla».

Lei si accorse del suo sguardo e di come io la fissavo di rimando. Non disse nulla, si voltò, addolorata. Aveva capito che stavamo parlando di lei e non voleva entrare in quella conversazione silenziosa.

«Tesoro» la chiamai dolcemente.

Battè le palpebre, frastornata, voltandosi lentamente verso di me. Avrebbe ascoltato e forse accettato qualunque cosa le avrei chiesto. Mi aveva promesso che se ce ne fosse stato nuovamente bisogno avrebbe ricominciato a prendere i farmaci. I suoi occhi assonnati ma luminosi e attenti mi fissavano, aspettando che parlassi. Chinò il capo di lato, studiandomi. La sua mente era muta e avrei dato tutto me stesso per capire cosa stesse pensando. Dovevo parlare, prima che le sue ipotesi la conducessero a della conclusioni sbagliate.

«Rosalie pensava» iniziai molto cautamente, piano «che potrebbe essere un’idea quella di riprendere la tua terapia anti-depressiva».

Non riuscì a trattenere un sussulto, e ai bordi delle ciglia si addensarono delle minuscole goccioline. Però annuì, quieta, senza distogliere lo sguardo da me.

Sospirai. Gli antidepressivi la facevano stare piuttosto bene, avevamo trovato un dosaggio ottimale per lei. Le toglievano un po’ di appetito e a volte la facevano dormire un po’ troppo. Lei diceva di sentirsi rallentata, ma tutto sommato per gli effetti benefici che le davano erano ottimi per lei. Ma lo stato mentale in cui si metteva all’idea di aver bisogno di un aiuto farmacologico per stare meglio era per lei deprimente. Sentiva come di aver fallito.

Rosalie si fece avanti, sorpresa che avessi voluto dirglielo. «Potrebbero aiutarti a controllare le manifestazioni che ti danno queste crisi».

Annuì, non riuscendo a mascherare la sua tristezza. Mi fissò di sottecchi, cercando di farsi forza. Sapevo anche senza leggerle i pensieri che non si stava preoccupando per lei. Non voleva che io la vedessi durante le crisi. «Va bene, lo farò» acconsentì mestamente, con un minuscolo forzato sorriso sulle labbra.

Scossi il capo, stringendola a me. Non volevo che lo facesse per quella motivazione.

«Se posso» intervenne Jasper «penso che il tono dell’umore e la stabilizzazione emotiva di Bella siano molto migliorate nell’ultimo mese. Sta andando molto meglio con gli esercizi. Dobbiamo ancora lavorare molto dal punto di vista dell’ansia e del panico» aggiunse senza mezzi termini, con la schietta sincerità da cui era caratterizzato «ma personalmente penso di poter continuare a gestire la cosa. Non l’hai riscontrato anche tu?» domandò a Rosalie.

Annuì. «È come ha detto lui. Sono l’ansia e il panico che mi preoccupano, però. Possiamo ancora aspettare. So che lei pensa che sia un fallimento riprendere la farmacoterapia» aggiunse nei suoi pensieri, poi sorrise a Bella «Ci lavoreremo ancora. Non iniziamo subito, ma non scartiamo nessuna delle ipotesi, va bene?».

Ma mia moglie non rispose. Si voltò verso di me, ansiosa, come se avesse bisogno del mio permesso.

Le carezzai i capelli e le sorrisi, cercando di infonderle coraggio. «Penso che aspettare ancora sia la scelta più saggia».

Prese un minuscolo respiro, abbracciandomi e lasciandosi andare con il capo, stanca, contro il mio petto.

La carezzai, sentendo il ritmo del suo cuore rallentare pian piano fino a calmarsi.

«Edward, le porto qualcosa da mangiare, non va bene che salti la cena… preferisci la sala da pranzo?» i pensieri di Esme mi distolsero dalle loro congetture.

Mi voltai verso mia moglie, sistemandole una ciocca ribelle di capelli. «Ti va di mangiare?».

Sospirò, stringendo in un pugno il vestito sull’ombelico.

Fu come una scintilla accesa in una camera a gas. Mi girai di scatto verso Esme quando i suoi pensieri mi arrivarono veloci come flash, tutti riferiti a tre giorni prima. «Esme ti prego, non ho fame… Lo so che devo mangiare, ma non mi va… Per la bambina, sì… - un singhiozzo, un’altra stanza, quella di Esme e Carlisle - Edward non mi vuole più… Non so cosa fare… È così… Non è vero che mi ama ancora, non sono capace di aiutarlo… - parole annaspate fra le lacrime e gli ansiti, occhi tristi e spenti» sentii una morsa stringermi lo stomaco e un bruciore, molto più forte di quello della sete, pervadermi la gola.

Esme sussultò, rendendosi conto del suo piccolo errore «No, no, ti prego! Non dire nulla a Edward, no… Non potrei sopportare di vederlo soffrire a causa mia…». Mia madre scosse la testa, correndo via e tentando di cancellare i suoi pensieri «Mi dispiace» mormorò afflitta.

Era accaduto tutto così velocemente che Bella non aveva avuto il tempo di accorgersi di nulla. Per quanto già sapessi del dolore che le avevo causato mantenendo il silenzio, non mi sarei mai aspettato che fosse arrivato a quei livelli. Ero sbigottito, ancora non riuscivo a riprendermi dall’angoscia.

«Sì, mangio. O penso che mi addormenterò da un secondo all’altro» scherzò debolmente, sollevando il viso dalla pancia. Rabbrividì quando vide i miei occhi. Guardai la mia espressione attraverso i pensieri dei miei familiari e ci vidi tanta tristezza.

Mi imposi un respiro e mi sollevai cauto, porgendole una mano per aiutare a fare lo stesso. L’afferrò, tremante, continuando a guardarmi. La condussi fino in sala da pranzo e mi sedetti su una sedia, facendola sistemare su di me.

Intrecciai le mie dita nei suoi capelli e tirai la sua testa verso di me, inspirando il suo odore dissetante. Lei rimaneva in silenzio, tremante, e dovetti parlare quando mi accorsi che la stavo spaventando.

«Bella» cominciai piano, addolorato «penso di meritare ben più insulti di quanti ne sappia io stesso formulare. Sono stato un terribile idiota. Uno sciagurato. Un empio. Meschino, misero, disgraziato…».

«Edward» mi richiamò sorpresa «non dire così, te ne prego. Sei quanto di più bello c’è nel mio mondo».

Scossi il capo, sorridendo amaramente. «Ti ho fatto del male. Ti ho nascosto tutto, per tutto questo tempo».

«Non mi va che ci pensi ancora, Edward» mi fissò, e nei suoi occhi vidi ancora dolore, eco del mio. Prese un respiro corto fra le piccole labbra. «Dimmi che non ci penserai più, è tutto passato ora, ti prego».

Valutai nuovamente la situazione, con calma, scrutando i suoi occhi. Esternando il mio pentimento la stavo facendo ancora soffrire. E non era, di certo, quello che volevo. Ma come avevo fatto ad essere così… così… Chiusi gli occhi, facendo toccare la mia fronte con la sua, pensando che non potevo più far nulla per correggere i miei errori. Sarei vissuto con il rimorso per l’eternità, probabilmente. Ma almeno, ora, dovevo tentare di non farne di nuovi. «Ti amo» mormorai solo.

Lei fremette, e finalmente capii di aver fatto la cosa giusta, per una volta. Quanto avesse bisogno di nuove certezze, di sentire ancora forte il mio amore. «Me lo puoi dire ancora?» chiese, come se stesse confessando un delitto.

«Ti amo» dissi semplicemente, aprendo gli occhi e guardandola.

Si avvicinò, lasciando un bacio sulle mie labbra. «Ti amo anch’io».

Pensai che sarebbe stato inutile continuare a discutere di quello che era stato. Volevo d’ora in poi aiutarla a costruire nuove certezze, farla sentire amata, protetta, desiderata. Bella e splendente, proprio come appariva ai miei occhi. Una dea. «Sei bellissima» sussurrai, osservando lo scintillio brillare nei suoi occhi vispi. «Bellissima, intelligente, amorevole. Delicata… così preziosa» sorrisi, infondendole tutto il mio amore.

Arrossì, aprendo le labbra ma non emettendo alcun suono.

La baciai piano, sentendo il suo cuore aumentare di battiti. Sentii che la bambina si era mossa e sorrisi sulle sue labbra, e lo stesso fece lei.

L’amavo, oh, se l’amavo.

In quel momento i pensieri di Alice si fecero incredibilmente bui. Due secondi più tardi il telefono squillò.

   
 
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