Edward
La strinsi più forte a
me, in un disperato quanto
inutile tentativo di proteggerla da quello che presto sarebbe arrivato.
La liberai dal mio abbraccio fin
troppo stretto non
appena le sue palpebre tremolarono verso il basso e i suoi occhi si
rovesciarono
all’indietro. Mi ero già pentito di tutto. Le
baciai piano le labbra, serrando
le palpebre e aspettando.
Non potevo più tirarmi
indietro, in quell’istante
dovevo fare ciò che era meglio per lei. Ciò che
era meglio per la bambina. Ciò
che avevamo deciso di fare, nonostante le conseguenze delle nostre
azioni.
Il suo cuore iniziò ad
accelerare il suo ritmo,
proprio mentre sentivo il respiro farsi più affrettato e il
sangue nelle sue
vene pulsare contro la mia pelle immobile. Aprii gli occhi e la vidi. I
suoi
occhi neri, sbarrati, fissavano il vuoto, le pupille completamente
spalancate.
Sentii una fitta, troppo familiare
ormai, al cuore. Dovevo
stare calmo, rimanere concentrato e tentare di ascoltare i pensieri
della
bambina, altrimenti ogni cosa sarebbe stata inutile.
Rantolò e mentre si
tendeva come una corda di violino
la sua schiena si sollevò dal materasso. La strinsi fra le
braccia, disperato,
tentando di tenerla ferma. Un sibilo le uscì dalle labbra
ceree, dello stesso
pallido colore grigiastro del viso, già imperlato da una
miriade di piccole
gocce di sudore.
«Bella… Bella,
amore, sono qui…». Malgrado la mia
testa avesse uno spazio immenso dove far scorrere i pensieri, ora
c’era solo
lei, e non riuscii ad impedire alle parole soffocate di uscire dalla
mia gola.
Serrai gli occhi, abbandonando la
testa sul suo petto,
stringendola ed evitando che si dibattesse. La facilità con
un la immobilizzavo
mi faceva male. Pensavo quanto fosse fragile e vulnerabile.
Dovevo concentrarmi. Glielo dovevo.
Abbassai il capo sul suo ventre,
fino a percepire con
estrema chiarezza il battito costante della nostra bambina
addormentata. Rimasi
immobile, come solo un vampiro poteva fare, e nonostante le urla di mia
moglie
mi stessero penetrando senza remore imponevo al mio essere di portare
avanti il
mio compito.
«Jacob…»
un rantolo sputato fra i denti «Jacob!».
Sentivo che la crisi era quasi
all’apice e ancora non
avevo sentito nulla. Come previsto, ogni cosa sarebbe stata vana. Tutto
quel
dolore, inutile.
Ruppi la mia statuarietà,
sollevando il capo e fissando addolorato di mia moglie.
«Bella, amore mio, sono
qui. Sono qui Bella» la chiamai disperato, conscio del fatto
che non mi avrebbe
ascoltato. Come
potevo aver acconsentito
a quello scempio? Come potevo io stesso esserne stato fautore?
Abbassai nuovamente il viso sul suo
ventre pieno,
sentendo il mio corpo marmoreo scosso da pesanti singulti.
«Basta amore. Basta,
basta». La baciai, proprio
dove la
sua pelle era più fredda e chiara appena sotto la
superficie. «Basta».
In un attimo, come una stoccata, i
miei pensieri
furono attraversati da una cometa bianca. Ansimai, osservando mia
moglie. Si
stava agitando, anche più violentemente di prima, mordendo
l’aria davanti al
viso.
Ancora una volta. Bianco.
Chiusi gli occhi, tentando di
concentrarmi. E fu
allora che lo vidi, attingendo direttamente ai pensieri della bambina.
Vagavo,
fluttuando in uno sfondo completamente bianco. Quello che mi sorprese
fu che
avvertivo il mio corpo come una massa perfettamente incorporea. Cercai
di
registrare tutti i dettagli, e fu così che mi accorsi di
quello che sentivo.
Ricerca. Stavo cercando qualcosa. Cercavo disperatamente e velocemente
qualcosa.
Ma cosa? I pensieri della bambina
non erano così forti
da permettermi di comprenderlo, e avevo paura che tutto sarebbe finito
troppo
presto.
Ancora,
sentii un altro desiderio. Dovevo avvicinarmi… Dovevo andare
più vicino in modo
da poter…
Tutto scivolò via, e
tentare di riprendere quei
pensieri sarebbe stato come tentare di afferrare l’acqua.
Impossibile anche per
me.
Sollevai gli occhi sul viso di mia
moglie, proprio
mentre lei chiudeva i suoi. Mi sollevai, andandole accanto e
abbracciandola,
accarezzandole il viso mentre il sangue, spinto forzatamente dal suo
cuore,
tornava prepotente sulle sue guance lasciandole un innaturale contrasto
con le
labbra, ancora bianche.
Tentai di concentrarmi sul calore
irradiato dal suo
piccolo corpicino, rannicchiato fra le mie braccia, per calmarmi io
stesso e
dare una priorità a tutta la miriade di pensieri confusi che
mi occupavano la
mente.
«E-Ed…ward…»
farfugliò poco
coerentemente fra gli ansiti. Solo grazie al mio udito
riuscì a comprendere il
mio nome.
Le baciai la fronte umida,
inspirando il suo forte
odore. «Sono qui amore, sono qui».
Sbatté le palpebre
velocemente e poi lo fece ancora,
con maggiore lentezza. Vidi immediatamente i suoi occhi marrone fuso e
tutte le
pagliuzze imperfette della sua iride, mentre mi guardava spaesata. Mi
rasserenai.
Portò in un gesto
automatico la mano, tremante, al
petto, tentando di arrestare la sua folle corsa. Sentii il suo cuore
rallentare
il ritmo con tonfi sordi e umidi.
Le accarezzai il viso, scostandole
i capelli che erano
rimasti incollati alla fronte, con la mano che non era impegnata a
stringerla
forte contro la mia pelle nuda, come la sua.
Le lasciai tutto il tempo di fare
mente locale. Notai
persino la sua tenera espressione imbronciata, e quasi non mi
sfuggì un sorriso
sulle labbra. Peccato che l’impulso fu troppo debole fra i
pressanti pensieri
per riuscire a farlo realmente.
Tremò, e si strinse
più forte a me in cerca di un
calore che non potevo darle. Mi sollevai di poco, tenendola fra le mie
braccia,
e tirai via le coperte dal letto, avvolgendola nel piumone caldo. Mi
sedetti
sul letto e la portai sulle mie gambe, abbracciandola.
Mi fissò, disorientata
dalla velocità dei miei
movimenti. Poi fece una smorfia, comprendendo ogni cosa. Questa volta
non
riuscii a rattenere il leggero ghigno. Anche lei, come me, avrebbe
voluto
rimanere a contatto col mio corpo. Peccato che per lungo tempo ci
sarebbe stato
ancora precluso.
«Edward» la sua
voce tremante permise a larga parte
della mia mente di concentrarmi su di lei. Si schiarii la gola, in un
vano
tentativo di apparire meno provata. «Sei
riuscito…?». Lasciò cadere la domanda,
certa che avrei compreso.
Ma la parte di me che molto spesso
emergeva, e che
desiderava in ogni modo proteggerla ebbe la meglio. «Stai
bene?» chiesi osservando
il suo incarnato pallido e tutti i segni di pronunciata astenia.
Le sue labbra si contrassero in una
posa stizzita. Non
amava che le facessi quel genere di domande, ma le trovavo di vitale
importanza. Accertarmi del suo benessere, della sua salute, rientrava
nel mio
istinto di auto-conservazione. Perché la sua vita era la
mia, e se non ci fosse
stata lei, non ci sarei potuto essere neppure io.
Eppure mi rendevo conto che per lei
era importante
conoscere la verità, era importante sentire come mi fidassi
di lei, come la
considerassi tanto acuta e intelligente da poter comprendere,
così le rivelai
quello che ero riuscito a leggere, tentando di essere il più
possibile
delicato.
Per tutto quel tempo avevo tentato
di proteggere la
sua fragile esistenza umana. Avevo cercato di evitarle ogni forma di
ansia o
stress. Carlisle, durante il primo trimestre di gravidanza, mi aveva
chiaramente detto che Bella era uno dei pazienti più
sensibili ed emotivi che
avesse mai avuto e che dovevo fare molta attenzione in questo
particolare
periodo, soprattutto per la natura ignota del feto. Ma poi era stato
lui stesso
a consigliarmi, anzi, ordinarmi, di rivelarle tutto. Proprio quando
ciò che
stavo cercando di evitarle la stava opprimendo.
«Tu…
hai… idea di quello che possa significare?»
chiese debolmente, arrancando con le braccia fra la coperta,
infastidita
dall’eccessivo calore.
Soffiai leggermente fra i suoi
capelli il mio fiato
freddo. Al contrario di quanto mi sarei aspettato, non avevo trovato
nulla nei
suoi pensieri che mi riportasse al terrore, all’angoscia,
alla paura che mi
aspettavo di trovarci. C’erano sensazioni intense, forti, ma
nulla di tutto
quello.
Dopo qualche secondo parlai.
«No, ci stavo pensando.
Ma l’unica conclusione a cui mi sembra di arrivare
è che la bambina non soffre,
sta sostanzialmente bene. Il resto mi rimane oscuro» mi
costrinsi a sorridere e
aggiunsi a suo beneficio, con la massima sincerità
«sono certo che con la tua
perspicacia arriverai alla verità molto prima di
me».
Lei abbassò lo sguardo,
distogliendolo da me.
Il suo gesto mi ferì,
facendomi comprendere quanto
l’avessi fatta soffrire, calpestando il suo orgoglio.
«Mi aspetto cose
eccezionali da te, amore. So che saprai sorprendermi, ne sono
certo» dissi, col
mo miglior tono persuasivo.
Si portò, piano,
entrambe le mani al ventre
arrotondato. Poi si voltò, fino a immergere il viso sul mio
petto. Aprì bocca,
come se volesse parlare, poi la richiuse. Aspettai paziente che dicesse
qualcosa, e quando pensai che non avrebbe più parlato mi
preparai a farlo io.
«Davvero?»
chiese piano, interrompendo le mie parole
sul nascere. «Davvero hai questa alta considerazione di
me?».
Chiusi gli occhi, dandomi mille
volte dell’idiota per
aver minato, per tutto quel tempo, la sua fragile insicurezza.
«Sai» cominciai,
modulando il mio tono in modo tranquillo e sicuro «non puoi
immaginare come mi
senta sollevato, ora che conosci tutta la verità.
Ovviamente» precisai «avrei
voluto che lo venissi a sapere in modo più…
tranquillo. Ma… nascondertelo… per
tutto questo tempo, è stato orribile» confessai
amareggiato.
Ripensai a poche ore prima, a
quando tutto l’universo
sembrava stesse per crollarmi addosso. Pensavo impossibile che tutto lo
spazio
infinito della mia mente fosse occupato da un solo pensiero, eppure era
stato
così, sempre più, per ben due mesi. Mi ero
paradossalmente sentito invecchiare,
corrompere dal tempo e dal male. Ero stato costretto a fingere, creare
infinite
maschere, che si assottigliavano man mano che lo spazio diminuiva,
evidenziando
agli occhi di mia moglie il mio tormento.
«Bella» dissi
carezzevole, convinto «tu sei stata la
prima, la sola, ad accorgerti che qualcosa non andasse in me. Neppure
Esme, o
Jasper, o ancora di più, Alice, sono riusciti a notarlo.
Questo dimostra quanto
tu sia perspicace» la fissai adorante, mentre i suoi occhi
ricambiavano
sorpresi il mio sguardo. «Sei stata una moglie
perfetta».
Mi avvicinai, posando le labbra
sulle sue, piano,
modellando il morbido contorno della sua bocca, «Davvero,
davvero perfetta»
mormorai roco, facendola arrossire.
Sorrisi, tentando di trovare
qualcosa che
l’allontanasse da quegli assurdi ed erronei pensieri.
«Anche quando mi tiravi
dietro le cose» feci divertito.
Si ricosse, e subito il sangue le
imporporò le guance.
«Oh, mi dispiace. L’ho già detto che mi
dispiace tanto? Mi dispiace Edward»
fece una pausa tra il fiume di parole «ti… sei
fatto male?» chiese,
torturandosi con i denti il labbro inferiore.
Scoppiai in una risata allegra e
ben presto anche la
sua, dolce e meravigliosamente imperfetta, mi raggiunse.
«Sul serio, mi dispiace
per aver urlato così» aggiunge
mortificata, accarezzando concentrata un lembo della mia pelle.
«Non so che mi
è preso» disse arrossendo.
Rabbrividii e i suoi occhi
tornarono nei miei. Le
accarezzai una guancia, ripensando a quando, mentre urlava, si era
macchiata di
vampate rosso sangue, insieme all’arteria sulla sua tempia
che non smetteva di
pulsare, insistente. «Non ti dovrei scusare per questo. Mi
hai fatto
preoccupare, non oso immaginare a che livelli possa essere salita la
tua
pressione e avevo il terrore che ti sentissi male da un secondo
all’altro».
Sorrise furba.
«Però Alice aveva ragione, quando ti
arrabbi dici sempre la verit…
Oh» esclamò d’un
tratto, sussultando e portandosi una mano alla pancia. Sentii
anch’io,
contemporaneamente, un accenno di pensiero provenire da mia figlia.
Quello che
era un primario input di movimento.
Portai una mano accanto a quella di
mia moglie, sulla pancia.
Confrontai questo semplicissimo pensiero con quello del sogno. Il primo
era un
basilare e semplice impulso, che raramente avvertivo nei pensieri di
altri
esseri, mischiato ad altri molto più complessi pensieri.
Quelli che sembravano
costituire ciò che avevo avvertito durante il sogno.
Decisamente, sembravano
due cose molto differenti.
Percepii un movimento ai bordi del
mio campo visivo e
il colore di una piccola mano sulla guancia. La strinsi a me,
sollevandomi in
piedi e tenendo il suo corpo fra le braccia. «Andiamo da
Carlisle. Ci
aspettano».
Feci rapidamente tre passi, poi mi
bloccai, osservando
il suo viso. Sembrava stanca e provata. «Te la
senti?» chiesi osservandola
«possono venire qui, se vuoi». Non volevo che mi
mentisse sulle sue condizioni,
ed era difficile controllare la mia parte apprensiva.
Sussultò, stranita.
«Sono sicura di farcela» fece
convinta, poi sorrise «e poi… Alice era tanto
contenta di festeggiare i cinque
mesi». Sembrava sincera, anche perché non sarebbe
mai stata capace di mentire
adeguatamente, così decisi di fidarmi.
Impiegai molto meno tempo di lei a
cambiarmi, e ne
approfittai per sistemare ogni cosa al piano superiore e pulire i cocci
rotti
degli oggetti che mi aveva lanciato addosso. Notai il gelato,
già mezzo sciolto,
sul tavolo, e sorrisi, sistemando tutto.
Ora che l’opprimente
inquietudine di dover mentire a
mia moglie mi aveva abbandonato, rimaneva quella dettata
dall’ignota causa del
malessere della bambina e suo.
«Edward» il
gemito stizzito di Bella mi costrinse a
correre da lei. La ritrovai incantevolmente vestita di un abito di
velluto blu,
un paio di calze pesanti avorio a fasciare le sue gambe snelle.
«Aiutami»
sbottò innervosita, saltellando e tentando di afferrare il
gancetto della
cerniera che chiudeva l’abito lungo la schiena.
«Aspetta»
mormorai delicato, intrappolando nelle mie
le sue mani frenetiche. Non appena le lasciai andare fece con le mani
una coda
dei suoi lunghissimi capelli, facendo arrivare una folata del suo
profumo
meraviglioso direttamente alle mie narici. Sollevai con
facilità la zip, e le
sfilai i capelli dalla mano, facendoli ricadere morbidi lungo la
schiena.
Sorrisi, poggiando il mento sulla sua spalla e le mani sulla piccola
pancia. Era
molto magra nel complesso, me ne accorgevo dalle braccia e dalle gambe
sottili,
oltre che dal viso magro. Aveva acquisito un discreto volume sui glutei
e sul
seno, che la rendevano ancora più desiderabile del solito.
Il pancione non era
eccessivo, anzi, leggermente piccolo per la sua età
gestazionale. Il secondo
trimestre l’aveva resa una piccola, tenera, incantevole dea
della fertilità.
«L’ho messo per
Alice» borbottò arrossendo «il
vestito. Sarà meno arrabbiata per il nostro
ritardo» i suoi occhi incontrarono
i miei e le mani corsero sul ventre, accanto alle mie.
Capii che voleva iniziare un altro
genere di discorso,
riferito a ciò che di più caro avevamo al mondo,
lo vedevo dallo sguardo
adorante con cui parlava di ciò che era rinchiuso dentro
sé. «Voglio che sia
tranquilla e che non corra alcun rischio, anche se ora so che non
soffre. Lo so
che per un po’ non potremmo
più…» arrossì «stare
insieme. Ma l’importate è saperlo. Lo
sopporterò per lei».
«Certo amore,
sì» asserii, comprendendo ancora una
volta quanto dovesse essere stato doloroso tutto quello per lei.
«Ti prego di
perdonarmi. Per tutte le volte che ti ho mentito» supplicai
afflitto, sapendo
al contempo di non meritare il suo perdono.
«Non importa»
si affettò ad aggiungere, ansiosa. «Ma
d’ora in poi mi dirai la verità Edward,
vero?» chiese voltandosi e prendendomi
il viso fra le mani.
«Te lo giuro»
affermai sincero. «Te lo giuro»
ripetei, avvicinandomi a baciandole la fronte rosea e
vellutata.
Durante il percorso in auto fu
piuttosto silenziosa.
«Edward» mi chiamò ad un certo punto.
Sentire il mio nome sulle sue labbra era
sempre una maraviglia. Mi inchiodò con il suo sguardo dolce.
«Ci hai ripensato
riguardo alla questione del… del pianoforte, delle
esibizioni?» chiese
titubante.
Sospirai, tentando di non
dimostrare la mia
irritazione. Non che il pensiero di suonare non mi allettasse, ma non
mi
attraeva particolarmente esibirmi davanti ad una platea di umani. E
decisamente
non mi sarebbe piaciuto separarmi da mia moglie. Decisi di rimanere
calmo. In
fondo, potevo ancora temporeggiare per molto. «Conosci le mie
motivazioni».
«Sì,
ma…» riprese, come se avesse trovato qualcosa che
potesse persuadermi «pensa a quanto sarei contenta vedendoti
suonare all’opera,
in smoking nero, con tutto il tuo splendore. Applaudirti insieme al
pubblico»
tratteggiò il ritratto incantevole, contemplandolo e
tentando di convincermi «e
poi, pensa ai miei. Dovrò pur dirgli che il loro genero si
sta cimentando in
qualcosa, no?».
Scossi il capo, con un sorriso
divertito, pur
riconoscendo la giustificazione delle sue parole.
Lei sospirò, lasciandosi
andare con la schiena sul
sedile e voltandosi verso il finestrino. Era per quello che era rimasta
taciturna? Per congeniare un piano per incastrarmi? Avevo ragione a
pensare che
fosse intelligente, considerando che ogni suo attacco si faceva
più marcato.
«Pensa»
sussurrò a bassa voce «pensa a quanto ne
sarebbe orgogliosa tua figlia».
Sentii un fremito di piacere a quel
pensiero, eppure
non mi concessi di pensarci troppo a lungo. Due
secondi dopo feci per contraddirla in
qualche modo, ma capii che non sarebbe stato necessario quando la
sentii
respirare lentamente nel sonno. Evidentemente il silenzio, oltre che
alla riflessione,
era dovuto alla stanchezza. Molto probabilmente la crisi di poco prima
le aveva
portato via molte energie.
Accesi il riscaldamento,
considerando che era
addormentata e che non avrebbe potuto lamentarsi del caldo, come faceva
di
solito. Ancora non riuscivo a capire come non si ammalasse mai, pur
stando così
tanto tempo a contatto con il freddo, da lei tanto amato. Scossi la
testa,
sorridendo. Poi la osservai, distesa sul sedile, per nulla offuscata ai
miei
sensi dall’oscurità della sera.
Immediatamente le immagini di tre
giorni fa
riaffiorarono nella mia vivida memoria.
Avevo seguito con attenzione i suoi
movimenti finché
la mia mente non era stata occupata dai pensieri altrui. Come al solito
avevo
tentato di scacciare quelle congetture che riuscivano a causarmi solo
dolore e
di non dimostrare la mia lotta interiore. Proprio in
quell’istante mi ero reso
conto che qualcosa non andasse in Bella.
«Bella? Amore?»
l’avevo chiamata, tentando di farla
voltare verso di me, sentendo il suo cuore battere veloce nel petto e
il
respiro farsi sempre più corto. Il terribile sospetto si era
già insinuato in
me. «Ti senti male? Bella?», quando il suo volto fu
davanti al mio ne ottenni
la conferma. I suoi occhi erano neri.
«Dannazione»
avevo imprecato fra i denti, sentendomi
incredibilmente morire all’idea di quello che stava
accadendo. Era sveglia,
accidenti! «Bella, Bella, sono qui, mi senti?»
avevo chiesto frenetico,
stringendola a me con un braccio, appena aveva iniziato a rantolare.
Quello andava ben oltre
ciò che avrei potuto
accettare. Ben oltre ciò che la mia mente vampira potesse
contenere.
Mi accorsi dell’auto solo
quando ci fu quasi addosso.
Guardai il viso di mia moglie
disteso nel sonno.
Eravamo arrivati, ma non sarei riuscito a svegliarla, non ancora, non
quando
dormiva così dolcemente. Non quando le gote le si
imporporavano di un lieve e
profumato rosato ad ogni respiro, ritmato dal movimento delle sue
piccole e
sbilanciate labbra umide.
Negli ultimi tempi era stata molto
in ansia, e non
potevo far finta di credere che non fosse stato a causa mia. Ero
pentito di
averle nascosto la verità, di avergliela rivelata in maniera
così brutale…
Sospirai. Lei era stata un angelo, invece. Un angelo che non meritavo.
Carlisle aveva immediatamente
notato il suo stato di
forte tensione, non appena l’avevo portata da lui per avere
la conferma che
fosse avvenuto quello che immaginavo, e che sia Bella che la bambina
stessero
bene.
«Edward,
voglio
controllare» aveva pensato, e mi ero spaventato
ancor di più avvertendo il
tono teso persino nella sua voce «tutto
questo le sta causando molto stress, e ho paura che
l’andamento della
gravidanza possa risentirne. Voglio anticipare la visita».
Dentro di me era nata una nuova,
forte, tensione.
Avrei voluto sapere come stesse, ma avevo anche bisogno di parlare con
Carlisle, solo, per valutare l’evolversi della tragica
situazione. Mi si era
spezzato il cuore quando avevo dovuto lasciarla sola, e avevo sperato
con tutte
e forze che la bambina colmasse un po’ di quel vuoto.
«Edward» mi
aveva rimproverato mio padre con tono
deciso «non puoi tenerle ancora nascosta la
verità, ne sta soffrendo molto. Più
di quanto ne soffrirebbe se la conoscesse», poi aveva
aggiunto, in tono più
mite «devi dirglielo figliolo, per il vostro bene».
«Lo so» avevo
mormorato.
Scesi velocemente
dall’auto, ritrovandomi in un
diciottesimo di secondo davanti alla portiera destra. L’aprii
senza far rumore
e slacciai piano la cintura di sicurezza, attento a non svegliarla.
Valutai la
differenza di temperatura con l’ambiente esterno e decisi di
prendere una delle
coperte che stavano sul sedile posteriore, sollevandola fra le braccia
e
avvolgendola completamente dentro.
Strinsi con una mano la sua testa
sulla mia spalla,
chiudendo con facilità la portiera e avviandomi verso il
vialetto, beandomi del
tepore del suo corpo sul mio, rassicurante. Sentivo già i
pensieri dei miei
familiari, piuttosto distinti fra loro, tutti trepidanti del nostro
arrivo.
Avvertivo ancora molta tensione,
considerando che
stavo per rivelare qualcosa di sconcertante alle persone a me care. Ma
lo
scoglio più difficile era stato superato, ora Bella sapeva
tutto, e non c’era
nulla che potessi temere così tanto.
La sentii mugugnare qualcosa, e la
sua mano strinse il
mio maglione. «Edward» biascicò, aprendo
gli occhi «ho caldo…». Sbatté
le
palpebre, guardandosi intorno per quando riuscisse con
l’impedimento della
coperta. «Dove siamo?».
Capii che una risposta non era
necessaria quando mise
a fuoco il portone della casa.
«Fammi
scendere» sussurrò solo.
«Sei sicura?».
Annuì e subito
l’accontentai, mettendole una mano
sulla vita. Si stropicciò gli occhi, sbadigliò, e
mi sorrise, con gli occhi
lucidi.
Sorrisi anch’io,
baciandole la fronte.
«Edward, Bella»
ci salutò Esme, venendo ad aprirci
alla porta. «Entra cara, fuori fa freddo».
Prima ancora delle parole, mi
giunsero i pensieri
infuriati di Alice. «Traditori! Avete fatto un ritardo
terribile!» ci additò,
correndo a sedersi accanto a suo marito, sull’ultimo gradino
delle scale. Eppure,
nella sua mente, vorticava anche la preoccupazione. Aveva intuito,
grazie alle
sue visioni incomplete, che fosse accaduto qualcosa di strano.
«Mi dispiace, scusa. Non
era nostra intenzione»
sussurrò Bella, posando la testa sul mio fianco, non appena
Emmett smise di divertirsi
con la sua pancia.
Carlisle si mise in piedi, facendo
passare lo sguardo
da me a lei. «È successo
ancora?»
pensò, osservando allarmato il pallore sul volto di mia
moglie, decisamente
marcato per l’attenzione di un vampiro, soprattutto per un
medico.
Esitai, incerto su come rispondere,
e fu allora che
notai gli occhi attenti di mia moglie su di me. «Edward,
posso…» avvicinò la
sua mano alla mia in un gesto inequivocabile, così
intrecciai le dita. «Posso
raccontarlo io se vuoi».
Mentre tutti i vampiri prestavano
attenzione alle parole
di Bella, curiosi, Carlisle la fissò sorpreso, poi
capì. «Ben fatto, figliolo»
pensò soddisfatto.
Lasciai che cominciasse a spiegare
a tutti, mentre la
guardavo, orgoglioso della sua determinazione. Riuscii man mano ad
inserirmi
nel discorso e a prendere in mano la situazione. Vedevo le facce
sgomente della
mia famiglia, leggevo, addirittura, i loro pensieri, ma continuavo a
raccontare, perché sapevo che era la cosa giusta da fare.
Perché Bella era lì,
seduta accanto a me, a sostenermi.
«Ma vuol dire che la
bambina riesce a influenzare
Bella in questo modo? E cosa c’entra Jacob? E
perché soffre?».
«Rosalie, tempera la tua
audacia» rispose Carlisle
«credo che queste domande siano ancora irrisolte anche per
loro».
«Non è proprio
così Carlisle. In realtà sappiamo più
di quanto tu non sappia già» i suoi occhi si
spostarono su di me e si chiusero
in due fessure, curiosi, così come i suoi pensieri.
«Tutto è cambiato, dopo che
Bella è riuscita a sentirla» dissi soddisfatto,
accarezzandole la pancia.
Sentii un attimo di vuoto nella
mente di Rosalie.
«L’hai sentita muoversi?»
chiese a
Bella.
Lei mi lanciò
un’occhiata, stringendosi a me e
arrossendo. «Beh, in realtà l’abbiamo
sentita. Anche Edward» gli occhi e i pensieri di tutti si
spostarono su di me
«lui ha sentito i suoi pensieri».
«Oh ma è
meraviglioso!» esclamò Esme adorante,
abbracciandola. Poi si ritirò, guardandoci addolorata.
«Ma ragazzi, cosa
intendete fare ora con il problema della bambina
e…» assottigliò lo sguardo su
di me, pensando a come e perché avessi deciso di rivelare a
Bella la cosa dopo
tanto silenzio, considerando che avevo omesso la nostra piccola
discussione, «è
questo che ci tenevi nascosto?» il suo viso saettò
inevitabilmente verso suo
marito. Leggevo nei suoi pensieri che aveva chiaramente intuito quanto
fosse
coinvolto.
Lui stesso le prese una mano fra le
sue, stringendola,
e si avvicinò al suo orecchio, sussurrandole qualcosa.
Distolsi l’attenzione
per qualche istante, attento a non invadere la loro privacy.
Jasper stava tentando
disperatamente di trovare un
collegamento, nelle nostre parole, fra i movimenti della bambina e i
suoi
sogni.
«Bella ha avuto un
interessante intuizione» dissi,
rispondendo ai suoi pensieri e facendo nuovamente tornare
l’attenzione di tutti
su di me. «Sono riuscito a leggere i pensieri della bambina
durante uno dei
sogni».
«Oh… oh… che
cosa interessante!» esclamò Alice, leggendo
nell’immediato futuro.
«Già, lo
è» mormorò Bella, accarezzandosi la
pancia
«non è fantastico che pensi a queste cose? E poi,
Edward dice che non soffre»
aggiunse concitata, fissando i miei occhi per cercare la
verità, «che non sono
pensieri tristi. Così… così va
bene» disse annuendo a sé stessa
«possiamo
capire tutto con calma» sentii la sua voce vibrare in punti
strani.
Presi il suo viso fra le mie mani e
lo strinsi,
tentando di comprenderla. «Ma… soffri
tu» dissi piano, sollevando un
sopracciglio.
Sussultò distogliendo lo
sguardo, lievemente
attraversato da una patina lucida. «Non importa visto che non
ricordo nulla»
disse velocemente, mordendosi il labbro, nervosa.
Feci per rispondere, ma fui
interrotto dalla pressante
curiosità degli altri. «Cosa hai
sentito?» chiese Rosalie.
Sospirai, accingendomi a raccontare
ogni cosa come già
avevo fatto con Bella. Tutti iniziarono a ipotizzare possibili
spiegazioni, ma
neppure una riusciva a convincermi. Lei stava sostanzialmente in
silenzio,
probabilmente ancora molto stanca.
«Ma i sogni non
potrebbero semplicemente appartenere
alla bambina e alla sua natura? In
fondo
il nome pronunciato da Bella potrebbe dipendere unicamente da lei e
dalle
emozioni che sente» propose Alice.
«In effetti, abbiamo
già notato un processo simile
tempo fa, quando la bambina irruppe nei suoi pensieri, no?»
rimarcò Rosalie.
Jasper annuì.
«È vero, la bambina sfrutta le emozioni
di Bella in maniera singolare!».
Tutti, dopo aver appreso la
notizia, si stavano dando
da fare per scoprire la verità. Avevo letto nei loro
pensieri un certo
rimprovero nei miei confronti, più che per non aver rivelato
la verità a loro,
per non averlo fatto a Bella. Subito dopo avevo letto la comprensione,
l’immedesimazione, nel caso che una cosa del genere fosse
avvenuta al loro
rispettivo compagno; infine il senso di colpa per non aver capito tutto
prima.
«Pensate che non possa
più stare in pubblico, insomma,
se le accadesse mentre è fra gli umani?»
continuò Jasper.
Bella, accanto a me,
sussultò, stropicciandosi gli
occhi e riprendendosi dal torpore.
«È
un’ipotesi a cui abbiamo pensato, con Edward in
queste settimane» intervenne Carlisle «ritengo che
Bella, ora che sa quello che
potrebbe accadere, sarà molto più vigile.
Inoltre, penso che dipenda anche in
larga parte dalla vicinanza di Edward, quindi non penso che sia
necessario. Possiamo
sempre prendere una decisone in base a quello che succederà,
ma tenerla
segregata potrebbe peggiorare il suo stato emotivo al punto da rendere
queste crisi
più gravi e frequenti».
Bella gli sorrise, timida e grata,
accovacciandosi
nuovamente contro di me, assonnata.
«Edward, forse
è davvero arrivato il momento di
riprendere gli antidepressivi» pensò
Rosalie preoccupata, guardando Bella,
«potrebbero aiutarla».
Lei si accorse del suo sguardo e di
come io la fissavo
di rimando. Non disse nulla, si voltò, addolorata. Aveva
capito che stavamo
parlando di lei e non voleva entrare in quella conversazione
silenziosa.
«Tesoro» la
chiamai dolcemente.
Battè le palpebre, frastornata,
voltandosi lentamente verso
di me. Avrebbe ascoltato e forse accettato qualunque cosa le avrei
chiesto. Mi
aveva promesso che se ce ne fosse stato nuovamente bisogno avrebbe
ricominciato
a prendere i farmaci. I suoi occhi assonnati ma luminosi e attenti mi
fissavano, aspettando che parlassi. Chinò il capo di lato,
studiandomi. La sua
mente era muta e avrei dato tutto me stesso per capire cosa stesse
pensando.
Dovevo parlare, prima che le sue ipotesi la conducessero a della
conclusioni sbagliate.
«Rosalie
pensava» iniziai molto cautamente, piano «che
potrebbe essere un’idea quella di riprendere la tua terapia
anti-depressiva».
Non riuscì a trattenere
un sussulto, e ai bordi delle
ciglia si addensarono delle minuscole goccioline. Però
annuì, quieta, senza
distogliere lo sguardo da me.
Sospirai. Gli antidepressivi la
facevano stare
piuttosto bene, avevamo trovato un dosaggio ottimale per lei. Le
toglievano un
po’ di appetito e a volte la facevano dormire un
po’ troppo. Lei diceva di
sentirsi rallentata, ma tutto sommato per gli effetti benefici che le
davano
erano ottimi per lei. Ma lo stato mentale in cui si metteva
all’idea di aver
bisogno di un aiuto farmacologico per stare meglio era per lei
deprimente.
Sentiva come di aver fallito.
Rosalie si fece avanti, sorpresa
che avessi voluto
dirglielo. «Potrebbero aiutarti a controllare le
manifestazioni che ti danno
queste crisi».
Annuì, non riuscendo a
mascherare la sua tristezza. Mi
fissò di sottecchi, cercando di farsi forza. Sapevo anche
senza leggerle i
pensieri che non si stava preoccupando per lei. Non voleva che io
la
vedessi durante le crisi. «Va bene, lo
farò» acconsentì mestamente, con un
minuscolo forzato sorriso sulle labbra.
Scossi il capo, stringendola a me.
Non volevo che lo facesse
per quella motivazione.
«Se posso»
intervenne Jasper «penso che il tono
dell’umore e la stabilizzazione emotiva di Bella siano molto
migliorate
nell’ultimo mese. Sta andando molto meglio con gli esercizi.
Dobbiamo ancora
lavorare molto dal punto di vista dell’ansia e del
panico» aggiunse senza mezzi
termini, con la schietta sincerità da cui era caratterizzato
«ma personalmente
penso di poter continuare a gestire la cosa. Non l’hai
riscontrato anche tu?»
domandò a Rosalie.
Annuì.
«È come ha detto lui. Sono
l’ansia e il
panico che mi preoccupano, però. Possiamo ancora aspettare.
So che lei pensa
che sia un fallimento riprendere la farmacoterapia»
aggiunse nei suoi
pensieri, poi sorrise a Bella «Ci lavoreremo ancora. Non
iniziamo subito, ma
non scartiamo nessuna delle ipotesi, va bene?».
Ma mia moglie non rispose. Si
voltò verso di me,
ansiosa, come se avesse bisogno del mio permesso.
Le carezzai i capelli e le sorrisi,
cercando di
infonderle coraggio. «Penso che aspettare ancora sia la
scelta più saggia».
Prese un minuscolo respiro,
abbracciandomi e
lasciandosi andare con il capo, stanca, contro il mio petto.
La carezzai, sentendo il ritmo del
suo cuore
rallentare pian piano fino a calmarsi.
«Edward,
le
porto qualcosa da mangiare, non va bene che salti la cena…
preferisci la sala
da pranzo?» i pensieri di Esme mi distolsero dalle
loro congetture.
Mi voltai verso mia moglie,
sistemandole una ciocca
ribelle di capelli. «Ti va di mangiare?».
Sospirò, stringendo in
un pugno il vestito
sull’ombelico.
Fu come una scintilla accesa in una
camera a gas. Mi girai
di scatto verso Esme quando i suoi pensieri mi arrivarono veloci come
flash,
tutti riferiti a tre giorni prima. «Esme
ti prego, non ho fame… Lo so che devo mangiare, ma non mi
va… Per la bambina, sì…
- un singhiozzo, un’altra stanza, quella di Esme e Carlisle -
Edward non mi
vuole più… Non so cosa fare…
È così… Non è vero che mi
ama ancora, non sono
capace di aiutarlo… - parole annaspate fra le lacrime e gli
ansiti, occhi
tristi e spenti» sentii una morsa stringermi lo
stomaco e un bruciore,
molto più forte di quello della sete, pervadermi la gola.
Esme sussultò,
rendendosi conto del suo piccolo errore
«No, no, ti prego! Non dire nulla a
Edward, no… Non potrei sopportare di vederlo soffrire a
causa mia…». Mia
madre scosse la testa, correndo via e tentando di cancellare i suoi
pensieri «Mi
dispiace» mormorò afflitta.
Era accaduto tutto così
velocemente che Bella non
aveva avuto il tempo di accorgersi di nulla. Per quanto già
sapessi del dolore
che le avevo causato mantenendo il silenzio, non mi sarei mai aspettato
che fosse
arrivato a quei livelli. Ero sbigottito, ancora non riuscivo a
riprendermi
dall’angoscia.
«Sì, mangio. O
penso che mi addormenterò da un secondo
all’altro» scherzò debolmente,
sollevando il viso dalla pancia. Rabbrividì
quando vide i miei occhi. Guardai la mia espressione attraverso i
pensieri dei
miei familiari e ci vidi tanta tristezza.
Mi imposi un respiro e mi sollevai
cauto, porgendole
una mano per aiutare a fare lo stesso. L’afferrò,
tremante, continuando a
guardarmi. La condussi fino in sala da pranzo e mi sedetti su una
sedia,
facendola sistemare su di me.
Intrecciai le mie dita nei suoi
capelli e tirai la sua
testa verso di me, inspirando il suo odore dissetante. Lei rimaneva in
silenzio, tremante, e dovetti parlare quando mi accorsi che la stavo
spaventando.
«Bella»
cominciai piano, addolorato «penso di meritare
ben più insulti di quanti ne sappia io stesso formulare.
Sono stato un
terribile idiota. Uno sciagurato. Un empio. Meschino, misero,
disgraziato…».
«Edward» mi
richiamò sorpresa «non dire così, te ne
prego. Sei quanto di più bello c’è nel
mio mondo».
Scossi il capo, sorridendo
amaramente. «Ti ho fatto
del male. Ti ho nascosto tutto, per tutto questo tempo».
«Non mi va che ci pensi
ancora, Edward» mi fissò, e
nei suoi occhi vidi ancora dolore, eco del mio. Prese un respiro corto
fra le
piccole labbra. «Dimmi che non ci penserai più,
è tutto passato ora, ti prego».
Valutai nuovamente la situazione,
con calma, scrutando
i suoi occhi. Esternando il mio pentimento la stavo facendo ancora
soffrire. E
non era, di certo, quello che volevo. Ma come avevo fatto ad essere
così… così…
Chiusi gli occhi, facendo toccare la mia fronte con la sua, pensando
che non
potevo più far nulla per correggere i miei errori. Sarei
vissuto con il rimorso
per l’eternità, probabilmente. Ma almeno, ora,
dovevo tentare di non farne di
nuovi. «Ti amo» mormorai solo.
Lei fremette, e finalmente capii di
aver fatto la cosa
giusta, per una volta. Quanto avesse bisogno di nuove certezze, di
sentire
ancora forte il mio amore. «Me lo puoi dire
ancora?» chiese, come se stesse
confessando un delitto.
«Ti amo» dissi
semplicemente, aprendo gli occhi e guardandola.
Si avvicinò, lasciando
un bacio sulle mie labbra. «Ti
amo anch’io».
Pensai che sarebbe stato inutile
continuare a
discutere di quello che era stato. Volevo d’ora in poi
aiutarla a costruire
nuove certezze, farla sentire amata, protetta, desiderata.
Bella e splendente, proprio come appariva ai miei
occhi. Una dea. «Sei bellissima» sussurrai,
osservando lo scintillio brillare
nei suoi occhi vispi. «Bellissima, intelligente, amorevole.
Delicata… così
preziosa» sorrisi, infondendole tutto il mio amore.
Arrossì, aprendo le
labbra ma non emettendo alcun
suono.
La baciai piano, sentendo il suo
cuore aumentare di
battiti. Sentii che la bambina si era mossa e sorrisi sulle sue labbra,
e lo
stesso fece lei.
L’amavo, oh, se
l’amavo.
In quel momento i pensieri di Alice
si fecero
incredibilmente bui. Due secondi più tardi il telefono
squillò.