Dimmi, cosa corre come il vento sulla neve
Dimmi, cosa ti guarda per mangiarti, silenzio famelico
Dimmi, cosa preferisci, se di denti o di pallottola, il
sangue è sempre sangue
Dimmi, cosa ti appesantisce mentre corri per la tua
pelle, gli occhi sulla schiena di innocenti
Parte II: ZAINI DI
PROMESSE INFRANTE E ALBERI TRA LE TENDE
C’era una ragazza,
una ragazza rannicchiata sul pavimento di
legno, poca polvere, molte schegge. Si
trovava di nuovo per terra, e ciò le diede uno
spiacevole déjà
vu. Si tolse le mani dalle orecchie con lenta
precauzione, saggiando l’assenza di suoni insostenibili dall’udito e dal corpo. Il suono terribile era scomparso,
scemando lentamente fino a permettere alle sue mani,
pigiate sulle orecchie, di vincerlo. E ora non lo si poteva
più udire. Svanito.
Appoggiò le mani a terra,
per sostenersi più stabilmente, riprendendosi a grandi respiri profondi dallo
stordimento doloroso attraverso il quale era passata.
Quando alzò lo sguardo, istintivamente, sull’ultima cosa che ricordava di aver
visto, si accorse che anche quella era svanita. Corvo non era più seduto per
terra, schiena appoggiata alla gamba del tavolo – di legno,
naturalmente – con la sua smorfia di doloroso fastidio. In un certo
senso ne fu sollevata. Si rese conto di aver ormai
sviluppato la timorosa aspettativa di cosa si poteva vedere balenare in quegli
occhi corvini. Ma si chiese anche se ci fosse stato davvero un ragazzo dagli occhi corvini che le aveva chiesto un
nome stando seduto per terra.
Girò attorno lo sguardo nella
stanza. Gli uomini e le donne erano tutti ritti in piedi attorno al loro
tavolo, immobili, e con varie espressioni di spaventato nervosismo, come se si
aspettassero e temessero di udire quel suono. Tutti gli sguardi erano fissi
verso una sola direzione, e lei, naturalmente, la
seguì col suo, trovando che fissavano semplicemente una parete della stanza. In
quella parete c’erano tre finestre con le loro tendine e i vetri appannati dal
freddo e dallo sporco. Ad una di esse il ragazzo
corvino, ritto e immobile, guardava fuori, con le mani in tasca. Ma aldilà
del suo atteggiamento imperturbabile, e nonostante lei potesse vedere come
parte più espressiva di lui solo la schiena al momento, le parve che fosse
particolarmente concentrato.
Tornò a voltarsi verso gli
uomini e le donne attorno al tavolo, che non fissavano il ragazzo in
particolare, ma la parete;
guardavano, evidentemente, pur senza voler davvero vedere, ciò che stava fuori
dalla baita, oltre quel muro, verso ciò che aveva prodotto il suono intollerabile.
Lentamente alcuni di loro
iniziarono a muoversi, e prima di tutti l’uomo dai baffi screziati di grigio,
bianco e nero. I suoi occhi grigi e forti si spostarono su di lei, che ancora
era seduta per terra, e la considerarono solo per un breve momento, come se
stesse valutando cosa ci si poteva aspettare di ottenere di buono da lei. Senza
poterci fare niente, Misurina, come aveva deciso per il momento di
soprannominarsi, sentì di stare iniziando a vergognarsi. Tutti gli altri erano
in piedi, certo spaventati e ammutoliti, ma nessuno come lei era crollato per
terra per il dolore pigiandosi le mani sulle orecchie. Se non altro, almeno era
evidente che il suono l’avevano udito tutti, non solo lei.
L’uomo che tra di loro
sembrava essere il capo della situazione aveva
già distolto lo sguardo criticamente analitico da lei, dicendo con la sua voce tonante – Avanti, adesso torniamo al
lavoro. Se ne sono andati. – e, visto che gli uomini
e le donne esitavano, aggiunse, a malincuore – Non è vero, Corvo? –
La ragazza sussultò. Quell’uomo
doveva aver udito la loro conversazione di poco prima riguardo ai nomi, e
questo mentre era impegnato a studiare percorsi e mappe e discutere con gli
altri. Doveva essere una persona molto più che carismatica e attenta… qualcuno
che riusciva a mantenere il controllo della situazione anche e soprattutto
grazie alle sue capacità di monitorare ogni cosa che gli accadeva intorno.
Tuttavia, nei confronti di quel suono orribile, persino lui sembrava non avere
intenzione di fare nient’altro che lasciarselo alle spalle repentinamente.
Il ragazzo interpellato si
era voltato, ora, e si stava allontanando dalla finestra tornando a passi
tranquilli verso di loro. Quando sentì la domanda dell’uomo alzò le spalle, e
gli scoccò un rapido sguardo di divertita malizia, ma subito tornò a guardare
per terra, come se non volesse tradire il suo stato d’animo con gli altri.
-
Così sembra. Non si vedono
più. – disse solo, come se rifiutasse di fare affermazioni avventate in
proposito, e consigliasse agli altri parimenti di non farsi idee troppo
tranquille.
Gli uomini e le donne lo guardavano con diverse espressioni
di diffidenza, risentimento e sgradevolezza, ma sembrarono accogliere con un
certo sollievo le sue parole, e l’uomo che presiedeva la riunione tornò subito
a ignorare Corvo, come se fosse scomparso subito dopo aver parlato.
- Continuiamo. È molto
importante e non c’è molto tempo. – stabilì, con la sicurezza di chi fa
affermazioni universalmente accettate come più che vere. Gli altri tornarono,
un po’ esitanti e decisamente più nervosi di prima, a concentrarsi sulla mappa.
In quanto a Corvo, si accomodò tranquillamente sulla
sedia occupata poco prima da Rosa, o da Caramello, e osservò con sguardo
malinconicamente assorto la tazza vuota di cioccolata. La stava ignorando
palesemente, si sarebbe detto, ma non intenzionalmente. La ragazza si alzò in
piedi, senza per questo ottenere da lui nessuna reazione, e si sedette
sull’altra sedia, spostandola un po’ per non essergli troppo vicino.
Dopo qualche minuto di silenzio, durante il
quale si udiva in sottofondo l’impegnato
discutere del gruppo intorno alla cartina, e mentre il ragazzo continuava a
fissare l’interno della tazza vuota come se stesse cercando di trarvi qualche
predizione o interpretazione del presente, lei si decise a chiedere, in tono
più incerto di quel che si era aspettata – Che cos’era quel suono, Corvo? -
Ebbe l’impressione che lui l’avrebbe
ignorata, se non avesse pronunciato il suo nomignolo con tanta seria
determinazione, come invocando una risposta e ordinandogli di parlare. Le lanciò un breve sguardo, dando l’impressione di ritenere la sua domanda
curiosa, e tornò a fissare la tazza, quasi la trovasse più interessante di qualsiasi altra
cosa contenuta in quella stanza. Per un po’ lei pensò che non le avrebbe
risposto affatto. Poi, imperturbabile, parlò.
-
Il
loro canto. –
Una
risposta perfettamente non esauriente. Da lui doveva aspettarselo ormai, no? La
cosa più irritante era che sembrava, se fatta da lui, una forma di cortesia il
fatto di non rispondere o parlare troppo chiaramente.
- Il canto di chi? – incalzò pazientemente.
Forse doveva considerare già molto il fatto
che rispondesse.
Stavolta lui non la degnò di uno sguardo, e
rispose laconico – Non so come parlarti di loro. Non avevo mai visto niente con
quell’aspetto, e credo non l’abbia mai visto nemmeno tu. Non hanno un nome,
nessuno glielo ha ancora dato. Qui non li nominiamo mai. Un consiglio: non
nominarli nemmeno tu, con nessuno di quelli che si trovano qui. Non la
prenderebbero bene, da parte tua. -
Mentre Corvo parlava così, lei tornò a
guardare gli altri uomini e donne radunati attorno al tavolo. L’uomo coi baffi
e con l’attenzione di tutti su di sé per la maggior parte del tempo, stava facendo alcune considerazioni con tono
fermo e serio, le braccia incrociate sul petto e il cappello di pelliccia ben
calcato in testa. I suoi occhi grigio scuro erano fissi sulla cartina.
-
Chi
è quello? – chiese Misurina.
Corvo
non alzò lo sguardo, aveva capito subito di chi stava parlando.
-
Non
ne ho idea. Ma si è messo in testa di comandare, fingendo che tutti siano
d’accordo come se l’avessero deciso, e gli altri non si sono opposti. –
-
Sembra
che a te non importi affatto quello che decideranno. – osservò Misurina, gli
occhi fissi su di lui. Le labbra del ragazzo lasciarono appena scoperti i denti
in un sorriso dei suoi, amaro come una smorfia di dolore. Ma non rispose. Lei
si disse che avrebbe dovuto chiederlo come una domanda, costringendolo a
rispondere, ma, pur di non lasciare cadere del tutto
quella preziosa conversazione, continuò.
-
Quell’uomo… è come Mangiafuoco. Gli altri sembrano tutti
burattini, in fondo. Burattini sperduti, che, anche
se hanno un’opinione, devono sempre metterla al vaglio di lui. E lui
sembra riuscire benissimo a far accettare tutte le sue idee, come se muovesse i
fili. Ma tu dici che nessuno ha deciso che deve essere lui il capo… Questa dev’essere proprio una situazione d’emergenza. –
Ora
Corvo la guardava con interesse curioso.
-
Mangiafuoco
– disse, come se assaggiasse la parola – niente male. Sei piuttosto abile coi
nomi. A parte il tuo, cioè. –
-
Il
mio nome è affar mio… - ribatté lei, un po’ infastidita per essere stata
interrotta, forse appositamente, mentre cercava di mettere insieme tutti i
pezzi.
-
Queste
persone – continuò – non abitano qui, non da più di qualche giorno. Non
sembrano persone che lascerebbero marcire così il luogo in cui vivono… e
comunque questa baita è troppo piccola per tutti… a proposito, in quanti siamo?
–
Lui la guardò, per un attimo sembrò quasi in
imbarazzo, poi disse – Poco più di tre mani. –
Sorprendentemente, le occorsero solo pochi
istanti per capire.
-
Cioè
poco più di quindici persone. Potrebbero essere finite qui dopo essersi perse
mentre facevano un’escursione in montagna… Quelle ragazze parlavano di esame al
rientro, significa che ora si considerano in vacanza. Va bene. Fin qui ci sono.
Deve essere successo qualcosa alla guida, se ne avevano una… Ma… tu sai dove
siamo? Cioè su che montagna, in che luogo? –
Corvo, che la stava ascoltando attentamente,
benchè fosse tornato a fissare la tazza vuota, scosse appena la testa.
-
E
poi… - rifletté lei, guardando la tazza vuota
– con i viveri non siamo messi bene, vero? Perché tu dicevi di aver fame e sete
come tutti. Inoltre… Là fuori c’è qualcosa… qualcuno… che emette quel suono…
perciò presumo che nessuno si avventuri fuori a fare un giro di solito, no? Ma
perché nessuno chiama i soccorsi, col telefono, una radio… ? -
Corvo le scoccò un’occhiata a significare che
trovava quella domanda ingenua.
-
Naturalmente
perché qui non c’è campo. – si rispose lei. Poi tacque.
Dopo
qualche istante di silenzio, Corvo poggiò la tazza sul tavolo ed emise un breve
sospiro tra i denti.
-
Misurina,
potevi chiamarti Sherlock Holmes. Ma era troppo banale, no? Però, vedi, non posso
dirti cosa hai indovinato e cosa no. Forse qui non lo sa nessuno come sono
andate le cose. Ti do un altro consiglio… lascia perdere tutte queste indagini…
o meglio, se ciò ti aiuta a far passare il tempo, se ti soddisfa, buon per te…
ma non servirà a molto. Qualsiasi cosa sia successa o meno non si ripeterà.
Bisognerebbe piuttosto pensare a cosa succederà da ora in poi. –
-
La
trovo una maniera fin troppo semplicistica di pensare… - obbiettò lei, scettica.
Corvo,
che parlando si era lentamente alzato in piedi, la fissò di nuovo e annuì – Lo
è. Ma perché complicarsi le cose nelle situazioni già difficili? Non ti fare il
sangue troppo amaro se puoi… non c’è alcuna fretta. –
-
Cosa
vuoi dire? – disse subito lei a bruciapelo, visto che lui si stava per allontanare.
-
Qualcosa
mi dice che le complicazioni arriveranno comunque. Meglio tenersi la mente
sgombra per affrontarle. Forse. E’ solo una mia idea. – concluse lui con aria annoiata, e prese ad allontanarsi.
Si chiese se seguirlo, ma decise di restare
dov’era. Aveva tutta l’aria di stare andando a fare qualcosa per cui preferiva
non avere compagnia. Forse doveva andare in bagno o
qualcosa del genere, considerò Misurina, e rimase seduta dov’era. A pensare
perché mai quel tizio sembrasse così indifferente e lontano da ogni cosa, come
se niente gli importasse. A chiedersi come diavolo potesse avere perduto la
memoria senza sbattere la testa, dal momento che non aveva dolori né ferite o
bernoccoli. E come avesse potuto dimenticare chi era, come si chiamava, chi
conosceva, amici e parenti, luoghi da poter chiamare casa, e gli accadimenti
che l’avevano portata a trovarsi in una baita isolata sulle montagne con una
comitiva dispersa.
***
Misurina
aveva appreso almeno quale parte del giorno fosse, oltre a qualche altro particolare
dell’organizzazione che si erano dati gli
occupanti della baita. Ascoltare le loro conversazioni non le era servito a
molto. Il gruppetto che aveva visto intento nell’organizzazione del loro ritorno a casa parlava di mappe, strade e
possibilità di percorsi solo quando si riuniva attorno alla tavola, e benchè
lei si fosse avvicinata alla fine ad ascoltare, sotto lo sguardo attento di
Mangiafuoco, che studiava le sue mosse, come quelle
di tutti del resto, non aveva udito altro che discussioni sulla fatica
di camminare con la neve alta, il problema di scaldarsi nel freddo e di
portarsi dietro provviste, su come superare ghiacciai e trovare sentieri
sepolti sotto la neve, e arrampicarsi su pareti rocciose. Nessuno parlava mai della strada che
avevano fatto per arrivare alla baita, come se avesse smesso di esistere dopo che l’avevano
percorsa. Lei non osava chiederlo, perché supponeva
avrebbero pensato che fosse impazzita per non ricordare quella che doveva
essere stata un’odissea disperata; forse una
frana o una slavina o qualche altra cosa del genere aveva cancellato per sempre
quella strada, che perciò non veniva nemmeno presa in considerazione.
Aveva
chiesto a Caramello, che era l’unica veramente disponibile a parlare
tranquillamente con lei, da quando Corvo si era dileguato, che giorno fosse,
scusandosi dicendo che aveva perso il senso del tempo a forza di stare in quel
posto. Ma quando lei glielo disse, si rese conto che non riusciva a ricordarsi
come si dividessero le stagioni per contarle. Ricordava che c’erano stagioni
fredde e calde, e l’alternarsi del giorno e della notte, queste cose le sapeva
benissimo come sapeva che loro erano esseri umani e che avevano l’abitudine,
per la maggior parte, di aggirarsi con indosso degli indumenti. Ma, oltre ciò, non riusciva a ricordare niente sul
tempo… sperava di trovare qualcosa di scritto in giro che la aiutasse.
La
lettura delle mappe le riusciva più facile, anche se, quando ne aveva presa in
mano una di quelle sparse in giro per darci un’occhiata vaga, alcuni degli
altri l’avevano osservata attentamente, come se sospettassero che stesse
architettando chissà cosa. Nessuno le aveva detto niente, anzi nessuno le
rivolgeva la parola a parte Rosa e Caramello. Tuttavia aveva rimesso giù la
mappa dopo avervi dato una rapida occhiata, e da quel momento cercava di
limitare al minimo i movimenti troppo evidenti, perché si sentiva tenuta
d’occhio. Sembrava che gli altri non si fidassero di lei, che la trovassero in
qualche modo bizzarra, oppure una sorta di ultima arrivata che con qualche
mossa avventata poteva metterli tutti in pericolo.
Era il momento della giornata in cui il sole pallido si avviava al
tramonto, apprestandosi ad affondare oltre le alte montagne che costituivano
tutto il paesaggio fino all’orizzonte, e dalle quali già faceva capolino
un’ombra di luna; quella era l’ora designata per il pranzo, che era anche
l’unico pasto del giorno a causa del razionamento dei pochi viveri rimasti.
Caramello aiutò la donna sulla quale lei e Rosa facevano affidamento, probabilmente la
madre dell’una o dell’altra dal momento che sembravano amiche più che sorelle,
a preparare da mangiare insieme ad altre due donne, che erano comparse ad un
certo punto, provenendo da una delle stanze dove si dormiva, ognuno
rannicchiato in un sacco a pelo o su materassi o sui pochi letti presenti nella
baita, o sugli zaini ammucchiati.
Il
pranzo, consistente in pezzi di pane secco spezzettato e annegato in acqua
calda condita con sale e pochissima erba cipollina, venne distribuito in tazze,
ciotole, bicchieri e qualsiasi altro contenitore si potesse recuperare, e
occorse scaldarlo in due riprese diverse per farne abbastanza per tutti
utilizzando le poche e non enormi pentole a disposizione. Mentre mangiavano,
sedute su zaini e con la schiena appoggiata alla parete della sala da pranzo,
Misurina si azzardò infine a osservare
– Mi sembrava che fossimo più numerosi. –
Aveva
contato undici persone nella stanza, compresa lei. Dodici con Corvo. Ma lui
aveva detto che erano più di quindici.
Rosa
la guardò come se avesse fatto una domanda ridicola.
– Gli altri sono di guardia. –
-
Ah
già… che stupida, è vero. – rispose subito
Misurina, per non far sospettare della sua totale amnesia. Ma tra sé e sé si
chiese perché ci fosse
bisogno di fare la guardia in quella baita sperduta chissà dove nella
neve e sulle montagne. Forse temevano quel qualcosa che emetteva quel suono
terribile, che stava fuori.
-
Avete
sentito prima? Il suono… - chiese, prima di
aver riflettuto abbastanza su ciò che stava per dire.
Entrambe
le ragazze sussultarono, Caramello impallidì visibilmente e sembrò quasi decisa
a cercare di affondare il viso nella sua ciotola. Rosa invece le rivolse uno
sguardo indignato e spaventato, accusatorio.
-
Scusate.
Non volevo. Parliamo d’altro. – disse allora Misurina – Quali sono gli altri
libri che dovete leggere per l’esame? –
Caramello,
subito bendisposta a cambiare argomento, glieli elencò uno dopo l’altro senza
esitazione, quasi allegramente, di quell’allegria che sa di aria viziata e di
nervosismo represso, tipica di chi parlerebbe di qualsiasi sciocchezza
piuttosto che di ciò che non vuole nominare.
-
E
tu? – disse Rosa – Qual è il tuo prossimo esame? – domandò con curiosità un po’
avida, come se fosse pronta a fare un confronto per stabilire chi doveva studiare cose più difficili e quindi chi era più
abile e poteva sfoggiare maggiore impegno e sacrificio semi-tragico.
Non
appena lo disse, qualcosa scattò inesorabilmente nella mente di Misurina.
L’esame,
ma certo! L’esame che doveva dare, era importantissimo, e lei aveva lasciato i
libri… maledizione! Aveva lasciato i suoi libri e i suoi appunti e tutte le
cose che doveva studiare al pian terreno della baita!
Balzò
in piedi e abbandonò frettolosamente la sua ciotola di cibo.
-
Che
succede? – chiese un po’ allarmata e offesa Rosa, mentre Caramello la
guardava quasi spaventata.
Molti
altri sguardi si stavano gradualmente concentrando su di lei, che tuttavia fece
tutto velocemente.
-
I
miei libri! – disse confusamente – Sono giù, devo assolutamente andarli a prendere!
–
Un
putiferio di grida, urli ed esclamazioni si alzò intorno a lei, ma era ormai
sulla porta.
-
Ferma!
E’ impazzita! Vuole scendere! –
-
No,
Misurina, no! – riconobbe la voce apertamente disperata di Caramello.
-
Che
cosa fa? Dio del cielo, ci farà ammazzare tutti, oh Dio!
–
Ma
lei era insensibile a ogni urlo. Non aveva idea di che cosa fossero preda
quelle persone, e cosa diavolo temessero, ma lei doveva assolutamente scendere
a riprendere i suoi libri e i suoi appunti, o non avrebbe potuto studiare. Poteva
succedere qualcosa a quei fogli, poteva già essere successo, e addio esame,
addio appunti, avrebbe dovuto ricominciare a prenderli da capo, ed erano tutti
sottolineati e segnati di sua mano.
Era
già mezzo fuori dalla porta quando si sentì tirare indietro con forza, come se
fosse stata legata a un filo elastico fissato a un muro e si fosse allontanata
abbastanza da esaurirne la lunghezza massima. Quando si voltò vide il suo
braccio stretto nella ferma presa di Mangiafuoco.
-
Ragazza.
– disse con voce profonda, calma e seria – Sai cosa c’è giù. –
-
Sì
– mentì lei – ma non posso proprio lasciare i miei appunti, mi lasci andare, presto. Potrebbe accadere qualcosa,
potrebbero essere già ridotti molto male. –
Udiva
chiaramente il tono perentorio dell’uomo, al di sopra del concitato e disperato
vociare di sottofondo, ma tutti gli altri si erano fermati alle spalle di
Mangiafuoco, e non osavano procedere oltre per metterle le mani addosso, anche
se poteva chiaramente vedere il desiderio di farlo negli occhi di molti di
loro. Nei loro sguardi in preda al terrore e al furore più cieco e irrazionale
che avesse mai visto, tanto da far apparire le loro espressioni sconvolte
grottescamente folli, lesse che non l’avrebbero mai perdonata, e che
gliel’avrebbero fatta pagare.
Mangiafuoco
parlò di nuovo con voce tonante.
-
Se
vai giù, non tornerai più quassù. Nessuno di noi verrà giù con te, qualsiasi
cosa dovesse accaderti. E se ti prenderanno nessuno di noi verrà ad aiutarti in
alcun modo. Hai capito bene tutto? –
Misurina
si trovò a fissare gli occhi di ferro dell’uomo, fermi, decisi, assolutamente
irremovibili, che studiavano la sua capacità di comprensione e di decisione.
Occhi che sembravano aver dimenticato pietà e sentimento dietro la serietà
inoppugnabile di ‘che cosa occorre fare’. Quell’uomo le stava dicendo, in modo
estremamente corretto e conciso, che se lei rifiutava la sua guida e protezione
sarebbe stata fuori da tutto il gruppo e che nessun’altro avrebbe fatto
qualcosa per lei. Ma, a differenza dei furiosi
che scalpitavano alle sue spalle, sembrava le stesse semplicemente imponendo di
scegliere coscienziosamente.
-
Sì.
Ho capito benissimo. – confermò lei, e sostenne il suo sguardo duro con la sua
convinzione testarda.
L’uomo
la fissò ancora per un brevissimo istante, come se si stesse accertando,
studiandola, della veridicità delle sue parole. Quindi mollò la presa sul suo
braccio, così di colpo che lei, che era un po’ sbilanciata dalla parte opposta,
per poco non cadde.
–
Fai come credi. – la congedò lapidariamente lui.
Ma
gli altri alle sue spalle non furono d’accordo. Il vociare e le grida ripresero
più forte, e una donna di corporatura bassa e tracagnotta allungò le mani,
tentando di afferrarla. Misurina balzò in fretta fuori dalla loro portata.
Mangiafuoco stava ritto in piedi immobile sulla soglia, ostacolando senza
impedire esplicitamente che gli altri dietro di lui si gettassero subito avanti
per prenderla, e lei ne approfittò. Lanciò un ultimo sguardo a Mangiafuoco, e
poi riprese a correre, slanciandosi giù dalle scale.
Due rampe, e si ritrovò su un altro piano, scoprendo
che, in effetti, la baita aveva due e non un solo piano rialzato.
Nel
corridoio del piano di sotto, sul pianerottolo tra le rampe, c’erano cinque
persone, quattro uomini e una donna, e lei notò subito che avevano tutti un
fucile a testa. Uno di loro era in piedi alla fine delle scale che lei stava
scendendo, e impugnava anche una pistola. Quando lei
li vide erano già tutti in piedi, a nervi tesi e occhi puntati su di lei, così
come la maggior parte delle loro armi. Se si fosse accorta prima di loro forse
non avrebbe avuto l’ardire di arrivare così vicino, ma ormai che c’era, e visto
che loro non le avevano ancora sparato, in qualche modo trovò una certa
sicurezza in se stessa.
Si fermò a un paio di scalini di altezza rispetto al pianerottolo,
per guardarli tutti direttamente in faccia nonostante la sua altezza modesta, e
con tutta la decisione e il coraggio avventato che riuscì a raccogliere
proclamò.
–
Mangiafuoco ha detto che posso passare, che posso scendere e fare ciò che
voglio! –
Solo
dopo averlo detto precipitosamente, incalzata dal timore che aprissero il fuoco
su di lei, si rese conto di avere usato per l’uomo il nomignolo con cui l’aveva
battezzato tra sé e sé. Ma l’uomo che la teneva sommariamente
sotto tiro con la pistola e che la guardava attentamente e con evidente
astio non sembrava stupito o confuso nel sentire quel nome.
-
Mangiafuoco
non è il capo qui. Scendendo metteresti in pericolo tutti. – le disse, in tono indifferente,
a parte il fastidio e una rabbia repressa.
-
Lo
so – mentì di nuovo, fingendo di conoscere bene
la situazione in cui si trovava – Ma a voi cosa importa se io scendo e voi
restate su? Avete le armi, siete più che al sicuro. –
Non sapeva
esattamente cosa stava dicendo, improvvisava.
Uno
degli altri uomini fece un verso di sarcastica derisione. Evidentemente trovava
le sue parole insensatamente stupide.
-
Non
sai quello che dici. Devi essere impazzita. Avrebbero dovuto chiuderti con gli
altri… - disse freddamente l’uomo che le impediva il passaggio. Lei vide con
orrore le dita guantate vibrare appena sulla pistola, ma era anche palese che
era indeciso, che non stava ancora prendendo sul serio l’idea di fare fuoco.
-
E
quindi mi spareresti? Se sono impazzita, lascia che mi tolga dai piedi. Cosa vi
importa? Come posso mettervi nei guai? Mangiafuoco ha già detto che nessuno
verrà ad aiutarmi, va bene così… voi ve ne starete qui, e io farò ciò che devo
fa…-
-
Zitta
stupida, ascolta bene. – la interruppe l’uomo,
praticamente abbaiando – Ora ti lascerò
scendere, perché sarebbe uno spreco usare proiettili su di te. – disse tra i
denti – Ma tu non salire più. Mi hai capito? Se provi a risalire, allora sì che
sparerò. La regola è questa, l’abbiamo deciso tutti insieme e tutti erano stati
avvertiti chiaramente. Su chiunque sale dalle scale: aprire il fuoco. E tu, una
volta scesa, non farai eccezione per quanto mi riguarda, hai capito bene? E se
poi ti azzardi a permettere a qualcuno di salire per colpa tua, magari usandoti
come ostaggio, riceverai anche più pallottole, ti è
chiaro, maledetta pazza? Se ti rivedo, sparo, chiaro? E penso proprio
anche gli altri faranno lo stesso. –
-
Ci
puoi giurare… - borbottò un altro degli uomini sul pianerottolo.
-
Dovresti
ringraziare che non ti abbiamo già sparato. Sì, proprio uno spreco di
pallottole. – rincarò la dose la donna, che teneva saldamente il fucile con
entrambe le mani.
Misurina
si accorse di stare tremando un po’. Non aveva nemmeno preso un cappotto, e
aveva mangiato così poco che si sentiva lo stomaco vuoto. E ora le dicevano che
non poteva risalire più. Si chiese se giù avrebbe trovato cibo e coperte… ma
poi, perché non andarsene proprio da quella maledetta baita piena di paranoici
armati fino ai denti che sembravano temere la propria ombra e diffidare di
chiunque? Lentamente, inesorabilmente, annuì, sotto gli sguardi pieni d’odio
degli uomini e della donna armati che la osservavano.
-
Bene.
Ho capito. Se mi rivedrete, mi sparerete. Mi è
chiaro. – rispose piano, scandendo ogni parola prima
che il coraggio di pronunciare quella che sembrava una sentenza di morte per se
stessa le mancasse definitivamente.
-
Dubito
che qualcosa possa esserti chiaro. Sei pazza, questo sì che è chiaro. – le
sibilò l’uomo di rimando.
Ma
poi tacque, e si fece da parte, abbandonando definitivamente lungo il fianco il
braccio con cui reggeva la pistola. E lei passò, passò in fretta ma con cautela
tra quel gruppetto che la fissava con aggressività
trattenuta, stringendo le nocche intorno alle loro armi.
Prese
a scendere le ultime rampe di scale, stavolta lentamente, un gradino alla
volta, temendo da un momento all’altro di sentire un colpo d’arma da fuoco
risuonare alle sue spalle, subito seguito da un lancinante dolore da qualche
parte sul suo corpo. Forse non avrebbe nemmeno fatto in tempo a realizzare che
avevano sparato. Sarebbe stata colpita e basta,
sarebbe rotolata giù dagli ultimi gradini e basta,
e non si sarebbe più mossa prima ancora di aver capito cosa era successo,
benchè se lo aspettasse. Invece arrivò indenne, ed infinitamente sollevata,
fino all’ultimo gradino. Poi poggiò i piedi chiusi negli stivali da montagna su
moquette bruno scuro.
Il
piano terra era vuoto e silenzioso, ancora più impolverato e desolato dei piani
superiori, per quanto sembrasse arduo poterli superare in questo. C’erano
diverse stanze, separate da ampie porte, di cui alcune a vetri. Ma lei non
perse tempo ad esplorare, e come se riconoscesse il luogo passò subito per una porta, oltre la quale si apriva un
salone che poteva assomigliare alla reception di un albergo. C’era un bancone,
infatti, e dietro di esso delle scaffalature. La parete opposta era per la
maggior parte costituita da un’ampia portafinestra, vetro sporco e gelato
suddiviso in rettangoli da un’intelaiatura di
legno scuro, più spesso di quello delle finestre al piano superiore. Cercò di
vedere fuori, fermandosi prima di proseguire per attraversare il salone. Ma attraverso quei vetri annebbiati si poteva vedere il
paesaggio esterno solo confusamente.
Una
distesa di neve ricopriva una piccola radura antistante quell’ingresso, che si
interrompeva sul limitare di una foresta fitta di tronchi scuri e di fronde
verde cupo incappucciate e appesantite dalla neve. Alberi
di montagna, alti e imponenti, sempreverdi, con la corteccia rigida che
fa da scudo ad ogni freddo e gli aghi sottili che abbandonano i rami poco alla volta un
po’ tutto l’anno, ma mai tutti insieme per una grossa muta
come gli alberi abituati a climi più miti. In quel tripudio di agopuntura di
clorofilla crescevano, silenziosamente nascoste, pigne su pigne, e gli scoiattoli forse
scorazzavano quando c’era più caldo.
Non
c’era niente di vivo lì fuori che apparisse anche
evidentemente pericoloso o minaccioso.
Misurina
trovò così conferma alle sue impressioni. Quegli uomini e quelle donne ai piani superiori dovevano essere tutti preda di
chissà quale fobia immaginaria, sviluppata a forza di stare chiusi tutti
insieme là dentro, al caldo, ma a morire
lentamente di fame e a costruirsi trame fantasiose di reciproci inganni e
risentimenti soffocanti. E a inventarsi nomi assurdi e malsani giochi mentali.
Doveva essere contenta di esserne venuta fuori prima che, oltre a perdere la
memoria completamente, come già le era
accaduto, iniziasse ad ammattire come loro.
Così
attraversò il salone, notando che sul pavimento c’erano diversi bagagli sparsi;
e fu estremamente felice di scoprire che questa era
un’immagine familiare, qualcosa che si ricordava.
Muovendosi
tra valigie, borse, zaini di varie fogge e dimensioni e sacche e via dicendo,
scavalcandoli con attenzione e guardando in giro, con
l’attenzione precisa di uno sciacallo
in cerca di preda sul campo di una battaglia finita, spostando di tanto in
tanto qualche bagaglio per vedere se aveva sepolto qualcosa sotto di sé, alla
fine riconobbe uno zaino che le apparteneva.
Ormai
aveva rinunciato a chiedersi com’era possibile che di tutta la sua vita fino a
quel momento possedesse solo pochissimi ricordi, e che la maggior parte di essi
fossero cose ben bizzarre da ricordare. O forse sono le versioni romanzate dei
casi di amnesia, aveva riflettuto prima, che illudono le persone che, perdendo
la memoria, si possa ricordare poi prima di tutto le cose più importanti, come
la propria identità, i propri affetti, il proprio lavoro, la propria casa, il
primo amore o l’ultimo, e cose del genere. Forse in realtà era normale che
andasse così.
Mentre
apriva con mani febbrilmente rapide e un po’ tremanti lo zaino che sapeva
appartenerle, si rese conto che non ricordava che cosa studiava, che materie,
che corso frequentava, per diventare chi o per acquisire quali competenze. Ma
ora se non altro poteva scoprirlo, e ciò la rese incommensurabilmente felice.
Non era più completamente impotente nei confronti del terribile vuoto, della
spietata tabula rasa della sua testa, alla stregua di
un manichino abbandonato in un deserto bianco come
il nulla. Aveva ricordato abbastanza indizi per ritrovare qualcosa che le
apparteneva, un intero zaino, e, benchè
avesse dovuto superare pazzi armati e scale e andare incontro alle leggende di
ignoti e terribili pericoli, ora era lì con tra le mani tutto un bagaglio di
informazioni su sé stessa. Fantasticava su quante cose poteva contenere, e
sperava magari addirittura di poter leggere il suo nome, un numero di telefono,
un indirizzo, le pagine di un diario, di un’agenda, trovare delle foto,
immagini… quante cose poteva scoprire, e quanto ogni singola cosa poteva
scatenare magari un recupero a catena di sprazzi di memoria…
Era
così intenta a cercare di aprirlo, dal momento che era ben chiuso e legato e
impacchettato, come se avesse dovuto
affrontare chissà quali sballottamenti, e così persa in queste rosee
considerazioni, che udì il rumore di qualcosa che si muoveva felpatamente tra i bagagli sulla moquette solo quando esso
era già molto vicino, anzi proprio dietro di lei.
Esitò
prima di voltarsi, paralizzata dalla sorpresa e dalla paura. Troppo tardi
realizzò che anche il qualcuno o qualcosa alle sue spalle l’avrebbe vista
immobilizzarsi e avrebbe così capito di essere stato udito.
Si
mossero contemporaneamente: lei iniziò a voltare rapidamente la testa per
scoprire di chi si trattava, e quel qualcuno o qualcosa
abbatté violentemente qualcosa di duro
poco sopra la sua fronte.
Il
buio invase il suo campo visivo, il dolore fulminante del colpo le tolse il
respiro e ogni senso dell’equilibrio, del movimento, della vista. Le orecchie
iniziarono a ronzarle, ma se ne rese conto
solo dopo che il suo corpo era caduto riverso sugli zaini e le valigie che
coprivano il pavimento.
Nonostante ciò non perse conoscenza del tutto. Semplicemente non riusciva a
capire o sentire bene cosa accadeva, o ne aveva intuizioni brevi e confuse, come
una scena illuminata di tanto in tanto e solo in parte da lampi troppo brevi in
un’oscurità assoluta. C’erano diversi individui di forma pressappoco umana
intorno a lei, anzi passabilmente simili a una forma umana, ma avvolta in tute
contro il freddo. Avevano cappucci e maschere da sciatori che coprivano le loro
teste, i loro occhi e i loro nasi, e quasi tutti tenevano una sciarpa sopra la parte
inferiore del viso, rendendosi completamente irriconoscibili. Impugnavano armi,
soprattutto fucili ma anche qualche mitra.
Due di costoro, forse tre, ma ne aveva intorno una
mezza dozzina,
la afferrarono bruscamente per le braccia, sollevandola da terra a metà e
trascinandola sul pavimento, muovendosi rapidi e silenziosi, di collettivo
accordo.
Non
riuscì nemmeno a pensare cosa potevano volerne fare di lei o se credevano di
averla uccisa, e se se ne sarebbero sincerati di lì a poco, o se si
contentavano di averla stordita e basta. Non riusciva nemmeno a tenere chiusa
la bocca, il labbro inferiore penzolava disordinatamente, e non poteva ordinare
a nessuna parte del corpo di muoversi, figuriamoci addirittura formulare
ipotesi o rendersi conto che sarebbe stato saggio e plausibile preoccuparsi, e
anche avere proprio una paura dannata, in quel frangente.
Gli
uomini tutti imbacuccati la trascinarono verso la portafinestra del salone, che
era aperta, notò, ed evidentemente non aveva cigolato abbastanza da avvertirla
del loro arrivo. Ma tutti questi ragionamenti li avrebbe fatti in realtà più
tardi. Al momento era troppo impegnata a farsi trascinare in totale
ottundimento, come una preda che non si aspetta più e non capisce perché è
ancora viva.
Fuori, il
freddo fu come un altro duro colpo, uno schiaffo su tutto il corpo e in
particolare sulla faccia e le mani nude; inizialmente sembrò prometterle di
restituirle un po’ di lucidità, ma alla fine si rivelò solo qualcosa di più
contro cui lottare per restare un minimo cosciente. Se non altro, il suo istinto di sopravvivenza era meno
ottuso di lei in quei momenti, e sapeva che doveva cercare di non perdere i
sensi, anche se, si sa, gli istinti di sopravvivenza puri e duri raramente
mostrano sintomi di ragionevolezza o scendono troppo a patti con le
particolarità specifiche delle situazioni di pericolo. Il loro compito primario
sarebbe stimolare ragionamenti, decisioni e azioni miranti allo scopo di
conservarsi in vita, ma al momento in Misurina, stordita come un visone che
viene sbattuto per terra prima di essere spellato vivo, non c’era niente di stimolabile che potesse reagire e funzionare. Poteva solo
continuare ad assistere a ciò che avrebbero fatto del suo corpo.
Gli
umani la trascinarono fuori, rallentando un po’ impacciati sulla neve,
nonostante le calzature di pelliccia che indossavano sembrassero
molto pratiche per muoversi in quasi un metro di neve. Misurina, che pendeva
esanime e veniva strattonata senza troppi complimenti, ci affondò
miserabilmente in mezzo come se ci si tuffasse e vi nuotasse, stile
pesce-morto. La neve le si impigliò nei capelli e nel maglione, le entrò un
poco in bocca, nel naso e negli occhi, si impigliò su ciglia e sopracciglia e
iniziò a infradiciarle i pantaloni e a infiltrarsi malevolmente dentro gli
scarponi.
Continuando
a trascinarla a quel modo aggirarono un paio di angoli della baita, procedendo
ridosso ai muri, e infine si staccarono da essa e percorsero il breve tratto di
terreno discendente che separava la baita dalla foresta. Si immersero tra gli
alberi, sempre senza rallentare, ma se non altro dedicando un minimo
d’attenzione al fatto che il corpo esanime che trascinavano non sbattesse
contro i tronchi.
Misurina
vedeva tronchi e tronchi, in un continuo
ripetersi labirintico che la confuse ancora
più di quello che era possibile, perciò chiuse gli occhi, pur senza perdere
coscienza del tutto… forse… Comunque, quando li riaprì, avendo percepito un
rallentamento nel suo essere trascinata, vide spuntare tra gli alberi una
moltitudine di tende di colore verde cupo o marrone scuro, che risaltavano
sulla neve ma si confondevano a meraviglia col colore
della corteccia. Un intero accampamento, con diverse tende, e alcune
sagome conciate come quelle che la trascinavano che si muovevano tra di esse.
Di lì a poco gli uomini la stavano trascinando tra le tende miste ai tronchi, e alcune di quelle sagome che vi si
muovevano in mezzo si fermarono ad assistere alla scena e a guardarla. Ma gli
uomini che la portavano non sembravano disposti a temporeggiare, forse anche
perché iniziava a percepire un certo affaticamento
nelle loro braccia che la sostenevano. Infine,
proprio quando iniziava ormai a rassegnarsi e a pensare di abbandonarsi
all’oblio del trascinamento, si sentì lasciare andare e
cadde pesantemente, sprofondando con la faccia nella neve. Le mancò
l’ossigeno, e mentre iniziava a cercare disperatamente di recuperare abbastanza
lucidità e controllo sul suo corpo per girare la faccia e sottrarsi a una futile
morte di affogata a pancia in giù nella neve, una mano imbottita da un grosso
guanto, come quelle che l’avevano trascinata fino a quel momento, le afferrò
brutalmente una spalla e la scaravoltò abbastanza da permetterle di avere il viso rivolto
verso l’alto, verso l’ossigeno, verso la salvezza. Intravide una sagoma confusa
o due chine su di lei, e oltre di loro altre sagome in piedi, e, ancora oltre, un
tetto di lontane fronde verde scuro, e forse
qualche sprazzo di cielo bianco e fumoso tra esse.
Fu
allora che perse conoscenza.
***
Una
serie di schiaffetti rigidi sulle guance e qualcosa di gelido e bagnato che le
veniva spalmato in faccia la riportarono fastidiosamente al risveglio. Prima di
provare ad aprire gli occhi realizzò brevemente che stavolta, purtroppo,
ricordava. Ricordava tutto quello che era accaduto da quando si era svegliata
sul pavimento di legno di una baita pullulante di polvere e di matti armati,
senza avere idea di chi era e di perché si trovava lì.
-
Avanti,
apri questi occhi, è ora di svegliarsi. – le disse una voce, non arrabbiata ma
sbrigativa. Voce di donna.
Fu
seriamente tentata di continuare a fingersi svenuta, ma qualcuno non la
piantava di affibbiarle schiaffetti sulle guance e di spalmarle acqua fredda
sulla faccia con mano aperta e affatto gentile. Così, alla fine, fece un
tentativo più serio e riuscì a sollevare le palpebre pesantissime. Si scoprì
seduta per terra, e ‘terra’ era il fondo cerato di una tenda con sopra un
tappeto e una coperta o due; nonostante ciò le sembrava di sentire il freddo
pungente della neve a pochi centimetri dalle sue natiche. Si accorse di stare lentamente recuperando
il controllo del corpo, e nel frattempo emise un lamento di protesta e tentò di
sottrarre la sua faccia a quei trattamenti insistentemente importuni.
-
Va
bene, basta così. – ordinò perentoriamente un’altra voce.
Accovacciata
accanto a lei c’era una donna ben piantata, avvolta tutta nella tuta uguale a
quella di quelli che l’avevano colpita e trascinata, ma che aveva abbassato la
sciarpa e alzato la maschera abbastanza da lasciare vedere il suo viso dal
grosso naso, la pelle arrossata dal freddo e un po’ invecchiata dall’età e due
occhi castani che la guardavano con un vago accenno di apprensione materna.
Erano le sue mani, senza guanti, che la stavano schiaffeggiando e spalmandole
in faccia acqua fredda presa da una borraccia aperta appoggiata lì vicino, e
non si erano fermate nonostante ciò che aveva detto l’altra voce.
-
Ancora
un po’. Ha preso una bella batosta. – insisté la donna in risposta all’altra
voce.
Misurina
non era affatto d’accordo, e cercò di sottrarsi al trattamento. Scoprì così di
avere le braccia immobilizzate, e in particolare legate intorno a un palo di
legno portante la tenda in cui si trovava e al quale appoggiava la schiena. Ciò
la allarmò non poco.
-
Adesso
basta. – ripeté la voce con più decisione - È abbastanza sveglia da accorgersi
di essere viva e di essere legata. E scommetto che riuscirà anche a parlare
abbastanza per fare una bella chiacchierata. Grazie. – e la donna, finalmente,
ritrasse le sue fastidiose grosse mani contadine, le asciugò con uno straccio,
le rinfilò nei
guanti, chiuse la borraccia e si alzò.
-
D’accordo. – disse a quel punto, fissando Misurina dall’alto con
aria non troppo convinta – Ma secondo me l’hanno colpita troppo forte. Hai
visto com’era quando l’hanno portata. Sarà già tanto se si ricorda il suo nome.
–
Questo, naturalmente, non contribuì affatto a migliorare l’umore
di Misurina. Comunque, al momento era impegnata a fissare l’altra figura che
occupava l’ambiente della tenda. Sembrava una donna, per quello che si poteva
intuire del suo corpo, coperto dalla grossa, pesante tuta che avevano tutti in
quell’accampamento, a quanto pareva, completa degli stessi grossi guanti, degli
alti stivali in pelliccia che terminavano poco al di sotto del ginocchio, degli
occhialoni che teneva calati sugli occhi e dello sciarpone
che invece teneva abbassato, lasciando vedere un mento pallido e affusolato e
labbra rosa, dritte e anonime come se fossero state abbandonate da ogni dovere
di espressività mentre la loro proprietaria era assorta in chissà quali
speculazioni.
-
Bene,
allora io vado. – disse la donna che si era “presa cura” del suo risveglio, e
dopo essersi ricalata la maschera su occhi e naso e
alzata la sciarpa sulla bocca, uscì dalla tenda.
L’altra
donna, più magra e alta della prima, se ne stava con le braccia incrociate sul
petto, in piedi davanti a un tavolo da campeggio con sopra una bussola, una
pistola, un pacchetto di sigarette e qualche altro oggetto che Misurina non
riuscì a identificare con precisione. Dopo un po’ le sue labbra sorrisero
appena, un sorriso piuttosto falso, e quella si mosse, prese un ciocco di legno
che sembrava venisse utilizzato come sgabello e venne a sedersi a qualche metro
da lei. Infine, quando si fu accomodata, abbassò la maschera dal viso facendola
penzolare attorno al collo ispessito dalla sciarpa e si tolse il cappuccio. I
suoi occhi, di taglio un po’ sottile e
affusolato, erano azzurri come il ghiaccio e
altrettanto freddi all’apparenza. Ma l’espressione complessiva era quasi
affabile, incorniciata in parte da capelli biondo grano, quasi lisci e
all’apparenza morbidi benchè provati dalla scarsa cura che veniva loro
dedicata, e difatti erano tenuti strettamente legati indietro, a parte due o
tre ciocche sfuggenti.
-
Penso
che tu abbia capito quale sia la tua posizione, al momento. – esordì con
sincerità che sembrava dettata da un fugace senso di dovere per la cortesia,
denso di doppi fini.
-
No.
Per la verità no. So solo che sono stata colpita in testa, trascinata nella
neve e legata. E schiaffeggiata. – riassunse Misurina, con risentita esattezza,
anche se era tentata di entrare maggiormente nei dettagli, come le suggeriva il
malumore che le stava montando dentro, acuito anche dal pulsare doloroso della
sua fronte, dove doveva aver ricevuto il colpo.
-
Dovrei
domandartene scusa? Certamente se avessi visto degli uomini in tuta con i volti
coperti e armati che ti circondavano all’improvviso non penso che saresti stata
propensa a farti portare fuori senza urlare e mettere così sul chi va là quelli
dei piani superiori. Capisci, loro non sanno,
in effetti, che noi siamo riusciti a entrare al piano terra. Non ancora. Anche
se ritengo che abbiano qualche sospetto sul perché non abbiamo ancora rotto
tutte quelle vetrate per fare irruzione. – spiegò pacificamente la donna. Un
luccichio di furba malizia le illuminava a tratti l’azzurro degli occhi. E Misurina notò come usasse il ‘loro’, come a
suggerire che lei, dal momento in cui era stata trascinata via dalla baita, non dovesse più considerarsi parte in nessun
modo di quelli che vi erano rimasti.
-
E
perché non lo avete ancora fatto? – incalzò, sentendosi stupida per essersi
fatta prendere così.
Sicuramente
non si poteva dire che fosse stata cauta e attenta. Altre mille domande le
frullavano per la testa a quel punto, tra cui spiccavano ‘chi diavolo sono
queste persone? cosa ci fanno qui? cos’è questa specie di guerra tra attendati
e occupanti della baita?’ Ma non le sembrava
prudente ora buttare fuori tutti quei dubbi. Inoltre, anche quella donna
sembrava aspettarsi che lei conoscesse la situazione. Nel sentire la sua
domanda aveva sorriso melliflua.
-
Questioni
tattiche. Non credo possano interessarti veramente al momento. Che ne dici se
parliamo piuttosto della tua situazione attuale? Vedi,
avrei alcune proposte da farti. –
‘Chiamale
proposte!’, pensò Misurina occhieggiandola sospettosamente. Se non altro non si
sentiva abbastanza stupida da non capire che qualcuno che ti lega al palo di
una tenda dopo averti colpito e rapito e parla di proposte, sta in realtà per
patteggiare la tua eventuale sopravvivenza. La donna sembrò decidere che era
interessata, perché continuò.
-
Non si tratta di una cosa difficile in realtà. Dopotutto, di te
non ce ne importa niente. Non prenderla sul personale, insomma, ma quel che
voglio dire è che la tua sopravvivenza o la tua morte non rappresentano al
momento per noi un problema di scelta. Siamo sul punto di prenderli, tutti
quelli della baita, sappiamo come fare e sappiamo che riusciremo a farlo senza
particolari intoppi. Tuttavia, per fare bene queste cose occorre tempo. Nessuno
di noi è quel tipo di persona che trae piacere dal prolungare le situazioni di
scontro e tensione; pertanto accorciare i tempi sarebbe un gradito progresso.
Si potrebbe anche dire che forse diminuiremmo un poco il rischio di perdite, di
feriti e così via. Tutto questo sarebbe possibile se tu ti rivelassi una buona
fonte di informazioni. Mi segui? –
Misurina
decise di prendere tempo, per non creare una situazione eccessiva di scontro e
tensione in cui lei, vista la sua posizione legata e disarmata, si sarebbe
sicuramente trovata in svantaggio. Perciò si limitò ad annuire. Ma qualcosa
parlò per lei, e precisamente il suo stomaco, che emise un sonoro lamento.
La
donna, che stava per riprendere il suo discorso introduttivo, si interruppe, e
fissò un po’ sorpresa chi aveva parlato. Poi, lentamente, sorrise.
-
Bene,
ecco, vedi com’è ridicolmente semplice? Il tuo stomaco qui mi ha già detto
qualcosa. Non hanno molti viveri là dentro ormai, vero? –
Misurina
esitò, ma non vedeva perché avrebbe dovuto rifiutarsi di parlare riguardo a una
cosa così ovvia. Mandando giù repentinamente i rimorsi di coscienza riguardo
alle persone rinchiuse nella baita, e in particolare a Caramello, Rosa e Corvo,
mormorò un ‘credo di sì’ molto piano.
-
D’accordo.
Aspetta solo un momento. – disse la donna. Si alzò e andò verso l’ingresso
della tenda. Si sporse attraverso di esso e disse qualcosa rivolta a qualcuno
fuori, forse qualcuno di guardia, poi ritornò a sedersi sul ciocco di fronte a
lei.
-
Bene. Come stavo dicendo, tu potresti raccontarmi qualcosa di
quello che è successo e che sta succedendo là dentro. Dopo di che, dal momento
che per noi non rappresenti niente di importante, potresti andare dove
preferisci, e noi ti lasceremmo andare, purchè tu non ritorni alla baita
chiaramente. –
-
Ah,
di questo non c’è pericolo. Mi sparerebbero se lo facessi. – commentò
sarcasticamente amareggiata Misurina.
Gli
occhi della donna sfavillarono di nuovo – Quindi hanno ancora munizioni. Ma non
capisco – aggiunse quasi subito – perché dovrebbero spararti. -
-
Perché
evidentemente, proprio come per voi, non rappresento niente di particolare. –
commentò Misurina. Le stava tornando in mente lo zaino. Il suo tesoro, dove
aveva lasciato tutte le informazioni che potevano riguardarla. Pensarci le
faceva venire una terribile voglia di piangere. Non poteva più tornare a
prenderlo. Doveva forse morire senza nemmeno sapere come aveva vissuto fino a
quel momento? Come aggiungere nulla al nulla, come annientare il niente.
-
Ascolti.
Non vi posso essere di grande aiuto. Io… - esitò, e le venne un’idea per
rendere le cose più credibili – Vede, da quando ho ripreso conoscenza poco fa…
non riesco a ricordare, non ricordo nulla, nemmeno il mio nome. Cioè – aggiunse
frettolosamente di fronte all’espressione di freddo disappunto della donna –
ricordo alcune cose… ricordo quello che è successo oggi alla baita… ma non
riesco a ricordare niente fino a ieri. – concluse, cercando di pensare, di
farsi venire buone idee.
La
donna la studiò in silenzio per qualche minuto, e lei ritenne saggio tacere.
Poi, però, ebbe un’idea migliore. Tornò a concentrarsi sullo zaino, e di come
aveva perduto in un attimo tutte le sue speranze di ricordare… e le lacrime
affiorarono ai suoi occhi e presero a colarle giù per le guance
silenziosamente. Ciò parve darle un po’ più di credibilità agli occhi azzurro
impassibili della sua interlocutrice.
In
quel momento la donna
massiccia di prima fece capolino nella tenda.
-
Signora,
entro? – domandò, abbassandosi sciarpa e alzandosi gli occhialoni sulla fronte
per rendersi riconoscibile.
-
Sì, vieni pure. – la invitò l’altra senza
degnarla di uno sguardo, e quella entrò, portando tra le mani guantate un contenitore
chiuso grosso pressappoco come un pallone da calcio.
-
Ti
ho fatto portare qualcosa da mangiare. Magari potrà aiutarti a ricordare… ma
perché prima non mi dici intanto quello che ti ricordi, quello che è successo
oggi? – disse la donna, mentre già lei
guardava con preoccupazione l’oggetto temendolo un aggeggio di tortura.
Misurina
sapeva che non era necessario raccontarle proprio tutto. Inoltre era meglio
soprassedere sui motivi che l’avevano spinta a scendere al pianterreno.
Riguardo a quello disse che aveva lasciato giù qualcosa d’importantissimo, ma
al momento non riusciva appunto a ricordare di cosa si trattasse. Parlò degli
uomini armati sul pianerottolo, facendo illuminare gli occhi della donna, che
si rabbuiarono invece quando non seppe dire con esattezza di cosa discutevano
gli uomini e le donne con Mangiafuoco, alla descrizione fisica del quale si
mostrò invece particolarmente interessata. Misurina non parlò di Caramello e di
Rosa o di Corvo in modo particolare, limitandosi a citarli come parte del
gruppo e come i meno informati, per proteggerli.
-
E
i bambini? – si intromise all’improvviso la donna
ben messa che si stava occupando di aprire il contenitore del cibo, dal quale
proveniva un delizioso odore che stava tormentando l’olfatto di Misurina. Sia
lei che gli occhi cerulei della sua interrogatrice la fissarono con sorpresa.
-
Quali…
che bambini? – chiese confusa Misurina. Forse anche tra le file di quegli
attendati non erano tutti con le rotelle in regola, considerò tra sé e sé.
Ma
la donna assunse un cipiglio severo e un po’ offeso, come se ritenesse che lei
volesse prenderla in giro – Ci sono dei bambini là dentro. Ne sono certa. Non
fare la furba con me, ragazza. Come stanno i bambini? –
Misurina
esitò, era una trappola? O era semplicemente pazza anche lei?
-
Manona, questo non ci interessa al momento.
Inoltre, questa ragazza afferma di soffrire di amnesia a causa della botta.
Proprio come avevi suggerito tu prima. – specificò con una lieve intonazione di
duro rimprovero l’interrogatrice. La grossa donna che sembrava portare il nome
di Manona arrossì lievemente, ma bofonchiò qualcosa
come ‘Beh, non mi stupirebbe che fosse vero’ abbassando gli occhi verso il
terreno. Occhi-azzurro-freddo tornò a voltarsi verso
Misurina e sorrise appena, conciliante.
-
Allora,
ricordi altro? –
-
No…
credo di no… Non ho fatto in tempo a trovare quello che stavo cercando,
qualsiasi cosa fosse, perché quelli… i vostri… beh, loro mi hanno colpito. –
terminò Misurina, spiando di sottecchi Manona che
riempiva di una minestra verde in cui galleggiavano pezzetti di qualcosa una
ciotola e ci aggiungeva un cucchiaio.
-
Per
il momento allora può bastare. Manona, dalle da
mangiare, e falle portare un cappotto. Più tardi penso che avremo occasione di
parlare di più… - esitò – a proposito, come ti chiami? –
Misurina
la guardò dritta negli occhi, e sospirò – Come le ho detto… non riesco a
ricordare il mio nome… ma non mi dispiacerebbe chiamarmi, hem,
Misurina, è la protagonista di una storia che ho letto una volta… -
Negli
occhi azzurri brillò qualcosa. – Sì,
certo, la conosco la storia dello specchio di Misurina. Va bene, Misurina. Non
ci dispiacerebbe avere il tuo vero nome, ma se faremo presente a quegli stupidi
che abbiamo un ostaggio sono certo che loro, visto che sono così pochi, non ci
metteranno molto a capire di chi si tratta, non ti pare? –
Misurina
la guardò confusa – Un ostaggio? Ma le ho detto che loro hanno giurato di
spararmi se mi rivedono. Come le ho spiegato, credevano che li avrei messi
tutti nei guai se… - la sua voce sbiancò mentre la donna rideva.
-
Oh,
Misurina, e non è quello che hai fatto? Sei stata carina a fingere un’amnesia,
ma vedi, ora come ora forse potresti trovarti a scegliere se esser costretta a
tornare da loro per essere fucilata o se restare con noi e prolungare la nostra
chiacchierata; ovvero tra l’andare a far loro
compagnia mentre muoiono di fame e si aggrediscono gli uni con gli altri come
cani rabbiosi, oppure restare qui a mangiare qualcosa di caldo, coprirti con un
cappotto e poter passare le giornate a dormire in una tenda tranquillamente.
Naturalmente potremmo anche lasciarti andare, ma dove potresti andare da sola,
nel bel mezzo del nulla, a zonzo per la foresta con questo freddo e la neve? Al
massimo saresti un buon pranzo per i lupi. –
Detto
questo la donna si alzò dal ciocco. Si voltò verso Manona
e disse con tono incolore – Bene, puoi darle il suo cibo. –
Prima
che Manona potesse rispondere, un uomo coperto di
tuta, sciarpa, occhialoni eccetera chiese da fuori il permesso di entrare, e
una volta accordatogli si fermò sulla soglia della tenda e comunicò brevemente
a Occhi-azzurro-gelido che era richiesta la sua
presenza. Lei disse che arrivava subito, si voltò sbrigativamente verso Manona e disse - Tu
sai cosa devi fare. – e poi, verso Misurina – Ci vediamo più tardi, Misurina. –
e pronunciò il suo nome con un tono talmente crudelmente ironico che lei decise
che non poteva chiamarsi più Misurina. Forse poteva chiamarsi Ostaggio, a quel
punto, considerò stordita dalle disperanti aspettative che quei diabolici occhi
di cielo le avevano gettato addosso tutto in una volta, come una doccia ghiacciata.
Manona si sporse fuori dalla tenda per
chiedere che portassero un cappotto per l’ostaggio, e poi le si avvicinò con la
zuppa fumante e le porse davanti al naso un cucchiaio penzolante pieno di zuppa
calda. Così, con l’animo ben oltre ogni soglia di seppellimento possibile,
Ostaggio si trovò anche costretta ad essere imboccata da quel grosso donnone
che straparlava di bambini ma che, mentre lei mangiava e piangeva in silenzio,
ebbe almeno il buon senso di non dire una parola.
N.d.A.
un
consiglio a chi eventualmente stesse leggendo: non affezionarsi ai nomi propri
in questa storia.
Altra nota: le poche
righe che precedono i capitoli non vogliono essere un riassunto o anticipazione
o accompagnamento del capitolo che li segue, anche se qualcosa a che vedere con
la trama generale lo hanno...
Grazie di cuore a
Nina, che con la sua collaborazione mi sta davvero aiutando a rendere più
leggibile il tutto :)