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Autore: VeganWanderingWolf    13/01/2010    1 recensioni
Qualche maligno dice che chi invece si risveglia dall’altra parte, si sveglia nel sogno, potrebbe non ricordare più nemmeno del sé stesso di quando non sogna.
Introduzione modificata per uso di codice html pesante.
Charlie_2702, assistente admin
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parte II: LUPO DI PELO E GLI INSIDIOSI ASSEDIANTI

 

Dimmi, cosa corre come il vento sulla neve

Dimmi, cosa ti guarda per mangiarti, silenzio famelico

Dimmi, cosa preferisci, se di denti o di pallottola, il sangue è sempre sangue

Dimmi, cosa ti appesantisce mentre corri per la tua pelle, gli occhi sulla schiena di innocenti

 

 

 

Parte II: ZAINI DI PROMESSE INFRANTE E ALBERI TRA LE TENDE

 

 

 

C’era una ragazza, una ragazza rannicchiata sul pavimento di legno, poca polvere, molte schegge. Si trovava di nuovo per terra, e ciò le diede uno spiacevole déjà vu. Si tolse le mani dalle orecchie con lenta precauzione, saggiando l’assenza di suoni insostenibili dall’udito e dal corpo. Il suono terribile era scomparso, scemando lentamente fino a permettere alle sue mani, pigiate sulle orecchie, di vincerlo. E ora non lo si poteva più udire. Svanito.

Appoggiò le mani a terra, per sostenersi più stabilmente, riprendendosi a grandi respiri profondi dallo stordimento doloroso attraverso il quale era passata. Quando alzò lo sguardo, istintivamente, sull’ultima cosa che ricordava di aver visto, si accorse che anche quella era svanita. Corvo non era più seduto per terra, schiena appoggiata alla gamba del tavolo – di legno, naturalmente – con la sua smorfia di doloroso fastidio. In un certo senso ne fu sollevata. Si rese conto di aver ormai sviluppato la timorosa aspettativa di cosa si poteva vedere balenare in quegli occhi corvini. Ma si chiese anche se ci fosse stato davvero un ragazzo dagli occhi corvini che le aveva chiesto un nome stando seduto per terra.

Girò attorno lo sguardo nella stanza. Gli uomini e le donne erano tutti ritti in piedi attorno al loro tavolo, immobili, e con varie espressioni di spaventato nervosismo, come se si aspettassero e temessero di udire quel suono. Tutti gli sguardi erano fissi verso una sola direzione, e lei, naturalmente, la seguì col suo, trovando che fissavano semplicemente una parete della stanza. In quella parete c’erano tre finestre con le loro tendine e i vetri appannati dal freddo e dallo sporco. Ad una di esse il ragazzo corvino, ritto e immobile, guardava fuori, con le mani in tasca. Ma aldilà del suo atteggiamento imperturbabile, e nonostante lei potesse vedere come parte più espressiva di lui solo la schiena al momento, le parve che fosse particolarmente concentrato.

Tornò a voltarsi verso gli uomini e le donne attorno al tavolo, che non fissavano il ragazzo in particolare, ma la parete; guardavano, evidentemente, pur senza voler davvero vedere, ciò che stava fuori dalla baita, oltre quel muro, verso ciò che aveva prodotto il suono intollerabile.

Lentamente alcuni di loro iniziarono a muoversi, e prima di tutti l’uomo dai baffi screziati di grigio, bianco e nero. I suoi occhi grigi e forti si spostarono su di lei, che ancora era seduta per terra, e la considerarono solo per un breve momento, come se stesse valutando cosa ci si poteva aspettare di ottenere di buono da lei. Senza poterci fare niente, Misurina, come aveva deciso per il momento di soprannominarsi, sentì di stare iniziando a vergognarsi. Tutti gli altri erano in piedi, certo spaventati e ammutoliti, ma nessuno come lei era crollato per terra per il dolore pigiandosi le mani sulle orecchie. Se non altro, almeno era evidente che il suono l’avevano udito tutti, non solo lei.

L’uomo che tra di loro sembrava essere il capo della situazione aveva già distolto lo sguardo criticamente analitico da lei, dicendo con la sua voce tonante – Avanti, adesso torniamo al lavoro. Se ne sono andati. – e, visto che gli uomini e le donne esitavano, aggiunse, a malincuore – Non è vero, Corvo? –

La ragazza sussultò. Quell’uomo doveva aver udito la loro conversazione di poco prima riguardo ai nomi, e questo mentre era impegnato a studiare percorsi e mappe e discutere con gli altri. Doveva essere una persona molto più che carismatica e attenta… qualcuno che riusciva a mantenere il controllo della situazione anche e soprattutto grazie alle sue capacità di monitorare ogni cosa che gli accadeva intorno. Tuttavia, nei confronti di quel suono orribile, persino lui sembrava non avere intenzione di fare nient’altro che lasciarselo alle spalle repentinamente.

Il ragazzo interpellato si era voltato, ora, e si stava allontanando dalla finestra tornando a passi tranquilli verso di loro. Quando sentì la domanda dell’uomo alzò le spalle, e gli scoccò un rapido sguardo di divertita malizia, ma subito tornò a guardare per terra, come se non volesse tradire il suo stato d’animo con gli altri.

-          Così sembra. Non si vedono più. – disse solo, come se rifiutasse di fare affermazioni avventate in proposito, e consigliasse agli altri parimenti di non farsi idee troppo tranquille.

Gli uomini e le donne lo guardavano con diverse espressioni di diffidenza, risentimento e sgradevolezza, ma sembrarono accogliere con un certo sollievo le sue parole, e l’uomo che presiedeva la riunione tornò subito a ignorare Corvo, come se fosse scomparso subito dopo aver parlato.

- Continuiamo. È molto importante e non c’è molto tempo. – stabilì, con la sicurezza di chi fa affermazioni universalmente accettate come più che vere. Gli altri tornarono, un po’ esitanti e decisamente più nervosi di prima, a concentrarsi sulla mappa. In quanto a Corvo, si accomodò tranquillamente sulla sedia occupata poco prima da Rosa, o da Caramello, e osservò con sguardo malinconicamente assorto la tazza vuota di cioccolata. La stava ignorando palesemente, si sarebbe detto, ma non intenzionalmente. La ragazza si alzò in piedi, senza per questo ottenere da lui nessuna reazione, e si sedette sull’altra sedia, spostandola un po’ per non essergli troppo vicino.

Dopo qualche minuto di silenzio, durante il quale si udiva in sottofondo l’impegnato discutere del gruppo intorno alla cartina, e mentre il ragazzo continuava a fissare l’interno della tazza vuota come se stesse cercando di trarvi qualche predizione o interpretazione del presente, lei si decise a chiedere, in tono più incerto di quel che si era aspettata – Che cos’era quel suono, Corvo? -

Ebbe l’impressione che lui l’avrebbe ignorata, se non avesse pronunciato il suo nomignolo con tanta seria determinazione, come invocando una risposta e ordinandogli di parlare. Le lanciò un breve sguardo, dando l’impressione di ritenere la sua domanda curiosa, e tornò a fissare la tazza, quasi la trovasse più interessante di qualsiasi altra cosa contenuta in quella stanza. Per un po’ lei pensò che non le avrebbe risposto affatto. Poi, imperturbabile, parlò.

-          Il loro canto. –

Una risposta perfettamente non esauriente. Da lui doveva aspettarselo ormai, no? La cosa più irritante era che sembrava, se fatta da lui, una forma di cortesia il fatto di non rispondere o parlare troppo chiaramente.

- Il canto di chi? – incalzò pazientemente.

Forse doveva considerare già molto il fatto che rispondesse.

Stavolta lui non la degnò di uno sguardo, e rispose laconico – Non so come parlarti di loro. Non avevo mai visto niente con quell’aspetto, e credo non l’abbia mai visto nemmeno tu. Non hanno un nome, nessuno glielo ha ancora dato. Qui non li nominiamo mai. Un consiglio: non nominarli nemmeno tu, con nessuno di quelli che si trovano qui. Non la prenderebbero bene, da parte tua. -

Mentre Corvo parlava così, lei tornò a guardare gli altri uomini e donne radunati attorno al tavolo. L’uomo coi baffi e con l’attenzione di tutti su di sé per la maggior parte del tempo, stava facendo alcune considerazioni con tono fermo e serio, le braccia incrociate sul petto e il cappello di pelliccia ben calcato in testa. I suoi occhi grigio scuro erano fissi sulla cartina.

-          Chi è quello? – chiese Misurina.

Corvo non alzò lo sguardo, aveva capito subito di chi stava parlando.

-          Non ne ho idea. Ma si è messo in testa di comandare, fingendo che tutti siano d’accordo come se l’avessero deciso, e gli altri non si sono opposti. –

-               Sembra che a te non importi affatto quello che decideranno. – osservò Misurina, gli occhi fissi su di lui. Le labbra del ragazzo lasciarono appena scoperti i denti in un sorriso dei suoi, amaro come una smorfia di dolore. Ma non rispose. Lei si disse che avrebbe dovuto chiederlo come una domanda, costringendolo a rispondere, ma, pur di non lasciare cadere del tutto quella preziosa conversazione, continuò.

-               Quell’uomo… è come Mangiafuoco. Gli altri sembrano tutti burattini, in fondo. Burattini sperduti, che, anche se hanno un’opinione, devono sempre metterla al vaglio di lui. E lui sembra riuscire benissimo a far accettare tutte le sue idee, come se muovesse i fili. Ma tu dici che nessuno ha deciso che deve essere lui il capo… Questa dev’essere proprio una situazione d’emergenza. –

Ora Corvo la guardava con interesse curioso.

-          Mangiafuoco – disse, come se assaggiasse la parola – niente male. Sei piuttosto abile coi nomi. A parte il tuo, cioè. –

-          Il mio nome è affar mio… - ribatté lei, un po’ infastidita per essere stata interrotta, forse appositamente, mentre cercava di mettere insieme tutti i pezzi.

-          Queste persone – continuò – non abitano qui, non da più di qualche giorno. Non sembrano persone che lascerebbero marcire così il luogo in cui vivono… e comunque questa baita è troppo piccola per tutti… a proposito, in quanti siamo? –

Lui la guardò, per un attimo sembrò quasi in imbarazzo, poi disse – Poco più di tre mani. –

Sorprendentemente, le occorsero solo pochi istanti per capire.

-          Cioè poco più di quindici persone. Potrebbero essere finite qui dopo essersi perse mentre facevano un’escursione in montagna… Quelle ragazze parlavano di esame al rientro, significa che ora si considerano in vacanza. Va bene. Fin qui ci sono. Deve essere successo qualcosa alla guida, se ne avevano una… Ma… tu sai dove siamo? Cioè su che montagna, in che luogo? –

Corvo, che la stava ascoltando attentamente, benchè fosse tornato a fissare la tazza vuota, scosse appena la testa.

-          E poi… - rifletté lei, guardando la tazza vuota – con i viveri non siamo messi bene, vero? Perché tu dicevi di aver fame e sete come tutti. Inoltre… Là fuori c’è qualcosa… qualcuno… che emette quel suono… perciò presumo che nessuno si avventuri fuori a fare un giro di solito, no? Ma perché nessuno chiama i soccorsi, col telefono, una radio… ? -

Corvo le scoccò un’occhiata a significare che trovava quella domanda ingenua.

-          Naturalmente perché qui non c’è campo. – si rispose lei. Poi tacque.

Dopo qualche istante di silenzio, Corvo poggiò la tazza sul tavolo ed emise un breve sospiro tra i denti.

-          Misurina, potevi chiamarti Sherlock Holmes. Ma era troppo banale, no? Però, vedi, non posso dirti cosa hai indovinato e cosa no. Forse qui non lo sa nessuno come sono andate le cose. Ti do un altro consiglio… lascia perdere tutte queste indagini… o meglio, se ciò ti aiuta a far passare il tempo, se ti soddisfa, buon per te… ma non servirà a molto. Qualsiasi cosa sia successa o meno non si ripeterà. Bisognerebbe piuttosto pensare a cosa succederà da ora in poi. –

-          La trovo una maniera fin troppo semplicistica di pensare… - obbiettò lei, scettica.

Corvo, che parlando si era lentamente alzato in piedi, la fissò di nuovo e annuì – Lo è. Ma perché complicarsi le cose nelle situazioni già difficili? Non ti fare il sangue troppo amaro se puoi… non c’è alcuna fretta. –

-          Cosa vuoi dire? – disse subito lei a bruciapelo, visto che lui si stava per allontanare.

-               Qualcosa mi dice che le complicazioni arriveranno comunque. Meglio tenersi la mente sgombra per affrontarle. Forse. E’ solo una mia idea. – concluse lui con aria annoiata, e prese ad allontanarsi.

Si chiese se seguirlo, ma decise di restare dov’era. Aveva tutta l’aria di stare andando a fare qualcosa per cui preferiva non avere compagnia. Forse doveva andare in bagno o qualcosa del genere, considerò Misurina, e rimase seduta dov’era. A pensare perché mai quel tizio sembrasse così indifferente e lontano da ogni cosa, come se niente gli importasse. A chiedersi come diavolo potesse avere perduto la memoria senza sbattere la testa, dal momento che non aveva dolori né ferite o bernoccoli. E come avesse potuto dimenticare chi era, come si chiamava, chi conosceva, amici e parenti, luoghi da poter chiamare casa, e gli accadimenti che l’avevano portata a trovarsi in una baita isolata sulle montagne con una comitiva dispersa.

 

***

 

Misurina aveva appreso almeno quale parte del giorno fosse, oltre a qualche altro particolare dell’organizzazione che si erano dati gli occupanti della baita. Ascoltare le loro conversazioni non le era servito a molto. Il gruppetto che aveva visto intento nell’organizzazione del loro ritorno a casa parlava di mappe, strade e possibilità di percorsi solo quando si riuniva attorno alla tavola, e benchè lei si fosse avvicinata alla fine ad ascoltare, sotto lo sguardo attento di Mangiafuoco, che studiava le sue mosse, come quelle di tutti del resto, non aveva udito altro che discussioni sulla fatica di camminare con la neve alta, il problema di scaldarsi nel freddo e di portarsi dietro provviste, su come superare ghiacciai e trovare sentieri sepolti sotto la neve, e arrampicarsi su pareti rocciose. Nessuno parlava mai della strada che avevano fatto per arrivare alla baita, come se  avesse smesso di esistere dopo che l’avevano percorsa. Lei non osava chiederlo, perché supponeva avrebbero pensato che fosse impazzita per non ricordare quella che doveva essere stata un’odissea disperata; forse una frana o una slavina o qualche altra cosa del genere aveva cancellato per sempre quella strada, che perciò non veniva nemmeno presa in considerazione.

Aveva chiesto a Caramello, che era l’unica veramente disponibile a parlare tranquillamente con lei, da quando Corvo si era dileguato, che giorno fosse, scusandosi dicendo che aveva perso il senso del tempo a forza di stare in quel posto. Ma quando lei glielo disse, si rese conto che non riusciva a ricordarsi come si dividessero le stagioni per contarle. Ricordava che c’erano stagioni fredde e calde, e l’alternarsi del giorno e della notte, queste cose le sapeva benissimo come sapeva che loro erano esseri umani e che avevano l’abitudine, per la maggior parte, di aggirarsi con indosso degli indumenti. Ma, oltre ciò, non riusciva a ricordare niente sul tempo… sperava di trovare qualcosa di scritto in giro che la aiutasse.

La lettura delle mappe le riusciva più facile, anche se, quando ne aveva presa in mano una di quelle sparse in giro per darci un’occhiata vaga, alcuni degli altri l’avevano osservata attentamente, come se sospettassero che stesse architettando chissà cosa. Nessuno le aveva detto niente, anzi nessuno le rivolgeva la parola a parte Rosa e Caramello. Tuttavia aveva rimesso giù la mappa dopo avervi dato una rapida occhiata, e da quel momento cercava di limitare al minimo i movimenti troppo evidenti, perché si sentiva tenuta d’occhio. Sembrava che gli altri non si fidassero di lei, che la trovassero in qualche modo bizzarra, oppure una sorta di ultima arrivata che con qualche mossa avventata poteva metterli tutti in pericolo.

Era il momento della giornata in cui il sole pallido si avviava al tramonto, apprestandosi ad affondare oltre le alte montagne che costituivano tutto il paesaggio fino all’orizzonte, e dalle quali già faceva capolino un’ombra di luna; quella era l’ora designata per il pranzo, che era anche l’unico pasto del giorno a causa del razionamento dei pochi viveri rimasti. Caramello aiutò la donna sulla quale lei e Rosa facevano affidamento, probabilmente la madre dell’una o dell’altra dal momento che sembravano amiche più che sorelle, a preparare da mangiare insieme ad altre due donne, che erano comparse ad un certo punto, provenendo da una delle stanze dove si dormiva, ognuno rannicchiato in un sacco a pelo o su materassi o sui pochi letti presenti nella baita, o sugli zaini ammucchiati.

Il pranzo, consistente in pezzi di pane secco spezzettato e annegato in acqua calda condita con sale e pochissima erba cipollina, venne distribuito in tazze, ciotole, bicchieri e qualsiasi altro contenitore si potesse recuperare, e occorse scaldarlo in due riprese diverse per farne abbastanza per tutti utilizzando le poche e non enormi pentole a disposizione. Mentre mangiavano, sedute su zaini e con la schiena appoggiata alla parete della sala da pranzo, Misurina si azzardò infine a osservare

 – Mi sembrava che fossimo più numerosi. –

Aveva contato undici persone nella stanza, compresa lei. Dodici con Corvo. Ma lui aveva detto che erano più di quindici.

Rosa la guardò come se avesse fatto una domanda ridicola. – Gli altri sono di guardia. –

-               Ah già… che stupida, è vero. – rispose subito Misurina, per non far sospettare della sua totale amnesia. Ma tra sé e sé si chiese perché ci fosse bisogno di fare la guardia in quella baita sperduta chissà dove nella neve e sulle montagne. Forse temevano quel qualcosa che emetteva quel suono terribile, che stava fuori.

-          Avete sentito prima? Il suono… - chiese, prima di aver riflettuto abbastanza su ciò che stava per dire.

Entrambe le ragazze sussultarono, Caramello impallidì visibilmente e sembrò quasi decisa a cercare di affondare il viso nella sua ciotola. Rosa invece le rivolse uno sguardo indignato e spaventato, accusatorio.

-          Scusate. Non volevo. Parliamo d’altro. – disse allora Misurina – Quali sono gli altri libri che dovete leggere per l’esame? –

Caramello, subito bendisposta a cambiare argomento, glieli elencò uno dopo l’altro senza esitazione, quasi allegramente, di quell’allegria che sa di aria viziata e di nervosismo represso, tipica di chi parlerebbe di qualsiasi sciocchezza piuttosto che di ciò che non vuole nominare.

-               E tu? – disse Rosa – Qual è il tuo prossimo esame? – domandò con curiosità un po’ avida, come se fosse pronta a fare un confronto per stabilire chi doveva studiare cose più difficili e quindi chi era più abile e poteva sfoggiare maggiore impegno e sacrificio semi-tragico.

Non appena lo disse, qualcosa scattò inesorabilmente nella mente di Misurina.

L’esame, ma certo! L’esame che doveva dare, era importantissimo, e lei aveva lasciato i libri… maledizione! Aveva lasciato i suoi libri e i suoi appunti e tutte le cose che doveva studiare al pian terreno della baita!

Balzò in piedi e abbandonò frettolosamente la sua ciotola di cibo.

-          Che succede? – chiese un po’ allarmata e offesa Rosa, mentre Caramello la guardava quasi spaventata.

Molti altri sguardi si stavano gradualmente concentrando su di lei, che tuttavia fece tutto velocemente.

-          I miei libri! – disse confusamente – Sono giù, devo assolutamente andarli a prendere! –

Un putiferio di grida, urli ed esclamazioni si alzò intorno a lei, ma era ormai sulla porta.

-          Ferma! E’ impazzita! Vuole scendere! –

-          No, Misurina, no! – riconobbe la voce apertamente disperata di Caramello.

-          Che cosa fa? Dio del cielo, ci farà ammazzare tutti, oh Dio! –

Ma lei era insensibile a ogni urlo. Non aveva idea di che cosa fossero preda quelle persone, e cosa diavolo temessero, ma lei doveva assolutamente scendere a riprendere i suoi libri e i suoi appunti, o non avrebbe potuto studiare. Poteva succedere qualcosa a quei fogli, poteva già essere successo, e addio esame, addio appunti, avrebbe dovuto ricominciare a prenderli da capo, ed erano tutti sottolineati e segnati di sua mano.

Era già mezzo fuori dalla porta quando si sentì tirare indietro con forza, come se fosse stata legata a un filo elastico fissato a un muro e si fosse allontanata abbastanza da esaurirne la lunghezza massima. Quando si voltò vide il suo braccio stretto nella ferma presa di Mangiafuoco.

-          Ragazza. – disse con voce profonda, calma e seria – Sai cosa c’è giù. –

-          Sì – mentì lei – ma non posso proprio lasciare i miei appunti, mi lasci andare, presto. Potrebbe accadere qualcosa, potrebbero essere già ridotti molto male. –

Udiva chiaramente il tono perentorio dell’uomo, al di sopra del concitato e disperato vociare di sottofondo, ma tutti gli altri si erano fermati alle spalle di Mangiafuoco, e non osavano procedere oltre per metterle le mani addosso, anche se poteva chiaramente vedere il desiderio di farlo negli occhi di molti di loro. Nei loro sguardi in preda al terrore e al furore più cieco e irrazionale che avesse mai visto, tanto da far apparire le loro espressioni sconvolte grottescamente folli, lesse che non l’avrebbero mai perdonata, e che gliel’avrebbero fatta pagare.

Mangiafuoco parlò di nuovo con voce tonante.

-          Se vai giù, non tornerai più quassù. Nessuno di noi verrà giù con te, qualsiasi cosa dovesse accaderti. E se ti prenderanno nessuno di noi verrà ad aiutarti in alcun modo. Hai capito bene tutto? –

Misurina si trovò a fissare gli occhi di ferro dell’uomo, fermi, decisi, assolutamente irremovibili, che studiavano la sua capacità di comprensione e di decisione. Occhi che sembravano aver dimenticato pietà e sentimento dietro la serietà inoppugnabile di ‘che cosa occorre fare’. Quell’uomo le stava dicendo, in modo estremamente corretto e conciso, che se lei rifiutava la sua guida e protezione sarebbe stata fuori da tutto il gruppo e che nessun’altro avrebbe fatto qualcosa per lei. Ma, a differenza dei furiosi che scalpitavano alle sue spalle, sembrava le stesse semplicemente imponendo di scegliere coscienziosamente.

-          Sì. Ho capito benissimo. – confermò lei, e sostenne il suo sguardo duro con la sua convinzione testarda.

L’uomo la fissò ancora per un brevissimo istante, come se si stesse accertando, studiandola, della veridicità delle sue parole. Quindi mollò la presa sul suo braccio, così di colpo che lei, che era un po’ sbilanciata dalla parte opposta, per poco non cadde.

– Fai come credi. – la congedò lapidariamente lui.

Ma gli altri alle sue spalle non furono d’accordo. Il vociare e le grida ripresero più forte, e una donna di corporatura bassa e tracagnotta allungò le mani, tentando di afferrarla. Misurina balzò in fretta fuori dalla loro portata. Mangiafuoco stava ritto in piedi immobile sulla soglia, ostacolando senza impedire esplicitamente che gli altri dietro di lui si gettassero subito avanti per prenderla, e lei ne approfittò. Lanciò un ultimo sguardo a Mangiafuoco, e poi riprese a correre, slanciandosi giù dalle scale.

Due rampe, e si ritrovò su un altro piano, scoprendo che, in effetti, la baita aveva due e non un solo piano rialzato.

Nel corridoio del piano di sotto, sul pianerottolo tra le rampe, c’erano cinque persone, quattro uomini e una donna, e lei notò subito che avevano tutti un fucile a testa. Uno di loro era in piedi alla fine delle scale che lei stava scendendo, e impugnava anche una pistola. Quando lei li vide erano già tutti in piedi, a nervi tesi e occhi puntati su di lei, così come la maggior parte delle loro armi. Se si fosse accorta prima di loro forse non avrebbe avuto l’ardire di arrivare così vicino, ma ormai che c’era, e visto che loro non le avevano ancora sparato, in qualche modo trovò una certa sicurezza in se stessa.

Si fermò a un paio di scalini di altezza rispetto al pianerottolo, per guardarli tutti direttamente in faccia nonostante la sua altezza modesta, e con tutta la decisione e il coraggio avventato che riuscì a raccogliere proclamò.

– Mangiafuoco ha detto che posso passare, che posso scendere e fare ciò che voglio! –

Solo dopo averlo detto precipitosamente, incalzata dal timore che aprissero il fuoco su di lei, si rese conto di avere usato per l’uomo il nomignolo con cui l’aveva battezzato tra sé e sé. Ma l’uomo che la teneva sommariamente sotto tiro con la pistola e che la guardava attentamente e con evidente astio non sembrava stupito o confuso nel sentire quel nome.

-          Mangiafuoco non è il capo qui. Scendendo metteresti in pericolo tutti. – le disse, in tono indifferente, a parte il fastidio e una rabbia repressa.

-          Lo so – mentì di nuovo, fingendo di conoscere bene la situazione in cui si trovava – Ma a voi cosa importa se io scendo e voi restate su? Avete le armi, siete più che al sicuro. –

Non sapeva esattamente cosa stava dicendo, improvvisava.

Uno degli altri uomini fece un verso di sarcastica derisione. Evidentemente trovava le sue parole insensatamente stupide.

-               Non sai quello che dici. Devi essere impazzita. Avrebbero dovuto chiuderti con gli altri… - disse freddamente l’uomo che le impediva il passaggio. Lei vide con orrore le dita guantate vibrare appena sulla pistola, ma era anche palese che era indeciso, che non stava ancora prendendo sul serio l’idea di fare fuoco.

-          E quindi mi spareresti? Se sono impazzita, lascia che mi tolga dai piedi. Cosa vi importa? Come posso mettervi nei guai? Mangiafuoco ha già detto che nessuno verrà ad aiutarmi, va bene così… voi ve ne starete qui, e io farò ciò che devo fa…-

-          Zitta stupida, ascolta bene. – la interruppe l’uomo, praticamente abbaiando – Ora ti lascerò scendere, perché sarebbe uno spreco usare proiettili su di te. – disse tra i denti – Ma tu non salire più. Mi hai capito? Se provi a risalire, allora sì che sparerò. La regola è questa, l’abbiamo deciso tutti insieme e tutti erano stati avvertiti chiaramente. Su chiunque sale dalle scale: aprire il fuoco. E tu, una volta scesa, non farai eccezione per quanto mi riguarda, hai capito bene? E se poi ti azzardi a permettere a qualcuno di salire per colpa tua, magari usandoti come ostaggio, riceverai anche più pallottole, ti è chiaro, maledetta pazza? Se ti rivedo, sparo, chiaro? E penso proprio anche gli altri faranno lo stesso. –

-          Ci puoi giurare… - borbottò un altro degli uomini sul pianerottolo.

-          Dovresti ringraziare che non ti abbiamo già sparato. Sì, proprio uno spreco di pallottole. – rincarò la dose la donna, che teneva saldamente il fucile con entrambe le mani.

Misurina si accorse di stare tremando un po’. Non aveva nemmeno preso un cappotto, e aveva mangiato così poco che si sentiva lo stomaco vuoto. E ora le dicevano che non poteva risalire più. Si chiese se giù avrebbe trovato cibo e coperte… ma poi, perché non andarsene proprio da quella maledetta baita piena di paranoici armati fino ai denti che sembravano temere la propria ombra e diffidare di chiunque? Lentamente, inesorabilmente, annuì, sotto gli sguardi pieni d’odio degli uomini e della donna armati che la osservavano.

-          Bene. Ho capito. Se mi rivedrete, mi sparerete. Mi è chiaro. – rispose piano, scandendo ogni parola prima che il coraggio di pronunciare quella che sembrava una sentenza di morte per se stessa le mancasse definitivamente.

-          Dubito che qualcosa possa esserti chiaro. Sei pazza, questo sì che è chiaro. – le sibilò l’uomo di rimando.

Ma poi tacque, e si fece da parte, abbandonando definitivamente lungo il fianco il braccio con cui reggeva la pistola. E lei passò, passò in fretta ma con cautela tra quel gruppetto che la fissava con aggressività trattenuta, stringendo le nocche intorno alle loro armi.

Prese a scendere le ultime rampe di scale, stavolta lentamente, un gradino alla volta, temendo da un momento all’altro di sentire un colpo d’arma da fuoco risuonare alle sue spalle, subito seguito da un lancinante dolore da qualche parte sul suo corpo. Forse non avrebbe nemmeno fatto in tempo a realizzare che avevano sparato. Sarebbe stata colpita e basta, sarebbe rotolata giù dagli ultimi gradini e basta, e non si sarebbe più mossa prima ancora di aver capito cosa era successo, benchè se lo aspettasse. Invece arrivò indenne, ed infinitamente sollevata, fino all’ultimo gradino. Poi poggiò i piedi chiusi negli stivali da montagna su moquette bruno scuro.

Il piano terra era vuoto e silenzioso, ancora più impolverato e desolato dei piani superiori, per quanto sembrasse arduo poterli superare in questo. C’erano diverse stanze, separate da ampie porte, di cui alcune a vetri. Ma lei non perse tempo ad esplorare, e come se riconoscesse il luogo passò subito per una porta, oltre la quale si apriva un salone che poteva assomigliare alla reception di un albergo. C’era un bancone, infatti, e dietro di esso delle scaffalature. La parete opposta era per la maggior parte costituita da un’ampia portafinestra, vetro sporco e gelato suddiviso in rettangoli da un’intelaiatura di legno scuro, più spesso di quello delle finestre al piano superiore. Cercò di vedere fuori, fermandosi prima di proseguire per attraversare il salone. Ma attraverso quei vetri annebbiati si poteva vedere il paesaggio esterno solo confusamente.

Una distesa di neve ricopriva una piccola radura antistante quell’ingresso, che si interrompeva sul limitare di una foresta fitta di tronchi scuri e di fronde verde cupo incappucciate e appesantite dalla neve. Alberi di montagna, alti e imponenti, sempreverdi, con la corteccia rigida che fa da scudo ad ogni freddo e gli aghi sottili che abbandonano i rami poco alla volta un po’ tutto l’anno, ma mai tutti insieme per una grossa muta come gli alberi abituati a climi più miti. In quel tripudio di agopuntura di clorofilla crescevano, silenziosamente nascoste, pigne su pigne, e gli scoiattoli forse scorazzavano quando c’era più caldo.

Non c’era niente di vivo fuori che apparisse anche evidentemente pericoloso o minaccioso.

Misurina trovò così conferma alle sue impressioni. Quegli uomini e quelle donne ai piani superiori dovevano essere tutti preda di chissà quale fobia immaginaria, sviluppata a forza di stare chiusi tutti insieme dentro, al caldo, ma a morire lentamente di fame e a costruirsi trame fantasiose di reciproci inganni e risentimenti soffocanti. E a inventarsi nomi assurdi e malsani giochi mentali. Doveva essere contenta di esserne venuta fuori prima che, oltre a perdere la memoria completamente, come già le era accaduto, iniziasse ad ammattire come loro.

Così attraversò il salone, notando che sul pavimento c’erano diversi bagagli sparsi; e fu estremamente felice di scoprire che questa era un’immagine familiare, qualcosa che si ricordava.

Muovendosi tra valigie, borse, zaini di varie fogge e dimensioni e sacche e via dicendo, scavalcandoli con attenzione e guardando in giro, con l’attenzione precisa di uno sciacallo in cerca di preda sul campo di una battaglia finita, spostando di tanto in tanto qualche bagaglio per vedere se aveva sepolto qualcosa sotto di sé, alla fine riconobbe uno zaino che le apparteneva.

Ormai aveva rinunciato a chiedersi com’era possibile che di tutta la sua vita fino a quel momento possedesse solo pochissimi ricordi, e che la maggior parte di essi fossero cose ben bizzarre da ricordare. O forse sono le versioni romanzate dei casi di amnesia, aveva riflettuto prima, che illudono le persone che, perdendo la memoria, si possa ricordare poi prima di tutto le cose più importanti, come la propria identità, i propri affetti, il proprio lavoro, la propria casa, il primo amore o l’ultimo, e cose del genere. Forse in realtà era normale che andasse così.

Mentre apriva con mani febbrilmente rapide e un po’ tremanti lo zaino che sapeva appartenerle, si rese conto che non ricordava che cosa studiava, che materie, che corso frequentava, per diventare chi o per acquisire quali competenze. Ma ora se non altro poteva scoprirlo, e ciò la rese incommensurabilmente felice. Non era più completamente impotente nei confronti del terribile vuoto, della spietata tabula rasa della sua testa, alla stregua di un manichino abbandonato in un deserto bianco come il nulla. Aveva ricordato abbastanza indizi per ritrovare qualcosa che le apparteneva, un intero zaino, e, benchè avesse dovuto superare pazzi armati e scale e andare incontro alle leggende di ignoti e terribili pericoli, ora era lì con tra le mani tutto un bagaglio di informazioni su sé stessa. Fantasticava su quante cose poteva contenere, e sperava magari addirittura di poter leggere il suo nome, un numero di telefono, un indirizzo, le pagine di un diario, di un’agenda, trovare delle foto, immagini… quante cose poteva scoprire, e quanto ogni singola cosa poteva scatenare magari un recupero a catena di sprazzi di memoria…

Era così intenta a cercare di aprirlo, dal momento che era ben chiuso e legato e impacchettato, come se avesse dovuto affrontare chissà quali sballottamenti, e così persa in queste rosee considerazioni, che udì il rumore di qualcosa che si muoveva felpatamente tra i bagagli sulla moquette solo quando esso era già molto vicino, anzi proprio dietro di lei.

Esitò prima di voltarsi, paralizzata dalla sorpresa e dalla paura. Troppo tardi realizzò che anche il qualcuno o qualcosa alle sue spalle l’avrebbe vista immobilizzarsi e avrebbe così capito di essere stato udito.

Si mossero contemporaneamente: lei iniziò a voltare rapidamente la testa per scoprire di chi si trattava, e quel qualcuno o qualcosa abbatté violentemente qualcosa di duro poco sopra la sua fronte.

Il buio invase il suo campo visivo, il dolore fulminante del colpo le tolse il respiro e ogni senso dell’equilibrio, del movimento, della vista. Le orecchie iniziarono a ronzarle, ma se ne rese conto solo dopo che il suo corpo era caduto riverso sugli zaini e le valigie che coprivano il pavimento.

Nonostante ciò non perse conoscenza del tutto. Semplicemente non riusciva a capire o sentire bene cosa accadeva, o ne aveva intuizioni brevi e confuse, come una scena illuminata di tanto in tanto e solo in parte da lampi troppo brevi in un’oscurità assoluta. C’erano diversi individui di forma pressappoco umana intorno a lei, anzi passabilmente simili a una forma umana, ma avvolta in tute contro il freddo. Avevano cappucci e maschere da sciatori che coprivano le loro teste, i loro occhi e i loro nasi, e quasi tutti tenevano una sciarpa sopra la parte inferiore del viso, rendendosi completamente irriconoscibili. Impugnavano armi, soprattutto fucili ma anche qualche mitra.

Due di costoro, forse tre, ma ne aveva intorno una mezza dozzina, la afferrarono bruscamente per le braccia, sollevandola da terra a metà e trascinandola sul pavimento, muovendosi rapidi e silenziosi, di collettivo accordo.

Non riuscì nemmeno a pensare cosa potevano volerne fare di lei o se credevano di averla uccisa, e se se ne sarebbero sincerati di lì a poco, o se si contentavano di averla stordita e basta. Non riusciva nemmeno a tenere chiusa la bocca, il labbro inferiore penzolava disordinatamente, e non poteva ordinare a nessuna parte del corpo di muoversi, figuriamoci addirittura formulare ipotesi o rendersi conto che sarebbe stato saggio e plausibile preoccuparsi, e anche avere proprio una paura dannata, in quel frangente.

Gli uomini tutti imbacuccati la trascinarono verso la portafinestra del salone, che era aperta, notò, ed evidentemente non aveva cigolato abbastanza da avvertirla del loro arrivo. Ma tutti questi ragionamenti li avrebbe fatti in realtà più tardi. Al momento era troppo impegnata a farsi trascinare in totale ottundimento, come una preda che non si aspetta più e non capisce perché è ancora viva.

Fuori, il freddo fu come un altro duro colpo, uno schiaffo su tutto il corpo e in particolare sulla faccia e le mani nude; inizialmente sembrò prometterle di restituirle un po’ di lucidità, ma alla fine si rivelò solo qualcosa di più contro cui lottare per restare un minimo cosciente. Se non altro, il suo istinto di sopravvivenza era meno ottuso di lei in quei momenti, e sapeva che doveva cercare di non perdere i sensi, anche se, si sa, gli istinti di sopravvivenza puri e duri raramente mostrano sintomi di ragionevolezza o scendono troppo a patti con le particolarità specifiche delle situazioni di pericolo. Il loro compito primario sarebbe stimolare ragionamenti, decisioni e azioni miranti allo scopo di conservarsi in vita, ma al momento in Misurina, stordita come un visone che viene sbattuto per terra prima di essere spellato vivo, non c’era niente di stimolabile che potesse reagire e funzionare. Poteva solo continuare ad assistere a ciò che avrebbero fatto del suo corpo.

Gli umani la trascinarono fuori, rallentando un po’ impacciati sulla neve, nonostante le calzature di pelliccia che indossavano sembrassero molto pratiche per muoversi in quasi un metro di neve. Misurina, che pendeva esanime e veniva strattonata senza troppi complimenti, ci affondò miserabilmente in mezzo come se ci si tuffasse e vi nuotasse, stile pesce-morto. La neve le si impigliò nei capelli e nel maglione, le entrò un poco in bocca, nel naso e negli occhi, si impigliò su ciglia e sopracciglia e iniziò a infradiciarle i pantaloni e a infiltrarsi malevolmente dentro gli scarponi.

Continuando a trascinarla a quel modo aggirarono un paio di angoli della baita, procedendo ridosso ai muri, e infine si staccarono da essa e percorsero il breve tratto di terreno discendente che separava la baita dalla foresta. Si immersero tra gli alberi, sempre senza rallentare, ma se non altro dedicando un minimo d’attenzione al fatto che il corpo esanime che trascinavano non sbattesse contro i tronchi.

Misurina vedeva tronchi e tronchi, in un continuo ripetersi labirintico che la confuse ancora più di quello che era possibile, perciò chiuse gli occhi, pur senza perdere coscienza del tutto… forse… Comunque, quando li riaprì, avendo percepito un rallentamento nel suo essere trascinata, vide spuntare tra gli alberi una moltitudine di tende di colore verde cupo o marrone scuro, che risaltavano sulla neve ma si confondevano a meraviglia col colore della corteccia. Un intero accampamento, con diverse tende, e alcune sagome conciate come quelle che la trascinavano che si muovevano tra di esse. Di lì a poco gli uomini la stavano trascinando tra le tende miste ai tronchi, e alcune di quelle sagome che vi si muovevano in mezzo si fermarono ad assistere alla scena e a guardarla. Ma gli uomini che la portavano non sembravano disposti a temporeggiare, forse anche perché iniziava a percepire un certo affaticamento nelle loro braccia che la sostenevano. Infine, proprio quando iniziava ormai a rassegnarsi e a pensare di abbandonarsi all’oblio del trascinamento, si sentì lasciare andare e cadde pesantemente, sprofondando con la faccia nella neve. Le mancò l’ossigeno, e mentre iniziava a cercare disperatamente di recuperare abbastanza lucidità e controllo sul suo corpo per girare la faccia e sottrarsi a una futile morte di affogata a pancia in giù nella neve, una mano imbottita da un grosso guanto, come quelle che l’avevano trascinata fino a quel momento, le afferrò brutalmente una spalla e la scaravoltò abbastanza da permetterle di avere il viso rivolto verso l’alto, verso l’ossigeno, verso la salvezza. Intravide una sagoma confusa o due chine su di lei, e oltre di loro altre sagome in piedi, e, ancora oltre, un tetto di lontane fronde verde scuro, e forse qualche sprazzo di cielo bianco e fumoso tra esse. 

Fu allora che perse conoscenza.

 

***

 

Una serie di schiaffetti rigidi sulle guance e qualcosa di gelido e bagnato che le veniva spalmato in faccia la riportarono fastidiosamente al risveglio. Prima di provare ad aprire gli occhi realizzò brevemente che stavolta, purtroppo, ricordava. Ricordava tutto quello che era accaduto da quando si era svegliata sul pavimento di legno di una baita pullulante di polvere e di matti armati, senza avere idea di chi era e di perché si trovava lì.

-          Avanti, apri questi occhi, è ora di svegliarsi. – le disse una voce, non arrabbiata ma sbrigativa. Voce di donna.

Fu seriamente tentata di continuare a fingersi svenuta, ma qualcuno non la piantava di affibbiarle schiaffetti sulle guance e di spalmarle acqua fredda sulla faccia con mano aperta e affatto gentile. Così, alla fine, fece un tentativo più serio e riuscì a sollevare le palpebre pesantissime. Si scoprì seduta per terra, e ‘terra’ era il fondo cerato di una tenda con sopra un tappeto e una coperta o due; nonostante ciò le sembrava di sentire il freddo pungente della neve a pochi centimetri dalle sue natiche. Si accorse di stare lentamente recuperando il controllo del corpo, e nel frattempo emise un lamento di protesta e tentò di sottrarre la sua faccia a quei trattamenti insistentemente importuni.

-          Va bene, basta così. – ordinò perentoriamente un’altra voce.

Accovacciata accanto a lei c’era una donna ben piantata, avvolta tutta nella tuta uguale a quella di quelli che l’avevano colpita e trascinata, ma che aveva abbassato la sciarpa e alzato la maschera abbastanza da lasciare vedere il suo viso dal grosso naso, la pelle arrossata dal freddo e un po’ invecchiata dall’età e due occhi castani che la guardavano con un vago accenno di apprensione materna. Erano le sue mani, senza guanti, che la stavano schiaffeggiando e spalmandole in faccia acqua fredda presa da una borraccia aperta appoggiata lì vicino, e non si erano fermate nonostante ciò che aveva detto l’altra voce.

-          Ancora un po’. Ha preso una bella batosta. – insisté la donna in risposta all’altra voce.

Misurina non era affatto d’accordo, e cercò di sottrarsi al trattamento. Scoprì così di avere le braccia immobilizzate, e in particolare legate intorno a un palo di legno portante la tenda in cui si trovava e al quale appoggiava la schiena. Ciò la allarmò non poco.

-               Adesso basta. – ripeté la voce con più decisione - È abbastanza sveglia da accorgersi di essere viva e di essere legata. E scommetto che riuscirà anche a parlare abbastanza per fare una bella chiacchierata. Grazie. – e la donna, finalmente, ritrasse le sue fastidiose grosse mani contadine, le asciugò con uno straccio, le rinfilò nei guanti, chiuse la borraccia e si alzò.

-          D’accordo. – disse a quel punto, fissando Misurina dall’alto con aria non troppo convinta – Ma secondo me l’hanno colpita troppo forte. Hai visto com’era quando l’hanno portata. Sarà già tanto se si ricorda il suo nome. –

Questo, naturalmente, non contribuì affatto a migliorare l’umore di Misurina. Comunque, al momento era impegnata a fissare l’altra figura che occupava l’ambiente della tenda. Sembrava una donna, per quello che si poteva intuire del suo corpo, coperto dalla grossa, pesante tuta che avevano tutti in quell’accampamento, a quanto pareva, completa degli stessi grossi guanti, degli alti stivali in pelliccia che terminavano poco al di sotto del ginocchio, degli occhialoni che teneva calati sugli occhi e dello sciarpone che invece teneva abbassato, lasciando vedere un mento pallido e affusolato e labbra rosa, dritte e anonime come se fossero state abbandonate da ogni dovere di espressività mentre la loro proprietaria era assorta in chissà quali speculazioni.

-               Bene, allora io vado. – disse la donna che si era “presa cura” del suo risveglio, e dopo essersi ricalata la maschera su occhi e naso e alzata la sciarpa sulla bocca, uscì dalla tenda.

L’altra donna, più magra e alta della prima, se ne stava con le braccia incrociate sul petto, in piedi davanti a un tavolo da campeggio con sopra una bussola, una pistola, un pacchetto di sigarette e qualche altro oggetto che Misurina non riuscì a identificare con precisione. Dopo un po’ le sue labbra sorrisero appena, un sorriso piuttosto falso, e quella si mosse, prese un ciocco di legno che sembrava venisse utilizzato come sgabello e venne a sedersi a qualche metro da lei. Infine, quando si fu accomodata, abbassò la maschera dal viso facendola penzolare attorno al collo ispessito dalla sciarpa e si tolse il cappuccio. I suoi occhi, di taglio un po’ sottile e affusolato, erano azzurri come il ghiaccio e altrettanto freddi all’apparenza. Ma l’espressione complessiva era quasi affabile, incorniciata in parte da capelli biondo grano, quasi lisci e all’apparenza morbidi benchè provati dalla scarsa cura che veniva loro dedicata, e difatti erano tenuti strettamente legati indietro, a parte due o tre ciocche sfuggenti.

-               Penso che tu abbia capito quale sia la tua posizione, al momento. – esordì con sincerità che sembrava dettata da un fugace senso di dovere per la cortesia, denso di doppi fini.

-               No. Per la verità no. So solo che sono stata colpita in testa, trascinata nella neve e legata. E schiaffeggiata. – riassunse Misurina, con risentita esattezza, anche se era tentata di entrare maggiormente nei dettagli, come le suggeriva il malumore che le stava montando dentro, acuito anche dal pulsare doloroso della sua fronte, dove doveva aver ricevuto il colpo.

-               Dovrei domandartene scusa? Certamente se avessi visto degli uomini in tuta con i volti coperti e armati che ti circondavano all’improvviso non penso che saresti stata propensa a farti portare fuori senza urlare e mettere così sul chi va là quelli dei piani superiori. Capisci, loro non sanno, in effetti, che noi siamo riusciti a entrare al piano terra. Non ancora. Anche se ritengo che abbiano qualche sospetto sul perché non abbiamo ancora rotto tutte quelle vetrate per fare irruzione. – spiegò pacificamente la donna. Un luccichio di furba malizia le illuminava a tratti l’azzurro degli occhi. E Misurina notò come usasse il ‘loro’, come a suggerire che lei, dal momento in cui era stata trascinata via dalla baita, non dovesse più considerarsi parte in nessun modo di quelli che vi erano rimasti.

-               E perché non lo avete ancora fatto? – incalzò, sentendosi stupida per essersi fatta prendere così.

Sicuramente non si poteva dire che fosse stata cauta e attenta. Altre mille domande le frullavano per la testa a quel punto, tra cui spiccavano ‘chi diavolo sono queste persone? cosa ci fanno qui? cos’è questa specie di guerra tra attendati e occupanti della baita?’ Ma non le sembrava prudente ora buttare fuori tutti quei dubbi. Inoltre, anche quella donna sembrava aspettarsi che lei conoscesse la situazione. Nel sentire la sua domanda aveva sorriso melliflua.

-          Questioni tattiche. Non credo possano interessarti veramente al momento. Che ne dici se parliamo piuttosto della tua situazione attuale? Vedi, avrei alcune proposte da farti. –

‘Chiamale proposte!’, pensò Misurina occhieggiandola sospettosamente. Se non altro non si sentiva abbastanza stupida da non capire che qualcuno che ti lega al palo di una tenda dopo averti colpito e rapito e parla di proposte, sta in realtà per patteggiare la tua eventuale sopravvivenza. La donna sembrò decidere che era interessata, perché continuò.

-          Non si tratta di una cosa difficile in realtà. Dopotutto, di te non ce ne importa niente. Non prenderla sul personale, insomma, ma quel che voglio dire è che la tua sopravvivenza o la tua morte non rappresentano al momento per noi un problema di scelta. Siamo sul punto di prenderli, tutti quelli della baita, sappiamo come fare e sappiamo che riusciremo a farlo senza particolari intoppi. Tuttavia, per fare bene queste cose occorre tempo. Nessuno di noi è quel tipo di persona che trae piacere dal prolungare le situazioni di scontro e tensione; pertanto accorciare i tempi sarebbe un gradito progresso. Si potrebbe anche dire che forse diminuiremmo un poco il rischio di perdite, di feriti e così via. Tutto questo sarebbe possibile se tu ti rivelassi una buona fonte di informazioni. Mi segui? –

Misurina decise di prendere tempo, per non creare una situazione eccessiva di scontro e tensione in cui lei, vista la sua posizione legata e disarmata, si sarebbe sicuramente trovata in svantaggio. Perciò si limitò ad annuire. Ma qualcosa parlò per lei, e precisamente il suo stomaco, che emise un sonoro lamento.

La donna, che stava per riprendere il suo discorso introduttivo, si interruppe, e fissò un po’ sorpresa chi aveva parlato. Poi, lentamente, sorrise.

-          Bene, ecco, vedi com’è ridicolmente semplice? Il tuo stomaco qui mi ha già detto qualcosa. Non hanno molti viveri là dentro ormai, vero? –

Misurina esitò, ma non vedeva perché avrebbe dovuto rifiutarsi di parlare riguardo a una cosa così ovvia. Mandando giù repentinamente i rimorsi di coscienza riguardo alle persone rinchiuse nella baita, e in particolare a Caramello, Rosa e Corvo, mormorò un ‘credo di sì’ molto piano.

-          D’accordo. Aspetta solo un momento. – disse la donna. Si alzò e andò verso l’ingresso della tenda. Si sporse attraverso di esso e disse qualcosa rivolta a qualcuno fuori, forse qualcuno di guardia, poi ritornò a sedersi sul ciocco di fronte a lei.

-          Bene. Come stavo dicendo, tu potresti raccontarmi qualcosa di quello che è successo e che sta succedendo là dentro. Dopo di che, dal momento che per noi non rappresenti niente di importante, potresti andare dove preferisci, e noi ti lasceremmo andare, purchè tu non ritorni alla baita chiaramente. –

-          Ah, di questo non c’è pericolo. Mi sparerebbero se lo facessi. – commentò sarcasticamente amareggiata Misurina.

Gli occhi della donna sfavillarono di nuovo – Quindi hanno ancora munizioni. Ma non capisco – aggiunse quasi subito – perché dovrebbero spararti. -

-               Perché evidentemente, proprio come per voi, non rappresento niente di particolare. – commentò Misurina. Le stava tornando in mente lo zaino. Il suo tesoro, dove aveva lasciato tutte le informazioni che potevano riguardarla. Pensarci le faceva venire una terribile voglia di piangere. Non poteva più tornare a prenderlo. Doveva forse morire senza nemmeno sapere come aveva vissuto fino a quel momento? Come aggiungere nulla al nulla, come annientare il niente.

-          Ascolti. Non vi posso essere di grande aiuto. Io… - esitò, e le venne un’idea per rendere le cose più credibili – Vede, da quando ho ripreso conoscenza poco fa… non riesco a ricordare, non ricordo nulla, nemmeno il mio nome. Cioè – aggiunse frettolosamente di fronte all’espressione di freddo disappunto della donna – ricordo alcune cose… ricordo quello che è successo oggi alla baita… ma non riesco a ricordare niente fino a ieri. – concluse, cercando di pensare, di farsi venire buone idee.

La donna la studiò in silenzio per qualche minuto, e lei ritenne saggio tacere. Poi, però, ebbe un’idea migliore. Tornò a concentrarsi sullo zaino, e di come aveva perduto in un attimo tutte le sue speranze di ricordare… e le lacrime affiorarono ai suoi occhi e presero a colarle giù per le guance silenziosamente. Ciò parve darle un po’ più di credibilità agli occhi azzurro impassibili della sua interlocutrice.

In quel momento la donna massiccia di prima fece capolino nella tenda.

-               Signora, entro? – domandò, abbassandosi sciarpa e alzandosi gli occhialoni sulla fronte per rendersi riconoscibile.

- Sì, vieni pure. – la invitò l’altra senza degnarla di uno sguardo, e quella entrò, portando tra le mani guantate un contenitore chiuso grosso pressappoco come un pallone da calcio.

-               Ti ho fatto portare qualcosa da mangiare. Magari potrà aiutarti a ricordare… ma perché prima non mi dici intanto quello che ti ricordi, quello che è successo oggi? – disse la donna, mentre già lei guardava con preoccupazione l’oggetto temendolo un aggeggio di tortura.

Misurina sapeva che non era necessario raccontarle proprio tutto. Inoltre era meglio soprassedere sui motivi che l’avevano spinta a scendere al pianterreno. Riguardo a quello disse che aveva lasciato giù qualcosa d’importantissimo, ma al momento non riusciva appunto a ricordare di cosa si trattasse. Parlò degli uomini armati sul pianerottolo, facendo illuminare gli occhi della donna, che si rabbuiarono invece quando non seppe dire con esattezza di cosa discutevano gli uomini e le donne con Mangiafuoco, alla descrizione fisica del quale si mostrò invece particolarmente interessata. Misurina non parlò di Caramello e di Rosa o di Corvo in modo particolare, limitandosi a citarli come parte del gruppo e come i meno informati, per proteggerli.

-               E i bambini? – si intromise all’improvviso la donna ben messa che si stava occupando di aprire il contenitore del cibo, dal quale proveniva un delizioso odore che stava tormentando l’olfatto di Misurina. Sia lei che gli occhi cerulei della sua interrogatrice la fissarono con sorpresa.

-               Quali… che bambini? – chiese confusa Misurina. Forse anche tra le file di quegli attendati non erano tutti con le rotelle in regola, considerò tra sé e sé.

Ma la donna assunse un cipiglio severo e un po’ offeso, come se ritenesse che lei volesse prenderla in giro – Ci sono dei bambini là dentro. Ne sono certa. Non fare la furba con me, ragazza. Come stanno i bambini? –

Misurina esitò, era una trappola? O era semplicemente pazza anche lei?

-               Manona, questo non ci interessa al momento. Inoltre, questa ragazza afferma di soffrire di amnesia a causa della botta. Proprio come avevi suggerito tu prima. – specificò con una lieve intonazione di duro rimprovero l’interrogatrice. La grossa donna che sembrava portare il nome di Manona arrossì lievemente, ma bofonchiò qualcosa come ‘Beh, non mi stupirebbe che fosse vero’ abbassando gli occhi verso il terreno. Occhi-azzurro-freddo tornò a voltarsi verso Misurina e sorrise appena, conciliante.

-          Allora, ricordi altro? –

-               No… credo di no… Non ho fatto in tempo a trovare quello che stavo cercando, qualsiasi cosa fosse, perché quelli… i vostri… beh, loro mi hanno colpito. – terminò Misurina, spiando di sottecchi Manona che riempiva di una minestra verde in cui galleggiavano pezzetti di qualcosa una ciotola e ci aggiungeva un cucchiaio.

-          Per il momento allora può bastare. Manona, dalle da mangiare, e falle portare un cappotto. Più tardi penso che avremo occasione di parlare di più… - esitò – a proposito, come ti chiami? –

Misurina la guardò dritta negli occhi, e sospirò – Come le ho detto… non riesco a ricordare il mio nome… ma non mi dispiacerebbe chiamarmi, hem, Misurina, è la protagonista di una storia che ho letto una volta… -

Negli occhi azzurri brillò qualcosa.  – Sì, certo, la conosco la storia dello specchio di Misurina. Va bene, Misurina. Non ci dispiacerebbe avere il tuo vero nome, ma se faremo presente a quegli stupidi che abbiamo un ostaggio sono certo che loro, visto che sono così pochi, non ci metteranno molto a capire di chi si tratta, non ti pare? –

Misurina la guardò confusa – Un ostaggio? Ma le ho detto che loro hanno giurato di spararmi se mi rivedono. Come le ho spiegato, credevano che li avrei messi tutti nei guai se… - la sua voce sbiancò mentre la donna rideva.

-          Oh, Misurina, e non è quello che hai fatto? Sei stata carina a fingere un’amnesia, ma vedi, ora come ora forse potresti trovarti a scegliere se esser costretta a tornare da loro per essere fucilata o se restare con noi e prolungare la nostra chiacchierata; ovvero tra l’andare a far loro compagnia mentre muoiono di fame e si aggrediscono gli uni con gli altri come cani rabbiosi, oppure restare qui a mangiare qualcosa di caldo, coprirti con un cappotto e poter passare le giornate a dormire in una tenda tranquillamente. Naturalmente potremmo anche lasciarti andare, ma dove potresti andare da sola, nel bel mezzo del nulla, a zonzo per la foresta con questo freddo e la neve? Al massimo saresti un buon pranzo per i lupi. –

Detto questo la donna si alzò dal ciocco. Si voltò verso Manona e disse con tono incolore – Bene, puoi darle il suo cibo. –

Prima che Manona potesse rispondere, un uomo coperto di tuta, sciarpa, occhialoni eccetera chiese da fuori il permesso di entrare, e una volta accordatogli si fermò sulla soglia della tenda e comunicò brevemente a Occhi-azzurro-gelido che era richiesta la sua presenza. Lei disse che arrivava subito, si voltò sbrigativamente verso Manona e disse  - Tu sai cosa devi fare. – e poi, verso Misurina – Ci vediamo più tardi, Misurina. – e pronunciò il suo nome con un tono talmente crudelmente ironico che lei decise che non poteva chiamarsi più Misurina. Forse poteva chiamarsi Ostaggio, a quel punto, considerò stordita dalle disperanti aspettative che quei diabolici occhi di cielo le avevano gettato addosso tutto in una volta, come una doccia ghiacciata.

Manona si sporse fuori dalla tenda per chiedere che portassero un cappotto per l’ostaggio, e poi le si avvicinò con la zuppa fumante e le porse davanti al naso un cucchiaio penzolante pieno di zuppa calda. Così, con l’animo ben oltre ogni soglia di seppellimento possibile, Ostaggio si trovò anche costretta ad essere imboccata da quel grosso donnone che straparlava di bambini ma che, mentre lei mangiava e piangeva in silenzio, ebbe almeno il buon senso di non dire una parola.

 

 

 

 

N.d.A.

un consiglio a chi eventualmente stesse leggendo: non affezionarsi ai nomi propri in questa storia.

Altra nota: le poche righe che precedono i capitoli non vogliono essere un riassunto o anticipazione o accompagnamento del capitolo che li segue, anche se qualcosa a che vedere con la trama generale lo hanno...

Grazie di cuore a Nina, che con la sua collaborazione mi sta davvero aiutando a rendere più leggibile il tutto :)

 

  
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