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Autore: keska    18/01/2010    44 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Edward

 

«Cosa succede?» chiese Bella, preoccupata, notando la mia rigidità e staccandosi da me.

Sputai la parola fra i denti. «I licantropi».

Ultimamente si erano avvicinati sul limitare del bosco, facendo incerti e tesi avanti e indietro. Volevano parlare con Bella e volevano che non ci fosse nessun altro oltre a lei. Leggevo nei loro pensieri che non vi era alcuna minaccia, così non me ne ero preoccupato più di tanto, ma non l’avrei mai lasciata sola con loro. Ringhiai. Sarebbero dovuti passare sulle mie ceneri.

Lei, senza dire nulla, si sollevò, correndo verso il soggiorno, dove c’era la mia famiglia e il telefono, da dove proveniva il suono. In un secondo le fui accanto.

Posò una mano su quella di mio padre, tesa per rispondere. «Fate parlare me» disse concitata.

La guardammo tutti straniti.

Ricambiò il nostro sguardo, supplice. «Vi prego. Non mi potranno fare nulla di male per telefono. E magari potremmo chiarire una volta per tutte questa seccatura, almeno questo!» pregò, mordendosi il labbro inferiore.

Carlisle si voltò verso di me, incerto se lasciare che Bella afferrasse la cornetta. «Ha ragione».

Sbuffai, seccato. Non mi andava che lo facesse. Non volevo che le dicessero qualcosa che potesse urtare la sua sensibilità. E poi, perché chiamare con un telefono? Mi pareva un mezzo così poco ortodosso per una comunicazione fra creature leggendarie. Perché tutta quella insistenza?

«Edward» mi supplicò Bella. Strinsi le labbra, ma annuii. Veloce, per la sua velocità umana, si affrettò a rispondere, non appena mio padre le ebbe lasciato spazio libero.

«Pronto?» fece tremante.

«Bella, sei tu?» era la voce potente di Sam Uley, l’alfa.

«Sì, sì, sono io. Cosa… che c’è?» chiese, guardandomi per trovare una sorta di conferma. Mi avvicinai, stringendole una mano e rassicurandola.

«Vogliamo parlare, solo parlare, con te. Decidi tu, quando e dove. Dì ai tuoi… vampiri» non mi sfuggì la naturale nota di disprezzo con cui ci aveva nominati «di rimanere lontani».

Un ringhio basso mi salì dalla gola.

«Se lo scordano!» sbottò Emmett, dall’altra parte della stanza.

Bella mi fissò tremante, incerta. «Edward…» cominciò.

«No» scandii solo. Presi un respiro, pensando di essere stato troppo duro. «Non credo sia affatto una buona idea» le misi una mano sulla pancia e lei sussultò «naturalmente spetta anche a te decidere».

Sospirò, poi annuì, riluttante, comprendendo le mie parole. «Non puoi dirmi qui quello che mi devi dire?» soffiò nella cornetta.

«No» disse decisa la voce dall’altra parte. «Se vuoi sapere dovrai incontrarci. Vuoi sapere?».

Sospirò, nuovamente incerta. Passò in rassegna tutti i volti degli altri vampiri nella stanza. Poi posò una sua mano sulla mia, sulla pancia, appoggiandosi a me. «No».

«Bene, in tal caso giuro sul mio branco che non vi disturberemo più. Bella» salutò.

Due istanti dopo la conversazione era muta.

 

*

 

Bella

 

Sospirai, seccata, intrecciando le gambe. «Questa è una bella seccatura» sibilai, rivolta a mio marito.

Lui era seduto e perfettamente composto con la schiena diritta e le gambe incrociate sul tappetino blu. Sorrise. «Mi sembra che tu me l’abbia già detto».

Feci schioccare la lingua, seccata, ricomponendomi non appena l’istruttrice, passandoci accanto, mi lanciò un’occhiataccia.

Ero stata obbligata a frequentare un assurdo corso “pre-parto simil yoga”. Beh, quasi obbligata. I patti erano che io sarei andata al corso insieme a Edward - e non avrei ricominciato a prendere gli antidepressivi -, e lui avrebbe accettato di esibirsi all’opera. Aveva diminuito la frequenza delle esibizioni rispetto allo standard, ma aveva già inviato alcuni suoi Demo musicali. Ovviamente, accecata dall’entusiasmo per il suo consenso, non avevo adeguatamente riflettuto sulle implicazioni di un corso pre-parto.

Tuta vuol dire palestra, che vuol dire ginnastica, che vuol dire avere l’equilibrio che non avevo. Come avevo potuto non pensarci prima? Forse perché la mia mente era affollata da mille altri pensieri…

Le parole dell’istruttrice volteggiarono melliflue, senza disturbare l’atmosfera zen. «Inspirate l’aria con lentezza ed espirate con la bocca, spingendo con il diaframma. Il dolore è in gran parte suggestione. La contrazione passerà presto, continuate a ripetervelo».

«Ma io non ho le contrazioni! Perché devo pensare di non averle se in effetti non le ho! È assurdo» mormorai, inclinandomi leggermente verso l’orecchio di Edward.

Si lasciò sfuggire un sorriso divertito. «Bella, sta tranquilla e rilassati» l’ultima parola fu come una nenia, una nenia che avevo sentito troppo spesso nell’ultimo periodo.

«Oh certo. Dovrò anche fare un cesareo, mi spieghi a che serve un preparto?» sbottai infastidita, sentendo la curiosità provenire da mia figlia.

Aprì bocca per ribattere, accigliato, ma poi si voltò a guardare l’istruttrice che ci fissava adirata. Arrossii, e ricominciai stupidamente a respirare.

Il fatto principale per cui non volevo fare il corso, oltre all’umiliazione che sentivo di arrecare alla mia persona, era che secondo me avevamo altri problemi più impellenti di cui preoccuparci. Ma tutti sostenevano il contrario! Rosalie era convinta che il corso sarebbe stata un’esperienza stupenda. Jasper diceva che fare yoga era ottimo per imparare a dominare le emozioni della bambina e non farmi controllare dai suoi sogni. Carlisle, persino, sosteneva che avessi bisogno di essere preparata al parto.

Tutti erano sereni, ostentavano tranquillità. Bisognava risolvere il problema dei sogni? Bene, si poteva fare tranquillamente. In fondo, erano i sogni della bambina! Edward aveva rivisto infatti le stesse immagini, anche se meno nitide, durante il mio sonno, e poco ci mancava che replicassimo l’esperienza… induttiva. Infatti, da parte di entrambi, contenersi diventava sempre più complesso. Nonostante questo notavo come anche lui fosse sempre più tranquillo e rilassato. Magari, il senso di ricerca che avvertiva nella bambina era insito nella sua giovane natura, così aveva detto.

Io invece vedevo tanti problemi. E l’esempio più eclatante, il problema di licantropi, che per tutti sembrava superato, io cominciavo ad avvertirlo come una spina nel fianco. E l’università! Oh. C’erano così tanti esami da fare e così poco tempo. Era vero, non c’erano preoccupazioni impellenti per la bambina. Lei stava bene, l’avevo riconosciuto io stessa.

Ma proprio fare questo corso mi pareva totalmente inutile! Una colossale perdita di tempo.

Inoltre avevo maturato una certa naturale ritrosia a dormire, pensando a quello che sarebbe avvenuto durante il sonno, e la frequente insonnia aumentava il mio già incredibile nervosismo. Jasper mi aveva ripetuto che così non andava bene, che presto le emozioni della bambina sarebbero potute sfuggire al mio controllo e così anche Edward aveva iniziato ad insistere per il corso preparto. Non mi avrebbe fatto di certo male, aveva detto.

«Intrecciate le braccia e spingete dolcemente sulle ginocchia. In questo modo eserciteremo i muscoli del bacino… no signora Cullen, così non va bene». Oh, ecco un’umiliazione in arrivo.

L’istruttrice mi si avvicinò, squadrandomi, mettendosi le mani sui fianchi. «Sbaglia la posizione delle mani, il ritmo è troppo veloce, i gesti troppo bruschi e non allena i muscoli giusti. In questo modo non sta tendendo nulla, anzi, rischia uno stiramento muscolare!».

Arrossii, sentendo gli occhi di tutte le altre gestanti e dei loro mariti su di me. M’imbronciai, sollevando le mani dalle ginocchia, sentendo un colpetto provenire da mia figlia. Mi voltai a guardare Edward, che mi rivolse un piccolo sorriso d’incoraggiamento.

L’istruttrice si piegò sui talloni, posando le mani calde sulle mie gambe, infastidendomi per quel contatto così ravvicinato. «Così, deve fare una lieve pressione verso l’esterno. La sente ora? Sente i muscoli allungarsi? Nota la differenza con quello che stava facendo lei?».

«Sì, noto» borbottai, mordicchiandomi il labbro inferiore, sentendo l’irritazione crescere e mischiarsi con quella della bambina, mentre continuava a toccarmi.

Le altre clienti si voltarono e ricominciarono a seguire le parole di un’altra istruttrice, mentre la bruna che parlava con me mi guardava negli occhi con convinzione. «Se non esercita questi muscoli non riuscirà a fare spinte abbastanza forti al momento del parto». Non c’era più rimprovero nella sua voce, solo attenzione e professionalità. Eppure continuava a toccarmi.

Appena mi sfiorò la pancia mi ritrassi, facendo accidentalmente scivolare una sua mano più in alto sulla gamba.

«Ahi» sussultai, stringendo le gambe, non appena sentii una piccola fitta ai muscoli della coscia.

«Bella?» chiese Edward allarmato, stringendomi una mano.

Gli occhi tondi dell’istruttrice si addolcirono. «Mi dispiace, le ho fatto male?» chiese mortificata.

Mi passai una mano fra i capelli, scuotendo la testa. «Non fa niente» mormorai tesa «non è colpa sua».

«Tutto bene?» incalzò Edward.

Annuii, ricominciando a seguire la lezione, solo per avere un pretesto per allontanare l’attenzione da me e dal mio comportamento. Mi fissò per un istante ancora teso, poi mi assecondò.

«Rilassati» mi sussurrò ad un orecchio, entrambe le mani posate sul mio ventre.

Dopo il piccolo incidente con l’istruttrice, le cose erano andate decisamente migliorando. Forse semplicemente per evitare che qualcun altro si avvicinasse a toccarmi la pancia con le sue mani fastidiosamente calde mi ero prefissa di impegnarmi maggiormente in quello che facevo. Man mano ero riuscita a dare sempre più ascolto ai consigli di Edward, estraniarmi da quelli che reputavo problemi, e concentrarmi su di lui. Odiavo ammetterlo, ma l’esercizio che stavamo svolgendo attualmente mi piaceva moltissimo. Edward stava dietro di me, seduto sul tappetino, ed io ero seduta fra le sue gambe. Lasciavo che mi toccasse la pancia e facevo anche gli stupidi movimenti con le mani.

«Così, sei bravissima» sospirò, baciandomi il collo.

«Edward» lo rimproverai, divertita, pur godendomi senza ritegno le sue carezze «ci guardano tutti, non vorrai dare spettacolo?».

«Visto che non era così male?». Sentii il suo sorriso sulla mia pelle. «Stai sorridendo, ed è questo l’importante. L’importante è che le mie due principesse stiano bene, siano tranquille, serene, amate…».

«Così, bravi, espirate piano. Perfetto, per ora basta con gli esercizi! Passiamo nella sala bianca in cui potremmo discutere serenamente, potrete conoscervi, e fugare ogni vostro dubbio sulla gestazione e sul parto, seguiteci» l’istruttrice bruna, che avevo scoperto chiamarsi Karen, procedette verso una porta a vetri, ampia e luminosa, facendo svolazzare il suo saio verde smeraldo.

Tutte le coppie si sollevarono dai rispettivi tappetini della grande sala ampia, luminosa, calpestando il parquet e continuando a rimirare le decorazioni di fiori di pesco sulle pareti.

Mi voltai verso Edward, baciandolo assetata sulle labbra fresche. Rispose al mio bacio con la stessa audacia, intrappolandomi fra le sue braccia e facendo entrare le dita da sotto la felpa. «Ci… ci dobbiamo fermare» ansimai, baciandogli e mordicchiandogli ripetutamente la mascella. Mi strinse più forte immergendo nuovamente le labbra sulle mie.

Non potevamo permetterci di farci prendere nuovamente da un impeto di passione, anche se la cosa era così dannatamente affascinante! Ma ci eravamo già troppe volte avvicinati a quello che sarebbe stato un punto di non ritorno per entrambi. Dovevamo stare più attenti. Anche perché, se quella mano fosse scesa più in basso…

«Basta» farfugliai, riaprendo gli occhi e bloccandomi. Anche lui fece cessare i suoi movimenti, senza fiato come me. I nostri petti si scontravano veloci.

Mi sorrise, sistemandomi i capelli che lui stesso aveva spettinato. Mi feci scivolare accanto a lui, in modo che potesse abbracciarmi senza fare del male alla bambina. Chiusi gli occhi e mi imposi di non baciarlo ancora, poggiando la testa sul suo petto. Ogni volta diventava più difficile e non sapevo quanto ancora saremmo stati capaci di fermarci.

«Dobbiamo andare. Gli altri ci aspetteranno» mormorò quando entrambi i nostri respiri si furono regolarizzati.

«Mmm, non mi va. Voglio rimanere qui con te» protestai sul suo petto. «Stavo così bene».

Non si lasciò sfuggire l’occasione di rispondermi. «Visto che il corso non è così male?».

Sbuffai, staccandomi da lui e sollevandomi lentamente, ancora intontita per il nostro momento di debolezza. «Edward io non dico che è brutto, solo» sospirai, seccata «mi pare di perdere così tanto tempo!».

Si sollevò agevolmente da terra, avviandosi al mio fianco verso la porta a vetri. «Non c’è nulla di più importante da fare» ribatté tranquillo.

«Sì invece!» protestai a bassa voce, stringendo i pugni. «Per esempio, dobbiamo trovare il motivo di questi strani sogni» affermai, indicandomi la pancia «per esempio, dobbiamo capire cosa vogliono i licantropi! Oppure, in ogni caso, potrei studiare! Sai che sono indietro col programma».

Scosse la testa, sorridendo benevolo. «Sai che stanno già investigando gli altri. I licantropi non vorranno niente più che illustrarti una stupida leggenda, e proprio ieri hai dato tre esami».

«Ma ci sono tante altre cose che…».

«Bella» m’interruppe, voltandosi e prendendomi la testa fra e mani. Mi fissò negli occhi, serio. «Se non abbiamo tempo da perdere vuol dire che non dovrei neppure fare quelle esibizioni all’opera?» chiese, inarcando un sopracciglio.

M’imbronciai alla sua logica di ferro. Non era giusto. «No» borbottai di malavoglia.

«Bene!» esclamò leggero, baciandomi la fronte. «Quanto mi piaci quando sei così testarda!» ammiccò.

Sospirai, secca, marciandogli accanto. Quando sentii la sua risatina sommessa arrossii.

Oltre la porta a vetri c’era una graziosa sala bianca, quasi un giardino d’inverno, con le sedie in vimini e i tavolini per il thè. Le donne si erano naturalmente disposte da un lato, verso i tavolini, mentre gli uomini chiacchieravano sui divanetti in fondo alla sala.

Entrai quasi nel panico quando non vidi Edward. Sentii una mano fredda sfiorare la mia e tirai un sospiro di sollievo. «Rilassati Bella, sei solo molto nervosa. Perchè non vai di là a parlare con quelle signore?» mi sussurrò ad un orecchio.

Mi voltai ad abbracciarlo. «Non sei più arrabbiata con me?» chiese divertito.

Elusi la sua seconda domanda. «Non mi va di stare sola con loro» sussurrai ad un suo orecchio, colta da un nuovo, improvviso, problema. Magari volevo solo dare una giustificazione al mio umore nero. «Sono tutte così… snob… perché non siamo venuti ad un corso per persone normali?».

Si staccò per guardarmi in faccia con serietà col suo viso da angelo. «Perdonami, non pensavo che la cosa ti potesse creare fastidio. È in miglior corso nel Washington state».

Sospirai, voltandomi a guardare le donne e i loro abiti firmati, i loro rossetti costosi, i loro modi da classe abbiente. Dovetti ammettere che anch’io indossavo un completo che avevo deciso, per la mia salute mentale, non chiedere quanto costasse. Incredibile quanto crescesse di prezzo un pezzo di maglina con un logo particolare stampato su. Ma come modi, no, come modi non avevo niente a che fare con quelle persone. Poi, però, osservai un particolare, estremamente rilevante, che mi era precedentemente sfuggito.

Erano tutte incinta, proprio come me. Cosa potevano avere di così diverso, mentre condividevano la gioia di portare un figlio in grembo?

Mi voltai verso Edward e annuii. «Va bene» dissi, «ci vado». Gli sorrisi debolmente e mi allontanai, lasciando che mi osservasse, titubante.

Le cose furono più positive di quanto avessi preventivato. Ogni tanto lanciavo uno sguardo a Edward e mi stupivo di vederlo così a suo agio fra gli umani. Anche se non vidi mai i suoi occhi su di me, ero certa che mi stesse controllando attraverso una delle menti delle donne che erano sedute al mio tavolo. Confrontarmi con i loro dubbi e trovare che i miei non erano poi così distanti, mi confortava non poco. Inoltre, fu indubbio il fatto che avessi trovato l’occasione adatta per divertirmi.

«…e poi lavoro molto a maglia. Christine, la mia cameriera, ha la dieta che mi ha dato il ginecologo e mi prepara tutte quelle cose assurde. Beh, un po’ mi scoccio, Richard è quasi sempre fuori e mi annoio a stare sola a casa. Pensa che l’ho dovuto obbligare a venire qui oggi!» la bionda ridacchiò, ammiccando a tutte, che la seguirono.

«Come ti capisco» confermò un’altra donna, sui trent’anni, al suo fianco. «Anch’io sono sempre sola a casa, a non fare nulla». Le altre annuirono, sorseggiando compostamente il thè.

Quasi mi scappò una risata a quell’affermazione. Tutte si voltarono nella mia direzione.

«Tu, ragazza» chiese la donna «non hai anche tu questo genere di problemi?».

Arrossii, notando tutti quegli occhi puntati su di me. «Beh» balbettai «non proprio, diciamo. Ecco» mi morsi un labbro «per quanto mio marito mi aiuti quasi in tutto, passando molto tempo con me quindi, cerco di fare molte cose anche sola». Continuai, vedendo i loro volti interessati «cucino, pulisco, lavo, stiro. E poi studio, soprattutto quello».

«Tu… fai tutte queste cose?» chiese una donna rossiccia al mio fianco, sorpresa.

«Beh, sì».

«Sembri molto giovane» affermò la bionda, curiosa «quanti anni hai?».

Sollevai un sopracciglio «Diciannove, quanti ne ha mio marito. Ci siamo sposati a diciotto, e sono rimasta subito incinta».

La questione si stemperò, e fortunatamente l’attenzione fu spostata via da me. Odiavo sentirmi al centro di tutto. Come avevo immaginato, a parte la loro inettitudine, quelle donne erano proprio come me. Anche l’istruttrice si avvicinò, dandoci suggerimenti e fornendoci spiegazioni. Iniziarono a raccontarmi interessanti dettagli e Ashley, la più grande, mi diede alcuni consigli. Sua sorella aveva avuto un figlio da poco e si era molto documentata.

«Oh, ecco il mio David» esclamò d’un’tratto, sollevandosi dalla sedia e avviandosi verso una donna con in braccio un neonato. Dovevano venire dalla nursery. «Eccolo, questo è il mio nipotino, non è un amore?» chiese, prendendolo dalle braccia di quella che doveva essere sua sorella. Lo cullò con delicatezza, facendosi afferrare un dito dalla sua piccola mano. Anche le altre si alzarono, andandogli intorno e cominciando a fargli moine.

«Isabella» mi chiamò - aveva insistito sul fatto che il mio nome completo fosse più signorile - «vieni a vederlo».

Mi sollevai, imbarazzata, mettendomi accanto a lei. Era… un neonato. Era carino. «Sì, vedo» borbottai.

«Avanti, prendilo!» fece entusiasta, porgendomelo.

Arrossii. «Oh, io. Non ne sono capace, non credo di esserlo» farfugliai.

Lei ridacchiò. «Ma lo sei, certo che lo sei! È impossibile non esserlo».

«Certo piccola» confermò Juliet, la donna bionda. «Si chiama istinto materno».

Anche le altre annuirono, incoraggiandomi. Ashley mi spiegò come mettere le braccia e me lo mise su, nonostante i miei timori e le mie proteste. Anche la madre sembrava volermi dare fiducia.

Sentendolo fra le braccia mi appariva come un fagottino, molto più leggero di quanto mi sarei aspettata, morbido ed estremamente fragile. Emanava calore. Iniziò a muovere e braccia velocemente, mentre ruotava la testa da una parte all’altra. «È… io non so…».

«Stai andando benissimo» m’incoraggiò la madre.

Eppure il bambino continuava ad agitarsi. «Io…mmm…» tentai di cullarlo per riuscire a calmarlo, ma pareva che a ogni mio movimento si agitasse di più. Iniziò a frignare, e mi allarmai, non sapendo come farlo smettere. «Si sta agitando» dissi preoccupata.

«Ma no, sta’ tranquilla».

Ogni mi tentativo di farlo smettere fu inutile. Tentai di imitare il comportamento che avevo visto usare dalle altre donne. «Piccolo, sta’ calmo» biascicai nervosa «su, su, avanti, calmati». Tutta la serenità che ero riuscita a racimolare con gli esercizi di yoga precedentemente svolti stava scomparendo come una meteora di giorno. Lo cullai con più decisione, e a quel punto iniziò a strillare.

Tutte scattarono allarmate, tendendo le braccia verso il bimbo.

«Oh, è strano, ma che succede?».

«Dai a me cara, non fa nulla».

«Ecco, così».

In pochi secondi il mio petto fu liberato da quel piccolo peso, e tutta l’attenzione si concentrò un metro più avanti, intorno al bambino che smise quasi immediatamente di piangere.

Fissai tutte quelle donne in silenzio, sentendo un pungente fastidio invadermi e spingere dal diaframma verso l’alto, verso i polmoni, comprimendoli e impedendomi di respirare.

Mi volsi ed andai via, velocemente, prima che potessero distogliere l’attenzione dal fagotto e accorgersi di me. Attraversai rapidamente la sala con tutti i tappetini blu, fiondandomi negli spogliatoi. Mi lasciai cadere sulla panchina e intrecciai le braccia sotto al seno, premendo sul petto. Contai solo pochi secondi.

«Bella» un sussurro strozzato, quasi affannato, di Edward.

Velocemente mi asciugai i lacrimoni ai bordi degli occhi, sperando che non li vedesse, ostinandomi a guardare nella direzione opposta alla sua.

«Bella» mi chiamò ancora, camminando fino a trovarsi di fronte a me. Indugiò, indeciso su cosa dirmi. Stringevo le labbra per evitare di scoppiare in un pianto a dirotto. «Tutto bene?» mi chiese cauto, inginocchiandosi di fronte a me e accarezzandomi una guancia con la sua mano fredda.

«No» singhiozzai, serrando gli occhi. Li riaprii, fissandolo nei suoi, preoccupati, e lasciando scendere qualche lacrima. Presi due respiri profondi, portandomi una mano all’attaccatura della pancia. «Voglio uscire di qui. Ti prego, fammi uscire. Mi manca l’aria».

Non insistette, non parlò. Capì che avevo solo bisogno di stare in silenzio. Mi mise una mano sul fianco, aiutandomi ad alzarmi. L’aria fresca del giardino mi fece subito riacquistare un minimo di lucidità. Mi fece sedere su una panchina, inginocchiandosi di fronte a me e prendendomi una mano fra le sue, mentre tenevo l’altra ostinatamente premuta contro il ventre.

Non volevo parlare, e non volevo che lo facesse lui. Mi avrebbe confortata, spiegato e dimostrato, in qualche modo, che non era colpa mia. Che non avevo ragione di sentirmi così… inadatta. Ma invece era il contrario, e lo sapevo perfettamente. Perché solo ora, solo ora che il vento freddo usciva irregolare dai miei polmoni, raggelandomi, avevo la lucidità per comprendere.

Mi resi conto di come mi fossi caricata delle aspettative delle persone che mi erano attorno, della mia famiglia vampira e di Edward. Dall’assurda idea di potermi impegnare sempre di più per non deluderli ed insieme di forzarmi di essere una persona migliore, di aiutarli, di essere una buona moglie e di diventare una buona madre.

Eppure ogni cosa che accadeva mi faceva sentire come se non fossi all’altezza. Come dopo quello che Jacob mi aveva fatto mi fossi spezzata e qualunque mio tentativo di rimettermi in sesto fosse inutile.

E mi sentivo così in colpa del nervosismo e dell’agitazione che sentivo e con cui stavo inondando ripetutamente mia figlia non ancora nata. Sarebbe bastato così poco. Una o due pillole al giorno.

«Non mi guardare così, Edward. Non mi guardare così» mormorai, cancellandomi le lacrime che erano scese con le mie parole. Non volevo i suoi occhi apprensivi su di me. Evidenziavano semplicemente il mio ennesimo fallimento. Distolsi lo sguardo, sollevando la mano fino all’attaccatura della pancia e premendo alternativamente per aiutarmi a fare respiri che mi parevano impossibili.

«Bella, ti prego» fece una pausa, scegliendo, nel suo vasto vocabolario, le parole più adatte. «Respira, sta tranquilla» disse infine, cambiando probabilmente il senso della sua frase.

«Ce la faccio» mormorai togliendomi la mano dal petto e allontanando con un gesto la sua. L’aria che mi usciva dalla bocca si condensava in piccole nuvolette e le ciglia bagnate ghiacciavano, dandomi l’impressione di avere delle piccole schegge negli occhi. Eppure non volevo parlare, solo continuare a rimanere in silenzio.

Edward però si risolse a dirmi qualcosa. «Amore», strinse la mia mano «non fare così. Tu sarai una madre stup…».

Scattai, bloccandolo. «Non dirlo Edward, non dirlo perché non è così» singhiozzai «e non riuscirai a convincermi, in alcun modo. L’hai detto anche tu prima quanto dannatamente sia testarda. Ma non avevo capito quanto fosse sbagliato finché non ho fallito per l’ennesima volta come moglie e madre» vidi la sua espressione angosciata e sfilai la mano dalle sue, coprendomi gli occhi pieni di lacrime «mentre avevi ragione tu sin dall’inizio e sarebbe bastato solo prendere dei dannatissimi antidepressivi!» esclamai fra i singhiozzi.

S’irrigidì, sconvolto. «Bella» sussurrò senza fiato.

Strinsi le labbra, fissando il suo viso, addolorata. «Dimmi che non è vero» dissi con un filo di voce.

Si perse con lo sguardo nel vuoto, silenzioso. Deglutì, e spostò di nuovo i suoi occhi nei miei. «Siamo insieme in questa cosa, lo sai? Ricordi quando eri catatonica a letto, senza mangiare? È stato uno dei momenti più brutti della mia vita, perché non sapevo quando e se ti saresti ripresa» disse, angosciato al solo ricordo «ma lo hai fatto, sorprendendo tutti» aggiunse con un piccolissimo sorriso «poi hai scoperto della gravidanza, e non hai pensato per un secondo a quello che la bambina avrebbe potuto farti. Sei stata così coraggiosa da mettere il suo bene davanti al tuo anche quando io non ci riuscivo. Questo secondo me è ciò che farebbe un’ottima madre» continuò con estrema dolcezza.

Tirai su con il naso.

Mi sorrise, scrutandomi cauto. «E poi io avevo così tanta paura di fare l’amore con te, dopo Jacob. Mi sembravi più fragile e vulnerabile di prima e fosse stato per me non mi sarei avvicinato mai più. Ma tu» fece, sorridendomi «oh, tu. Sei stata così amorevole, naturale, dolce. Ti sei affidata a me completamente, con tutto il tuo cuore, facendomi credere che ogni cosa fosse possibile e scaldando il mio cuore di ghiaccio. Ho pensato che se mia moglie, un’umana così fragile, aveva sopportato così tanto e con così tanto amore anch’io mi dovevo impegnare per farlo. Bella» concluse con estremo amore e sincerità «tu mi hai fatto tornare in vita».

Fremetti, scacciando un ennesimo singhiozzo. «Piango sempre» biascicai fra le labbra, commossa e un po’ stordita dalle sue parole «e odio piangere. Non faccio altro che piangere, e tu sei sempre qui a consolarmi e non vorrei farlo! Eppure continuo a farlo senza poterci fare nulla. E ti faccio soffrire, e faccio soffrire la bambina».

«Bella» sospirò, sollevandosi dai talloni e sedendosi sulla panchina, accanto a me, sfregandomi le mani contro le braccia nell’inutile tentativo di infondermi calore. «Hai ragione, sai. Hai perfettamente ragione» commentò, facendomi sobbalzare e abbassare lo sguardo. «Hai un difetto orribile» riprese «quello di non essere per niente consapevole delle tue capacità».

Feci per protestare, ma mi interruppe, posandomi un dito sulle labbra.

«Da cosa pensi che dipenda questa tua insicurezza?» chiese, come se la risposta fosse più che palese. «Cosa, se non quello che io stesso ti ho lasciato credere? Ti prego, dici di non essere una buona moglie, ma se mi ami, ti prego, ascoltami» mi prese il viso fra le mani, fissandomi «tu sei tutto ciò di cui ho bisogno. Tu e la bambina. Vuoi essere una buona moglie? Amami. È solo questo che importa. O forse non mi ami più?».

«Certo» balbettai «certo che ti amo. Ma questo non fa di me una buona moglie».

Sorrise amaramente, scuotendo il capo. «E di certo, non provare a contraddirmi, quello che ho combinato non fa di me un buon marito. Oh, accidenti, siamo proprio due pessimi coniugi!» mi sorrise «cosa ci importa? Io sto bene con te e tu con me».

«Ti stancherai».

«Puoi far decidere me? Sai, non credo che lo farò tanto presto, almeno per… l’eternità?».

Sospirai, appoggiandomi sul suo petto. «Sono stata davvero pessima» borbottai vergognosa.

«Oh Bella, è normale quello che è accaduto, visto che non avevi mai preso in braccio un bambino».

«Invece no!» protestai «le altre donne lo sapevano fare benissimo. Non prendermi in giro».

Scosse il capo benevolo. «Imparerai. I bambini sentono le nostre emozioni, e tu eri molto nervosa. Ti si resa conto di quanto lo sei, nell’ultimo periodo?» chiese serio «sei incinta, Bella. Ti assicuro che è normalissimo sentirsi così. Il tuo corpo cambia, la tua vita cambia, hai tanti ormoni impazziti dentro di te, e di tanto in tanto è normale sentirsi un po’ sfasate» sorrise teneramente «Cosa che non sarebbe accaduta se ti avessi dato l’amore di cui hai bisogno, ma comunque» aggiunse velocemente «tu non mi credi. Ma stai a sentire una cosa, e poi sarai libera di non cambiare idea, okay?».

Sbuffai, incrociando le braccia. Feci passare qualche istante nel silenzio. «Okay» concessi debolmente, fissando la ghiaia del vialetto. Dopotutto, pur non volendolo, avevo così bisogno di sentirgli dimostrare il contrario. Di sentirgli dire quanto mi apprezzasse, quanto mi amasse. Di sapere quanto valessi per lui.

«Tutte quelle donne» cominciò piano «erano incredibilmente invidiose di te».

«Oh, certo» commentai, delusa dal fatto che non avesse trovato un’argomentazione migliore «tutte vorrebbero averti per marito».

Sospirò, prendendomi il viso fra le mani, costringendomi a guardarlo. Mi lasciò senza fiato per l’irruenza del gesto. «Bella. Come fai a non vederti? Come fai a non vedere le tue possibilità?» esclamò infervorato. Fece una pausa, modulando il tono in maniera più gentile. Ero ancora troppo shockata per reagire. «Erano invidiose per quello che sei, per quello che riesci a fare. Hai una vita frenetica e splendida. Lotti per quello che vuoi ottenere. Ti sacrifichi per gli altri, ami appassionatamente. E hai soli diciannove anni! Hai idea di quanto volessero sentirsi realizzate almeno un decimo di quanto lo sei tu?» concluse dolcemente, accarezzandomi la guancia.

Sentii il mio labbro inferiore tremolare, fin troppo vicino al suo. «Io, io…» balbettai, sentendo gli occhi pungermi, mentre il freddo ghiacciato condensava le nuove lacrime. «Mi dispiace» dissi infine. Tirai su col naso, poi lasciai andare il volto sulla sua camicia.

Risi, con ancora le guance bagnate d’acqua, quando sentii la bambina muoversi. Lui mi sorrise, fissandomi adorante. Presi la sua mano e la portai sulla pancia, facendogli sentire sua figlia mentre si muoveva.

«Pensa» sussurrò, «quanto siamo fortunati ad avere questo legame con nostra figlia».

Mi asciugai le nuove lacrime. «Tanto. Troppo» mormorai.

Appena le mie condizioni tornarono accettabili rientrammo nella grande sala dove si facevano gli esercizi per finire la prima seduta del corso. Le altre donne non mi fecero particolari domande, così non mi giustificai. Trassi nuovo beneficio da quegli esercizi che solo poche ore prima credevo stupidi, forse perché avevo una nuova disposizione d’animo, o forse perché, semplicemente, avevo Edward accanto a me. E lui mi faceva sentire amata, ma soprattutto in grado di amare. Per lui ero intelligente, perspicace, bella. E sapevo quanto fosse convinto di quello che mi diceva.

«Oh, credo di aver bisogno di una doccia!» esclamai, lasciando cadere il mio borsone con la tuta sul divano. Sbadigliai, accarezzandomi lo stomaco gorgogliante e voltandomi ad osservare Edward che portava in casa il suo borsone e due grosse scatole marroni. Cielo, era così sexy anche quando non faceva praticamente nulla! Anche quando mi sembrava un bravo marito, un bravo papà, non potevo fare a meno di aggiungere al commento l’aggettivo “sexy”. Magari eravamo due novelli sposi, di cui uno un vampiro, che avevano bisogno di smaltire la loro energia attrattiva ma che proprio non sapevano come fare. Sospirai, distogliendo i miei pensieri non appena lo vidi sfrecciare velocemente per sistemare ogni cosa.

«Credo che prima mangerò qualcosa» dissi a mezza voce, ancora concentrata sulle sue magnifiche gambe fasciate dalla tuta… Andai in cucina, alla ricerca di qualcosa di appetitoso.

Aprii il frigo e mi trovai di fronte ad un’ampia scelta. «Ho voglia di… di…» sussurrai, scorrendo con lo sguardo sulle mensole trasparenti. Mi chinai ad osservare in basso, sull’ultimo ripiano.

Improvvisamente mi sentii afferrare sui fianchi da due mani fredde, inconfondibili. Una decisa pacca sul sedere, mi fece ansimare, stupita. «Io ho voglia di te» mormorò roco al mio orecchio.

Quello che accadde successivamente infranse la promessa che entrambi, solo pochi giorni prima, ci eravamo fatta.

Ma cosa potevamo farci?

Eravamo entrambi troppo masochisti per non godere l’un dell’altra.

   
 
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