Edward
«Cosa succede?»
chiese Bella, preoccupata, notando la
mia rigidità e staccandosi da me.
Sputai la parola fra i denti.
«I licantropi».
Ultimamente si erano avvicinati sul
limitare del
bosco, facendo incerti e tesi avanti e indietro. Volevano parlare con
Bella e
volevano che non ci fosse nessun altro oltre a lei. Leggevo nei loro
pensieri
che non vi era alcuna minaccia, così non me ne ero
preoccupato più di tanto, ma
non l’avrei mai lasciata sola con loro. Ringhiai. Sarebbero
dovuti passare
sulle mie ceneri.
Lei, senza dire nulla, si
sollevò, correndo verso il
soggiorno, dove c’era la mia famiglia e il telefono, da dove
proveniva il
suono. In un secondo le fui accanto.
Posò una mano su quella
di mio padre, tesa per
rispondere. «Fate parlare me» disse concitata.
La guardammo tutti straniti.
Ricambiò il nostro
sguardo, supplice. «Vi prego. Non
mi potranno fare nulla di male per telefono. E magari potremmo chiarire
una
volta per tutte questa seccatura, almeno questo!»
pregò, mordendosi il labbro
inferiore.
Carlisle si voltò verso
di me, incerto se lasciare che
Bella afferrasse la cornetta. «Ha
ragione».
Sbuffai, seccato. Non mi andava che
lo facesse. Non
volevo che le dicessero qualcosa che potesse urtare la sua
sensibilità. E poi,
perché chiamare con un telefono? Mi pareva un mezzo
così poco ortodosso per una
comunicazione fra creature leggendarie. Perché tutta quella
insistenza?
«Edward» mi
supplicò Bella. Strinsi le labbra, ma
annuii. Veloce, per la sua velocità umana, si
affrettò a rispondere, non appena
mio padre le ebbe lasciato spazio libero.
«Pronto?» fece
tremante.
«Bella,
sei tu?»
era la voce potente di Sam Uley,
l’alfa.
«Sì,
sì, sono io. Cosa… che
c’è?» chiese, guardandomi
per trovare una sorta di conferma. Mi avvicinai, stringendole una mano
e
rassicurandola.
«Vogliamo
parlare, solo parlare, con te. Decidi tu, quando e dove. Dì
ai tuoi… vampiri»
non mi sfuggì la naturale nota di disprezzo con cui ci aveva
nominati «di rimanere lontani».
Un ringhio basso mi salì
dalla gola.
«Se lo
scordano!» sbottò Emmett, dall’altra
parte
della stanza.
Bella mi fissò tremante,
incerta. «Edward…» cominciò.
«No» scandii solo. Presi un respiro,
pensando di essere
stato troppo duro. «Non credo sia affatto una buona
idea» le misi una mano
sulla pancia e lei sussultò «naturalmente spetta
anche a te decidere».
Sospirò, poi
annuì, riluttante, comprendendo le mie
parole. «Non puoi dirmi qui quello che mi devi
dire?» soffiò nella cornetta.
«No» disse decisa la voce
dall’altra parte. «Se vuoi
sapere dovrai incontrarci. Vuoi
sapere?».
Sospirò, nuovamente
incerta. Passò in rassegna tutti i
volti degli altri vampiri nella stanza. Poi posò una sua
mano sulla mia, sulla
pancia, appoggiandosi a me. «No».
«Bene,
in tal
caso giuro sul mio branco che non vi disturberemo più. Bella»
salutò.
Due istanti dopo la conversazione
era muta.
*
Bella
Sospirai, seccata, intrecciando le
gambe. «Questa
è una bella seccatura» sibilai,
rivolta a mio marito.
Lui era seduto e perfettamente
composto con la schiena
diritta e le gambe incrociate sul tappetino blu. Sorrise. «Mi
sembra che tu me
l’abbia già detto».
Feci schioccare la lingua, seccata,
ricomponendomi non
appena l’istruttrice, passandoci accanto, mi
lanciò un’occhiataccia.
Ero stata obbligata a frequentare
un assurdo corso
“pre-parto simil yoga”. Beh, quasi
obbligata. I patti erano che io sarei andata al corso insieme a Edward
- e non
avrei ricominciato a prendere gli antidepressivi -, e lui avrebbe
accettato di
esibirsi all’opera. Aveva diminuito la frequenza delle
esibizioni rispetto allo
standard, ma aveva già inviato alcuni suoi Demo musicali.
Ovviamente, accecata
dall’entusiasmo per il suo consenso, non avevo adeguatamente
riflettuto sulle
implicazioni di un corso pre-parto.
Tuta vuol dire palestra, che vuol
dire ginnastica, che
vuol dire avere l’equilibrio che non avevo. Come avevo potuto
non pensarci
prima? Forse perché la mia mente era affollata da mille
altri pensieri…
Le parole
dell’istruttrice volteggiarono melliflue,
senza disturbare l’atmosfera zen. «Inspirate
l’aria con lentezza ed espirate
con la bocca, spingendo con il diaframma. Il dolore è in
gran parte
suggestione. La contrazione passerà presto, continuate a
ripetervelo».
«Ma io non ho le
contrazioni! Perché devo pensare di
non averle se in effetti non le ho! È assurdo»
mormorai, inclinandomi
leggermente verso l’orecchio di Edward.
Si lasciò sfuggire un
sorriso divertito. «Bella, sta
tranquilla e rilassati»
l’ultima
parola fu come una nenia, una nenia che avevo sentito troppo spesso
nell’ultimo
periodo.
«Oh
certo. Dovrò anche fare
un cesareo, mi spieghi a che serve un preparto?» sbottai
infastidita, sentendo
la curiosità provenire da mia figlia.
Aprì bocca per
ribattere, accigliato, ma poi si voltò
a guardare l’istruttrice che ci fissava adirata. Arrossii, e
ricominciai
stupidamente a respirare.
Il fatto principale per cui non
volevo fare il corso,
oltre all’umiliazione che sentivo di arrecare alla mia
persona, era che secondo
me avevamo altri problemi più impellenti di cui
preoccuparci. Ma tutti
sostenevano il contrario! Rosalie era convinta che il corso sarebbe
stata
un’esperienza stupenda. Jasper diceva che fare yoga era
ottimo per imparare a dominare
le emozioni della bambina e non farmi controllare dai suoi sogni.
Carlisle,
persino, sosteneva che avessi bisogno di essere preparata al parto.
Tutti erano sereni, ostentavano
tranquillità.
Bisognava risolvere il problema dei sogni? Bene, si poteva fare
tranquillamente. In fondo, erano i sogni della bambina! Edward aveva
rivisto
infatti le stesse immagini, anche se meno nitide, durante il mio sonno,
e poco
ci mancava che replicassimo l’esperienza… induttiva.
Infatti, da parte di entrambi, contenersi diventava sempre
più complesso. Nonostante
questo notavo come anche lui fosse sempre più
tranquillo e rilassato. Magari, il senso di ricerca che avvertiva nella
bambina
era insito nella sua giovane natura, così aveva detto.
Io invece vedevo tanti problemi. E
l’esempio più
eclatante, il problema di licantropi, che per tutti sembrava superato,
io
cominciavo ad avvertirlo come una spina nel fianco. E
l’università! Oh. C’erano
così tanti esami da fare e così poco tempo. Era
vero, non c’erano
preoccupazioni impellenti per la bambina. Lei stava bene,
l’avevo riconosciuto
io stessa.
Ma proprio fare questo corso mi
pareva totalmente
inutile! Una colossale perdita di tempo.
Inoltre avevo maturato una certa naturale
ritrosia a dormire,
pensando a quello che sarebbe avvenuto durante il sonno, e la frequente
insonnia aumentava il mio già incredibile nervosismo. Jasper
mi aveva ripetuto
che così non andava bene, che presto le emozioni della
bambina sarebbero potute
sfuggire al mio controllo e così anche Edward aveva iniziato
ad insistere per
il corso preparto. Non mi avrebbe fatto di certo male, aveva detto.
«Intrecciate le braccia e
spingete dolcemente sulle
ginocchia. In questo modo eserciteremo i muscoli del bacino…
no signora Cullen,
così non va bene». Oh, ecco
un’umiliazione in arrivo.
L’istruttrice mi si
avvicinò, squadrandomi, mettendosi
le mani sui fianchi. «Sbaglia la posizione delle mani, il
ritmo è troppo
veloce, i gesti troppo bruschi e non allena i muscoli giusti. In questo
modo
non sta tendendo nulla, anzi, rischia uno stiramento
muscolare!».
Arrossii, sentendo gli occhi di
tutte le altre
gestanti e dei loro mariti su di me. M’imbronciai, sollevando
le mani dalle
ginocchia, sentendo un colpetto provenire da mia figlia. Mi voltai a
guardare
Edward, che mi rivolse un piccolo sorriso d’incoraggiamento.
L’istruttrice si
piegò sui talloni, posando le mani
calde sulle mie gambe, infastidendomi per quel contatto così
ravvicinato. «Così,
deve fare una lieve pressione verso l’esterno. La sente ora?
Sente i muscoli
allungarsi? Nota la differenza con quello che stava facendo
lei?».
«Sì,
noto» borbottai, mordicchiandomi il labbro
inferiore, sentendo l’irritazione crescere e mischiarsi con
quella della
bambina, mentre continuava a toccarmi.
Le altre clienti si voltarono e
ricominciarono a
seguire le parole di un’altra istruttrice, mentre la bruna
che parlava con me
mi guardava negli occhi con convinzione. «Se non esercita
questi muscoli non
riuscirà a fare spinte abbastanza forti al momento del
parto». Non c’era più
rimprovero nella sua voce, solo attenzione e
professionalità. Eppure
continuava a toccarmi.
Appena mi sfiorò la
pancia mi ritrassi, facendo
accidentalmente scivolare una sua mano più in alto sulla
gamba.
«Ahi» sussultai, stringendo le gambe,
non appena sentii una
piccola fitta ai muscoli della coscia.
«Bella?» chiese
Edward allarmato, stringendomi una
mano.
Gli occhi tondi
dell’istruttrice si addolcirono. «Mi
dispiace, le ho fatto male?» chiese mortificata.
Mi passai una mano fra i capelli,
scuotendo la testa.
«Non fa niente» mormorai tesa «non
è colpa sua».
«Tutto bene?»
incalzò Edward.
Annuii, ricominciando a seguire la
lezione, solo per
avere un pretesto per allontanare l’attenzione da me e dal
mio comportamento. Mi
fissò per un istante ancora teso, poi mi
assecondò.
«Rilassati» mi
sussurrò ad un orecchio, entrambe le
mani posate sul mio ventre.
Dopo il piccolo incidente con
l’istruttrice, le cose
erano andate decisamente migliorando. Forse semplicemente per evitare
che
qualcun altro si avvicinasse a toccarmi la pancia con le sue mani
fastidiosamente calde mi ero prefissa di impegnarmi maggiormente in
quello che
facevo. Man mano ero riuscita a dare sempre più ascolto ai
consigli di Edward,
estraniarmi da quelli che reputavo problemi, e concentrarmi su di lui.
Odiavo
ammetterlo, ma l’esercizio che stavamo svolgendo attualmente
mi piaceva
moltissimo. Edward stava dietro di me, seduto sul tappetino, ed io ero
seduta
fra le sue gambe. Lasciavo che mi toccasse la pancia e facevo anche gli
stupidi
movimenti con le mani.
«Così, sei
bravissima» sospirò, baciandomi il collo.
«Edward» lo
rimproverai, divertita, pur godendomi
senza ritegno le sue carezze «ci guardano tutti, non vorrai
dare spettacolo?».
«Visto che non era
così male?». Sentii il suo sorriso
sulla mia pelle. «Stai sorridendo, ed è questo
l’importante. L’importante è che
le mie due principesse stiano bene, siano tranquille, serene,
amate…».
«Così, bravi,
espirate piano. Perfetto, per ora basta
con gli esercizi! Passiamo nella sala bianca in cui potremmo discutere
serenamente, potrete conoscervi, e fugare ogni vostro dubbio sulla
gestazione e
sul parto, seguiteci» l’istruttrice bruna, che
avevo scoperto chiamarsi Karen,
procedette verso una porta a vetri, ampia e luminosa, facendo
svolazzare il suo
saio verde smeraldo.
Tutte le coppie si sollevarono dai
rispettivi
tappetini della grande sala ampia, luminosa, calpestando il parquet e
continuando a rimirare le decorazioni di fiori di pesco sulle pareti.
Mi voltai verso Edward, baciandolo
assetata sulle
labbra fresche. Rispose al mio bacio con la stessa audacia,
intrappolandomi fra
le sue braccia e facendo entrare le dita da sotto la felpa.
«Ci… ci dobbiamo
fermare» ansimai, baciandogli e mordicchiandogli
ripetutamente la mascella. Mi
strinse più forte immergendo nuovamente le labbra sulle mie.
Non potevamo permetterci di farci
prendere nuovamente
da un impeto di passione, anche se la cosa era così
dannatamente affascinante! Ma
ci eravamo già troppe volte avvicinati a quello che sarebbe
stato un punto di
non ritorno per entrambi. Dovevamo stare più attenti. Anche
perché, se quella
mano fosse scesa più in basso…
«Basta»
farfugliai, riaprendo gli occhi e bloccandomi.
Anche lui fece cessare i suoi movimenti, senza fiato come me. I nostri
petti si
scontravano veloci.
Mi sorrise, sistemandomi i capelli
che lui stesso
aveva spettinato. Mi feci scivolare accanto a lui, in modo che potesse
abbracciarmi senza fare del male alla bambina. Chiusi gli occhi e mi
imposi di
non baciarlo ancora, poggiando la testa sul suo petto. Ogni volta
diventava più
difficile e non sapevo quanto ancora saremmo stati capaci di fermarci.
«Dobbiamo andare. Gli
altri ci aspetteranno» mormorò
quando entrambi i nostri respiri si furono regolarizzati.
«Mmm,
non mi va. Voglio
rimanere qui con te» protestai sul suo petto.
«Stavo così bene».
Non si lasciò sfuggire
l’occasione di rispondermi.
«Visto che il corso non è così
male?».
Sbuffai, staccandomi da lui e
sollevandomi lentamente,
ancora intontita per il nostro momento di debolezza. «Edward
io non dico che è
brutto, solo» sospirai, seccata «mi pare di perdere
così tanto tempo!».
Si sollevò agevolmente
da terra, avviandosi al mio
fianco verso la porta a vetri. «Non c’è
nulla di più importante da fare»
ribatté tranquillo.
«Sì
invece!» protestai a bassa voce, stringendo i
pugni. «Per esempio, dobbiamo trovare il motivo di questi
strani sogni»
affermai, indicandomi la pancia «per esempio, dobbiamo capire
cosa vogliono i
licantropi! Oppure, in ogni caso, potrei studiare! Sai che sono
indietro col
programma».
Scosse la testa, sorridendo
benevolo. «Sai che stanno
già investigando gli altri. I licantropi non vorranno niente
più che illustrarti
una stupida leggenda, e proprio ieri hai dato tre esami».
«Ma ci sono tante altre
cose che…».
«Bella»
m’interruppe, voltandosi e prendendomi la
testa fra e mani. Mi fissò negli occhi, serio. «Se
non abbiamo tempo da perdere
vuol dire che non dovrei neppure fare quelle esibizioni
all’opera?» chiese,
inarcando un sopracciglio.
M’imbronciai alla sua
logica di ferro. Non era giusto.
«No»
borbottai di malavoglia.
«Bene!»
esclamò leggero, baciandomi la fronte. «Quanto
mi piaci quando sei così testarda!»
ammiccò.
Sospirai, secca, marciandogli
accanto. Quando sentii
la sua risatina sommessa arrossii.
Oltre la porta a vetri
c’era una graziosa sala bianca,
quasi un giardino d’inverno, con le sedie in vimini e i
tavolini per il thè. Le
donne si erano naturalmente disposte da un lato, verso i tavolini,
mentre gli
uomini chiacchieravano sui divanetti in fondo alla sala.
Entrai quasi nel panico quando non
vidi Edward. Sentii
una mano fredda sfiorare la mia e tirai un sospiro di sollievo.
«Rilassati
Bella, sei solo molto nervosa. Perchè non vai di
là a parlare con quelle
signore?» mi sussurrò ad un orecchio.
Mi voltai ad abbracciarlo.
«Non sei più arrabbiata con
me?» chiese divertito.
Elusi la sua seconda domanda.
«Non mi va di stare sola
con loro» sussurrai ad un suo orecchio, colta da un nuovo,
improvviso,
problema. Magari volevo solo dare una giustificazione al mio umore
nero. «Sono
tutte così… snob…
perché non siamo
venuti ad un corso per persone normali?».
Si staccò per guardarmi
in faccia con serietà col suo
viso da angelo. «Perdonami, non pensavo che la cosa ti
potesse creare fastidio.
È in miglior corso nel Washington state».
Sospirai, voltandomi a guardare le
donne e i loro
abiti firmati, i loro rossetti costosi, i loro modi da classe abbiente.
Dovetti
ammettere che anch’io indossavo un completo che avevo deciso,
per la mia salute
mentale, non chiedere quanto costasse. Incredibile quanto crescesse di
prezzo
un pezzo di maglina con un logo particolare stampato su. Ma come modi,
no, come
modi non avevo niente a che fare con quelle persone. Poi,
però, osservai un
particolare, estremamente rilevante, che mi era precedentemente
sfuggito.
Erano tutte incinta, proprio come
me. Cosa potevano
avere di così diverso, mentre condividevano la gioia di
portare un figlio in
grembo?
Mi voltai verso Edward e annuii.
«Va bene» dissi, «ci
vado». Gli sorrisi debolmente e mi allontanai, lasciando che
mi osservasse,
titubante.
Le cose furono più
positive di quanto avessi
preventivato. Ogni tanto lanciavo uno sguardo a Edward e mi stupivo di
vederlo
così a suo agio fra gli umani. Anche se non vidi mai i suoi
occhi su di me, ero
certa che mi stesse controllando attraverso una delle menti delle donne
che
erano sedute al mio tavolo. Confrontarmi con i loro dubbi e trovare che
i miei
non erano poi così distanti, mi confortava non poco.
Inoltre, fu indubbio il
fatto che avessi trovato l’occasione adatta per divertirmi.
«…e poi lavoro
molto a maglia. Christine, la mia
cameriera, ha la dieta che mi ha dato il ginecologo e mi prepara tutte
quelle
cose assurde. Beh, un po’ mi scoccio, Richard è
quasi sempre fuori e mi annoio
a stare sola a casa. Pensa che l’ho dovuto obbligare a venire
qui oggi!» la
bionda ridacchiò, ammiccando a tutte, che la seguirono.
«Come ti
capisco» confermò un’altra donna, sui
trent’anni, al suo fianco. «Anch’io sono
sempre sola a casa, a non fare nulla».
Le altre annuirono, sorseggiando compostamente il thè.
Quasi mi scappò una
risata a quell’affermazione. Tutte
si voltarono nella mia direzione.
«Tu, ragazza»
chiese la donna «non hai anche tu questo
genere di problemi?».
Arrossii, notando tutti quegli
occhi puntati su di me.
«Beh»
balbettai «non proprio, diciamo. Ecco» mi morsi
un labbro «per quanto mio marito mi aiuti quasi in tutto,
passando molto tempo
con me quindi, cerco di fare molte cose anche sola».
Continuai, vedendo i loro
volti interessati «cucino, pulisco, lavo, stiro. E poi
studio, soprattutto
quello».
«Tu… fai tutte
queste cose?» chiese una donna rossiccia
al mio fianco, sorpresa.
«Beh,
sì».
«Sembri molto
giovane» affermò la bionda, curiosa
«quanti anni hai?».
Sollevai un sopracciglio
«Diciannove, quanti ne ha mio
marito. Ci siamo sposati a diciotto, e sono rimasta subito
incinta».
La questione si
stemperò, e fortunatamente
l’attenzione fu spostata via da me. Odiavo sentirmi al centro
di tutto. Come
avevo immaginato, a parte la loro inettitudine, quelle donne erano
proprio come
me. Anche l’istruttrice si avvicinò, dandoci
suggerimenti e fornendoci
spiegazioni. Iniziarono a raccontarmi interessanti dettagli e Ashley,
la più
grande, mi diede alcuni consigli. Sua sorella aveva avuto un figlio da
poco e si
era molto documentata.
«Oh, ecco il mio
David» esclamò d’un’tratto,
sollevandosi dalla sedia e avviandosi verso una donna con in braccio un
neonato. Dovevano venire dalla nursery. «Eccolo, questo
è il mio nipotino, non
è un amore?» chiese, prendendolo dalle braccia di
quella che doveva essere sua
sorella. Lo cullò con delicatezza, facendosi afferrare un
dito dalla sua
piccola mano. Anche le altre si alzarono, andandogli intorno e
cominciando a
fargli moine.
«Isabella» mi
chiamò - aveva insistito sul fatto che
il mio nome completo fosse più signorile - «vieni
a vederlo».
Mi sollevai, imbarazzata,
mettendomi accanto a lei.
Era… un neonato. Era carino. «Sì,
vedo» borbottai.
«Avanti,
prendilo!» fece entusiasta, porgendomelo.
Arrossii. «Oh, io. Non ne
sono capace, non credo di
esserlo» farfugliai.
Lei ridacchiò.
«Ma lo sei, certo che lo sei! È
impossibile non esserlo».
«Certo piccola»
confermò Juliet, la donna bionda. «Si
chiama istinto materno».
Anche le altre annuirono,
incoraggiandomi. Ashley mi
spiegò come mettere le braccia e me lo mise su, nonostante i
miei timori e le
mie proteste. Anche la madre sembrava volermi dare fiducia.
Sentendolo fra le braccia mi
appariva come un
fagottino, molto più leggero di quanto mi sarei aspettata,
morbido ed
estremamente fragile. Emanava calore. Iniziò a muovere e
braccia velocemente,
mentre ruotava la testa da una parte all’altra.
«È… io non so…».
«Stai andando
benissimo» m’incoraggiò la madre.
Eppure il bambino continuava ad agitarsi.
«Io…mmm…» tentai
di cullarlo per riuscire a calmarlo, ma pareva che a ogni mio movimento
si
agitasse di più. Iniziò a frignare, e mi
allarmai, non sapendo come farlo
smettere. «Si sta agitando» dissi preoccupata.
«Ma no, sta’
tranquilla».
Ogni mi tentativo di farlo smettere
fu inutile. Tentai
di imitare il comportamento che avevo visto usare dalle altre donne.
«Piccolo,
sta’ calmo» biascicai nervosa «su, su,
avanti, calmati». Tutta la serenità che
ero riuscita a racimolare con gli esercizi di yoga precedentemente
svolti stava
scomparendo come una meteora di giorno. Lo cullai con più
decisione, e a quel
punto iniziò a strillare.
Tutte scattarono allarmate,
tendendo le braccia verso
il bimbo.
«Oh, è strano,
ma che succede?».
«Dai a me cara, non fa
nulla».
«Ecco,
così».
In pochi secondi il mio petto fu
liberato da quel
piccolo peso, e tutta l’attenzione si concentrò un
metro più avanti, intorno al
bambino che smise quasi immediatamente di piangere.
Fissai tutte quelle donne in
silenzio, sentendo un
pungente fastidio invadermi e spingere dal diaframma verso
l’alto, verso i
polmoni, comprimendoli e impedendomi di respirare.
Mi volsi ed andai via, velocemente,
prima che
potessero distogliere l’attenzione dal fagotto e accorgersi
di me. Attraversai rapidamente
la sala con tutti i tappetini blu, fiondandomi negli spogliatoi. Mi
lasciai
cadere sulla panchina e intrecciai le braccia sotto al seno, premendo
sul petto.
Contai solo pochi secondi.
«Bella» un
sussurro strozzato, quasi affannato, di
Edward.
Velocemente mi asciugai i lacrimoni
ai bordi degli
occhi, sperando che non li vedesse, ostinandomi a guardare nella
direzione
opposta alla sua.
«Bella» mi
chiamò ancora, camminando fino a trovarsi di
fronte a me. Indugiò, indeciso su cosa dirmi. Stringevo le
labbra per evitare
di scoppiare in un pianto a dirotto. «Tutto bene?»
mi chiese cauto,
inginocchiandosi di fronte a me e accarezzandomi una guancia con la sua
mano
fredda.
«No» singhiozzai, serrando gli occhi.
Li riaprii,
fissandolo nei suoi, preoccupati, e lasciando scendere qualche lacrima.
Presi
due respiri profondi, portandomi una mano all’attaccatura
della pancia. «Voglio
uscire di qui. Ti prego, fammi uscire. Mi manca
l’aria».
Non insistette, non
parlò. Capì che avevo solo bisogno
di stare in silenzio. Mi mise una mano sul fianco, aiutandomi ad
alzarmi. L’aria
fresca del giardino mi fece subito riacquistare un minimo di
lucidità. Mi fece
sedere su una panchina, inginocchiandosi di fronte a me e prendendomi
una mano
fra le sue, mentre tenevo l’altra ostinatamente premuta
contro il ventre.
Non volevo parlare, e non volevo
che lo facesse lui.
Mi avrebbe confortata, spiegato e dimostrato, in qualche modo, che non
era
colpa mia. Che non avevo ragione di sentirmi
così… inadatta. Ma invece era il
contrario, e lo sapevo perfettamente. Perché solo ora, solo
ora che il vento
freddo usciva irregolare dai miei polmoni, raggelandomi, avevo la
lucidità per
comprendere.
Mi resi conto di come mi fossi
caricata delle
aspettative delle persone che mi erano attorno, della mia famiglia
vampira e di
Edward. Dall’assurda idea di potermi impegnare sempre di
più per non deluderli
ed insieme di forzarmi di essere una persona migliore, di aiutarli, di
essere
una buona moglie e di diventare una buona madre.
Eppure ogni cosa che accadeva mi faceva
sentire come se non
fossi all’altezza. Come dopo quello che Jacob mi aveva fatto
mi fossi spezzata
e qualunque mio tentativo di rimettermi in sesto fosse inutile.
E mi sentivo così in
colpa del nervosismo e
dell’agitazione che sentivo e con cui stavo inondando
ripetutamente mia figlia non
ancora nata. Sarebbe bastato così poco. Una o due pillole al
giorno.
«Non mi guardare
così, Edward. Non mi guardare così»
mormorai, cancellandomi le lacrime che erano scese con le mie parole.
Non
volevo i suoi occhi apprensivi su di me. Evidenziavano semplicemente il
mio
ennesimo fallimento. Distolsi lo sguardo, sollevando la mano fino
all’attaccatura della pancia e premendo alternativamente per
aiutarmi a fare
respiri che mi parevano impossibili.
«Bella, ti
prego» fece una pausa, scegliendo, nel suo
vasto vocabolario, le parole più adatte. «Respira,
sta tranquilla» disse
infine, cambiando probabilmente il senso della sua frase.
«Ce la faccio»
mormorai togliendomi la mano dal petto
e allontanando con un gesto la sua. L’aria che mi usciva
dalla bocca si
condensava in piccole nuvolette e le ciglia bagnate ghiacciavano,
dandomi
l’impressione di avere delle piccole schegge negli occhi. Eppure
non volevo parlare, solo continuare a rimanere in silenzio.
Edward però si risolse a
dirmi qualcosa. «Amore»,
strinse la mia mano «non fare così. Tu sarai una
madre stup…».
Scattai, bloccandolo.
«Non dirlo Edward, non dirlo
perché non è così»
singhiozzai «e non riuscirai a convincermi, in alcun modo.
L’hai
detto anche tu prima quanto dannatamente sia testarda. Ma non avevo
capito
quanto fosse sbagliato finché non ho fallito per
l’ennesima volta come moglie e
madre» vidi la sua espressione angosciata e sfilai la mano
dalle sue,
coprendomi gli occhi pieni di lacrime «mentre avevi ragione
tu sin dall’inizio
e sarebbe bastato solo prendere dei dannatissimi
antidepressivi!» esclamai fra
i singhiozzi.
S’irrigidì,
sconvolto. «Bella» sussurrò senza fiato.
Strinsi le labbra, fissando il suo
viso, addolorata.
«Dimmi che non è vero» dissi con un filo
di voce.
Si perse con lo sguardo nel vuoto,
silenzioso.
Deglutì, e spostò di nuovo i suoi occhi nei miei.
«Siamo insieme in questa
cosa, lo sai? Ricordi quando eri catatonica a letto, senza mangiare?
È stato
uno dei momenti più brutti della mia vita, perché
non sapevo quando e se ti
saresti ripresa» disse, angosciato al solo ricordo
«ma lo hai fatto,
sorprendendo tutti» aggiunse con un piccolissimo sorriso
«poi hai scoperto
della gravidanza, e non hai pensato per un secondo a quello che la
bambina
avrebbe potuto farti. Sei stata così coraggiosa da mettere
il suo bene davanti
al tuo anche quando io non ci riuscivo. Questo secondo me è
ciò che farebbe
un’ottima madre» continuò con estrema
dolcezza.
Tirai su con il naso.
Mi sorrise, scrutandomi cauto.
«E poi io avevo così
tanta paura di fare l’amore con te, dopo Jacob. Mi sembravi
più fragile e
vulnerabile di prima e fosse stato per me non mi sarei avvicinato mai
più. Ma
tu» fece, sorridendomi «oh, tu. Sei stata
così amorevole, naturale, dolce. Ti
sei affidata a me completamente, con tutto il tuo cuore, facendomi
credere che
ogni cosa fosse possibile e scaldando il mio cuore di ghiaccio. Ho
pensato che
se mia moglie, un’umana così fragile, aveva
sopportato così tanto e con così
tanto amore anch’io mi dovevo impegnare per farlo.
Bella» concluse con estremo
amore e sincerità «tu mi hai fatto tornare in
vita».
Fremetti, scacciando un ennesimo
singhiozzo. «Piango
sempre» biascicai fra le labbra, commossa e un po’
stordita dalle sue parole «e
odio piangere. Non faccio altro che piangere, e tu sei sempre qui a
consolarmi
e non vorrei farlo! Eppure
continuo a farlo senza
poterci fare nulla. E ti faccio soffrire, e faccio soffrire la
bambina».
«Bella»
sospirò, sollevandosi dai talloni e sedendosi
sulla panchina, accanto a me, sfregandomi le mani contro le braccia
nell’inutile tentativo di infondermi calore. «Hai
ragione, sai. Hai
perfettamente ragione» commentò, facendomi
sobbalzare e abbassare lo sguardo. «Hai
un difetto orribile» riprese «quello di non essere
per niente consapevole delle
tue capacità».
Feci per protestare, ma mi
interruppe, posandomi un
dito sulle labbra.
«Da cosa pensi che
dipenda questa tua insicurezza?»
chiese, come se la risposta fosse più che palese.
«Cosa, se non quello che io
stesso ti ho lasciato credere? Ti prego, dici di non essere una buona
moglie,
ma se mi ami, ti prego, ascoltami» mi prese il viso fra le
mani, fissandomi «tu
sei tutto ciò di cui ho bisogno. Tu e la bambina. Vuoi
essere una buona moglie?
Amami. È solo questo che importa. O forse non mi ami
più?».
«Certo»
balbettai «certo che ti amo. Ma questo non fa
di me una buona moglie».
Sorrise amaramente, scuotendo il
capo. «E di certo,
non provare a contraddirmi, quello che ho combinato non fa di me un
buon marito.
Oh, accidenti, siamo proprio due pessimi coniugi!» mi sorrise
«cosa ci importa?
Io sto bene con te e tu con me».
«Ti stancherai».
«Puoi far decidere me?
Sai, non credo che lo farò
tanto presto, almeno per…
l’eternità?».
Sospirai, appoggiandomi sul suo
petto. «Sono stata
davvero pessima» borbottai vergognosa.
«Oh Bella, è
normale quello che è accaduto, visto che
non avevi mai preso in braccio un bambino».
«Invece no!»
protestai «le altre donne lo sapevano
fare benissimo. Non prendermi in giro».
Scosse il capo benevolo.
«Imparerai. I bambini sentono
le nostre emozioni, e tu eri molto nervosa. Ti si resa conto di quanto
lo sei,
nell’ultimo periodo?» chiese serio «sei
incinta, Bella. Ti assicuro che è
normalissimo sentirsi così. Il tuo corpo cambia, la tua vita
cambia, hai tanti
ormoni impazziti dentro di te, e di tanto in tanto è normale
sentirsi un po’
sfasate» sorrise teneramente «Cosa che non sarebbe
accaduta se ti avessi dato
l’amore di cui hai bisogno, ma comunque» aggiunse
velocemente «tu non mi credi.
Ma stai a sentire una cosa, e poi sarai libera di non cambiare idea,
okay?».
Sbuffai, incrociando le braccia.
Feci passare qualche
istante nel silenzio. «Okay» concessi debolmente,
fissando la ghiaia del
vialetto. Dopotutto, pur non volendolo, avevo così bisogno
di sentirgli
dimostrare il contrario. Di sentirgli dire quanto mi apprezzasse,
quanto mi
amasse. Di sapere quanto valessi per lui.
«Tutte quelle
donne» cominciò piano «erano
incredibilmente invidiose di te».
«Oh, certo»
commentai, delusa dal fatto che non avesse
trovato un’argomentazione migliore «tutte
vorrebbero averti per marito».
Sospirò, prendendomi il
viso fra le mani,
costringendomi a guardarlo. Mi lasciò senza fiato per
l’irruenza del gesto.
«Bella. Come fai a non vederti? Come fai a non vedere le tue
possibilità?» esclamò
infervorato. Fece una pausa, modulando il tono in maniera
più gentile. Ero
ancora troppo shockata per reagire. «Erano invidiose per
quello che sei, per
quello che riesci a fare. Hai una vita frenetica e splendida. Lotti per
quello
che vuoi ottenere. Ti sacrifichi per gli altri, ami appassionatamente.
E hai
soli diciannove anni! Hai idea di quanto volessero sentirsi realizzate
almeno
un decimo di quanto lo sei tu?» concluse dolcemente,
accarezzandomi la guancia.
Sentii il mio labbro inferiore
tremolare, fin troppo
vicino al suo. «Io, io…» balbettai,
sentendo gli occhi pungermi, mentre il
freddo ghiacciato condensava le nuove lacrime. «Mi
dispiace» dissi infine. Tirai
su col naso, poi lasciai andare il volto sulla sua camicia.
Risi, con ancora le guance bagnate
d’acqua, quando
sentii la bambina muoversi. Lui mi sorrise, fissandomi adorante. Presi
la sua
mano e la portai sulla pancia, facendogli sentire sua figlia mentre si
muoveva.
«Pensa»
sussurrò, «quanto siamo fortunati ad avere
questo legame con nostra figlia».
Mi asciugai le nuove lacrime.
«Tanto. Troppo»
mormorai.
Appena le mie condizioni tornarono
accettabili
rientrammo nella grande sala dove si facevano gli esercizi per finire
la prima
seduta del corso. Le altre donne non mi fecero particolari domande,
così non mi
giustificai. Trassi nuovo beneficio da quegli esercizi che solo poche
ore prima
credevo stupidi, forse perché avevo una nuova disposizione
d’animo, o forse perché,
semplicemente, avevo Edward accanto a me. E lui mi faceva sentire
amata, ma
soprattutto in grado di amare. Per lui ero intelligente, perspicace,
bella. E
sapevo quanto fosse convinto di quello che mi diceva.
«Oh, credo di aver
bisogno di una doccia!» esclamai,
lasciando cadere il mio borsone con la tuta sul divano. Sbadigliai,
accarezzandomi lo stomaco gorgogliante e voltandomi ad osservare Edward
che
portava in casa il suo borsone e due grosse scatole marroni. Cielo, era
così
sexy anche quando non faceva praticamente nulla! Anche quando mi
sembrava un
bravo marito, un bravo papà, non potevo fare a meno di
aggiungere al commento l’aggettivo
“sexy”. Magari eravamo due novelli sposi, di cui
uno un vampiro, che avevano
bisogno di smaltire la loro energia attrattiva ma che proprio non
sapevano come
fare. Sospirai, distogliendo i miei pensieri non appena lo vidi
sfrecciare
velocemente per sistemare ogni cosa.
«Credo che prima
mangerò qualcosa» dissi a mezza voce,
ancora concentrata sulle sue magnifiche gambe fasciate dalla
tuta… Andai in
cucina, alla ricerca di qualcosa di appetitoso.
Aprii il frigo e mi trovai di
fronte ad un’ampia
scelta. «Ho voglia di… di…»
sussurrai, scorrendo con lo sguardo sulle mensole
trasparenti. Mi chinai ad osservare in basso, sull’ultimo
ripiano.
Improvvisamente mi sentii afferrare
sui fianchi da due
mani fredde, inconfondibili. Una decisa pacca sul sedere, mi fece
ansimare,
stupita. «Io ho voglia di te»
mormorò
roco al mio orecchio.
Quello che accadde successivamente
infranse la
promessa che entrambi, solo pochi giorni prima, ci eravamo fatta.
Ma cosa potevamo farci?
Eravamo entrambi troppo masochisti
per non godere l’un
dell’altra.