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Autore: pikkola_cullen94    19/01/2010    2 recensioni
che cosa sarebbe successo se bella...abbandonata da edward decidesse di diventare un vampiro? e se dopo tre anni si riincontrassero? BETATO DA:ChucBassina
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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19chappy ISABELLA SWAN/AMBRA COLEMAN
Aroon mi guidò nella grande sala giochi. Era l'unica camera, nella grande casa a non essere occupata. le tredici stanze da "letto", desinate agli ospiti erano state distribuite agli amici di Tanya, di cui io non conoscevo ne l'identità ne la figura. Intuì, che nella biblioteca, ci fosse qualcuno di loro, ma non mi importava conoscere il loro volto.  La sala era buia, silenziosa. Mi appoggiai ad un tavolo da gioco, osservai la roulette. La feci roteare. La piccola sfera di metallo, compi veloce per sedici volte il giro. Poi rallentò. Lasciai che si fermasse su un numero qualsiasi, voltai lo sguardo. Vidi Ar che mi osservava, come se si aspettasse che scoppiassi di nuovo da un momento all'altro. Forse avrei dovuto. Forse avrei potuto. La pallina concluse il suo ultimo giro...si fermò tornò il silenzio.
-"Ho bisogno di prendere aria" Mi sollevai di scatto dal tavolo, puntai la porta, lui si pose dinnanzi a me. Di nuovo. Pronto ad afferrarmi, di nuovo. Pronto a farsi odiare da me,di nuovo, pur di proteggermi, paradossalmente da me stessa.
-"Spostati Aroon in un modo o nell'altro io esco da qui!" Gli puntai un dito contro, ma lui non accennò alcun movimento. Prova a scapparmi.
-"Non è il momento di fare dell'ironia Ar..." i miei occhi puntarono i suoi feci mente locale, analizzando mentalmente la camera. -"...E comunque...in un modo o nell'altro io esco da qui!" Mi voltai, agile saltai sul tavolo sorpassai i vari giochi, in un secondo raggiunsi la finestra. Saltai fuori, sicura che questa volta le sue braccia non potessero raggiungermi. Ero veloce. Veloce come non lo ero mai stata. Il mio corpo si confondeva con l'universo che mi circondava, diventanto solo aria...aria che ti investe...ti rasserena, ti soffia via, le paura, le incertezze di una vita infinita. Correre era la cosa che in assoluto amavo fare dippiù. Amavo la senzazione del vento che si infiltrava veloce fra i miei capelli, i paesaggi sfocati, che scorrevano alle mie spalle, e il modo in cui , quella adrenalina che mi nascesse dentro, mi permettesse di chiudere una porta. Isolarmi era una delle mie specialità, ma ultimamente pareva che le cosse mi colpissero così forte, da impedirmi di contrattaccare. Ho incominciato a pensare che correre veloce, era un po come assumere una qualsiasi droga. All'inizio stavi bene. Tutto attorno a te spariva, niente piu contava davvero. Poi però incominci a senitre quella strana sensazione di vuoto. Vedi immagini sfocate e pensi che tutto sarebbe piu bello se solo fossi riuscita a fermarti. Fermarsi vuol dire affrontare i problemi,e smettere di scappare. Fermarsi vuol dire anche soffrire. Soffrire vuol dire affronatre quel nuro di dolore. I ricordi sono quella parte dell'anima che imperterrita rimane attaccata al passato. Molte volte facciamo di tutto, perchè essa rimanga per sempre intrappolata in quegli attimi tanto belli, da volerli fare ritornare. Altre invece tanto amari, da sperare che il mondo intero si convinca che tu quegli attimi non gli hai vissuti. Ma il problema è che ogni gioia, come ogni dolore infinito, ti marchia, ti lascia un segno indelebile, come l'impornta di una mano premuta nel fango. I ricordi che avevo dentro erano ombre indelebili, che facevano male. Dio quanto facevano male. Ed ogni giorno della mia vita, destinata a non finire, aggiungiva un istante a quella scatola, piena di dolore. E mai, come in quel momento, accasciata  ad un tronco d'albero nel mezzo della forsta buia, senti il bisogno di avrelo di nuovo al mio fianco. Almeno per un istante, l'ennesimo istante d'aggiungere alla mia scatola ben chiusa e siggilata.

Entrai nello spiazzato. Respiari forte, cercai di cacciare via tutto ciò che avevo dentro. Feci un gesto di stizza con la mano, arrivai alla porta. Era socchiusa. Sorrisi amara. Ar in fondo era un bravo attore, aveva recitato la parte dell'indifferente perfettamente, senza errori. Ma non era per un vampiro, la sbadatezza. Solo un grande schok puo portarti a questo. Entrai in casa. Non sapevo perchè stessi lì. Sentivo solo il bisogno, per una volta di non essere controllata, guardata a distanza, messa sotto controllo. Avevo bisogno di fare per una volta ciò che sentivo. E in quel momento sentivo solo un gran vuoto. Salì le scale, stando attenta, a non violare l'immacolato silenzio della casa vuota. Adattai i miei passi, al fruscio silenzioso del vento, che precedeva la tormenta che da lì a poco si sarebbe abbattuta sull'Alaska. Mi sentì inutile. Impotente difronte allo scorrere imperterrito del destino. Posai leggera la mano sulla maniglia della porta della stanza. Che senso aveva entrare lì? Poi spalancai la porta, solcai la soglia. L'aria fresca mi investì il viso. La finestra era spalancata, la stanza stranamente in disordine. Non era da Marysol, non tenere la stanza in ordine, ma in quel momento, niente piu mi stupiva. Mi chiusi la porta alle spalle, rimanendo appogiata ad essa per una frazione di secondo. Mi sentivo come se stessi violando qualcosa. Qualcosa di sacro, di segreto e per qualche strano motivo anche losco. Mi avviai verso la grande finestra, la tenda bianca di seta si agitava come se fosse indemoniata, animata dal vento. Chiusi le ante. Mi accomodai allo scrittoio, dove avevo visto mia sorella, migliaia di volte passarvi la notte a scrivere. Agì d'istinto. Senza pensarci. Senza dare il tempo alla mia mente di ragionare. Aprì uno dei due cassetti, posti sotto la scrivania. Cosa volevo trovarci? non lo sapevo neanche io, ero andata li solo per risentire di nuovo la sua presenza. Non vi trovai niente, il cassetto era vuoto. Come anche il secondo. Tirai un sospiro di sollievo. I sensi di colpa, tornarono a tormentarmi. Frugavo nella stanza della mia sorella quasi morta. Scacciai quei pensieri. C'è l'avrebbe fatta. Sarebbe rimasta appesa a quel filo. In un modo o nell'altro, lei era forte, era determinata. Lei era Marysol. Portai il capo fra le mani, i gomiti appogiati allo scrittoio. Girai il volto di lato, verso la fiestra. Notai qualcosa che sporgeva da sotto il divano. Mi alzai, di nuovo guidata dal mio istinto, raccolsi l'oggetto,lo aprì alla prima pagina, tutto ciò che seppi fare dopo, fu chiedermi, cosa fosse Marysol.

L'ho vista arrivare da lontano. Lo sguardo perso nel vuoto, i capelli al vento scompigliati, l'abbigliamento anonimo. Fu come vedere una persona che si vestiva ad occhi chiusi. Indossava un giubbino che doveva essere almeno due taglie piu grandi della sua. Era rossiccio. Sotto indossava una felpa, marrone,anche essa anonima e fuori moda, la lampo chiusa fin sotto il mento. Portava un borsone, così piccolo da farmi dubitare per un solo istante  che non fosse venuta per rimanere. Lo gettò per terra, sulla strada bagnata, per la pioggia della sera prima. Sorrisi, per il suo sguardo imbronciato. Provai subito un moto di protezione nei suoi confronti. Scesi dall'auto veloce, assicurandomi che intorno a me non ci fosse nessuno ad osservarmi, mi appoggiai allo sportello della mia macchina, con fare indifferente. La sentì imprecare, l'ennesimo bus, diretto nel centro della città, era appena partito. Ne sarebbe passato da lì a poco un altro, massimo cinque minuti, mi affrettai a parlare -"Era così importante quella fermata?" Vidi il suo viso posarsi sul mio, e lessi la sorpresa. Aveva capito al primo sguardo, cosa fossi. Incominciò ad osservare ogni mio minimo particolare, avrei sorriso, se il mio sguardo non fosse stato catturato da qualcosa di piu importante. Alle spalle della ragazza, un individuo con la pelle olivastra, mi osservava guardingo -"Non mi ringrazi neanche per averla scortata fin qui?" Si assicurò di non essere sentita dall'umana. Lo osservai rabbiosa -"Grazie ma ora vattene" Lo vidi camminare con passo umano, sfiorare i capelli d Isabella, e sparire dietro l'angolo. Mi affrettai a parlare, gli andai in contro. "Se vuoi possiamo seguirlo...uff oggi non ho propio niente da fare" Recitai la mia parte perfettamente, ma con la coda dell'occhio, seguì l'immagine di Laurent saprire veloce...

Di nuovo confusione. Solo essa, popolava la mia mente. Vai avanti, mi urlava qualcuno, forse quella parte della mia coscenza che mi aveva sempre fatto un po dubitare su Marysol. Ma non gli diedi retta.Lessi soltanto la prima pagina, chiusi il diario con forza, ed uscì dalla stanza. Il buio che popolava la casa, era confortante. In un modo strano. Mi aveva sempre attirata la sensazione di essere invisibile. Chiunque sarebbe entrato in casa, non avrebbe minimamente scorto la mia ombra. Voltai la testa un paio di volte, osservando gli arazzi scuri, lungo le pareti del corridio, la mia mente, così ampia e spaziosa, cercava invano, un qualcosa che la riempisse. La sensazione di vuoto mi colpì nuovamente, ed inerme, avanzai con passo umano, verso la mia camera, il diario di Marysol, stretto fra le mie braccia.                                                                                      Con un occhiata veloce, alla mia stanza, tutto appariva in subboglio. Ero inginocchiata alla grande cassettiera in legno di ciliegio, appertenuta alla madre di Annamarie, e scavavo in cerca di qualcosa. Finalmente lo trovai. Presi il piccolo e vecchio borsone da viaggio, lo svuotai. Al suo interno, ancora i ricordi di quando ero arrivata, tre anni prima, in Alaska. Lo poggiai sul pavimento color perla, e veloce scattai verso l'immensa stanza, che Marysol osava chiamare armadio. Presi dei vestiti alla rinfusa, riempì la parte superiore della borsa. Raggiunsi il fondo della stanza, guardai la parete, ed incominciai a  raccogliere velocemente varie paia di scarpe. Feci mente locale di tutto ciò che avevo posto nel borsone, feci attenzione a prendere le scarpe giuste, tutto ciò accadde in cinque secondi. Chisui la cerniera, con uno scatto repentino. La buttai sul mio letto, indossai il cappotto afferrai la borsa ed uscì anche dalla mia stanza. Non riservai neanche un occhiata al resto della casa, scesi nel salotto, presi le chiavi dell'auto di Annamarie, ed uscì veloce. 

EDWARD CULLEN

L'immenso corridoio del secondo piano, era lungo cinquantaquattro passi e mezzo. Ne era sicuro. L'aveva misurato per ben tre volte prima di trarre questa conclusione. Si girò, appogiò le sue spalle alla parete. Si ne era sicuro. Cinquantaquattro passi, e mezzo piede, cinquantacinque al massimo. Voltò la testa verso la scala. Aveva praticamente preso le misura di tutta la tenuta dei delnali. tredici stanze da letto, due soggiorni, quattro stanze da bagno. Due biblioteche... Aveva perso di mente, di misurare la stanza della sala giochi. Ci avrebbe pensato poi. Osservò uno ad uno i quarantacinque quadri disposti sulle pareti del corridio. Riconobbe la madre di Tanya. Il quadro era lungo ciraca due metri e mezzo, di quello ne era sicuro.
-"Quando hai finito ti porto un foglio di carta immacolato ed una penna così ci disegni la piantina" Edward levò lo sguardo suo malgrado dai quadri ottocenteschi, e guardò il ragazzo, che come lui, era appogiata alla parete, ed osserva, con molto poco interesse, gli arazzi. Ritornò ad osservare IL ritratto di Tanya.
-"Il tuo senso dell'umorismo non ha confini Em..." Sentì il ragazzo sghignazzare al suo fianco, poi con la coda dell'occhio lo vide alzare un piede, e metterlo sull'altro, incrociando i piedi.
-"No Ed...è il tuo alone cupo e maromero di malumore che non ha confini" Con uno slancio repentino, Edward si rimise in asse. Osservò il fratello diritto negli occhi, per istinto anche Emmett si tirò su. Puntò i suoi occhi in quelli neri del fratello.
-"Quello che provo io non è malumore Em. Quello che provo io è rabbia. Dura, e nera rabbia. E provo anche...." si bloccò. Non ne aveva idea. Provava qualcosa, ma non sapeva dire cosa. Era strano, non saper descrivere le emozioni che ti dominano. Abbassò la guardia, i muscoli si rilassarono, tornò ad appogiarsi al muro.
-"E comunque...qui in casa non c'è davvero nulla da fare! Sono tre giorni che Carl è al capezzale di quella ragazza. Tre giorni che quella povera donna è giu a crogiolarsi nel dolore. Tre giorni che mi sento impotente e in cui non ho niente che occupi la mia mente..." Questa volta la voce di Emmet, suonò dura e spietata, colpì Edward diritto al cuore.
-"Tre giorni in cui la ragazza non si fa viva giusto?" Menzogna. Sporca e tiriste menzogna. Di quelle che per dirle, hai bisogno di chiudere gli occhi. Girare lo sgaurdo, non pensare alle tue parole.
-"Assolutamente no Em. Non so cosa tu pensi, o cosa pensiate tutti....qualsiasi cosa sia....vi sbagliate, e di tanto anche. Non m'importa niente  ne di dove sia,  ne cosa faccia o con chi lo  faccia Em...non m'importa di lei". Sporca e triste anima, condannata a dividere per l'eternità quella finzione tramutata in realta, chiamata mensogna.
-"Già..." Emmett annuì apatico, si portò una mano in tasca, tornò ad appogiarsi al muro, poi continuò.
-"Abbi almeno la clemenza di non reputarmi così stupido Ed! E' vero. Gli orsi sono l'unica vera cosa che penso di conoscere in ogni minimo dettaglio, ma tu sei mio fratello, e con te vado oltre" Edward rimase ad osservare il fratello, chiedendosi perchè, infondo, la vita eterna fosse così duramente sopportabile. Bugie, finzione, faceva tutto parte di un piano studiato in ogni minimo dttaglio dal destino....il suo destino. Sarebbe stato condannato per l'eternità, a mentire, mentire e ancora mentire?
La notte scese di nuovo inesorabile, sulle cime innevate dell'alaska.La luce soffusa del giorno, lasciò il posto al cupo e tetro alone nero, chiamato notte. C'era qualcosa però, che illuminava quella serata. Alta nel cielo, sgombro da nuvole, la luna splendeva forse per la prima volta da quando era arrivato lì. Tutti nella casa erano occupati in qualche faccenda. Poteva senitre le voci di Esme e Annamarie nel salone, i passi veloci di Carlisle, mentre badava alla ragazza. Si avvicinò alla grande finestra, alzò lo sguardo in cerca della luna, sua compagna ormai da centonove anni. Rimase a fissarla per qualche minuto, assorto in pensieri profondi e lontani. Improvvisamente però qualcosa catturò la sua attenzione. Il rombo di un auto, soffuso e in lontananza. Rimase ad ascoltare, non si trovava molto lontano, probabilmente meno di un chilometro. L'auto di sicuro aveva gia imboccato, il grande viale che portava alla tenuta. Eppure Tanya non l'aveva informato di visite imminti. Chi poteva essere. L'auto continuava a sfrecciare a velocità impressionante, sulla strada sterrata. Fece per voltarsi, quando intravidi con la coda dell'occhio, un'auto color rosa perlato. Ne rimase stupito. Non aveva mai visto prima d'ora, un'auto di quel colore. Con una manovra sicura, il veivolo si infilò in uno spazio angusto, poi il motore si spense. Edward si trovava ancora nella posizione di pochi secondi prima. La mano appogiata al vetro, il corpo rivolto al corridoio. Il viso contratto....Poi la vide scendere. Con quel suo modo di fare agile e fluido. Si chiuse la porta dell'auto alle spalle. Si portò la borsa di pelle sulla spalla; si avvicno al sediolino per il passegero, lo aprì vi tirò fuori un borsone, mal ridotto, lo tenne nell'altra mano, chiuse l'auto e si avviò verso la casa.
Edward Cullen, fissava il vuoto con aria impassibile. Al difuori di quella finestra tutto scorreva lento, nel suo ordine perfetto. Reso tale dal suo arrivo. Pensieri, paure e gioia. La sua piccola Isabella. Non piu goffa e tenera. E se non fosse stata lei? No. Solo la sua persona, sapeva provocargli emozioni così forti.
-"Figliolo per cortesia potresti prendermi delle garze? Penso siano al piano di sopra" Edward non fu sicuro di aver udito quelle parole. Il suo corpo si mosse meccanicamente. Levò la mano dal vetro freddo come la sua pelle, la fece cadere sul fianco, e si lasciò guidare dal suo corpo nella sala al piano superiore.


Ambra Coleman, toccò lievemente la porta bianca. Qualcuno subito dopo la spalancò. Un espressione di sorpresa apparì sul volto dell'uomo.
-"Ambra!" Nun fu lui a parlare. Una donna dall'aspetto trascurato apparve sulla soglia della porta, scansando l'uomo. Strinse forte la ragazza.
-"Dove sei stata? Sono tre giorni che cerchiamo invano di rintracciarti!" Il tono severo della donna la fece irrigidire.
-"Scusa mamma" Si staccò dall'abbraccio, gettò il borsone che aveva in mano per terra. Posò il suo cappotto sul braccio del divano. Guardò la grande scala.
-"Come stà?" continuò a fissarle. La donna le si avvicinò.
-"E' stabile....vai da lei" Ambra scattò veloce, in meno di un secondo fu al secondo piano. Solcò la soglia della biblioteca, cercò con lo sguardo qualcosa. Poi parve trovarlo, perchè il suo corpo si mosse veloce. Raggiunse una barella bianca, sul quale vi era adagiata una ragazza. Gli occhi chiusi, la testa fasciata. Era coperta da un lenzuolo bianco anch'esso. Ambra Coleman le sfiorò il viso con le dita fredde, rimase a fissarla. Poi una voce intervenì, erano soli nella stanza.
-"Si riprenderà non preoccuparti" La ragazza rimase immobile per una manciata di secondi, lo sguardo fisso sulla sagoma immobile sul lettino, non pareva che la stesse osservando poi ritirò la mano, la strinse in un pugno, l'appogiò al lettino. Alzò lo sguardo, i suoi occhi indugiarono per qualche secondo sull'uomo che le aveva rivlto la parola. Carlisle Cullen, ricambiò, sorregendo il suo sgardo con aria impassibile.
Il voltò di Ambra fu scavalcato da mille emozioni. Apparve la sorpresa, poi lo sconcerto, la paura....infine il suo viso ritornò perfetto. La sua espressione illegibile, tornò a fissare la ragazza.
-"Lo so" La sua risposta parve prevedibile, come recitata perfettamente. Deglutì. L'aria nella stanza diventò tagliente. Ambra osservava sua sorella, con lo sguardo teso,gli  occhi ridotti a delle fessure, i muscoli in tensione. Carlisle l'osservava con circospezione. Non sembrava affatto sorpreso di ritrovarsela dinnanzi. Anzi pareva reggere la situazione con molta calma come se attendesse da molto quell'incontro.
-"Il braccio sarà apposto fra non molto non temere" Ambra parve sorpresa da quelle parole, fu come svegliata da un lungo sonno, annuì senza osare guardare l'uomo. Poi un rumore la distrasse, un rumore che arrivava dal corridio. Un ragazzo entrò nella sala. Era bello. Perfetto. Indossava un jeans scuro, classico, accompagnato da una polo grigia, che aderiva perfettamente al suo corpo. I suoi capelli, tendenti al rossiccio, era scompigliati e ribbelli, come se avesse passato l'intera giornata fuori al vento. Ambra Coleman l'osservava scioccata. Non respirava più. I suoi occhi, puntati in quelli di oro fuso.
Edward Cullen solcò la soglia. La prima cosa che su cui i suoi occhi si posarono fu la ragazza. La osservò come come un cieco osserva la luce. Come un disperso nel deserto osserva l'acqua. Come chi ha disperatamente bisogno di qualcosa, osserva ciò di cui aveva disperatamente bisogno. Come Edward Cullen osservava Isabella Swan.

 
 

  
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