RAPPER’S LOVE
***
3-Tutta colpa della pioggia
“Ti ricordi quell’estate? In moto anche se pioveva.
Tentavamo un po’ con tutto, cosa non si raccontava! Ci divertivamo anche con
delle storie senza senso. Questo piccolo quartiere, ci
sembrava quasi immenso. Poi le strade piano piano, ci hanno fatto
allontanare. Il motivo sembra strano, non lo saprei neanche dire. Solo ti
vedevo qualche volta in giro con quegli altri, tu che mi dicevi, qualche sera
passerò a trovarti(*).”
Chiusi gli occhi. Le parole di quella canzone rimbombavano dentro di me quasi
fossero un eco lontana. Era finito tutto. Non ero più
con voi, e nonostante il mio carattere infinitamente aperto, non riuscivo a
trovarmi uno straccio d’amico. Il motivo però era più che semplice: non ero
abituata a dovermi muovere in un luogo come Milano. Ricolmo di pregiudizi, di
sguardi accusatori, di personalità sempre più diverse. Inizialmente
l’avevo vista come una sfida da affrontare coraggiosamente, con animo, con
spirito. Ma avevo dovuto ricredermi. Tutto ciò
che avevo guadagnato durante la mia permanenza in questa città, erano stati
degli stupidi giretti nel quartiere nel quale abitavo, ed
il mio continuare a pensare a fredde lamine azzurre. Sì, parlo di quel ragazzo
bellissimo che con scioltezza si era messo a cantare parole vere, forti.
Nonostante io le avessi udite una sola volta, esse si erano impresse nella mia
anima, creando un angolo nuovo, l’angolo dei pensieri
più strani. Sospirai. Che potevo fare? Non riuscivo davvero a stringere
amicizia. Ogni volta che vedevo delle ragazze sedute al parco
esse mi squadravano in maniera alquanto strana, ridacchiando ogni volta che
passavo loro davanti, ed indicandomi con il dito. Che avevo di strano? I miei
capelli rossi erano troppo appariscenti? Il mio volto forse ancora un po’ da bambina le divertiva tanto? Non mi ero mai sentita
un fenomeno da baraccone prima di quel momento, e mentre me ne stavo sdraiata
sul letto, con lo stereo a palla ad udire quella
canzone, il cuore mi faceva tanto male.
“Forse è stato il tempo, forse quella solitudine che ci
rimane dentro, troppo grande per noi.(*)”
Mi girai su un fianco, dando le spalle alla porta. Avevo sentito che qualcuno
aveva tentato di aprirla, ottenendo un ottimo risultato; ma sapendo che era mia
madre, avevo preferito largamente fare finta di dormire.
-Strawberry? Strawberry?-
la sentii dire, mentre stancamente, interpretavo un risveglio. Aprii così gli
occhi, voltandomi leggermente, e finendo a pancia in su.
Lei invece si era seduta al bordo del letto, guardandomi con estrema
tranquillità.
-Dimmi…- dissi, con voce roca. Ero stata zitta per
tutto il pomeriggio, e per un tale motivo la mia voce aveva assunto davvero le
caratteristiche di chi ha dormito.
-Ho una bella notizia piccola mia.- confessò la mamma,
sfiorandomi leggera la frangetta. A quel punto mi incuriosii.
Avevo bisogno di belle novità, di notizie che rendessero il mio animo un po’
più sereno.
Allora spara.- chiesi, curiosa. Mi ero seduta su quello stesso letto, ed in breve, avevo afferrato un cuscino, che avevo iniziato
a stringere fortissimo.
-Tuo padre ha conosciuto i suoi nuovi colleghi di lavoro, e dato
che uno di loro ha una figlia un anno più grande di te, hanno pensato di
farvi conoscere. Lei è qua a Milano da più o meno un
anno, e sicuramente saprà mostrarti i luoghi più belli, e potrà presentarti
gente nuova.- spiegò, convinta di suscitare in me tanta felicità. In realtà
potevo dire con certezza di non conoscere il mio stato d’animo. Ero felice
perché forse, avrei avuto dei nuovi amici, ma al contempo ero perplessa; o
meglio, avevo paura. Se non ero riuscita a farmi degli amici durante quel lasso di tempo… chi mi diceva che ora sarebbe andata meglio?
Decisi di accettare di fare la conoscenza di questa
ragazza, e mio padre avvisò il suo collega che saremo potute uscire il giorno
dopo.
Avevo ringraziato entrambi i miei genitori per questo gesto: in fondo anche se
non avevano pensato a me il giorno della partenza, stavano pensando a come
darmi una mano nel miglior modo possibile, ed era questo ciò che davvero
contava. Seppi poco della ragazza in questione: si chiamava Lory,
aveva 15 anni, e fra poco avrebbe iniziato la seconda
superiore al liceo classico. Doveva essere infinitamente brava negli studi se
aveva scelto una scuola simile, e per questo si poteva dire che la invidiavo!
Non mi feci poi così bella. In fondo dovevo conoscere un’amica nuova, e non
credo davvero che in tali casi l’aspetto fisico possa contare davvero. Così mi
recai nel luogo detto per l’uscita, pensando a quali potessero essere i posti
che mi avrebbe fatto visitare. Ero in perfetto orario,
tuttavia davanti alla vetrina di quel negozio che era stato acordato
per incontrarci, c’era già qualcuno.
Una giovane donna più alta di me, con grandi ma purtroppo inespressivi occhi
azzurri, e lunghissimi capelli verdastri, incastonati in splendide trecce che
le percorrevano la schiena. In dosso una semplice gonna grigia a pieghe, ed un golf bianco privo di particolari rilevanti. Sul naso
un paio di grossi occhiali, che tuttavia non riuscivano a nascondere la pelle
nivea di quella giovane dalla carnagione molto chiara. Mi fermai per qualche
secondo a fissarla. Certo che era davvero diversa da tutte le altre ragazze che
mi era capitato di notare in giro: le giovani di
Milano vestivano abiti firmati, indossavano borse appariscenti che davano
immaginazione sul conto in banca dei genitori. Pochissime di loro portavano
trecce o codine, ed altrettante poche, possedevano la
semplicità che quella ragazza dagli occhi azzurri riusciva a trasmettermi. Mi feci
vicino, sino a quando la mia voce non la destò.
-Sei Lory?- domandai, fissandola. Lei alzò lo sguardo
su di me, sorridendo.
-Sì…- rispose timidamente, abbassando lo sguardo -E tu devi essere Strawberry.- continuò, porgendomi una bianca mano. Io
annuii, stringendo la sua con la mia.
-Sì, piacere!- esclamai, sorridendo a mia volta. Si vedeva che era una ragazza estremamente timida, e per questo compresi anche che non
doveva avere molti amici. Ma come dico sempre: meglio
di niente! Per la prima volta almeno, non avrei girato per Milano con persone
che non fossero i miei genitori, e questo mi rendeva estremamente
felice.
-Mio padre mi ha parlato molto di te, dice che ti sei trasferita da poco, e che
non ti sei ancora fatta dei veri amici.- una voce leggera, quasi delicata.
Stava infinitamente bene a quella ragazza che all’apparenza, sembrava
infinitamente remissiva.
-Sì, non è molto che sono qua, e per questo… mi sento
un pesce for d’acqua!- esclamai, portandomi una mano
dietro alla nuca, e sorridendo bonariamente. Lei ricambiò il gesto, diventando
poi piuttosto seria.
-Bè, io mi sento tutt’ora un
pesce for d’acqua.- sussurrò, con gli occhi bassi. A
quel punto il mio sorriso si spense, mentre sui suoi occhi azzurri, leggevo
tanta malinconia.
-Non ti trovi bene qua?- chiesi, incuriosita. Lei rialzò le proprie iridi su di
me, sorridendo ancora.
-Diciamo che preferivo il luogo in cui stavo prima. Era un semplice luogo di
campagna, ma era molto più tranquillo e meno caotico. Tuttavia non mi posso
lamentare, sarei potuta finire peggio.- terminò,
socchiudendo gli occhi. Ed in quell’attimo l’ammirai
infinitamente: in poche parole mi aveva dimostrato la sua sofferenza, ma invece
di lamentarsi… aveva preferito largamente constatare che poteva andare peggio,
senza soffermarsi ai motivi della sua sofferenza.
-Allora… dove si va?- domandai, preferendo cambiare discorso.
-Avevo pensato al centro. Sai, tanto per iniziare dai luoghi più importanti. E’
pieno di negozi, e ti assicuro che ci sono dei prezzi da capo giro!- disse, iniziando
a camminare. Io l’ascoltai con attenzione, rendendomi
conto che i venti euro che avevo nel portafoglio non sarebbero serviti a nulla.
Pensare che una cifra simile al mio paesino bastava
per giorni!
Parlammo, e ci confessammo molti segreti. Era una ragazza molto dolce, dai modi
forse troppo gentili e dal fare sereno. Tuttavia continuava a conservare una
patina grigia che rendeva il suo volto triste, un qualcosa che non l’abbandonava mai, nemmeno quando sorrideva o vedeva
qualcosa che le piaceva nella vetrina di un negozio. E là mi chiesi se io sarei
diventata così. Succube della mia paura, governata dalla solitudine. Lory aveva pochi amici, e quei pochi si approfittavano di
lei. Io mi sarei fatta trattare così? Davvero non lo sapevo, ma questa piccola
paura o consapevolezza mi impremiò
ben presto dentro. Cosa ne sarebbe stato di me? Tentai di non pensarci, e
decisi di passare con Lory un bel pomeriggio.
-Ti sei già iscritta alla scuola nuova?- domandò, mentre mi camminava al
fianco. Io anuii convinta, osservando la strada che
scorreva sotto i miei piedi.
-Sì, praticamente è la prima cosa che ho fatto! Ho
scelto il liceo Marconi(*), anche se non lo conosco.-
sussurrai, voltandomi poi verso di lei. A quel punto la vidi sbarrare
visibilmente gli occhi, e lasciare scoperta sul suo viso una nota di incredulità -Cosa… cosa ho detto?- domandai, preoccupata.
La vidi abbassare il capo,e riflettere per qualche
istante.
-Nulla, è che su quella scuola non girano bellissime voci. Sembra che ci vadano
i figli di papà sempre pronti ad approfittarsi delle ragazze, e che le
studentesse invece, non vedano l’ora di accaparrarsi il primo riccone che
capita. E poi…- terminò di parlare, decidendo di sedersi con me su una
panchina.
-E poi?- la mia voce preoccupata riecheggiò nella mia testa quasi fosse la nota
sbagliata di un brano importantissimo.
-E poi si parla sempre di alcuni gruppi di ragazzi che fanno rap. In quella
scuola c’è sia l’istituto tecnico che il liceo, e
sembra che ormai i ragazzi dell’indirizzo tecnico facciano solo il rap. Cioè…
fanno tutto meno che studiare.- confessò, terminando quel fiume di
preoccupazioni che m’invadevano. Rap? Ci pensai sopra, e la prima cosa che mi
venne in mente fu il fisico scultoreo di quel biondo
che si muoveva al ritmo della propria voce. Pensai ai suoi occhi, al suo
sorriso malinconico che trasmetteva emozioni da me mai provate.
-Ma… ma… anche se fanno rap non è detto che siano tutti così.- risposi, stringendo i pugni. Ed in quell’istante mi ricredetti: possibile che Lory giudicasse così le persone?
-Certo. Magari alcuni di loro hanno voglia di studiare, su questo non c’è nulla
da dire!- disse, facendo crollare quel castello di
carte che mi ero creata. No, lei non giudicava proprio nessuno. Mi voltai a
fissarla, e dopo avermi sorriso continuò -Ti prego
solo di fare attenzione, perchè è è
facile farsi trasportare in brutte compagnie.- annuii velocemente, onorata per
aver ricevuto un consiglio. In fondo ci conoscevamo da un solo pomeriggio, e Lory era stata in grado di farmi apprezzare Milano. La
forte Milano. L’infinita Milano. La tragica Milano. Milano: la mia nuova casa.
Girammo ancora per negozi, senza renderci conto che purtroppo, il pomeriggio
andava scemando. Non era giusto, mi stavo divertendo! E durante quella
passeggiata avevo smesso di pensare ai miei problemi, e mi ero ripromessa che
avrei scritto a Sergio, per dirgli che finalmente, andava tutto bene.
Camminammo ancora, sino a quando il cielo si fece scuro. Era strano, infatti erano solo le sette di sera, e non era normale che
il sole tramontasse a quell’ora i primi di settembre. Tuttavia lasciai perdere, e decisi di avviarmi verso casa. Salutai Lory, che con un cenno gentile mi assicurò che ci saremmo
riviste, e che mi avrebbe fatto visitare nuovi luoghi di Milano, ed io dal mio
canto non vedevo l’ora!
Cominciai il mio cammino verso casa, ricordandomi quale fermata dovevo
raggiungere. Percorsi qualche isolato, sino a quando qualcosa di fresco non
scivolò sulla mia spalla. La sfiorai, rendendomi presto conto che era qualcosa
di bagnato. Alzai lo sguardo, sino a quando mi resi conto che una miriade di
goccioline mi percorrevano il corpo e la strada. Ecco,
ci mancava solo l’acquazzone! Iniziai a correre come un’ossessa, detestando
infinitamente quel clima così strano. Sino a quel pomeriggio c’era un cielo
bellissimo! Continuai a correre, rendendomi conto che la fermata del pullman
era davvero lontana, e che dovevo ripararmi per qualche attimo. A rendere tutto
ancor più tragico, erano i tuoni, che fastidiosi, risuonavano nella mia testa.
Uffa! Davvero non ci voleva!
Corsi ancora, mentre tutte le strade si facevano vuote. Tutti si riparavano in
casa, ed io? Sola ed abbandonata in quel luogo che non
avevo ancora interpretato come la mia città. Ed avevo
voglia di piangere: ero stanca, fradicia, e con la camicetta bianca che
lasciava trasparire ogni cosa. Se avessi incontrato qualcuno
sicuramente non sarei passata inosservata! Alzai lo sguardo, riparandomi
sotto ad un balcone. Ne avrei avuto per poco, anche
perché la grandine riusciva a filtrare, ed a
raggiungere le mie gambe praticamente nude, per via di quella gonnellina che mi
copriva solo sino a metà coscia. Guardai prima a sinistra, poi a destra, sino a
quando una piccola luce riaccese un po’ di speranza. Un portone aperto! Decisi
che mi sarei rifugiata al suo interno, almeno sino a quando non avesse cessato
la grandine, successivamente magari, avrei fatto
venire mio padre a prendermi. Decisi che era un’idea bellissima, e che ben
presto l’avrei attuata. Così presi la rincorsa, e mi
precipitai verso quello stesso portone, a pochi passi da me. C’è la feci: mi scaraventai all’interno dell’abitacolo,
bagnando tutta la moquette dell’androne. Ma se dovevo dirla tutta
non mi importava, e chiusi con forza la porta. Ero al sicuro! Chiusi gli occhi,
abbandonando la fronte sul freddo vetro della porta, ed
ascoltando per qualche secondo il rumore della pioggia che batteva
insistentemente sul freddo asfalto. Era tutto tranquillo, infinitamente
tranquillo. Ma all’improvviso una voce, sconosciuta
all’apparenza, ma ormai ben registrata nei ricordi del mio cuore. La sua
voce.
-Guardami in faccia fratello. Vorrei finisse quest’inverno, vorrei non fosse
ghiaccio eterno sull’asfalto che pesto. Ogni volta con
lo stesso gelo che portiamo appresso, rinchiusi nel nostro universo.- la sua
voce. Riaprii gli occhi, sperando di non essere stata vista, e rimanendo con la
fronte su quello stesso vetro -Facciamo i nostri conti, ci incazziamo per i
torti e poi ci crediamo forti come pochi. Viviamo di stereotipi e di giudizi. E
nei rapporti preferiamo il cuore al portafogli. Nei nostri volti monocordi
sempre uguali. Perché sempre schiavi di condizionali.- ancora, ed il mio cuore batteva -Impressi nei complessi
esistenziali, a poco a poco diventiamo sempre meno umani.- avevo voglia di
cantare con lui -Cosa mancherà mai occidentali? Abbiamo tutto e lo mettiamo
bene in vista, slogan di una società rivista al nostro sai
individualista. Non serve l’amore, non c’è ragione che esso esista.-
volevo piangere -Ho bisogno d’amore, ti prego dammelo se ancora c’è n’è. In questo mondo sento troppi perché. Alza gli occhi e
guarda chi hai di fronte. E poi dammi calore. In questo freddo delle strade finchè ne avrò abbastanza ancora dentro di me. Per scaldare
tutte le parole.- la sua voce tremava, così come il mio cuore che non smetteva
un attimo di battere veloce. Mille emozioni mi pervadevano, sino a quando il
rumore di alcuni passi che scendevano veloci le scale mi ridestarono.
Avevo paura. A breve mi avrebbe vista. Non appena
girato l’angolo dell’androne avrebbe scorto la mia figura. E poi? Scelsi di far
decidere al destino, cercando con la mano la maniglia del portone. Io non
volevo uscire, ma la paura mi impediva di fermarmi.
I passi si fermarono, sino a quando i miei occhi si spalancarono. Ed ora? Che diavolo avrei fatto? E la mia deficienza ebbe il
sopravvento. Spalancai il portone, e decisi di uscire alla velocità della luce.
Non volevo guardarlo, perché sapevo che una volta specchiatami nei suoi occhi,
tutto ciò che avrei desiderato fare, sarebbe stato gettarmi tra le sue braccia
muscolose. Strano da pensare, ma quel giovane mi concedeva emozioni mai
provate, emozioni che mi trascinavano sempre più a lui, in lui, nelle sue rime,
le sue parole. Volli voltarmi per chiudere il portone, e lo vidi fermo sul
ciglio delle scale dell’androne, intento a fissarmi. Sigaretta in bocca, cuffie
nelle orecchie. Maglietta a maniche corte bianca ed
arancione, jeans neri che non lasciavano trasparire alcuna forma. E quel
ragazzo sembrava la perfezione fatta persona. Triste ma perfetto. Sofferente,
ma allo stesso tempo infinitamente bello. Chi diavolo
era? Abbassai lo sguardo, tentando di chiudere il portone, ma dovetti rimanere
qualche attimo a riflettere con lo sguardo basso prima di andarmene definitivamente.
Ma purtroppo per me, una mano interruppe il percorso
della porta, aprendola, o meglio, spalancandola. Mi ritrovai davanti al
portone, con lui che lo reggeva, e con lo sguardo mi fissava di stucco.
-Te ne vai con sto tempo… senza uno straccio d’ombrello?-
chiese, osservandomi. La sua voce parlata era bella così come quella cantata.
Arrossii, non mi ero mai nemmeno immaginata di parlare con lui.
-S… si… sono in ritardo e devo andare per forza.- confessai, indietreggiando di
un passo.
-Se, e sotto la pioggia rovinerai quei codini da bambina. Quanti anni hai? 12?-
chiese, sarcastico. A quel punto tutti i miei pensieri
nei suoi confronti sparirono, lasciando spazio all’ira che lenta veniva pompata dalle sue iridi forti.
-Io? Io ho 14 anni!- esclamai, orgogliosa. La pioggia
continuava a percorrere il mio corpo, mentre lui, compiaciuto per chissà cosa,
si appoggiava allo stipite della porta. Mi squadrò. Dall’alto in basso,
soffermandosi poi su qualcosa alla quale non avevo proprio pensato.
-Hai ragione…- riflettè, mentre la pioggia sovrastava
la sua voce -Sei troppo ben dotata per avere solo 12 anni.- confessò, portandosi una mano al mento, e fissando
la mia camicetta bagnata. Incrociai le braccia, tentando di nascondermi, e dopo
essere avvampata per la vergognia, constatai
che era arrivato il momento di sparire.
-Stronzo!- urlai, fissandolo a malo modo, e voltandomi. Lo sentii scendere
dallo scalino davanti al portone, e farsi vicino a me. Mi prese
per il braccio, e di peso, riuscì a riportarmi all’interno dell’edificio.
Chiuse la porta, mentre i capelli bagnati ricoprivano il suo volto.
-Mai più. Non osare mai più chiamarmi in questo modo.- confessò, iniziando a girarmi intorno.
-Io ti chiamo come mi pare.-
risposi, stizzita.
-Nuova di qua?- chiese, mentre non riuscivo ad intuire
il perché delle sue parole.
-Sì.- sussurrai, attendendo
la sua risposta.
-Bene.- ed il suo petto si strinse alla mia schiena,
mentre le mani forti si poggiavano brutali sul mio seno che ormai veniva
coperto solo dal reggiseno -Allora impara a non parlare a sproposito.- terminò,
stringendo la presa. Ed una lacrima percorse il mio
volto. Mi faceva male, e quella voce sibillina aveva raggelato il mio cervello,
rendendolo quasi di carta-pesta.
-La… lasciami… non mi toccare!- tuonai, scansandomi, e guardandolo di sbieco. I
miei occhi erano lucidi, il suo volto mi scrutava tranquillo, mentre una strana
soddisfazione si dipingeva in lui.
-L’importante è che tu abbia imparato la lezione.- spiegò, aprendo la porta.
-Quale lezione? Che sei un prepotente? Io non ti conosco…e… e…- prima che
potesse uscire, una sua frase tolse la mia dignità.
-E ti ho toccata senza problemi?- domandò, sarcastico.
E feci un gesto che non credevo avrei mai potuto fare.
La mia mano in poco aveva raggiunto la sua guancia, rendendo il mio orgoglio
appena migliore. Mi fissò. Ed io, infinitamente impaurita, mi
cristonavo dietro mentalmente. Lo avevo
schiaffeggiato! Che mi avrebbe fatto ora?
-Tu…- sussurrò, sfiorandosi la parte lesa -Tu… hai osato… hai osato schiaffeggiarmi.- spiegò, mentre i suoi occhi si
coloravano d’ira. Io persi completamente quel poco di coraggio che mi rimaneva,
e mi abbandonai al terrore totale. Abbassai lo sguardo, ed
attesi che dicesse altro. Purtroppo quell’affermazione era più che ovvia, ma
ciò che mi avrebbe fatto, quello no, non lo sapevo affatto
-Stupida.- sussurrò, rimanendo con me là dentro
-Stupida ragazzina.- continuò, facendosi sempre più vicino. Ed
in poco il suo fiato caldo si insinuò in me quasi fosse una condanna. Lui che
spingeva la mia schiena su quella fredda parete, lui che insinuava la sua
lingua nel mio collo. Ed io piangevo. Perché? Perché lo faceva? Non potevo… non
potevo permettere che mi facesse una cosa così
ignobile, così disumana.
“E vivo la mia vita. Non c’è nessuno che mi guida.(*)”
E nessuno lo frenava. Le sue mani sulla mia vita, esse si spingevano sempre più
spavalde su di me, rendendo il mio dolore maggiore.
-Basta… ti chiedo scusa…- sussurravo, mentre lui, ignobile bastardo, non mi
ascoltava.
-Passerai l’ora più brutta della tua vita.-
esclamò, sorridendo. Ed uno sguardo -O la più bella.-
le sue iridi gelide, il suo fiato corto. Voleva possedermi per farmla pagare? Mai e poi mai. Tentai di divincolarmi, ma
davvero non riuscivo. Ed una sola, magra consolazione:
non gli permettevo di insinuare la sua lingua nella mia bocca. Non avrei
concesso il mio primo bacio a lui, nemmeno la mia prima volta. A lui, al
ragazzo che credevo un angelo ma che si stava rivelando
il più feroce dei demoni.
-Lasciami… lasciami…- continuai a pregarlo, mentre le
mie parole gli scivolavano addosso. La sua lingua percorreva le mie spalle, il
mio collo, in quella marcia che sapeva di vendetta. E ben presto, nel dolore
delle lacrime, qualcosa mi diede la forza. Abbassando lo sguardo su di lui, mi
resi conto di una cosa che mi avrebbe aiutata
sicuramente. Allungai così la mano alla mia sinistra, afferrando un ombrello
posto all’interno del secchio apposito. Sarebbe stato
un semplice colpo. Dritto in una parte che non lo avrebbe ucciso, ma
semplicemente tramortito. Sospirai, rendendomi conto che non si stava
accorgendo di nulla. E finalmente un colpo. Poco sotto il collo, là, in un
luogo che era riuscito a farlo svenire. E ben presto la sua figur
a possente crollò a terra, con gli occhi chiusi, ed il
capo reclinato. Per quanto potesse essere forte, non aveva resistito alla mia
paura. Non stetti oltre ad osservarlo, poiché in poco ero già scattata via,
sotto la pioggia, alla ricerca di un luogo sicuro. Di casa mia. Quante altre
brutte esperienze mi avrebbe concesso la gelida Milano?
Note:
Questo capitolo non mi piace particolarmente… ma bisogna sapersi accontentare!
E’ stato introdotto un nuovo personaggio (Lory), e vi
avviso che in questa ff non le farò fare tanto la parte della stronza. Quello che vi può essere
apparso il cattivo della situazione può essere sicuramente Ryan. Purtroppo però
bisogna considerare il mondo in cui vive, il fatto che per lui le ragazzine
sono solo degli oggetti da manovrare a proprio piacimento. Per questo non
stupitevi del suo comportamento: di certo è strano per il suo personaggio di
tutti i giorni, ma in questa ff è un povero ragazzo
che ha a che fare ogni giorno con problmoni enormi!
Comunque chissà se la nostra Strawberry riuscirà a
farlo cambiare!
*-La prima canzone che ho utilizzato (le prime due
citazioni), è di Max Pezzali. Purtroppo non conosco
il titolo… ma la adoro!
*-La seconda invece, è “Ad occhi chiusi” degli Huga flame.
*-Il liceo Marconi invece è stato assolutamente
inventato: avrei potuto utilizzare un liceo qualsiasi… ma ho preferito
inventarne uno, tanto per manovrare meglio la trama.