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Autore: StilledAnima    26/01/2010    1 recensioni
Lo chiamano, ma lui non si volta.Eppure lui un nome ce l’ha e risuona nella piazza soleggiata. Un nome breve che tiene lontani i demoni che all’ora del vespro sgusciano fuori dai fossi.Lui ha l’anima aperta all’aria del mattino, cammina a grandi passi per non farsi raggiungere.Si ferma solo nello sbattere del vento per ricordare tutto ciò che è ancora vivo e sonoro.Nella sua torre che domina la valle, scrive in inchiostro marrone le note del suo viaggio celeste.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                              Storia di un Angelo”

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  A Lei. Con tutto ciò che è stato e con tutto ciò che sarà per sempre.

   E a  tutti voi, sperando che possiate trovare una Ariel sul vostro cammino.

 

 

 

Lo chiamano, ma lui non si volta.

Eppure lui un nome ce l’ha e risuona nella piazza soleggiata. Un nome breve che tiene lontani i demoni che all’ora del vespro sgusciano fuori dai fossi.

Lui ha l’anima aperta all’aria del mattino, cammina a grandi passi per non farsi raggiungere.

Si ferma solo nello sbattere del vento per ricordare tutto ciò che è ancora vivo e sonoro.

Nella sua torre che domina la valle, scrive in inchiostro marrone le note del suo viaggio celeste.

 

 

Non c’ è pace nemmeno al tavolo di un bar. Fuori infuria la pioggia, ma un altro bicchiere lo fa sentire al sicuro.

Osserva il suo viso magro riflesso nel grande specchio dietro il bancone, la sua corta barba ormai grigia. In tasca ha un libriccino pieno di note scritte a lapis, uno studio sull’antico ippogrifo, sulle sue libere rotte intorno alla luna. Ne ha scritto un commento che nessuno vuole pubblicare.

C’è un bambino sul marciapiede che insegue un giornale che il vento trascina con sé. Pensa che tutto questo non saprebbe dipingerlo, così doloroso e vicino. Si sente scagliato lontano, colpito alla nuca. 

È un giorno più corto come è corto il silenzio di un giorno che è soltanto una tregua.

 

 

Lui cammina finché la fatica lo avverte di essersi spinto troppo lontano.

Si ferma a cercare legni che il mare ha levigato, radici, cortecce, la veste trasparente di qualche cicala, una pietra liscia e trasparente.

A volte una nevicata di petali gli fa chiudere gli occhi. Ne afferra uno che scende più lento.

Lo chiude nel pugno della mano e recita a memoria: “ Con l’aiuto del vento levarmi voglio, empiendo l’universo di stupore, in grande altezza e resistere al furore e alle tempeste con nervi di seta cruda e senza ferramenti (*)”.

Poi si ferma al riparo dal vento, apre la sua piccola scatola di acquarelli e dipinge rami stracciati dai temporali, l’aria oscurata dal corso dei venti.

 

Lui sa che gli occhi sono più grandi di ogni cosa che guardiamo.

Contengono navi, nuvole e montagne. Per questo lui non smette mai di guardare.

Un grande merlo nero vola basso. Gli sfiora i capelli, cattura la sua anima.

Può volare sino alla fine del mondo. Non gli servirà. Lo sente volare dentro gli occhi, nei polsi. Ogni cosa che cattura con gli occhi poi gli pesa sul cuore, gli fa più pesante il respiro.

Diventa canto e furore.

 

 

Lei è giovane, pigra. Lo saluta con un lieve bacio gettato sulla punta delle dita. È la grazia che cammina nei suoi diciassette anni lungo la ferrovia abbandonata. Ha un libro tra le mani con la copertina rossa. Ogni tanto ne legge una pagina ed inciampa nel pietrisco. Lui la guarda passare in una luce che non rivedrà più. Il cuore batte forte al ritmo del suo passo.

Lei deve andare via.  Comunque.

La continua a vedere mentre scrive versi che non hanno luce. La vede camminare sul piatto della cena. Poi batte i denti per il troppo amore. Muove appena la testa per non vederla andar via.

 

 

Cadono le foglie dei platani. La strada è grigia come le scaglie di un pesce morto.

A quest’ora della notte si mette in cammino. Dalla parte del mare i lampi incendiano il buio. Da bambino esprimeva un desiderio alla fine di ogni bagliore.

Ora si mette le mani sugli occhi per non vedere e i desideri sono ancora vivi.

Il temporale non gli fa più paura. È solo la vertigine di essere solo che gli fa appoggiare la fronte al muro di un palazzo.

Poi tende i muscoli del collo come se la notte fosse sul punto di saltargli addosso.

 

 

Lo chiamano a voce alta, gli tagliano il cuore. Ridono del suo respiro affannoso.

          << Non hai ancora imparato a volare? >> gli gridano.

Vogliono che salga sui gelsi e si slanci sui giardini fioriti.

Solo a lei manda baci sulla punta delle dita.

Avere le ali non ha niente a che fare con il cielo. Le mie ali sono fatte di piume colorate e latta, ma sono ben salde ai ricordi con cinghie di cuoio. In alto ci si sente più soli, ma si sente il respiro profondo di ogni città.

 

Lei sorrideva intenerita al racconto delle sue prodezze.

 <    << Tu lo conosci >> le  dicevano << di che ti parla? >>

        << Di niente >>  rispondeva con fastidio.

Si nascondeva dietro storie strampalate di avanzi di manicomio.

Lei diceva dentro di sé: “ Stammi vicino e scendi ancora su di me nella tua nobile luce.”

 

 

Lui tiene le finestre chiuse per difendersi dal frastuono del mondo. Il vento s’ infrange contro il cielo grigio. Ha chiuso le fessure con stucco e calce. Non vuole tossire dopo aver ingoiato tutta quella luce. Fosse stato più giovane si sarebbe riempito i polmoni di quei venti impetuosi. Da un buco nella persiana osserva il mondo senza farsi azzannare. Non vuole vedere nessuno. Quel cielo lo vuole solo per sé con le nuvole che sfiorano i capelli e si gonfiano contro la fine del giorno. 

Nuvole che possono cadergli addosso in qualunque momento ed ucciderlo.

 

Ogni sera, nella sua stanza, indossa le ali di carta cerata. Le fissa al torace con due lacci di cuoio.

Sa che il nibbio batte poco le ali. Cerca il corso del vento che impera nei sentieri più alti del cielo.

Cerca solo l’impero che lo sollevi. Lui sa che il nibbio riposa nell’aria senza battere le ali e declina senza legami di cuoio o di spavento.

 

È una domenica d’estate con il sole acceso in mezzo ad un prato d’avena. Si passeggia senza meta nella luminosa meraviglia. Sotto una tenda che la brezza fa sbattere come un lenzuolo steso ad asciugare, lui suona la fisarmonica. Suona per gli amici nell’ora persa e distratta. Forse lei passerà nel fiume dorato del giorno e sarà come aprire gli occhi per la prima volta contro il riflesso del sole.

...Sono di nuovo in viaggio, ho una missione da compiere, ora. Vado incontro alla mia vera natura, sono un angelo camminatore. Mi danno la caccia, ma il cielo senza legami è solo cielo…

 

Al bar sostiene le ragioni di un re. Lo stanno a sentire poi gli dicono di occuparsi del cielo e lasciar perdere le cose terrene.

Non lo ascoltano più.

Poi smette di parlare e lascia che un fiume di parole risentite lo invada. Pensa al momento perfetto, quando si fermerà al riparo dal vento ad accendersi una lunga sigaretta, lontano dalle chiacchiere senza ragione.

 

 

La chiama Ariel perché è leggera e imprendibile. Per intere giornate disegna il suo volto sul muro bagnato. Con la fronte al vetro della finestra si lascia annegare nel silenzio che lui non conosce.

Lei vive in quella calma profonda. Sembra sempre l’alba di un nuovo giorno ogni volta che lei attraversa la piazza, protetta dai suoi pensieri. Cammina e la strada si allarga ad ogni suo passo. Le case si rannicchiano sotto gli archi. Non sa descrivere quella gloria perfetta. È silenziosa come lui e lo guarda venirle incontro fino a farlo inciampare.

 

Lui la chiama Ariel ma non è il suo vero nome. Ha in comune con l’aria che si può respirare e si soffoca senza. È giovane e a lui basta starle vicino, sentire la sua tenerezza sincera.

Le parla di correnti nel vuoto tra due montagne. Sono incontri clandestini, abbracci per non lasciarsi cadere, sempre nell’ombra perché il sole è capace di rischiarare ogni angolo e sporcare di sangue quell’infinita dolcezza.

Lui torna a casa nel cuore della notte. Non si decide ad accendere la luce perché nel buio vede ancora gli occhi di lei.

 

Ogni giorno va a vedere il sole che muore contro la scogliera.

                  << Ho fatto quello che ho potuto >> dice lui.

Lei gli scalda le mani perché non abbia paura del vuoto che si apre ai suoi piedi.

  -          << Ci sono io con te >> dice lei.

Ora sa.  Ora l’ha capito davvero: ha lasciato le sue ali di lino sul letto disfatto.

 

 

Il tempo di andare arriva con le nuvole basse sopra l’orizzonte,in un vicino tramonto.

Intorno agli alberi che si nascondono nella luce dell’aurora.

Allora si deve guardare davanti a sé, come se la città fosse scomparsa, gli occhi gonfi di pianto, fissi sulla strada da fare.

 

Lui esce per strada. A quell’ora le stelle tremano ancora nel freddo notturno. Lo sorprende la prima neve dell’anno. Sono piccoli fiocchi trasparenti contro i lampioni ancora accesi. È una nevicata ancora giovane. Accarezza la neve che scende come per perdersi o svegliarsi davvero. Comincia a camminare senza il suo ombrello verde, chiude soltanto il cappotto sul collo. L’aria sa di ghiaccio e di latte di mandorle e poi un lieve sentore di sale perché i fiocchi li porta il libeccio. Si sente forte in quell’immenso silenzio, incapace di stringere tra le mani tanta bellezza, ma almeno sa di vederla, di saperla narrare. 

Respira a braccia aperte le gelide folate. Finché non si accorge della sua ombra che gli sta venendo incontro.

 

 

 

( Ariel )

Cammina verso di me, attraverso la neve e il crepuscolo. Non ha libri con sé o matite, ma fiocchi di neve sulla corta barba.

In una grande luce che non ha mai smesso di darmi conforto.

 

 

 ( Lui )

 È radiosa e folle, Signore, si chiama Ariel. Te l’affido.

 È solitaria come me, pallida e digiuna.

 È un fiore di cera conservato nel miele.

 È Ariel che mi dice una parola, che mi piega il capo sul cuore e perdo sangue dal naso per il colpo ricevuto. 

 Ho avuto fortuna. Sulla mia barba non rasata il suo respiro.

                   In una notte come questa, è tutto ciò di cui ho bisogno…

 

 

 

( Ariel )

Ancora un po’ e l’amore sarà un’ onda di fuoco.

Sarà un alito aspro che lascia soli e sudati.

È il dolore. Che ti sorprende alle spalle con i suoi denti di squalo.

 

Io ti proteggerò nei campi infiniti della tua ultima impresa, che gonfia il cuore fino a spezzarlo. Ti massaggerò le spalle indolenzite per essere scappato ad un’improvvisa tempesta. Ti proteggerò per la tua natura senza pace, per le lacrime che ti cadono sulle mani quando nessuno ti vede.

Lacrime come cera di candele, una pioggia amara a cui nessuno fa caso.

Io ti parlerò una lingua insonne ed eterna per tenerti sveglio, maestro e mio piccolo bambino indifeso, esposto alla calunnia e al dolore.

 

Io ti proteggerò perché sei l’aria che respiro.

 

 

                                                                                                

                                                      *

 

Finalmente il mare è davanti a loro.

L’avevano intravisto spesso, una breve linea celeste tra due colline turchesi ma ora, nell’aria gelida di freddo, appare loro in tutto il suo minaccioso fulgore.

Lui apre la camicia bianca sul petto, lei gli asciuga il sudore con il dorso della mano libera.

Tutto quel silenzio…

Lui si ferma incantato davanti a quella striscia turchina, più alta di ogni cosa umana. C’ è una piccola barca bianca come il cielo, bianca da cavare gli occhi. Si alza un po’ di maestrale che spruzza di fresco ogni cosa, anche loro, teneri amanti dalle mani intrecciate in cima a quel promontorio sospeso dal tempo e dallo spazio.

Sentono in bocca il salmastro e la sabbia fine, che si intrufola persino sotto le unghie.

La luce gli prende la mano. Lo fa sragionare e quel volo planato e sicuro che hanno solo i gabbiani, il loro modo di fermarsi nell’aria diventa una prova d’inconfondibile coraggio.

Una prova che si può solo seguire.

 

Portami via come sono, innamorato e smarrito, con due piaghe sul dorso, dove una volta crescevano le ali  

 

                                                                            *

 

Al bar del paese, improvvisamente, è sceso il silenzio.

Nessuno ha il coraggio di spezzarlo, c’è troppa vergogna e senso di colpa nell’aria.

Non c’è più spazio per le parole, sono state gettate fuori come le briciole sul bancone.

Solo la voce gracchiante, radiofonica dell’annunciatore ha la forza di andare avanti, in una leggera litania ritmata dalla luce opaca del giorno.

 

“ Ieri notte, due giovani ragazzi si sono gettati dal promontorio sul mare. Non sono stati ritrovati i corpi. Sulla battigia, c’erano solo un paio di ali di cera colorata…”

 

 

 

        Il vento soffia piano, dopo tanto dolore la vita si è congelata.

                      Quel cielo di marzapane e di sale,ora, esiste davvero.

    (*) Frase tratta dal libro " Icaro" di F.P.

   
 
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