Sollevò il capo dalla
mia pancia, tornando a sedere
sulla sedia accanto alla mia non appena la bambina smise di muoversi.
Aveva
cominciato ad avvertire nuovi brevi pensieri. Diceva che erano tutti
come
piccoli impulsi, di movimento, molte volte
“sbagliati”. Perché, come mi aveva
spiegato, i bambini ne avevano molti, e cominciavano a discernere gli
impulsi e
gli istinti giusti da quelli sbagliati relazionandosi con il mondo
esterno. Tuttavia,
né durate il mio sonno, né in altre occasioni era
riuscito a trovare la chiave
di risoluzione dei pensieri della bimba. La maggior parte delle volte,
appena
prima di arrivare a pensare all’oggetto della ricerca, i
sogni s’interrompevano.
«Sì Amber, ti
porto tutto quanto prima, ho quasi
finito. No, no, ho fatto tutto ieri… beh sì, ci
ho impiegato quattro ore…
l’importante è aver finito». Posai la
mano su quella di Edward, a palmo in su
sul bracciolo della scomoda sedia di plastica della sala
d’aspetto. Stavo parlando
al cellulare con la mia amica, informandola del lavoro svolto per una
delle
tante vicine sessioni d’esame. Ultimamente studiavo davvero
molto, fino a
tardi, e dipingevo spesso, anche. Magari, lo facevo con così
tanto impegno
perché mi aiutava a distrarmi.
Edward strinse delicatamente la
presa sulla mia mano,
sorridendomi. Distrarmi da lui, soprattutto. Infatti, per
un’intera settimana,
non avevamo fatto altro che provocarci reciprocamente, fino ad arrivare
più
volte a fare quello che ci eravamo ripromessi di negarci. Forse
perché eravamo
una coppia di novelli sposi. Forse perché era un vampiro. O
magari, perché fare
qualcosa di proibito e contro le regole ci eccitava decisamente di
più…
«Sei stanca?»
mi chiese tranquillo, osservandomi.
Scossi il capo con sicurezza. Se
era vero che
nell’ultimo periodo le mie attività di studio e
strappo alle regole erano state
incrementate, era vero anche che probabilmente proprio
quest’ultima mi dava il
lusso di concedermi di dormire serenamente. Da questo derivava una
nuova
tranquillità e lucidità.
«Cosa dobbiamo fare?
Credo di dover passare a casa di
Amber entro le sei, facciamo in tempo?».
Annuì, mentre gli occhi
dorati e vigili ispezionavano
velocemente la sala. «Sì, quasi certamente.
Carlisle vorrebbe comunicarmi il
risultato di una sua ricerca e ha detto che devi essere presente anche
tu.
Considerando che siamo già a Seattle non dovremmo impiegarci
troppo a
raggiungere la casa della tua amica».
Dopo mangiato mi aveva
letteralmente messa in
macchina, senza spiegarmi il perché. Alle mie continue
richieste aveva risposto
che avevo già studiato abbastanza, che mi sarei dovuta
riposare in ogni caso, e
che saremmo andati a trovare Carlisle. Ora comprendevo. Venire a
conoscenza di
nuovi misteri, di nuove assurde caratteristiche sovrannaturali di mia
figlia,
mi metteva sempre una certa ansia.
Mi sentii toccare la mano,
intrecciata alla sua, con
più decisione. «Vedrai, andrà tutto
bene. Devi solo stare tranquilla e fidarti
di noi» mi disse serio.
Posai una mano sulla pancia,
accanto alla sua, potendo
sentire la bambina muoversi da dentro e da fuori. In effetti, le sue
rassicurazioni sui licantropi erano state sincere, considerando che
nonostante
i miei dubbi su quello che volessero comunicarci non si erano
più fatti
sentire.
«Edward, Bella»
la voce familiare di Carlisle mi
distolse dai miei pensieri. Avanzò nell’asettico
corridoio della clinica, fino
a raggiungerci.
Mi sollevai, prendendo sotto un
braccio il cappotto
che avevo depositato sulle gambe, imitando lo stesso movimento di mio
marito.
«Seguitemi»
disse, a voce alta per far capire anche a
me, «andiamo in un luogo più appartato».
Ci guidò in un piccolo ambulatorio sul
corridoio parallelo a quello in cui eravamo. Non somigliava per niente
al suo
confortevole e caldo studio dell’ospedale di Forks.
A far tornare la mia mente verso
l’impellente
rivelazione fu lo sguardo serio di Carlisle. Timorosa, mi voltai verso
Edward,
seduto su una sedia simile alla mia, tentando di leggere sul suo volto
qualcosa
in più rispetto a quanto non dicesse quello di suo padre.
Eppure, pareva
impaziente e curioso; probabilmente Carlisle aveva deciso di farci
conoscere la
verità insieme.
«Ho effettuato molta
ricerca» cominciò pacato
«sperimentalmente. Questo ospedale ha attrezzature molto
più avanzate rispetto
a quello di Forks. Purtroppo
non ho ottenuto i
risultati che speravo» affermò desolato, portando
una mano, stretta a pugno,
sotto il mento, e poggiandovi la testa.
Edward sospirò.
«Di che si
tratta?» chiesi velocemente, facendo
passare il mio sguardo fra i due.
Carlisle mi sorrise rassicurante,
riacquisendo la sua
solita compostezza. «Credo che andando avanti in questa
gravidanza sia
fondamentale avere delle anche piccole informazioni sul bambino. La
settimana
scorsa hai avuto di nuovo un pochino di anemia, niente di preoccupante
rispetto
alla prima volta, e un po’ di ferro in vena ti ha fatto stare
subito meglio»
fece con un sorriso.
Annuì, sfregandomi
l’incavo dell’avambraccio. Carlisle
monitorizzava costantemente la mia emoglobina variando la mia terapia
in modo
precauzionale, così da non far scendere i miei valori sotto
una determinata
soglia.
«Il punto è
che se succedesse ancora, o se
succedessero altre cose non saprei cosa fare. L’esame che ti
ho fatto fare
prima si chiama Risonanza Magnetica Fetale» disse,
riferendosi al grosso tubo
rumoroso in cui mi aveva ficcata. «Ma purtroppo ha dato
più o meno gli stessi
esiti dell’ecografia, così non farci vedere quasi
nulla».
Sospirai. «Pensi che
possa essere un serio problema?».
Scrollò le spalle.
«Non ti nascondo che ogni piccola
informazione potrebbe esserci utile. Se solo…»
sussurrò, distogliendo lo
sguardo, pensieroso.
«Cosa?»
domandai, pronta a qualunque cosa per
rendergli il lavoro più facile.
Scosse il capo con un sorriso
mesto. «Niente, non è
praticabile».
Edward mi strinse la mano, e mi
volsi a guardarlo.
«Pensava di riuscire a
prendere un campione di liquido
amniotico o di sangue fetale» mi spiegò con calma.
Spalancai la bocca, sorpresa.
«Pensavo che avessimo
accantonato questa ipotesi».
«È
così» mi spiegò mio suocero
«ma ho studiato in
letteratura un approccio un po’ differente, magari
transplacentare in un punto
di minore resistenza. Il problema sarebbe un esame piuttosto invasivo
con una
reale, seppure piccola percentuale di rischio. Inoltre, tutto potrebbe
rivelarsi un inutile buco nell’acqua»
dichiarò serio, esponendomi sinceramente
la realtà dei fatti.
Strinsi la mano libera sul maglione
largo e caldo,
all’altezza della pancia. Non mi piaceva che si parlasse
della bambina e
insieme di rischi. Era una cosa che difficilmente potevo accettare. Ma
se tutto
fosse servito per aiutarla? Che cosa avrei dovuto scegliere? Cosa ne
pensava
Edward?
«Bella» mi
chiamò. Avvicinò una mano al mio viso,
sfiorandomi una guancia, facendomi arrossire per la presenza di suo
padre. «Non
essere in ansia, non si farà alcun esame».
Sussultai. Dunque
quella era la sua scelta?
Carlisle rispose alla mia domanda.
«Nonostante le mie
ricerche credo che sia pressoché impossibile. Dalla
risonanza fatto oggi pare
che la tua placenta sia nella parete posteriore dell’utero.
Non riuscirei a
raggiungerla con nessun tipo di ago».
Cacciai un fremito dalle labbra
tremanti.
Edward captò velocemente
il mo timore. «Non è il caso
di farsi impressionare», mi prese il volto fra le mani,
costringendomi a
guardarlo «non si farà alcun esame».
Annuii, catturata dai suoi occhi
magnetici, stordita.
Quando le sue labbra si piegarono
in un sorriso e un
piccolo oggetto metallico comparve nel mio capo visivo, non capii bene
cosa
stesse accadendo. «Rispondi» mi esortò,
e a quel punto mi resi conto che fra le
sue mani c’era il mio cellulare, che vibrava ritmicamente
producendo un basso
ronzio.
Mi riscossi. Lo afferrai con una
mano, portandomelo
all’orecchio e facendo grattare la sedia di leggero alluminio
contro il
pavimento, mentre mi alzavo per allontanarmi di qualche passo. Cosa
inutile,
considerando il loro super udito, ma che compii come un abituale gesto
umano di
cortesia.
«Bella,
ci sei?
Va tutto bene? Perché ci hai impiegato così tanto
a rispondere?».
La voce di Amber mi travolse e mi
ci volle qualche
istante per rispondere, riprendendomi definitivamente dal timore e
dalla
confusione che mi avevano causato le parole di Carlisle.
«Tutto bene» mi
schiarii la voce. «Problemi?» osservai
l’orologio al mio polso «posso passare
anche fra poco se vuoi, credo di aver finito». Mi voltai a
cercare la conferma
che mi diede Edward, annuendo, interrompendo per un attimo il
tranquillo
dialogo col padre.
«No,
no, anzi!
Ti volevo avvisare che il professor Danbaster ha modificato il
programma per
l’esame di lunedì».
Ebbi uno strano brivido sentendo
quel nome. Dopo la
nostra chiacchierata nello studio non avevo più incontrato
il professore così…
“privatamente”. Avevo seguito le sue lezioni e
l’avevo visto di sfuggita nei
corridoi, troppo poco tempo per fermarlo e chiedergli spiegazioni su
quella
strana storia che, nonostante tutto, continuava ad assillarmi.
Richiedeva una
spiegazione che non riuscivo a dare.
«Dobbiamo
integrare lo studio delle opere straniere con quelle tedesche e guarda,
sul
serio, sono talmente tante che io…».
«Germania?»
chiesi, stranita e stupita,
interrompendola.
«Sì,
Germania»
ripeté tranquilla. «Il
professor
Danbaster ha una fissa con i tedeschi, non lo sapevi?»
chiese come se fosse
ovvio.
«No» balbettai, ricordando facilmente
che la nazionalità
del misterioso marito di Caterina Barbarigo
era
tedesca. Un giovane tedesco.
Così
aveva detto.
«Ma
certo! È
così perché il professore è di origine
tedesca. Davvero non lo sapevi? Oh
Bella… Hai proprio la testa fra le nuvole. Il suo nome
non ti dice nulla? È così cacofonico».
Ero immobile, paralizzata dalle sue
prime parole. Di origine tedesca.
Come una saetta
scoccata con precisione da un esperto arciere, un’intuizione
mi colpì,
centrando la verità.
Philip era lui. Era il personaggio
della sua storia,
il marito della bella Caterina, ne ero così certa! Questo
spiegava la sua
partecipazione al racconto, spiegava la presenza di quel quadro, e
spiegava,
soprattutto, perché Caterina e Kate, sua figlia, fossero
descritte così
accuratamente, mentre il suo personaggio così sommariamente
tratteggiato. Era
così chiaro che mi chiesi come avessi fatto a non pensarci
prima.
Tuttavia questo ancora non spiegava come
fosse possibile il
fatto che avesse avuto a che fare con personaggi appartenenti ad
un’altra
epoca. A meno che…
«Bella? Bella?»
mi sentii scuotere con forza le spalle
e in un istante mi resi conto di non avere più il piccolo
cellulare in mano. Realizzai
di avere le mani di Edward a sorreggermi previdentemente per i gomiti,
mentre
quelle che mi scuotevano le spalle erano di Carlisle.
Osservai ancora come in trance i
loro volti. Carlisle
aveva una maschera professionale, Edward pareva preoccupato. I miei
occhi
caddero sul triste pavimento bianco e sul cellulare, staccato in due
pezzi. Mi
era caduto?
«È…
non può essere lui… lui stava…
lui… beveva… sì…»
i
balbettii sconnessi giunsero perfino alle mie orecchie ovattate. La mia
confusione era amplificata, mischiata con quella della bambina.
La stessa confusione che
imperversava sul volto di mio
marito. «Chi non
può essere?» mi
chiese deciso.
Ripresi fiato, mordendomi le labbra
per evitare di
continuare a pronunciare parole senza senso. Avevo chiaramente visto il
professor Philip tossire violentemente, avanzare col suo passo poco
aggraziato,
avevo guardato a lungo i suoi occhietti celesti. E come se questo non
bastasse,
l’avevo visto bere, proprio davanti ai me! Che senso avrebbe
avuto fingere,
tanto più del necessario?
Mi voltai verso Carlisle, serio e
risoluto. No, non
era un vampiro. Almeno, non lui.
«Chi
è» scandii piano, ansiosa di farmi comprendere
«Caterina Barbarigo?».
Carlisle mi guardò,
tentando di comprendere, forse, il
significato di quella mia domanda apparentemente senza senso.
«È una nobile
del Settecento, veneziana. È famosa per
il ritratto che le è stato fatto da Rosalba
Carriera» rispose Edward,
titubante. «Bella» mi chiamò poi
«cosa succede?». Dal suo tono era palese
quanto il non poter leggere nei miei pensieri lo facesse andare fuori
di testa.
Ma intanto, Carlisle continuava ad
osservarmi. E così
capii che la mia intuizione non doveva essere affatto sbagliata.
«Come la
conosci?» chiese interessato, facendo spostare
l’attenzione del figlio su di
lui. Strinse le labbra, esitò. «È una
delle più famose immortali».
Ansimai, sorreggendomi a Edward per
non cadere. Allora
avevo ragione.
La seguente ora la passai intenta a
spiegare a Edward
e Carlisle ogni cosa. Il suo studio, quello che avevo visto, quello che
mi
aveva detto. Dovetti ripetere molte volte le stesse cose,
perché spesso le mie
frasi rimanevano spezzate e sconnesse.
Ero molto, molto agitata. Ma in
fondo l’avevo
avvertito sin da subito che ci fosse qualcosa di strano in
quell’uomo. Lui era…
lui! Era suo marito! Era marito di
una vampira, era entrato a conoscenza del mondo sovrannaturale. Era
come me.
«Caterina era
un’immortale annoiata. E, come tutti gli
immortali annoiati, aveva deciso di venire allo scoperto, nel XVIII
secolo» mi
spiegò Carlisle, invitandomi a bere un altro sorso
dell’acqua che, tremante,
reggevo fra le mani. Edward mi accarezzò i capelli,
stringendomi di più a sé. «Non
l’ho mai conosciuta personalmente, ma so che ebbe un
importante ruolo nella
seconda guerra mondiale».
«La seconda guerra
mondiale?» chiesi confusa.
Annuì.
«Esattamente, proprio quella. In quel periodo
lei era lì. Saprai certamente che ebbe il suo epicentro in
Germania. Quello che
non sai, Bella, è che alla base di quella guerra, come molte
altre avvenute nel
mondo umano, non ci sono gli uomini, ma il mondo
sovrannaturale».
Strabuzzai gli occhi, sorpresa.
Quanto ancora avrei
dovuto scoprire di questo mondo, di cui ormai facevo parte? Dovevo
continuare a
stupirmi?
«La seconda guerra mondiale
fu uno dei conflitti più accesi, e scoppiò per
un’azione repressiva, mossa da Caius
in persona contro i licantropi, i veri
licantropi. Caterina era molto
affiliata, amica dei Volturi, apertamente ostile ai lupi e in seguito
ad
innumerevoli provocazioni fu catturata e giustiziata. Fu la scintilla
che face
scoppiare la guerra».
Mi passai una mano fra i capelli,
stupita, confusa da
tutta la mole di notizie che mi era giunta in poco tempo. Anche a
questo avrei
probabilmente dovuto essere abituata. Fino a quell’istante
avevo pensato, quasi
dato per scontato, per una classica e umana divisione, che il professor
Philip,
pur avendo questi impensabili segreti facesse parte di una sorta di
schiera di
“buoni”. Dopotutto, mi aveva anche offerto il suo
aiuto. Ora, invece, venivo a
sapere che sua moglie era addirittura amica dei Volturi, che avevo
sempre
considerato negativamente. Dare un giudizio su di lui, ora, mi pareva
così complicato.
Cosa avremmo fatto adesso? Come ci
saremmo comportati
nei suoi confronti? Avrei dovuto far finta di nulla? Potevo
semplicemente…
ignorarlo?
«Dobbiamo andare da
lui!» esclamai, improvvisamente
colta da un altro ricordo, saltando giù dal lettino su cui
ero seduta.
«Bella» mi
chiamò Edward titubante, eseguendo il mio
stesso gesto con grazia, calma, e singolare eleganza,
«perché vorresti? Magari
sarebbe meglio pensarci con più calma. Non sappiamo che tipo
di problemi ci
potrebbe portare tutto questo con i Volturi».
Scossi il capo con determinazione,
indossando
velocemente il cappotto. «No Edward. Lui ci serve. Lui sa» presi un respiro, provando
a placare la mia fretta,
ricordandomi che dovevo ancora renderli partecipi di quella parte della
storia.
Li guardai negli occhi. «Lui aveva
una
figlia. Kate. Lui sa»
ribadii.
Entrambi furono stupiti dalla mia
rivelazione. Il
primo a riprendere il contegno fu Carlisle, e lo notai dalle piccole
fossettine
che comparivano sulle tempie quando la sua espressione si faceva
pensosa. «Mi
pare impossibile, considerando che il corpo delle donne immortali non
può
mutare».
Strinsi i pugni, serrano le labbra.
«Per questo
dobbiamo andare da lui».
Gli occhi di Edward si
concentrarono nuovamente su di
me. Sospirò, lanciando una breve e fugace, quando ben
visibile, occhiata a suo
padre. Anche lui doveva essere d’accordo con me.
«Andiamo» disse riluttante
dopo pochi istanti.
Riuscii ad ottenere informazioni
sull’abitazione del
professore tramite Amber, dopo averla rassicurata almeno un milione di
volte
sulle mie ottime condizioni di salute e averla convinta con una
dichiarazione
diretta di Edward. Sapevo che non avrebbe mai obbiettato a qualcosa
detto da
lui, era una persona timida in fondo, e mio marito la metteva spesso e
volentieri in soggezione.
Ci stavamo dirigendo, dunque, a Sequim,
cittadina a metà strada fra Seattle e Port Angeles.
Comprendevo da chi avesse
preso Edward l’amore per la velocità, vedendo
guidare Carlisle. Anche se
decisamente la sua guida era meno spericolata ed
“acrobatica”.
«Non è
necessario che venga anche tu» mi disse Edward
ad un tratto, giocando distrattamente con le mie dita.
Lo fissai stupita. Diceva sul
serio? «È il mio professore.
Voi per lui siete due sconosciuti».
Strinse le labbra, contrariato,
continuando a fissare
il vuoto e parlando con finta disinvoltura. «Magari potremmo
aspettare una
visione di Alice, o chiedere a Jasper qual è il modo
più adatto per…».
«Non
c’è un modo più adatto».
«Perché fare
così di fretta?».
«Perché
aspettare?». Lo guardai in viso. «Edward, stai
tranquillo. Perché fai così?».
Prese un breve respiro, prendendomi
per i fianchi e
stringendomi a sé. «Perché ho paura di
perderti, visto che ho rischiato già
troppe volte di farlo».
Sospirai, immedesimandomi in lui e
comprendendo il suo
tormento. «Pensa che forse finalmente riusciremo a scoprire
qualcosa su questa
gravidanza! La mia anemia, i sogni strani, le emozioni. Potremmo capire
come
farla crescere e cosa aspettarci da lei» feci una pausa,
contemplando con le
mani i suoi zigomi squadrati «è solo un umano. Non
potrà fare del male a
nessuno di noi, neppure se volesse».
Annuì, stringendomi
più forte e baciandomi la fronte. «Non
so come farei senza te».
Arrivammo a destinazione dopo
appena un’ora. Appena
uscii dall’auto rimasi stupita. Subito dopo mi diedi della
sciocca. In fondo,
cosa mi sarei dovuta aspettare, se non quello che vedevo?
Un ampio cancello e delle siepi
incorniciavano il
giardino della villa. La costruzione al centro era in mattoni scuri,
come
grigi, quello del fumo che colora il bordo del camino. Pareva una
costruzione a
metà fra una fortificazione e un castello incantato. Tutto
rigorosamente in
miniatura.
Fu Carlisle a suonare il
campanello, esteticamente
sullo stesso stile medievale. S’illuminò un
piccolo display, e decisi di farmi
avanti per essere visibile alla telecamera. La serratura del cancello
scattò
poco dopo con uno schiocco secco, ma nessuno si fece vivo,
né venne ad aprirci.
Edward mi strinse un braccio
intorno alla vita, e
Carlisle fu ben presto sull’altro lato, mentre ci avviavamo
silenziosi sul
vialetto. Mi chiedevo perché non ci avesse risposto alcuna
voce di cortesia, o
perché non si fosse ancora fatto vivo nessuno, tuttavia i
miei pensieri erano
ancora troppo occupati a pensare a ciò che solo poche ore
prima avevo scoperto.
Assurdo. Fatti che non mi sarei mai
aspettata e che mi
facevano, ancora una volta, vedere le cose in modo diverso.
Mi bastò
un’occhiata per fermare Edward, appena
sull’ingresso. Spinsi il grosso portone di legno scuro, che
per quanto avesse
l’aspetto di essere molto pesante, si aprì con
notevole facilità.
Immediatamente sentii un suono
alieno a quel luogo e
quella situazione. Un lento applauso. Subito dopo, mentre ai miei occhi
si
rivelava il lussuoso interno dell’abitazione, vidi la figura
del professore,
piegata, sulle scale. «Isabella»
esclamò, e la sua voce fu quasi un’eco
nell’ambiente ampio. «Ce ne hai messo di
tempo».
Aggrottai le sopracciglia, confusa,
ma prima che
potessi chiedere spiegazioni fu Carlisle a parlare, cortese.
«Ci scusi per
questa intrusione, e mi permetta di presentarmi. Sono
Ca…».
«Carlisle Cullen, sì»
continuò con un sorriso furbo, cominciando a scendere i
gradini, aggrappandosi
al passamano curvo. «Vampiro di origine inglese, nato nel
1640 e trasformato,
se non vado errato, nel 1663. Lui invece è tuo figlio, uno
dei tanti, come dire
“adottati”. Edward Cullen,
strappato dalla spagnola
ad appena diciassette anni. Che pena!» esclamò
sarcasticamente, ormai giunto
sull’ultimo gradino.
Ero raggelata e avvertivo la stessa
sorpresa essere
emanata da Edward e Carlisle. Evidentemente sapeva. Anche molto
più di quanto
potessimo immaginare.
Tossì violentemente a
pochi passi da me, e infastidito
cacciò un fazzoletto di stoffa dalla tasca, asciugandosi la
bocca. «Ah, che
seccatura» sollevò lo sguardo, fino a guardarmi
negli occhi, ignorando
completamente i due vampiri ai miei lati, che si strinsero maggiormente
su di
me, protettivi, mentre avanzava di un altro passo. «Dicevo
cara, ora che le
formalità sono state assolte, ce ne hai messo di tempo!
Speravo che potessi
essere più intuitiva» sorrise, e notai con
facilità la sua breve e fuggente
occhiata alla mia pancia.
Sentii il mio senso di disagio
mescolarsi con quello
della bambina, e portai una mano alla pancia per acquietarla.
Sbuffò, alzando gli
occhi al cielo, quando un altro
accesso di tosse lo colpì. «Su, su, veloci,
accomodatevi di là» mugugnò,
facendo un ampio gesto con la mano. Entrambi i vampiri temporeggiarono,
trattenendosi, ancora sorpresi dal modo con cui si era presentato, con
tutte
quelle informazioni, così dettagliate, su di loro.
«Non volevate sapere
qualcosa, o sbaglio? Avanti, cosa potrebbe fare un sol uomo contro due
vampiri?» chiese, borbottando.
Notai Carlisle lanciare
un’occhiata a Edward, e poco
dopo mi ritrovai a camminare senza sapere neppure come.
Ci guidò, traballante,
verso una piccola saletta. Ogni
cosa sembrava riprodurre lo stesso stile del suo studio
all’università: ovunque
erano sparsi oggetti che a prima vista potevano parere tutte
cianfrusaglie
d’egual valore.
«Prego,
accomodati» mi disse, parlandomi con
gentilezza e indicandomi un largo divano coperto da vari strati di una
pesante
coperta rossa «non vogliamo far rimanere in piedi una donna
in dolce attesa,
vero?». Mi sedetti, arrossendo per la cortesia dimostratami,
e lo stesso fecero
Edward e Carlisle, sedendosi ai miei lati. Con passo incerto
zoppicò fino a
lasciarsi cadere su una poltrona di pelle, di fronte.
«Dicevamo»
cominciò, non appena ci fummo accomodati, «cosa
volete chiedermi?» chiese impaziente, andando subito al sodo
della questione. Dava
per scontato che avessimo un quesito da porgli?
Con la coda dell’occhio,
distogliendo il viso dal
piccolo e acuto viso magro del professore, vidi qualcosa di strano in
Edward.
Aveva un’espressione seria e concentrata, fissa sul suo
volto. «Philip, lei ci
deve delle spiegazioni. Come fa a conoscerci, per esempio,
oppure…». Le sue parole
furono interrotte da un suo gesto secco.
«Oh
sì» borbottò, e parve
alquanto infastidito, «avevo dimenticato queste stupide ovvietà. Beh, vi basti
sapere che vi conosco. Chiedete,
avanti. Non abbiamo tempo da perdere».
«Mio figlio ha
ragione» ribadì Carlisle, osservandolo,
cauto e attento. Era molto pacato e cortese, come al solito. Pensai che
fra
tutti i vampiri che avrebbero potuto accompagnarci, sarebbe comunque
stato lui
quello più adatto.
Il professore sbuffò,
contrariato. «Che inutile
perdita di tempo. Isabella» mi chiamò, e i suoi
occhi si addolcirono mentre
pronunciava il mio nome «Hai scoperto la mia storia, non
è così? Sei a
conoscenza del fatto che mia moglie era una vampira?».
Sussultai, dirizzandomi sul posto. Moglie. E così avevo avuto
ragione. Una
geniale intuizione. Annuii.
Sorrise, un sorriso piccolo e
storto. «Bene, hai
sbagliato. Mia moglie in realtà era proprio come tua
figlia».
«Cosa?»
esclamò Edward sgomento e il professore parve
contrariato dell’interruzione. Eppure, anch’io ero
stupita quanto lui.
«Oh certo»
sibilò, come se fosse ovvio «pensate forse
che una vampira possa procreare?!».
«Quindi non è
la prima volta che accade?» chiese
Carlisle, pacato.
«No. Affatto»
ribadì Philip «ci sono almeno ventitrè
casi attestati. Tua figlia è il ventiquattresimo».
Automaticamente mi potrai entrambe
le mani alla
pancia, proteggendo il ventre. Così mia figlia non era
affatto unica. Da un
lato mi consolava notevolmente, dandomi la speranza di scoprire su di
lei di
più. Di poterla comprendere e magari poterle essere
d’aiuto. Dall’altro sentivo
uno strano senso… avevo sempre dato per scontato che fosse
unica. Tuttavia, nel
turbino dei miei pensieri, un’altra questione aveva la
precedenza. «Come fa a
sapere tutto questo?» sussurrai piano, guardandolo con
insistenza negli occhi.
Mi fissò di rimando
senza battere ciglio. «Bene»
asserì dopo pochi secondi «credo che dovremmo
rimandare le domande, visto che hai
bisogno di una spiegazione». Estrasse dalla giacca un
contenitore rettangolare
e schiacciato, di colore argentato, quello che normalmente si usa per
contenere
i liquori. Ne mandò giù un lungo sorso, e non mi
sfuggì per niente l’occhiata
che nel frattempo gli rivolse Carlisle. Anche lui, notandola
sicuramente, la
ignorò, cominciando a spiegare. «Spero di dover
ovviare il fatto che mia moglie
fosse molto in simpatia dei Volturi» annuii, così
continuò, concentrato «bene.
Ho già spiegato che era una vampira solo per
metà, così avemmo una figlia,
Kate, anche lei, vampira esattamente per metà. E spero di
non dover intavolare
una discussione scientifica, ma si tratta puramente di genetica
mendeliana.
Sono due alleli codominanti.
Il dottore mi
comprenderà» disse, lanciando
un’occhiata a Carlisle «così, quello che
già sai,
è che mia moglie fu fatta prigioniera e uccisa. Anche Kate
fu catturata, ma
piste attendibili mi riferiscono che è ancora in vita. Ora,
per quanto sia
interessate tutto il resto, la farò breve. I Volturi vennero
a sapere di me, un
umano a conoscenza del loro mondo. Per questo motivo sono a conoscenza
di tutto sui vampiri e il mondo
sovrannaturale».
Lo fissai, perplessa.
L’unico pensiero che avevo era che
a quel punto per la legge dei Volturi sarebbe
dovuto
essere già morto. Come me, d’altronde.
«Spiegati» fece
Edward, asciutto, confuso quanto me.
Mi chiesi perché fosse così disorientato.
Sospirò, seccato di
dover continuare a spiegare. «I
Volturi hanno deciso di affidare tutti i loro segreti ad un unico uomo
che li
conservi, li custodisca, e non li riveli a nessuno. Data la loro
amicizia con
mia moglie il privilegio è spettato a me».
«Perché non
sappiamo nulla di questo?» chiese
Carlisle.
Philip fece sbattere le mani contro
i braccioli della
poltrona. «Non è certo una cosa che vanno a
raccontare in giro. Come pensi la
prenderebbero gli altri immortali? Ci sono cose che neppure i Volturi
stessi
conoscono, e che devono continuare a rimanere celate».
Carlisle irrigidì la
mascella. Sapevo quanto fosse
difficile per lui, assetato com’era di conoscenza, venire a
sapere di quello
che avrebbe sicuramente definito uno “spreco”.
Notai lo sguardo del professore,
perso e concentrato
sul mio grembo pieno. Edward mi strinse una mano sulla pancia, come a
proteggere nostra figlia. In effetti quel contatto mi faceva sentire
molto più
sicura e protetta. Inoltre
dava alla bambina la
possibilità di provare la tranquillità che le
dava il contatto col padre, in
contrasto con l’indecisione e la confusione che avvertivo io
in quel momento.
«Perché hanno
scelto un umano?» incalzò Edward.
Si riscosse, sollevando lo sguardo
fino ai suoi occhi.
«Perché gli umani muoiono ragazzo. Pensavo fossi
più sveglio. Non hanno
intenzione di concentrare tutto il potere nelle mani di un immortale.
Ora, se
le domande sono finite…».
«Hai detto che sono segreti, e che non dovrebbero essere
svelati. Perché allora sei
disposto a dirceli?» continuò imperterrito mio
marito.
Philip gli scoccò
un’occhiata furente. Sembrava che
quella domanda l’avesse punto sul vivo. «I Volturi
non verranno a saperlo».
Edward affinò lo
sguardo, guardandolo fisso. «Aro
legge nel pensiero».
Sospirò, lasciandosi
andare sulla poltrona e prendendo
un altro sorso di liquore. Spostò lo sguardo lontano,
facendolo perdere nel
vuoto. Il rintocco lento dell’orologio a pendolo scandiva
ritmicamente il
silenzio.
«Faremo un
patto» asserì poi, guardando i due vampiri
e concentrando infine gli occhi su di me. «Io vi
dirò quello che volete sapere
e voi mi riporterete mia figlia».