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Autore: keska    29/01/2010    42 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Sollevò il capo dalla mia pancia, tornando a sedere sulla sedia accanto alla mia non appena la bambina smise di muoversi. Aveva cominciato ad avvertire nuovi brevi pensieri. Diceva che erano tutti come piccoli impulsi, di movimento, molte volte “sbagliati”. Perché, come mi aveva spiegato, i bambini ne avevano molti, e cominciavano a discernere gli impulsi e gli istinti giusti da quelli sbagliati relazionandosi con il mondo esterno. Tuttavia, né durate il mio sonno, né in altre occasioni era riuscito a trovare la chiave di risoluzione dei pensieri della bimba. La maggior parte delle volte, appena prima di arrivare a pensare all’oggetto della ricerca, i sogni s’interrompevano.

«Sì Amber, ti porto tutto quanto prima, ho quasi finito. No, no, ho fatto tutto ieri… beh sì, ci ho impiegato quattro ore… l’importante è aver finito». Posai la mano su quella di Edward, a palmo in su sul bracciolo della scomoda sedia di plastica della sala d’aspetto. Stavo parlando al cellulare con la mia amica, informandola del lavoro svolto per una delle tante vicine sessioni d’esame. Ultimamente studiavo davvero molto, fino a tardi, e dipingevo spesso, anche. Magari, lo facevo con così tanto impegno perché mi aiutava a distrarmi.

Edward strinse delicatamente la presa sulla mia mano, sorridendomi. Distrarmi da lui, soprattutto. Infatti, per un’intera settimana, non avevamo fatto altro che provocarci reciprocamente, fino ad arrivare più volte a fare quello che ci eravamo ripromessi di negarci. Forse perché eravamo una coppia di novelli sposi. Forse perché era un vampiro. O magari, perché fare qualcosa di proibito e contro le regole ci eccitava decisamente di più…

«Sei stanca?» mi chiese tranquillo, osservandomi.

Scossi il capo con sicurezza. Se era vero che nell’ultimo periodo le mie attività di studio e strappo alle regole erano state incrementate, era vero anche che probabilmente proprio quest’ultima mi dava il lusso di concedermi di dormire serenamente. Da questo derivava una nuova tranquillità e lucidità.

«Cosa dobbiamo fare? Credo di dover passare a casa di Amber entro le sei, facciamo in tempo?».

Annuì, mentre gli occhi dorati e vigili ispezionavano velocemente la sala. «Sì, quasi certamente. Carlisle vorrebbe comunicarmi il risultato di una sua ricerca e ha detto che devi essere presente anche tu. Considerando che siamo già a Seattle non dovremmo impiegarci troppo a raggiungere la casa della tua amica».

Dopo mangiato mi aveva letteralmente messa in macchina, senza spiegarmi il perché. Alle mie continue richieste aveva risposto che avevo già studiato abbastanza, che mi sarei dovuta riposare in ogni caso, e che saremmo andati a trovare Carlisle. Ora comprendevo. Venire a conoscenza di nuovi misteri, di nuove assurde caratteristiche sovrannaturali di mia figlia, mi metteva sempre una certa ansia.

Mi sentii toccare la mano, intrecciata alla sua, con più decisione. «Vedrai, andrà tutto bene. Devi solo stare tranquilla e fidarti di noi» mi disse serio.

Posai una mano sulla pancia, accanto alla sua, potendo sentire la bambina muoversi da dentro e da fuori. In effetti, le sue rassicurazioni sui licantropi erano state sincere, considerando che nonostante i miei dubbi su quello che volessero comunicarci non si erano più fatti sentire.

«Edward, Bella» la voce familiare di Carlisle mi distolse dai miei pensieri. Avanzò nell’asettico corridoio della clinica, fino a raggiungerci.

Mi sollevai, prendendo sotto un braccio il cappotto che avevo depositato sulle gambe, imitando lo stesso movimento di mio marito.

«Seguitemi» disse, a voce alta per far capire anche a me, «andiamo in un luogo più appartato». Ci guidò in un piccolo ambulatorio sul corridoio parallelo a quello in cui eravamo. Non somigliava per niente al suo confortevole e caldo studio dell’ospedale di Forks.

A far tornare la mia mente verso l’impellente rivelazione fu lo sguardo serio di Carlisle. Timorosa, mi voltai verso Edward, seduto su una sedia simile alla mia, tentando di leggere sul suo volto qualcosa in più rispetto a quanto non dicesse quello di suo padre. Eppure, pareva impaziente e curioso; probabilmente Carlisle aveva deciso di farci conoscere la verità insieme.

«Ho effettuato molta ricerca» cominciò pacato «sperimentalmente. Questo ospedale ha attrezzature molto più avanzate rispetto a quello di Forks. Purtroppo non ho ottenuto i risultati che speravo» affermò desolato, portando una mano, stretta a pugno, sotto il mento, e poggiandovi la testa.

Edward sospirò.

«Di che si tratta?» chiesi velocemente, facendo passare il mio sguardo fra i due.

Carlisle mi sorrise rassicurante, riacquisendo la sua solita compostezza. «Credo che andando avanti in questa gravidanza sia fondamentale avere delle anche piccole informazioni sul bambino. La settimana scorsa hai avuto di nuovo un pochino di anemia, niente di preoccupante rispetto alla prima volta, e un po’ di ferro in vena ti ha fatto stare subito meglio» fece con un sorriso.

Annuì, sfregandomi l’incavo dell’avambraccio. Carlisle monitorizzava costantemente la mia emoglobina variando la mia terapia in modo precauzionale, così da non far scendere i miei valori sotto una determinata soglia.

«Il punto è che se succedesse ancora, o se succedessero altre cose non saprei cosa fare. L’esame che ti ho fatto fare prima si chiama Risonanza Magnetica Fetale» disse, riferendosi al grosso tubo rumoroso in cui mi aveva ficcata. «Ma purtroppo ha dato più o meno gli stessi esiti dell’ecografia, così non farci vedere quasi nulla».

Sospirai. «Pensi che possa essere un serio problema?».

Scrollò le spalle. «Non ti nascondo che ogni piccola informazione potrebbe esserci utile. Se solo…» sussurrò, distogliendo lo sguardo, pensieroso.

«Cosa?» domandai, pronta a qualunque cosa per rendergli il lavoro più facile.

Scosse il capo con un sorriso mesto. «Niente, non è praticabile».

Edward mi strinse la mano, e mi volsi a guardarlo.

«Pensava di riuscire a prendere un campione di liquido amniotico o di sangue fetale» mi spiegò con calma.

Spalancai la bocca, sorpresa. «Pensavo che avessimo accantonato questa ipotesi».

«È così» mi spiegò mio suocero «ma ho studiato in letteratura un approccio un po’ differente, magari transplacentare in un punto di minore resistenza. Il problema sarebbe un esame piuttosto invasivo con una reale, seppure piccola percentuale di rischio. Inoltre, tutto potrebbe rivelarsi un inutile buco nell’acqua» dichiarò serio, esponendomi sinceramente la realtà dei fatti.

Strinsi la mano libera sul maglione largo e caldo, all’altezza della pancia. Non mi piaceva che si parlasse della bambina e insieme di rischi. Era una cosa che difficilmente potevo accettare. Ma se tutto fosse servito per aiutarla? Che cosa avrei dovuto scegliere? Cosa ne pensava Edward?

«Bella» mi chiamò. Avvicinò una mano al mio viso, sfiorandomi una guancia, facendomi arrossire per la presenza di suo padre. «Non essere in ansia, non si farà alcun esame». Sussultai. Dunque quella era la sua scelta?

Carlisle rispose alla mia domanda. «Nonostante le mie ricerche credo che sia pressoché impossibile. Dalla risonanza fatto oggi pare che la tua placenta sia nella parete posteriore dell’utero. Non riuscirei a raggiungerla con nessun tipo di ago».

Cacciai un fremito dalle labbra tremanti.

Edward captò velocemente il mo timore. «Non è il caso di farsi impressionare», mi prese il volto fra le mani, costringendomi a guardarlo «non si farà alcun esame».

Annuii, catturata dai suoi occhi magnetici, stordita.

Quando le sue labbra si piegarono in un sorriso e un piccolo oggetto metallico comparve nel mio capo visivo, non capii bene cosa stesse accadendo. «Rispondi» mi esortò, e a quel punto mi resi conto che fra le sue mani c’era il mio cellulare, che vibrava ritmicamente producendo un basso ronzio.

Mi riscossi. Lo afferrai con una mano, portandomelo all’orecchio e facendo grattare la sedia di leggero alluminio contro il pavimento, mentre mi alzavo per allontanarmi di qualche passo. Cosa inutile, considerando il loro super udito, ma che compii come un abituale gesto umano di cortesia.

«Bella, ci sei? Va tutto bene? Perché ci hai impiegato così tanto a rispondere?».

La voce di Amber mi travolse e mi ci volle qualche istante per rispondere, riprendendomi definitivamente dal timore e dalla confusione che mi avevano causato le parole di Carlisle. «Tutto bene» mi schiarii la voce. «Problemi?» osservai l’orologio al mio polso «posso passare anche fra poco se vuoi, credo di aver finito». Mi voltai a cercare la conferma che mi diede Edward, annuendo, interrompendo per un attimo il tranquillo dialogo col padre.

«No, no, anzi! Ti volevo avvisare che il professor Danbaster ha modificato il programma per l’esame di lunedì».

Ebbi uno strano brivido sentendo quel nome. Dopo la nostra chiacchierata nello studio non avevo più incontrato il professore così… “privatamente”. Avevo seguito le sue lezioni e l’avevo visto di sfuggita nei corridoi, troppo poco tempo per fermarlo e chiedergli spiegazioni su quella strana storia che, nonostante tutto, continuava ad assillarmi. Richiedeva una spiegazione che non riuscivo a dare.

«Dobbiamo integrare lo studio delle opere straniere con quelle tedesche e guarda, sul serio, sono talmente tante che io…».

«Germania?» chiesi, stranita e stupita, interrompendola.

«Sì, Germania» ripeté tranquilla. «Il professor Danbaster ha una fissa con i tedeschi, non lo sapevi?» chiese come se fosse ovvio.

«No» balbettai, ricordando facilmente che la nazionalità del misterioso marito di Caterina Barbarigo era tedesca. Un giovane tedesco. Così aveva detto.

«Ma certo! È così perché il professore è di origine tedesca. Davvero non lo sapevi? Oh Bella… Hai proprio la testa fra le nuvole. Il suo nome non ti dice nulla? È così cacofonico».

Ero immobile, paralizzata dalle sue prime parole. Di origine tedesca. Come una saetta scoccata con precisione da un esperto arciere, un’intuizione mi colpì, centrando la verità.

Philip era lui. Era il personaggio della sua storia, il marito della bella Caterina, ne ero così certa! Questo spiegava la sua partecipazione al racconto, spiegava la presenza di quel quadro, e spiegava, soprattutto, perché Caterina e Kate, sua figlia, fossero descritte così accuratamente, mentre il suo personaggio così sommariamente tratteggiato. Era così chiaro che mi chiesi come avessi fatto a non pensarci prima.

Tuttavia questo ancora non spiegava come fosse possibile il fatto che avesse avuto a che fare con personaggi appartenenti ad un’altra epoca. A meno che…

«Bella? Bella?» mi sentii scuotere con forza le spalle e in un istante mi resi conto di non avere più il piccolo cellulare in mano. Realizzai di avere le mani di Edward a sorreggermi previdentemente per i gomiti, mentre quelle che mi scuotevano le spalle erano di Carlisle.

Osservai ancora come in trance i loro volti. Carlisle aveva una maschera professionale, Edward pareva preoccupato. I miei occhi caddero sul triste pavimento bianco e sul cellulare, staccato in due pezzi. Mi era caduto?

«È… non può essere lui… lui stava… lui… beveva… sì…» i balbettii sconnessi giunsero perfino alle mie orecchie ovattate. La mia confusione era amplificata, mischiata con quella della bambina.

La stessa confusione che imperversava sul volto di mio marito. «Chi non può essere?» mi chiese deciso.

Ripresi fiato, mordendomi le labbra per evitare di continuare a pronunciare parole senza senso. Avevo chiaramente visto il professor Philip tossire violentemente, avanzare col suo passo poco aggraziato, avevo guardato a lungo i suoi occhietti celesti. E come se questo non bastasse, l’avevo visto bere, proprio davanti ai me! Che senso avrebbe avuto fingere, tanto più del necessario?

Mi voltai verso Carlisle, serio e risoluto. No, non era un vampiro. Almeno, non lui. «Chi è» scandii piano, ansiosa di farmi comprendere «Caterina Barbarigo?».

Carlisle mi guardò, tentando di comprendere, forse, il significato di quella mia domanda apparentemente senza senso.

«È una nobile del Settecento, veneziana. È famosa per il ritratto che le è stato fatto da Rosalba Carriera» rispose Edward, titubante. «Bella» mi chiamò poi «cosa succede?». Dal suo tono era palese quanto il non poter leggere nei miei pensieri lo facesse andare fuori di testa.

Ma intanto, Carlisle continuava ad osservarmi. E così capii che la mia intuizione non doveva essere affatto sbagliata. «Come la conosci?» chiese interessato, facendo spostare l’attenzione del figlio su di lui. Strinse le labbra, esitò. «È una delle più famose immortali».

Ansimai, sorreggendomi a Edward per non cadere. Allora avevo ragione.

La seguente ora la passai intenta a spiegare a Edward e Carlisle ogni cosa. Il suo studio, quello che avevo visto, quello che mi aveva detto. Dovetti ripetere molte volte le stesse cose, perché spesso le mie frasi rimanevano spezzate e sconnesse.

Ero molto, molto agitata. Ma in fondo l’avevo avvertito sin da subito che ci fosse qualcosa di strano in quell’uomo. Lui era… lui! Era suo marito! Era marito di una vampira, era entrato a conoscenza del mondo sovrannaturale. Era come me.

«Caterina era un’immortale annoiata. E, come tutti gli immortali annoiati, aveva deciso di venire allo scoperto, nel XVIII secolo» mi spiegò Carlisle, invitandomi a bere un altro sorso dell’acqua che, tremante, reggevo fra le mani. Edward mi accarezzò i capelli, stringendomi di più a sé. «Non l’ho mai conosciuta personalmente, ma so che ebbe un importante ruolo nella seconda guerra mondiale».

«La seconda guerra mondiale?» chiesi confusa.

Annuì. «Esattamente, proprio quella. In quel periodo lei era lì. Saprai certamente che ebbe il suo epicentro in Germania. Quello che non sai, Bella, è che alla base di quella guerra, come molte altre avvenute nel mondo umano, non ci sono gli uomini, ma il mondo sovrannaturale».

Strabuzzai gli occhi, sorpresa. Quanto ancora avrei dovuto scoprire di questo mondo, di cui ormai facevo parte? Dovevo continuare a stupirmi?

«La seconda guerra mondiale fu uno dei conflitti più accesi, e scoppiò per un’azione repressiva, mossa da Caius in persona contro i licantropi, i veri licantropi. Caterina era molto affiliata, amica dei Volturi, apertamente ostile ai lupi e in seguito ad innumerevoli provocazioni fu catturata e giustiziata. Fu la scintilla che face scoppiare la guerra».

Mi passai una mano fra i capelli, stupita, confusa da tutta la mole di notizie che mi era giunta in poco tempo. Anche a questo avrei probabilmente dovuto essere abituata. Fino a quell’istante avevo pensato, quasi dato per scontato, per una classica e umana divisione, che il professor Philip, pur avendo questi impensabili segreti facesse parte di una sorta di schiera di “buoni”. Dopotutto, mi aveva anche offerto il suo aiuto. Ora, invece, venivo a sapere che sua moglie era addirittura amica dei Volturi, che avevo sempre considerato negativamente. Dare un giudizio su di lui, ora, mi pareva così complicato.

Cosa avremmo fatto adesso? Come ci saremmo comportati nei suoi confronti? Avrei dovuto far finta di nulla? Potevo semplicemente… ignorarlo?

«Dobbiamo andare da lui!» esclamai, improvvisamente colta da un altro ricordo, saltando giù dal lettino su cui ero seduta.

«Bella» mi chiamò Edward titubante, eseguendo il mio stesso gesto con grazia, calma, e singolare eleganza, «perché vorresti? Magari sarebbe meglio pensarci con più calma. Non sappiamo che tipo di problemi ci potrebbe portare tutto questo con i Volturi».

Scossi il capo con determinazione, indossando velocemente il cappotto. «No Edward. Lui ci serve. Lui sa» presi un respiro, provando a placare la mia fretta, ricordandomi che dovevo ancora renderli partecipi di quella parte della storia. Li guardai negli occhi. «Lui aveva una figlia. Kate. Lui sa» ribadii.

Entrambi furono stupiti dalla mia rivelazione. Il primo a riprendere il contegno fu Carlisle, e lo notai dalle piccole fossettine che comparivano sulle tempie quando la sua espressione si faceva pensosa. «Mi pare impossibile, considerando che il corpo delle donne immortali non può mutare».

Strinsi i pugni, serrano le labbra. «Per questo dobbiamo andare da lui».

Gli occhi di Edward si concentrarono nuovamente su di me. Sospirò, lanciando una breve e fugace, quando ben visibile, occhiata a suo padre. Anche lui doveva essere d’accordo con me. «Andiamo» disse riluttante dopo pochi istanti.

Riuscii ad ottenere informazioni sull’abitazione del professore tramite Amber, dopo averla rassicurata almeno un milione di volte sulle mie ottime condizioni di salute e averla convinta con una dichiarazione diretta di Edward. Sapevo che non avrebbe mai obbiettato a qualcosa detto da lui, era una persona timida in fondo, e mio marito la metteva spesso e volentieri in soggezione.

Ci stavamo dirigendo, dunque, a Sequim, cittadina a metà strada fra Seattle e Port Angeles. Comprendevo da chi avesse preso Edward l’amore per la velocità, vedendo guidare Carlisle. Anche se decisamente la sua guida era meno spericolata ed “acrobatica”.

«Non è necessario che venga anche tu» mi disse Edward ad un tratto, giocando distrattamente con le mie dita.

Lo fissai stupita. Diceva sul serio? «È il mio professore. Voi per lui siete due sconosciuti».

Strinse le labbra, contrariato, continuando a fissare il vuoto e parlando con finta disinvoltura. «Magari potremmo aspettare una visione di Alice, o chiedere a Jasper qual è il modo più adatto per…».

«Non c’è un modo più adatto».

«Perché fare così di fretta?».

«Perché aspettare?». Lo guardai in viso. «Edward, stai tranquillo. Perché fai così?».

Prese un breve respiro, prendendomi per i fianchi e stringendomi a sé. «Perché ho paura di perderti, visto che ho rischiato già troppe volte di farlo».

Sospirai, immedesimandomi in lui e comprendendo il suo tormento. «Pensa che forse finalmente riusciremo a scoprire qualcosa su questa gravidanza! La mia anemia, i sogni strani, le emozioni. Potremmo capire come farla crescere e cosa aspettarci da lei» feci una pausa, contemplando con le mani i suoi zigomi squadrati «è solo un umano. Non potrà fare del male a nessuno di noi, neppure se volesse».

Annuì, stringendomi più forte e baciandomi la fronte. «Non so come farei senza te».

Arrivammo a destinazione dopo appena un’ora. Appena uscii dall’auto rimasi stupita. Subito dopo mi diedi della sciocca. In fondo, cosa mi sarei dovuta aspettare, se non quello che vedevo?

Un ampio cancello e delle siepi incorniciavano il giardino della villa. La costruzione al centro era in mattoni scuri, come grigi, quello del fumo che colora il bordo del camino. Pareva una costruzione a metà fra una fortificazione e un castello incantato. Tutto rigorosamente in miniatura.

Fu Carlisle a suonare il campanello, esteticamente sullo stesso stile medievale. S’illuminò un piccolo display, e decisi di farmi avanti per essere visibile alla telecamera. La serratura del cancello scattò poco dopo con uno schiocco secco, ma nessuno si fece vivo, né venne ad aprirci.

Edward mi strinse un braccio intorno alla vita, e Carlisle fu ben presto sull’altro lato, mentre ci avviavamo silenziosi sul vialetto. Mi chiedevo perché non ci avesse risposto alcuna voce di cortesia, o perché non si fosse ancora fatto vivo nessuno, tuttavia i miei pensieri erano ancora troppo occupati a pensare a ciò che solo poche ore prima avevo scoperto.

Assurdo. Fatti che non mi sarei mai aspettata e che mi facevano, ancora una volta, vedere le cose in modo diverso.

Mi bastò un’occhiata per fermare Edward, appena sull’ingresso. Spinsi il grosso portone di legno scuro, che per quanto avesse l’aspetto di essere molto pesante, si aprì con notevole facilità.

Immediatamente sentii un suono alieno a quel luogo e quella situazione. Un lento applauso. Subito dopo, mentre ai miei occhi si rivelava il lussuoso interno dell’abitazione, vidi la figura del professore, piegata, sulle scale. «Isabella» esclamò, e la sua voce fu quasi un’eco nell’ambiente ampio. «Ce ne hai messo di tempo».

Aggrottai le sopracciglia, confusa, ma prima che potessi chiedere spiegazioni fu Carlisle a parlare, cortese. «Ci scusi per questa intrusione, e mi permetta di presentarmi. Sono Ca…».

«Carlisle Cullen, sì» continuò con un sorriso furbo, cominciando a scendere i gradini, aggrappandosi al passamano curvo. «Vampiro di origine inglese, nato nel 1640 e trasformato, se non vado errato, nel 1663. Lui invece è tuo figlio, uno dei tanti, come dire “adottati”. Edward Cullen, strappato dalla spagnola ad appena diciassette anni. Che pena!» esclamò sarcasticamente, ormai giunto sull’ultimo gradino.

Ero raggelata e avvertivo la stessa sorpresa essere emanata da Edward e Carlisle. Evidentemente sapeva. Anche molto più di quanto potessimo immaginare.

Tossì violentemente a pochi passi da me, e infastidito cacciò un fazzoletto di stoffa dalla tasca, asciugandosi la bocca. «Ah, che seccatura» sollevò lo sguardo, fino a guardarmi negli occhi, ignorando completamente i due vampiri ai miei lati, che si strinsero maggiormente su di me, protettivi, mentre avanzava di un altro passo. «Dicevo cara, ora che le formalità sono state assolte, ce ne hai messo di tempo! Speravo che potessi essere più intuitiva» sorrise, e notai con facilità la sua breve e fuggente occhiata alla mia pancia.

Sentii il mio senso di disagio mescolarsi con quello della bambina, e portai una mano alla pancia per acquietarla.

Sbuffò, alzando gli occhi al cielo, quando un altro accesso di tosse lo colpì. «Su, su, veloci, accomodatevi di là» mugugnò, facendo un ampio gesto con la mano. Entrambi i vampiri temporeggiarono, trattenendosi, ancora sorpresi dal modo con cui si era presentato, con tutte quelle informazioni, così dettagliate, su di loro. «Non volevate sapere qualcosa, o sbaglio? Avanti, cosa potrebbe fare un sol uomo contro due vampiri?» chiese, borbottando.

Notai Carlisle lanciare un’occhiata a Edward, e poco dopo mi ritrovai a camminare senza sapere neppure come.

Ci guidò, traballante, verso una piccola saletta. Ogni cosa sembrava riprodurre lo stesso stile del suo studio all’università: ovunque erano sparsi oggetti che a prima vista potevano parere tutte cianfrusaglie d’egual valore.

«Prego, accomodati» mi disse, parlandomi con gentilezza e indicandomi un largo divano coperto da vari strati di una pesante coperta rossa «non vogliamo far rimanere in piedi una donna in dolce attesa, vero?». Mi sedetti, arrossendo per la cortesia dimostratami, e lo stesso fecero Edward e Carlisle, sedendosi ai miei lati. Con passo incerto zoppicò fino a lasciarsi cadere su una poltrona di pelle, di fronte.

«Dicevamo» cominciò, non appena ci fummo accomodati, «cosa volete chiedermi?» chiese impaziente, andando subito al sodo della questione. Dava per scontato che avessimo un quesito da porgli?

Con la coda dell’occhio, distogliendo il viso dal piccolo e acuto viso magro del professore, vidi qualcosa di strano in Edward. Aveva un’espressione seria e concentrata, fissa sul suo volto. «Philip, lei ci deve delle spiegazioni. Come fa a conoscerci, per esempio, oppure…». Le sue parole furono interrotte da un suo gesto secco.

«Oh sì» borbottò, e parve alquanto infastidito, «avevo dimenticato queste stupide ovvietà. Beh, vi basti sapere che vi conosco. Chiedete, avanti. Non abbiamo tempo da perdere».

«Mio figlio ha ragione» ribadì Carlisle, osservandolo, cauto e attento. Era molto pacato e cortese, come al solito. Pensai che fra tutti i vampiri che avrebbero potuto accompagnarci, sarebbe comunque stato lui quello più adatto.

Il professore sbuffò, contrariato. «Che inutile perdita di tempo. Isabella» mi chiamò, e i suoi occhi si addolcirono mentre pronunciava il mio nome «Hai scoperto la mia storia, non è così? Sei a conoscenza del fatto che mia moglie era una vampira?».

Sussultai, dirizzandomi sul posto. Moglie. E così avevo avuto ragione. Una geniale intuizione. Annuii.

Sorrise, un sorriso piccolo e storto. «Bene, hai sbagliato. Mia moglie in realtà era proprio come tua figlia».

«Cosa?» esclamò Edward sgomento e il professore parve contrariato dell’interruzione. Eppure, anch’io ero stupita quanto lui.

«Oh certo» sibilò, come se fosse ovvio «pensate forse che una vampira possa procreare?!».

«Quindi non è la prima volta che accade?» chiese Carlisle, pacato.

«No. Affatto» ribadì Philip «ci sono almeno ventitrè casi attestati. Tua figlia è il ventiquattresimo».

Automaticamente mi potrai entrambe le mani alla pancia, proteggendo il ventre. Così mia figlia non era affatto unica. Da un lato mi consolava notevolmente, dandomi la speranza di scoprire su di lei di più. Di poterla comprendere e magari poterle essere d’aiuto. Dall’altro sentivo uno strano senso… avevo sempre dato per scontato che fosse unica. Tuttavia, nel turbino dei miei pensieri, un’altra questione aveva la precedenza. «Come fa a sapere tutto questo?» sussurrai piano, guardandolo con insistenza negli occhi.

Mi fissò di rimando senza battere ciglio. «Bene» asserì dopo pochi secondi «credo che dovremmo rimandare le domande, visto che hai bisogno di una spiegazione». Estrasse dalla giacca un contenitore rettangolare e schiacciato, di colore argentato, quello che normalmente si usa per contenere i liquori. Ne mandò giù un lungo sorso, e non mi sfuggì per niente l’occhiata che nel frattempo gli rivolse Carlisle. Anche lui, notandola sicuramente, la ignorò, cominciando a spiegare. «Spero di dover ovviare il fatto che mia moglie fosse molto in simpatia dei Volturi» annuii, così continuò, concentrato «bene. Ho già spiegato che era una vampira solo per metà, così avemmo una figlia, Kate, anche lei, vampira esattamente per metà. E spero di non dover intavolare una discussione scientifica, ma si tratta puramente di genetica mendeliana. Sono due alleli codominanti. Il dottore mi comprenderà» disse, lanciando un’occhiata a Carlisle «così, quello che già sai, è che mia moglie fu fatta prigioniera e uccisa. Anche Kate fu catturata, ma piste attendibili mi riferiscono che è ancora in vita. Ora, per quanto sia interessate tutto il resto, la farò breve. I Volturi vennero a sapere di me, un umano a conoscenza del loro mondo. Per questo motivo sono a conoscenza di tutto sui vampiri e il mondo sovrannaturale».

Lo fissai, perplessa. L’unico pensiero che avevo era che a quel punto per la legge dei Volturi sarebbe dovuto essere già morto. Come me, d’altronde.

«Spiegati» fece Edward, asciutto, confuso quanto me. Mi chiesi perché fosse così disorientato.

Sospirò, seccato di dover continuare a spiegare. «I Volturi hanno deciso di affidare tutti i loro segreti ad un unico uomo che li conservi, li custodisca, e non li riveli a nessuno. Data la loro amicizia con mia moglie il privilegio è spettato a me».

«Perché non sappiamo nulla di questo?» chiese Carlisle.

Philip fece sbattere le mani contro i braccioli della poltrona. «Non è certo una cosa che vanno a raccontare in giro. Come pensi la prenderebbero gli altri immortali? Ci sono cose che neppure i Volturi stessi conoscono, e che devono continuare a rimanere celate».

Carlisle irrigidì la mascella. Sapevo quanto fosse difficile per lui, assetato com’era di conoscenza, venire a sapere di quello che avrebbe sicuramente definito uno “spreco”.

Notai lo sguardo del professore, perso e concentrato sul mio grembo pieno. Edward mi strinse una mano sulla pancia, come a proteggere nostra figlia. In effetti quel contatto mi faceva sentire molto più sicura e protetta. Inoltre dava alla bambina la possibilità di provare la tranquillità che le dava il contatto col padre, in contrasto con l’indecisione e la confusione che avvertivo io in quel momento.

«Perché hanno scelto un umano?» incalzò Edward.

Si riscosse, sollevando lo sguardo fino ai suoi occhi. «Perché gli umani muoiono ragazzo. Pensavo fossi più sveglio. Non hanno intenzione di concentrare tutto il potere nelle mani di un immortale. Ora, se le domande sono finite…».

«Hai detto che sono segreti, e che non dovrebbero essere svelati. Perché allora sei disposto a dirceli?» continuò imperterrito mio marito.

Philip gli scoccò un’occhiata furente. Sembrava che quella domanda l’avesse punto sul vivo. «I Volturi non verranno a saperlo».

Edward affinò lo sguardo, guardandolo fisso. «Aro legge nel pensiero».

Sospirò, lasciandosi andare sulla poltrona e prendendo un altro sorso di liquore. Spostò lo sguardo lontano, facendolo perdere nel vuoto. Il rintocco lento dell’orologio a pendolo scandiva ritmicamente il silenzio.

«Faremo un patto» asserì poi, guardando i due vampiri e concentrando infine gli occhi su di me. «Io vi dirò quello che volete sapere e voi mi riporterete mia figlia».

   
 
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