A
ricambiare il mio sguardo indifferente fu la faccia pallida e gonfia
della
luna, quel giorno piena, come a voler osservare meglio la
tragicità del luogo
su cui posava la sua diafana luce.
Una
luce debole, peraltro, quasi del tutto aggredita dalle nuvole cariche
di
umidità che le si avventavano contro, impedendole di
splendere.
Sospirai,
alzandomi il colletto della giacca: l’aria era gelida e i
miei passi sul
terreno risuonavano sinistri in tutto quel silenzio.
Un
silenzio tetro, foriero di morte: lì a Bergen-Bersen il
freddo rigido di quell’inverno
senza fine si tramutava nell’alito putrido della morte.
Mi
chiamavo Derek Van Der Meer, avevo non più di
vent’anni e lavoravo per le SS.
Non
era il lavoro che mi ero scelto io, era stato mio padre ad arruolarmi.
All’inizio
credetti anche io alle cazzate che il governo diceva, secondo le quali
le SS
avrebbero “ripulito” il mondo, e mi sentii
orgoglioso di farvi parte. Ricevetti
il grado di sergente e la stima di mio padre fu la più
grande gratificazione
che potessi ottenere per il mio lavoro assiduo.
Non
ero mai stato molto contento dei miei compiti, in realtà. Ma
li adempivo, perché
era giusto così.
Io
facevo parte dell’esercito e il mio incarico era assicurarmi
che loro, gli
ebrei, la feccia dell’Europa,
vivessero nei ghetti, non entrassero nei negozi frequentati dalla razza
ariana,
non salissero negli stessi mezzi pubblici... Marciavo sulle
città e non
riuscivo a sopportare il terrore dipinto sui volti cerei di quelle
persone con
la stella di giuda appuntata sugli abiti.
Non
lo sopportavo; non sopportavo quell’ingiustizia. E mi
ripetevo, invece, per
farmi coraggio, che era corretto così.
Era
giusto anche derubarli?
Razziare
le loro case privandoli del loro beni, come dei barbari al tempo
dell’antica
Roma?
Erano
troppe le domande che mi ponevo, da quando aveva fatto visita nei miei
sogni,
con prepotenza, un angelo dagli occhi blu: era bellissimo,
quell’angelo. Un
volto delicato, leggermente a punta, con le gote rosate e incorniciate
da un
lungo manto color miele. I suoi occhi, dalle lunghissime ciglia bionde,
erano
di uno spettacolare blu cobalto.
Mi
guardava, con immensa tristezza, e pareva voler porgermi la sua mano
candida
come la neve che ci circondava. Spalancava le grandi ali bianche, la
cui
purezza si confondeva con il bianco manto purpureo che sembrava allo
stesso
tempo avvolgerla ed espandersi da lei stessa.
Quando
mi svegliavo, con un furioso batticuore, mi rendevo conto di vivere nel
peccato. E mi alzavo, trascinandomi verso la finestra della mia stanza
che dava
al campo di concentramento.
Una
fitta al cuore mi pervadeva mentre, con lo sguardo fisso su quegli
ebrei,
quelle persone, posavo la mano sul
vetro, come a poterli raggiungere.
Mi
faceva male il petto, doverli uccidere. Ogni giorno, quando mi trovavo
nel campo,
a doverli sorvegliare, indossavo la mia maschera da perfetto SS. Ma la
verità
era che in ognuno di loro vedevo il misterioso angelo dagli occhi blu,
e mi
sentivo morire al posto loro. Ogni minuto. E non potevo scappare, no:
c’ero
troppo dentro. Un sergente delle SS non può provare simili
sentimenti, mi
ripetevo come un monito. E me ne convincevo, quasi.
Ma
a ricordarmi di quegli omicidi c’era il fumo dei forni
crematori: dall’odore
nauseante di carne arrosto, dolciastro, quasi; e come dimenticare le
camere a
gas dove finivano i bambini e i vecchi, per non parlare degli anziani?
Il
faro della torre di controllo mi illuminò, accecandomi,
quasi.
Lì
a Bergen-Bersen era una nottata tranquilla, eccezion fatta per i miei
pensieri
scoordinati. Decisi, così, di terminare il mio turno di
sorveglianza e di recarmi
al mio appartamento.
Faceva
davvero freddo, il cielo ormai coperto minacciava una prepotente
nevicata.
Altro
dolore per quelle povere persone... cercai di non pensarci. Dopotutto,
ero solo
un codardo.
Se
li avessi avuti davvero a cuore, pensai, mentre mi incamminavo, avrei
fatto
qualcosa per aiutarli. Che so, anche la mia vita in cambio della
loro... o
forse no, no. Non sarebbe certamente servito a nulla. Parlavo
così a causa dell’egoismo
intrinseco in ogni essere umano oppure ci credevo davvero?
«Mi...
mi lasci...»
Mi
bloccai di colpo, rimanendo fermo come una statua. Era stata una voce
di donna
a parlare, ed era un tono a metà tra il supplichevole e il
rassegnato.
«Stai
zitta, puttana! Ora farai quello che dico io...»
Corrugai
immediatamente le sopracciglia. Cosa stava accadendo? Le voci non erano
troppo
distanti dalla mia posizione, così decisi di andare a
controllare.
Mi
parve che si trattasse della capanna delle camere a gas, non poco
lontana da
dove mi trovavo.
Con
passo felpato, attento a non far percepire la mia presenza, mi
avvicinai alla
fonte di quelle voci.
Quella
maschile si fece più prepotente, scoppiando in una risata
sonora. Cominciai a
sentire anche il rumore di ferraglia, come di pantaloni sbottonati, e
la voce
della ragazza esplodere in un pianto disperato e silenzioso.
Arrivai
alla soglia, e l’immagine che avrei trovato dentro la capanna
non era molto
distante dalla mia immaginazione.
I
miei occhi videro un soldato, probabilmente un caporale, voltato di
spalle.
Aveva i pantaloni sbottonati, e calati fin sotto le natiche. Il suo
membro
disgustosamente eretto era perfettamente visibile, così
com’era visibile la
ragazza rannicchiata al suolo ghiacciato. Era raccolta in posizione
fetale, il
capo rasato era coperto dalle esilissime braccia, e il suo corpo nudo,
anoressico ed emaciato era scosso da brividi convulsi. Impossibile
decretare se
fosse per il freddo o per la paura.
Quella
scena mi raccapricciò.
Decisi,
in quanto sergente, di fermare quell’abominio: avrei
tollerato tutto, ma non
questo.
Come
uomo di una certa educazione non potevo lasciare che accadesse. Anche
se lui
era tedesco e lei ebrea. Avanzai,
lasciando che la mia presenza fosse annunciata dai miei scarponi che
scricchiolavano sul ghiaccio del terreno.
«Caporale»
la mia voce era severa, tonante. L’uomo si scosse, ma non
osò voltarsi.
«Cosa
sta facendo?» lo interrogai, avanzando ancora.
L’eccitazione
lo abbandonò, così come abbandonò il
suo pene. Si rivestì in tutta fretta, e
sputò verso la ragazza, che ormai non aveva smesso di
piangere un secondo.
Evitai
di guardarla, ora indossavo la mia maschera da perfetto soldato.
«Signor
sergente» mormorò il caporale, in evidente
imbarazzo, «Cercavo solo di
divertirmi un po’». Cercò di
giustificarsi così, ma ciò non fece che aumentare
la mia ira.
«Le conviene
sparire» sibilai, «Le pare il
modo? Trascurare la sorveglianza per divertirsi con la feccia?»
era chiaro come il sole, dentro di me, che non consideravo
quella povera creatura della feccia, ma ero obbligato a mantenere le
apparenze.
Come avrei voluto scappare via...
Il
volto del caporale divenne paonazzo, non seppe cosa ribattere. In
silenzio gli
indicai col dito l’uscita.
«Se
non ritorna alla sua postazione sarò costretto a fare
rapporto» E non era una
minaccia a vuoto.
Lui
non replicò, dileguandosi rapidamente dalla mia presenza.
Quando
fui certo di essere solo, mi avvicinai alla ragazza che giaceva sul
terreno. Mi
sfilai il cappotto e glielo gettai sopra: di sicuro, lei ne aveva
più bisogno
di me.
Smise
di piangere, ma sentivo che batteva i denti furiosamente: o era sotto
shock,
oppure aveva solo un tremendo freddo. Mi chinai su di lei, sfiorandole
il capo
rasato che teneva ancorato saldamente tra le braccia.
Sussultò
al mio tocco, ma non osò ritrarsi.
«Ehi...
stai bene?» bisbigliai, in modo che solo lei mi potesse
sentire.
Non
mi rispose, ma parve avermi udito.
«Non
voglio farti del male» le sussurrai, carezzandole il capo con
delicatezza. Usai
il mio tono più dolce, un tono che non avevo mai avuto modo
di sperimentare.
Forse
sorpresa da tanta gentilezza, la ragazza ebrea afferrò il
giaccone che le avevo
gettato sopra e ci si avvolse meglio, come per cercare maggiore fonte
di
calore.
Pian
piano alzò il volto, sporco e bagnato dalle numerose lacrime
che aveva versato
e aprì gli occhi dalle lunghe ciglia.
Rimasi
folgorato.
Letteralmente,
folgorato.
Il
suo volto aveva tratti delicati ed era leggermente a punta; le sue
guance erano
ora magre e scavate, ma un tempo dovevano essere state piene e rosate.
Dimostrava
diciotto anni al massimo,
ma
il particolare che mi mozzò il respiro, oltre ai lineamenti
del suo volto,
erano i suoi occhi.
I
suoi occhi...
Uno
stupefacente color cobalto, splendente, intenso.
Blu.
Erano
blu cobalto...
Lei
era l’angelo del mio sogno, era lei, quegli occhi li avrei
riconosciuti
ovunque.
Rimasi
a bocca aperta, mentre, involontariamente, alzavo la mano verso di lei.
La
ragazza ebrea, il mio angelo ritrovato, strinse gli occhi ed emise un
gridolino, credendo, forse, che volessi picchiarla; ma si
zittì non appena le
posai il palmo caldo della mia mano sul suo viso.
La
sua pelle era marmorea, fredda e dura come il ghiaccio.
Fremette,
afferrando la mia mano e premendosela di più su quello che
rimaneva della sua
guancia: bramava il calore della mia pelle.
Provai
tenerezza per quella ragazza ebrea, per il mio angelo.
«Come
ti chiami?» le chiesi, ostentando quel tono dolce e gentile
che con lei mi
veniva naturale.
Lei
alzò il capo, fulminandomi con l’oceano dei suoi
occhi. In essi potevo leggere
la tempesta che li scuoteva, quegli occhi erano come quelli
dell’angelo del mio
sogno: erano vivi.
Capii
che era indecisa se rispondermi o meno. Mi scrutò
attentamente dentro, e me
parve che volesse rimescolarmi l’anima in cerca di qualcosa,
tanto era intenso
quello sguardo.
Poi
vide qualcosa in me, quell’angelo. Lo vide, vide
ciò che mi tormentava, ne ero
certo.
Mi
avrebbe salvato, lei? Avrebbe potuto avvolgermi con le sue grandi ali
bianche e
portarmi via da tutto quel dolore, verso la luce?
Decise
di rispondermi, infine. «Charlotte. Io sono Charlotte
Hoffman». La sua voce era
così debole, anche ora che voleva apparirmi vigorosa.
Le
sorrisi, e lei, timida, mi ricambiò: tutto il suo viso
scavato si illuminò, e
per un attimo il mio cuore perse un battito. Era davvero molto bella,
Charlotte.
«Perché
mi ha salvata, sergente? Io sono solo feccia» continuava a
sorridermi, ma capii
che si celava un velo di strafottenza, in quelle parole. Cominciai ad
ammirarla
davvero.
Abbassai
lo sguardo. Io, umile peccatore, mi sentivo in soggezione a confronto
con lei,
pura luce angelica. Aveva carattere, il mio angelo, e la ammiravo
davvero. Ma
come avrei potuto spiegarle il mio tormento interiore?
Rise.
«Non
si preoccupi,» mi rassicurò, «Non
svelerò a nessuno il suo segreto...» mi
strinse la mano, e la sua risata ben presto si tramutò in un
colpo di tosse
violento.
Alzai
lo sguardo e la vidi contorcersi, scossa da convulsioni dovute alla
tosse
troppo accentuata.
Mi
alzai. «Fa troppo freddo per te, qui. Vieni con
me».
Non
sapevo cosa accidenti stessi facendo, ma quando lei mi rivolse uno
sguardo
spaventato e vidi sulle sue labbra bianchissime delle gocce di sangue,
mi
scossi.
Dovevo
fare qualcosa per lei.
Era
il mio angelo, la bella Charlotte.
Le
tesi la mano. «Vieni con me, Charlotte, fidati di
me», cercai di trasmetterle
tutto quello che sentivo dentro. Mi vergognavo di ciò che
ero, di ciò che le
stavo facendo e che facevo a milioni di loro.
L’avrei
salvata. Avrei salvato almeno lei... tese il suo braccio tremante e
avvicinò la
sua mano imbrattata di sangue verso la mia.
Era
grave, Charlotte.
Le
afferrai saldamente la mano e la sollevai da terra, era leggerissima.
La
portai nel mio appartamento, decisi che in totale segretezza
l’avrei fatta
visitare da un medico.
Stavo
rischiando, lo sapevo, ma cosa avevo da perdere? Sentivo che per me la
vita di
questa ragazza, la vita di Charlotte, era di fondamentale importanza.
Volevo
che il mio angelo vivesse. Volevo che le ricrescessero i lunghi capelli
color
miele, che le sue gote si tingessero nuovamente di rosa...
Volevo
questo, per lei, per la ragazza che, apparendomi in sogno, mi aveva
fatto
capire cosa stavo facendo, che era sbagliato. Ciò in cui
avevo creduto di
credere, era sbagliato.
Mi
sentivo legato a Charlotte, lo capii mentre la portavo nel mio
appartamento.
Era come una sorta di incantesimo, iniziato con il sogno e sigillato
con lo
sguardo cobalto che mi aveva lanciato.
Non
era un’ebrea come tante. Lei era il mio angelo, lei era...
La
donna solo per me.
Quando
giunsi nel mio appartamento, la prima cosa che feci fu chiamare un
medico che
si trovava lì e una donna della servitù, alla
quale ordinai di ripulire
Charlotte e di darle un tozzo di pane: sapevo che il suo stomaco ora
non
avrebbe tollerato altro. Ma il medico, dopo una visita, mi disse, in
tono
concitato, che era troppo debole e la malattia, la tubercolosi, era
radicata in
lei.
«La
prego» lo supplicai, «Mi aiuti a
guarirla...»
Lui
gettò uno sguardo terrorizzato alla figura di Charlotte che
giaceva sotto le
coperte del mio letto, con in mano un fazzoletto macchiato di sangue.
Tutto in
lei sembrava morente, tranne i suoi occhi.
Solo
quelli splendevano, incredibilmente assetati di vita...
Le
carezzai il capo, e il dottore sussultò.
«Mi...
mi dispiace, sergente. Si può mettere solo nelle mani di Dio
e pregare che
superi la notte». Mi disse e, in tutta fretta, se ne
andò.
Le
rimasi accanto tutta la notte e pregai, lo feci davvero. Chiesi perdono
a Dio
per tutti i peccati che avevo commesso, gli chiesi di salvarla.
Stringevo
la sua mano, la abbracciavo quando gli attacchi di tosse diventavano
troppo
ardui da sopportare.
E
poi venne l’alba.
La
luce fievole di un raggio di sole le illuminò il volto
pallido e magro. I suoi
occhi scintillarono, incantandomi; tenevo ancora stretta la sua mano,e
lei,
rivolgendomi un debole e stanco sorriso, allungò la mano
verso di me,
sfiorandomi il viso con la punta delle dita.
«Grazie,
Derek...» mormorò, con un sottile filo di voce.
Non mi chiesi neppure come
facesse a conoscere il mio nome.
Mi
abbracciò con i suoi occhi blu cobalto, poi...
Poi
spirò.
La
sua mano ricadde sul materasso, senza vita, lasciando cadere il
fazzoletto
bianco e rosso.
E
io mi sentii morire. Non ero riuscito a salvare la donna solo per me,
il mio
angelo custode. Era morta, e con lei era morta la speranza di redimermi.
Mi
alzai, versando copiose lacrime di dolore, alla vista di quel corpo
senza vita.
Meccanicamente
mi rivolsi verso la finestra. Era appena l’alba, ma potevo
vedere con chiarezza
gli ebrei lavorare duramente.
Magri,
malati denutriti. No, io non volevo questo. Io non sopportavo
più di assistere
a tutto quello che mi circondava...
Senza
sapere quello che facevo, afferrai la pistola.
Piangevo,
mentre mi puntavo l’arma alla tempia. Premetti il grilletto.
Uno
sparo secco quella mattina risuonò a Bergen-Bersen.
***
Quando
aprii gli occhi, ricambiai lo sguardo di un paio di occhi blu cobalto.
Focalizzai meglio l’immagine. Era Charlotte, il mio angelo.
Mi
carezzò il viso.
«Mi
hai salvata» disse, e la sua voce era più forte e
vigorosa di quella notte.
Aveva di nuovo i capelli lunghi e il viso pieno e bellissimo, come il
suo
sorriso.
«E
hai salvato te stesso».
Avvicinò
il viso al mio, e il bacio che mi diede aveva uno strano sapore
dolciastro.