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Autore: keska    08/02/2010    31 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Carlisle» chiamò pacato, non interrompendo il contatto con i miei occhi

Ansimai, boccheggiando, osservando le ciocche ribelli dei capelli rossicci ondeggiare lentamente. Mi strinsi di più a lui, avvinghiandomi completamente al suo corpo e stringendo forte fra le mani la sua chioma bronzea.

«Ti amo» mormorai sulla sua guancia, tremando, sentendo il mio corpo scosso da forti tremiti. Lo baciai con passione, togliendogli, avida, l’inutile respiro.

«Bella» sospirò roco, lasciandosi andare su di me e stringendomi a sua volta, senza gravare con il suo peso su di me.

Sorrisi, chiudendo gli occhi e lasciando che mi baciasse la fronte. Li aprii e presi un profondo respiro, osservando i suoi, ambrati, e aspettando pazientemente che avvenisse l’inevitabile.

 

Quando ebbi nuovamente coscienza del mio corpo mi trovai avvolta in una comoda e calda coperta, spartendo il poco spazio a disposizione sul divano bianco con Edward, le gambe intrecciate alle sue.

Scrutai i suoi occhi, con il fiato ancora corto, cercando di scoprire se stavolta avesse scoperto qualcosa di importante. «Come… come sono andata stavolta?» chiesi mordicchiandomi il labbro, tentando di ironizzare nonostante la stanchezza che mi sentivo addosso.

Mi sistemò una ciocca di capelli che si era appiccicata alla fronte. Sorrise. «Penso che essendone consapevole tu riesca ad avere un miglior controllo di te. Direi che va meglio».

«Oh» feci, quasi imbronciata, «quindi non sei riuscito a scoprire di più».

«Bella» mi rimproverò con la sua proverbiale melodrammaticità «lo sai che non sopporto vederti…».

«Non sopporti vedermi soffrire. Sì, me l’hai ripetuto diverse volte» affermai, divincolandomi dal suo abbraccio e alzandomi con la coperta avvolta intorno al corpo, in cerca della mia biancheria sparsa qua e là, piegandomi per raccoglierla. Mi sollevai, respirando piano per compensare la fatica di quel gesto, «oh, guarda! Abbiamo risparmiato: un reggiseno e tre quarti di slip, questa volta!» lo presi in giro, sventolando i pezzi superstiti e spostando via l’attenzione da me, dalla mia stanchezza, dalla mia sofferenza… cose di cui non mi andava assolutamente di parlare.

In un istante mi sentii afferrare alle spalle, mentre le sue labbra si posavano sul mio collo. «Vorrei ben vedere; se tu fossi un vampiro non rimarrebbe nulla dei miei abiti».

Arrossii violentemente, memore della mia focosità. Mi schiarii la voce, dirigendomi in camera, in cerca di qualcosa di pulito e integro da indossare. «In ogni caso» esordii, riprendendo il discorso interrotto dal mio banale appunto, con l’intento di far valere almeno per una volta le mie ragioni senza che il discorso fosse dirottato direttamente su di me, «lo sai che voglio solo capire. È tutto qui. Dobbiamo cercare di scoprire il più possibile su questa bambina. Questi strani sogni non mi turbano più di tanto» sottolineai sicura, indossando dei nuovi vestiti.

Lo sentii protestare qualcosa, ma non tanto alacremente da spingermi a tacere.

«Infatti» indugiai, indossando un largo maglione «sono dell’avviso che non avremmo bisogno di accettare il patto proposto dal professor Philip; mi sembra molto più un ricatto».

«Ne abbiamo discusso» ribatté tranquillo, sicuramente già vestito di tutto punto. Ero quasi certa che non me l’avrebbe mai data vinta, era una discussione persa in partenza, ma non potevo fare a meno, ancora una volta, di tentare.

Alzai gli occhi al cielo, indossando dei comodi fuseaux e saltellando per farli scorrere lungo le gambe. «Ne abbiamo discusso, dicendo che lo avremmo fatto ancora. Edward, sono più i contro che i pro, e lo sai meglio di me».

Sbucò nella cabina armadio, venendomi incontro e facendo al mio posto un piccolo fiocco sul davanti, appena sulla pancia. «Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile per proteggere te e la bambina. Perché non accettare quello che ci ha offerto lui?».

Dopo la sua proposta, Edward aveva sin da subito detto di voler accettare il patto del professore, nonostante il fatto che continuasse a non sopportarlo. Avrebbe fatto qualunque cosa per avere qualche certezza sulla gravidanza. Non gli avevamo ancora dato una risposta, rimanendo in accordo che quella sera stessa, dopo esserci consultati con gli altri, gliel’avremmo fatto sapere. Lui non aveva aggiunto nient’altro sul suo conto, né risposto a qualsiasi altro nostro quesito. Io non avevo più parlato, rimanendo a osservarlo in silenzio e a disagio.

Sospirai, vedendo mio marito così tranquillo e risoluto. «Perché se lo scoprissero i Volturi ci potrebbero essere mille problemi, perché non mi va che vi arrischiate in un’impresa che non sappiamo quanto possa essere pericolosa, e perché non mi fido di lui. Punto». Protestai, mettendo il broncio e incrociando le braccia sul petto.

Mi guardò, e fui certa che nei suoi occhi ci fosse un immenso divertimento. Oh, sì, ridiamo pure di Bella: la patetica donna incinta! Sentii il consueto divertimento provenire anche dalla bambina. «Amore» mi chiamò calmo «i Volturi non potranno mai punirci per qualcosa che è stato infranto da lui, non con il rischio che c’è che andassimo a raccontare che esiste».

«Ma non voglio che voi rischiate tutto questo per me» ribadii convinta.

«Non rischiamo proprio niente. Philip sa esattamente quello che fa, e a lui, che è un umano, non è successo ancora nulla, fino ad oggi. E per quanto riguarda te» mi precedette, prima che potessi aggiungere qualcosa «vedrai che imparerai a fidarti di lui».

Pensai ai suoi occhietti chiari sulla mia figura e al senso di disagio che ogni volta ne scaturiva. «Certo, lui non fissa te. Fissa me. Fissa continuamente me» brontolai. «Non mi fido. Mi spighi come fai?» gli chiesi, guardandolo torva e pensando a quanto fosse brusco il professore nei suoi confronti. Assurdo. «Lo sopporti meno di me e non riesci neppure a leggergli nel pensiero!» sbottai, pensando alla sconcertante rivelazione, che più di tutte mi aveva convinta a non fidarmi di quell’uomo.

Avevamo infatti scoperto che la fede che si portava al dito non fosse altro che un potente scudo, fisico e mentale, che con il tempo era andato molto affievolendosi. Era stato creato dalla sua stessa moglie, che aveva il potere di trasferire questo tipo di potere in un oggetto. Non più di tre contemporaneamente, comunque. Il piccolo anello nero l’aveva protetto da molti attacchi del mondo sovrannaturale, e riusciva parzialmente a schermare i suoi pensieri. Con questo mi spiegai il perché la bella Caterina fosse tanto amata dai Volturi.

«Perché so che non avere nessuna informazione sulla gravidanza quando possiamo averle è una follia. La settimana scorsa Carlisle ha dovuto farti un altro ciclo di terapia endovenosa per l’anemia. Se succedesse di nuovo e non avessi fatto nulla per contrastarlo? Se i sogni della bambina aumentassero tanto da farti stare peggio? Non possiamo rischiare» fece con logica inoppugnabile. «E poi nonostante non lo sopporti mi fido di lui, e so che non ci, ma soprattutto, ti, farebbe mai del male. Abbiamo votato, e il discorso è chiuso» mi liquidò, afferrando le chiavi dell’auto.

Sospirai, certa che non sarei riuscita a fargli cambiare idea. Né a lui, né ai Cullen, tutti estremamente entusiasti della possibilità di avere notizie e di fare nuove scoperte. Evviva!

Presi un bicchiere d’acqua e lo bevvi in un sorso, tentando di non pensarci; non potevo fare nulla per fargli cambiare idea. Sistemai la mia trousse e il mio vestito, ricoperto dalla grande fodera.

Quella sera, infatti, Edward si sarebbe esibito al “Pantages Theatre”. Ci voleva un bel vestito da sera, così aveva detto Alice, e non mi aveva permesso di obiettare. Avrei passato il pomeriggio a casa loro, con la scusa che presto o tardi sarei finita nelle sue grinfie. Cosa più importante, sarei stata un intero pomeriggio senza Edward.

Mi avviai verso la porta d’ingresso, sbilanciata un po’ dalla piccola pancia in crescita un po’ dall’eccessivo ingombro degli oggetti che portavo.

«Sei incredibile» mormorò divertito Edward, vedendomi ondeggiare.

«Fermo lì, ce la faccio» lo minacciai, brandendo il mio carico sul vialetto della nostra casa, nel breve tragitto fino all’auto.

«Come vuoi» disse, appoggiandosi alla portiera dell’auto con la schiena. Intrecciò le braccia sul petto e aspettò, con un sopracciglio alzato e uno sguardo sarcastico, che m’ingegnassi per scendere i due unici gradini che mi separavano da lui, senza cadere e senza guardarmi i piedi.

Ondeggiai da un lato, appoggiandomi con un fianco alla siepe accanto. Mi morsi il labbro, titubante, su come avrei dovuto affrontare il secondo e valutando il peso sulle due braccia. Decisi di avanzare con in piede destro, appoggiandomi al lato sinistro, ma non trovai il terreno sotto i piedi.

«Fin troppo aggraziata. Mi dispiace amore, ma non abbiamo il tempo di fare una visita al pronto soccorso oggi». Spavaldo mi depositò in auto con la sua forza sovrumana, sistemando in un battibaleno tutte le mie cianfrusaglie nel vano posteriore.

«Molto divertente Edward, davvero molto divertente» sibilai sarcastica «sei peggio di un bambino» lo rimproverai, scuotendo il capo e massaggiandomi la piccola pancia.

 

«Sorellina! Ti vedo radiosa… Vi siete dati da fare, eh?» insinuò Emmett, sollevandomi e facendomi compiere una mezza giravolta.

Arrossii violentemente, pensando alle possibili orecchie indiscrete presenti in quella casa e soprattutto vergognandomi della possibilità che una cosa del genere mi si leggesse in faccia. «Emmett» borbottai, in vago tono di rimprovero.

«Sì, Emmett, lasciala in pace» riprese Edward, trucidando il fratello con lo sguardo.

Lui rise, strafottente come al solito.

Mio marito scosse il capo, contrariato, depositando il mio vestito e la mia roba sul divano più vicino. Lo osservavo fare ogni cosa, in silenzio. Quando ebbe finito venne vicino a me, e mi prese le mani con la sua, grande, posando l’altra sulla pancia.

Mi mancherai. Ce l’avevo sulla punta della lingua, eppure non osavo dirlo. Ero stata io a convincerlo, a spingerlo a buttarsi in quell’impresa. Avevo sognato solo un po’ di normalità nella vita della nostra bambina. C’erano tante altre cose a cui non avevo pensato, come, ad esempio, questa. 

«Mi mancherai» disse al mio posto, risparmiandomi ogni cosa. Ci eravamo più volte separati, per colpa dei miei studi, per colpa della sua natura. Eppure non potevamo fare a meno, di volta in volta, di soffrire anche se solo per un minimo distacco.

Mi gettai con le braccia al suo collo, stringendolo con tutta la forza che pensavo di possedere. «Sarai perfetto stasera» dissi sicura, lasciandogli un bacio sulla fredda guancia. Si scostò baciandomi nuovamente, a sua volta, facendo toccare le nostre labbra.

Poi si staccò, osservandomi con un luccichio negli occhi. Strinse le labbra. Mi pareva assorto. «Carlisle» chiamò infine, pacato, non interrompendo il contatto con i miei occhi.

Non ebbi il tempo di chiedergli perché lo stesse chiamando, né di pensarlo seriamente, che la figura carismatica di mio suocero comparve accanto a noi. «Sì, Edward?» chiese attento, con un sorriso, facendo passare lo sguardo fra me e lui.

Lo fissò un istante attentamente e suo padre fece un passo, avvicinandosi ancor di più a noi. «Carlisle, lo sai che mi fido di te e sai quanto vale la mia stima nei tuoi confronti. Mia moglie stasera, a teatro, sarà sola, e vorrei che ti occupassi di lei e che accompagnassi anche lei, oltre a Esme».

Arrossii violentemente, comprendendo le sue intenzioni, mentre Edward posava la mia mano che aveva fra le sue su quella di Carlisle. «Ed-Edward» balbettai sgomenta. Come gli veniva in mente una cosa simile? Mi sentivo più o meno come in uno di quei film pieni di lunghi abiti vaporosi e ore e ore di estenuanti balli.

Eppure, quando Carlisle gli rispose, sembrava estremamente serio. «Certo Edward, accompagnerò io Bella stasera».

«M-ma… io…» farfugliai a disagio, completamente rossa in viso.

«Povera ragazza» commentò la voce di Esme, sulla porta del soggiorno, «non vi accorgete quanto la mettete in difficoltà con queste cose d’altri tempi? Oh, cara. Non ti curare di questi schiocchini» affermò venendomi accanto in un secondo e prendendomi per le spalle, trascinandomi con sé «vieni con me. Sono sicura che non hai mangiato abbastanza! Ti preparo dei dolci, ne vuoi?».

Circa due ore più tardi, dopo essermi adeguatamente salutata con Edward, avevo preso il mio posto sul deserto tavolo da pranzo, impegnata con un libro per i prossimi esami. Molte volte ebbi l’impressione di sentire lo sguardo di Carlisle su di me, seduto sul divano alle mie spalle.

Di certo la storia dell’ufficialità per la ricerca del mio accompagnatore mi aveva a dir poco lasciata basita. Poi però, mentre le parole del grosso tomo sotto i miei occhi continuavano a scorrere senza senso, avevo riflettuto. Per quanto Edward dimostrasse di essere in tutto e per tutto umano, non poteva rinnegare la sua natura. Era un vampiro, un vampiro con un secolo d’età. Rabbrividii, quando pensai a quella di Carlisle.

«Hai freddo?» mi chiese gentile la sua voce, facendomi tornare con i pensieri al presente.

Mi voltai verso di lui, togliendomi la matita con cui stavo giocherellando dalla bocca. «No, sto bene… credo» cincischiai. Fui certa che in quell’istante qualcuno, in casa, stesse accendendo i riscaldamenti.

Mi sorrise, ritornando con lo sguardo su un grosso libro consunto che reggeva con compostezza fra le mani.

Sbuffai, passando nervosamente le mani fra i capelli, e fermandoli in una crocchia asimmetrica con una penna. Mi stropicciai gli occhi. Mi sentivo assonnata, probabilmente a causa del controllo che la bambina aveva su di me con i suoi sogni.

«Qualcosa non va?» mi chiese Carlisle, con la sua solita discrezione. Faceva parte del patto che aveva fatto con Edward?

A passo umano, decisamente a mio beneficio, venne a sedersi sulla sedia accanto alla mia. «No» borbottai. Presi un respiro, incerta se continuare. «Sono solo stanca» dissi infine, abbassando lo sguardo.

«Forse dovresti rallentare un po’ il ritmo. In questi giorni ti stai impegnando molto per l’università» buttò lì serenamente.

Mi misi una mano sulla pancia, sentendo la bambina muoversi. «Non mi va di essere discriminata solo perché sono incinta» affermai convinta, sollevando i miei occhi sui suoi con determinazione.

Mi sorrise teneramente. «Non lo dico perché sei incinta. A mio parere sarebbe un ritmo troppo veloce anche per una qualsiasi ragazza» ribatté sincero.

«Devo solo finire questo» chiarii «devo fare tre esami, tutti lo stesso giorno, appena dopo Natale. E poi sarò libera fino a giugno; devo affrontare quella sessione d’esame prima di poter dare la prima tesi, e siccome non so quanto mi occuperà la nascita della bambina, devo cercare di anticipare quanto più posso».

«Vedo che hai pianificato tutto quanto. Ma Bella, non darti fretta. Avrai un’eternità per fare tutto, e adesso sei molto stanca». Il suo non sembrava un ordine, un’ammonizione, ma molto più un consiglio da padre.

Cercai di dissimularlo, conscia che presto, come spesso mia accadeva, avrei nuovamente acquisito appieno le forze. «Ce la faccio, sul serio. Posso controllare quello che succede alla bambina, non è un problema».

«Bene» mormorò con un sorriso, ritornando al suo divano e al suo libro.

Dopo un’altra ora passata sui libri pensai che chiaramente qualcuno avesse acceso i riscaldamenti. Lasciai cadere la matita mangiucchiata sul tavolo e vagai verso la cucina alla ricerca di un rinfrescante bicchiere d’acqua. Lì trovai Esme intenta a cucinare dolci per me. Un’immagine decisamente incantevole, quasi uscita da una fiaba. Mi sedetti sulla penisola della cucina, sorseggiando la mia acqua e massaggiando la pancia nel tentativo di far cessare le capriole della bambina. Si agitava sempre, quando sentivo caldo.

«Tutto bene cara?» chiese, lanciandomi una rapida occhiata fra un biscotto e l’altro.

Annuii. «Perché Edward ha chiesto a Carlisle di accompagnarmi?» chiesi curiosa, cambiando discorso.

Rise brevemente, una piccola delizia per l’udito. «Beh. È così che si usa fra gentiluomini. Non voleva che andassi a teatro non accompagnata. È sconveniente per una donna. Soprattutto se questa è in dolce attesa».

«Capisco» cincischiai, saltando giù dallo sgabello. «Oh, Esme. Puoi spegnere i riscaldamenti?» chiesi con voluta leggerezza, tentando di non dare a vedere quanto quel calore mi turbasse.

«Ma certo» sorrise, scomparendo e riapparendo in un attimo. «Ecco. Alice arriverà fra mezz’ora, per prepararti» mi informò pacata, pulendosi le mani dalla farina, strofinandole una contro l’altra. Le resi un’occhiata che doveva essere piuttosto eloquente, tanto da spingerla a deliziarmi ancora con una sua risata.

Mi trascinai fino alla sala da pranzo, con l’intento di raccogliere i miei libri, facendomi aria con una mano contro la calura. Non appena arrivai allo stipite della porta, però, sentii un’accentuata sensazione di leggerezza alla testa e per un attimo il piano del pavimento s’inclinò da un lato. Sbattei le palpebre, strizzando gli occhi e appoggiandomi alla porta con una mano.

«Tutto bene?» alla voce di Carlisle fu accompagnato un notevole sostegno sotto le mie braccia.

«Si… è solo… un po’ la testa…» mormorai, sentendomi guidare verso il divano. Sentii la sua mano fredda sulla fronte, e dopo pochi secondi la vista tornò piuttosto nitida, tanto da permettermi di mettere a fuoco i suoi occhi chiari. Spostò la mano con cui mi stava sorreggendo sul polso.

«Sei un po’ ipotesa. Stai meglio?» mi chiese scrutandomi.

Piuttosto che muovere la testa e rischiare di scatenare una nuova ondata di vertigini preferii mormorare un flebile assenso.

Annuì. «Esme» chiamò pacato «per favore porta un succo o una limonata per Bella» poi si rivolse a me, poggiando la mano fredda sulla mia guancia. «Anche se non sei più anemica come prima hai ancora l’emoglobina un po’ bassa. Magari per la settimana prossima valutiamo l’ipotesi di un altro ciclo di terapia in vena, ve bene?» fece cortese, studiandomi.

«Mi sento già meglio».

Mi sorrise. «Bene. Hai sempre avuto la pressione un po’ bassa, potresti essere soggetta spesso a questi episodi, in questo periodo della gestazione sono più frequenti».

Esme mi portò un bicchiere di spremuta e un piattino con un pezzo di torta. «Grazie» le disse Carlisle, accompagnando la sua dolcezza verso la moglie con lo sguardo «se ti dovesse capitare voglio che bevi possibilmente qualcosa di zuccherato, che stai tranquilla, e se ne senti la necessità ti stendi. Evita i luoghi caldi e portati delle caramelle in borsa, va bene?».

«Sì, grazie Carlisle» mormorai, prendendo un lungo sorso di aranciata.

Mi guardò a lungo, silenzioso. «Edward ha ragione, lo sai. Quando avremo più informazioni saremo senza dubbio più tranquilli».

Sospirai, riconoscendo la verità nelle sue parole. «La decisione è stata presa, ormai».

Il resto del pomeriggio lo passai con Alice, e aldilà di tutto, mi concessi di riflettere su quello che presto sarebbe avvenuto. Subito dopo l’esibizione di Edward, a cui il professor Philip avrebbe presenziato, gli avremmo comunicato la nostra decisione.

Sapevo che era la scelta giusta, ma avevo paura. Paura per loro, paura per Edward, paura per la bambina. Mi rendevo conto che accettare, sarebbe andato a svantaggio di tutti men che mio. Non farlo, invece, sarebbe andato solo a mio svantaggio. Perfetto! Perché non potevano accettarlo in pace? Ce la saremmo cavata, da soli, senza problemi.

Già non sopportavo di sapere Emmett, Rosalie, Alice e Jasper lontani da casa, per la maggior parte del tempo, per cercare l’origine di chissà quale leggenda su dei mezzi vampiri che avevo scoperto esistere realmente. Figuriamoci accettare che affrontassero un’impresa come quella di ricercare una mezza vampira sperduta chissà dove e in compagnia di chissà chi. L’unica fortuna era che Edward sarebbe rimasto con me. Ero egoista, infinitamente egoista, lo sapevo. Eppure sapevo anche quanto avrei sofferto nel caso in cui mi sarei dovuta separare da lui.

Il viaggio in auto verso il “Pantages Theatre” di Tracoma durò all’incirca due ore e fu per lo più silenzioso. Mi diede un’altra eccellente occasione per rimanere a pensare. Arrivai alla conclusione che potevo fare davvero ben poco per far cambiare idea a Edward o a uno qualsiasi degli altri Cullen.

Cominciai a pensare, però, a quale melodia avesse deciso di suonare. Non mi aveva voluto svelare questo segreto fino alla fine. Mi avrebbe sorpreso, ne ero certa. E di sicuro la sua esibizione sarebbe stata perfetta… tanto da costringerlo a inserire alcune imperfezioni.

«Signore» mormorò Carlisle in cima all’ampia scalinata.

Un ragazzo in frac prese i nostri soprabiti, lasciando vedere la linea lunga e flessuosa che il mio vestito argentato disegnava sulla pancia. Quando ero a casa, davanti a uno specchio magari, mi ero più volte fermata ad osservarla mettendomi di profilo e stando ore a contemplare la mia immagine. Tuttavia, molto più spesso mi capitava di abbassare appena il collo, e vedere appena, oltre quella piccola collina, la punta dei piedi.

«Siete incantevoli» commentò Carlisle, facendo il baciamano a entrambe. Ero sicura che Esme sarebbe diventata, se ne avesse avuto l’opportunità, del mio stesso color rosso acceso.

Impallidii, quando comparai mentalmente l’altezza dei miei tacchi e il numero di gradini che avrei dovuto scendere. Carlisle mi sorrise rassicurante, accompagnando con un braccio sua moglie, e con altro, forte, me.

«Sei nervosa?» mi chiese Carlisle a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio ma non voltandosi verso di me. Lo spettacolo era sul punto di cominciare, e a illuminare l’immensa sala c’erano delle grandi luci circolari di colore giallo, poste a intervallo fra i palchi, quella sera sgombri.

Deglutii, osservando i pezzettini che rimanevano del mio depliant. Dovetti fermare l’impulso di passarmi una mano fra i capelli, ricordandomi che così facendo avrei rovinato una complicata acconciatura piena di fermagli luccicanti. «Solo un po’» ammisi riluttante. Presi un respiro, ricordandomi di una cosa. «Gli altri?» chiesi ansiosa.

«Sono passati a prendere tuo padre. Arriveranno a momenti. Rilassati, Bella» disse, fermando con la sua le mie mani, intente a tagliuzzare la carta.

Presi un grosso respiro, facendo calmare, insieme a me, la bambina. Come previsto gli altri arrivarono pochi minuti più tardi, appena in tempo per l’inizio dello spettacolo. Edward, come nuovo artista, sarebbe stato uno dei primi a esibirsi, in una serata dedicata alternativamente al balletto e al piano.

Mio padre era indiscutibilmente più nervoso di me, non tanto perché fosse fuori luogo, quanto più per quanto si sentisse un pesce fur d’acqua.

Sentivo il cuore sussultare ogni volta che m’immaginavo che dai quei pesanti drappi bordeaux sarebbe comparso un meraviglioso sorriso e una splendida chioma rossiccia.

Al contrario di quanto mi sarei aspettata, però, il cuore rallentò i suoi battiti e ogni ansia sparì, quando realmente lo vidi comparire sul palco. Era lui, Edward, mio marito, e sarebbe stato perfetto, ne ero certa.

E così fu. Così, seguii la sua immagine mentre con carisma ed eleganza si spostava lungo il palco, andandosi a sedere sullo sgabello nero e imbottito. Così, vidi le sue mani e le sue dita posarsi sui tasti neri e avorio e suonare una meravigliosa melodia. Sapevo che ogni cosa sarebbe stata perfetta, l’avevo immaginato, mille volte, nella mia mente. Sapevo perfettamente quanto la bambina avrebbe apprezzato quelle note così dolci e musicali.

Fu come quando sei piccola, e aspetti per un intero mese il giorno del tuo compleanno, aspettando i giorni che mancano. E poi c’è la festa, ci sono i tuoi piccoli amici, la torta e tanta panna. E quel giorno ti sembra di non viverlo mai totalmente appieno, di non sfruttarlo abbastanza. Ti senti piena e vuota, ma capisci, alla fine, che tutto è andato proprio come doveva andare.

Il forte applauso delle persone accanto a me ruppe quasi la mia bolla, e mi sollevai fluidamente, insieme agli altri, applaudendo ancora e osservando fisso negli occhi mio marito, che a sua vota non guardava che me.

«Bella, eri uno spasso, non la smettevi di piangere» ridacchiò Emmett, schernendomi ancora.

«No, invece» ruggii, tirando su col naso e cercando di cancellarmi le ultime tracce delle lacrime infami dagli occhi.

Jasper, che camminava nei lunghi corridoi circolari accanto a me, mi posò una mano sulla spalla, infondendomi un po’ di serenità. Alice gli prese la mano, continuando a camminare al mio passo. Ero giusto un po’ lenta, solo perché non volevo rischiare di inciampare e rompermi l’osso del collo su quegli esorbitanti tacchi. Gli altri avevano già raggiunto Edward nel suo camerino, mentre loro e Emmett, che era rimasto con me solo per prendermi in giro, erano rimasti con me.

Alice lanciò un’occhiata veloce a suo marito, e poi schizzò in avanti, insieme a Emmett.

Sbuffai. «Sono troppo lenta anche per lei, ora?» chiesi massaggiandomi la pancia. La bambina si era piuttosto agitata durante l’esibizione del padre. Causa mia, anche.

Jasper mi sorrise, carismatico, e sentii un altro po’ di tranquillità fluire in me. «Ha avuto una visione. Il professor Philip ci raggiungerà fra dieci minuti, è andata a dirlo agli altri».

«Capisco» commentai, e sentii in un angolo della coscienza un certo fastidio per non poter essere realmente infastidita.

«Amore» mi chiamò Edward non appena entrai nel suo camerino, dove già era presente il resto della famiglia.

Jasper staccò la mano dalla mia spalla, e ringraziai mille volte il fatto che non fossi più sottoposta al suo potere. «Edward» lo chiamai, e lasciai che annullasse la distanza fra di noi, poggiando le labbra sulle mie. Si staccò un attimo, ma lo rincorsi, strappandogli altri due veloci baci.

Mi osservò, adorante, facendomi imporporare le guance. «Sei stupenda» soffiò, posando una mano sulla pancia e muovendola piano, circolarmente. Presi un respiro, posando la fronte sul suo petto, quando la bimba iniziò a muoversi impetuosamente.

Spostai il capo di lato. «Dov’è mio padre?».

«È andato via» ripose Rose «sembrava… che fosse urgente» disse, contenendo un piccolo sorriso.

Sorrisi anch’io, al pensiero del disagio di mio padre. Un sorriso che durò ben poco, considerando quanto velocemente la porta di aprì, rivelando un’immagine che riusciva in ogni caso a mettermi a disagio.

«Buonasera» salutò pacato, per niente disturbato dalla presenza di tutti quei vampiri.

Carlisle si fece avanti, salutandolo a sua volta a nome della famiglia. Sentii la presa di Edward farsi più forte intorno alle mie spalle proprio mentre gli occhi cerulei del professore si posavano su me.

«Mi risparmi i convenevoli» affermò brusco, fermando le cortesi parole di Carlisle, e spostando finalmente lo sguardo su di lui «cosa avete deciso?».

Carlisle aspettò un secondo, poi parlò. «Accettiamo» disse solo.

«Oh, ma bene» affermò il professore, zoppicando verso il centro della stanza. «Spero non ci mettiate così tanto tempo anche a mettervi all’opera per cominciare a cercare mia figlia; tutte queste baggianate, puah» fece disgustato, lasciandosi cadere sulla sedia rossa, imbottita, accanto alla scrivania. «Da dove vogliamo cominciare?» chiese, aggrottando le bianche sopracciglia.

Tutti attesero in silenzio, destabilizzati forse dalla sua fretta.

«Mia figlia si trova di sicuro in America. Le sue ultime tracce erano in Messico. Ha viaggiato sola, è stata a volte catturata dai licantropi, fugge da loro. Ha la dote della ricerca e della fuga, per questo è così difficile individuarla. Non spaventatela. La riconoscerete perché sarà lei a farsi riconoscere. Ha quasi settant’anni anni, ne dimostra quindici. Questo, per ora, vi basterà. Domani vi porterò una mappa con i luoghi da perlustrare».

Tutti i vampiri rimasero in silenzio, soppesando le sue parole. Anch’io, nella mia mente, pensavo a quello che aveva detto. Sua figlia dimostrava molti meno anni di quelli che aveva? Allora sarebbe stato lo stesso anche per la mia. Non ero mai stata brava in matematica, e con qualche sforzo feci un calcolo mentale: un anno dimostrato corrispondeva a circa quattro anni e mezzo effettivi? La mia bambina sarebbe cresciuta così lentamente? E poi?

Jasper ruppe per primo il silenzio. «Forse dovrebbe darci più informazioni sui mezzi vampiri, anche per agevolare la ricerca, come d’altronde era d’accordo» dichiarò sicuro, avanzando di un passo.

Philip rise, stiracchiando le rughe ai lati della sua bocca. «Withlock, non è così? Beh… andiamoci piano. Le cose devono essere ben commisurate».

«Non ci tireremo indietro dal nostro impegno, può fidarsi di noi» affermò Carlisle «vogliamo solo avere più spiegazioni possibile, almeno sulla gravidanza, per essere preparati prima che accada qualcosa».

Gli occhi del professore saettarono su di me, facendomi violentemente arrossire e battere forte il cuore. Mi rintanai con il viso sul petto di Edward, a disagio, e sentii le sue mani fredde accarezzarmi i capelli.

«Ahh» brontolò acido. «Come posso sperare che mi aiutiate, se non capite neppure le cose più semplici?».

«Si spieghi meglio» disse fredda Rose.

Sbuffò. «Non vi siete resi conto, pur essendo dei vampiri, di quello che è accaduto a Isabella».

Sollevai nuovamente il volto, scontrandomi con i suoi occhi. Edward mi accarezzò una guancia, e quelli del professore si spostarono verso il suo viso.

«La bambina nascerà in nove mesi. Per ora è lei che ha subito un notevole rallentamento della crescita».

Spalancai la bocca, sconvolta come il resto dei vampiri. Cosa voleva dire?

«Non ci basta» replicò Edward, facendo un passo in avanti.

Il volto del professore si indurì. «Vi dirò il resto dopo che avrete iniziato le ricerche».

Mio marito scosse il capo, muovendosi appena di lato per coprirmi, come se volesse farmi scudo con il suo corpo. «Ci serve adesso. Bella ha avuto una crisi di grave anemia al terzo mese di gestazione. L’ha superata con grande difficoltà e un supporto farmacologico non indifferente, ma ha rischiato la vita».

Gli occhietti cerulei del professore saettarono sul mio volto.

Tremai.

«Adesso sta meglio» sibilò stentoreo, teso nella sua posizione.

Carlisle lo guardò, serio. «Il trend dell’emoglobina è di nuovo in discesa. La richiesta sta progressivamente diventando maggiore della capacità dell’organismo di Bella di produrne di nuovo».

Il professore mi guardò ancora, per lungo tempo, serissimo.

Mi portai una mano alla pancia, distogliendo la sguardo. Sentii un movimento ed un colpetto. Forse era un piedino. La bambina stava diventando sempre più forte.

Edward allungò una mano indietro, accarezzandomi un fianco e rassicurandomi.

Jasper gli fece un cenno, ma lui lo bloccò. Non voleva che usasse il suo potere su di me, non ancora.

«E va bene!» esclamò il professore spazientito, sollevando le mani in cielo. Ringhiò, inquieto. «Come fate a non arrivarci?» esclamò arrabbiato, facendo passare rapidamente lo sguardo su tutti noi. «Dovete darle ciò di cui ha bisogno: sangue!».

«Carlisle glielo ha dato» ribatté Rosalie a denti stretti «è stato impossibile fare una trasfusione».

Serrò i denti, sbuffando. Prese dei respiri veloci, contrariato. Poi puntò i suoi occhi nei miei, inchiodandomi con il suo sguardo. «Non una trasfusione. Lo deve bere».

Presi un respiro, sentendomi improvvisamente senza fiato.

   
 
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