Ansimai,
boccheggiando, osservando le ciocche ribelli dei capelli rossicci
ondeggiare
lentamente. Mi strinsi di più a lui, avvinghiandomi
completamente al suo corpo
e stringendo forte fra le mani la sua chioma bronzea.
«Ti amo»
mormorai
sulla sua guancia, tremando, sentendo il mio corpo scosso da forti
tremiti. Lo
baciai con passione, togliendogli, avida, l’inutile respiro.
«Bella»
sospirò roco,
lasciandosi andare su di me e stringendomi a sua volta, senza gravare
con il
suo peso su di me.
Sorrisi, chiudendo gli
occhi e lasciando che mi baciasse la fronte. Li aprii e presi un
profondo
respiro, osservando i suoi, ambrati, e aspettando pazientemente che
avvenisse
l’inevitabile.
Quando ebbi nuovamente
coscienza del mio corpo mi trovai avvolta in una comoda e calda
coperta,
spartendo il poco spazio a disposizione sul divano bianco con Edward,
le gambe
intrecciate alle sue.
Scrutai i suoi occhi,
con il fiato ancora corto, cercando di scoprire se stavolta avesse
scoperto
qualcosa di importante. «Come… come sono andata
stavolta?» chiesi
mordicchiandomi il labbro, tentando di ironizzare nonostante la
stanchezza che
mi sentivo addosso.
Mi sistemò una ciocca
di capelli che si era appiccicata alla fronte. Sorrise.
«Penso che essendone
consapevole tu riesca ad avere un miglior controllo di te. Direi che va
meglio».
«Oh» feci, quasi imbronciata,
«quindi non sei riuscito a
scoprire di più».
«Bella» mi
rimproverò
con la sua proverbiale melodrammaticità «lo sai
che non sopporto vederti…».
«Non sopporti vedermi
soffrire. Sì, me l’hai ripetuto diverse
volte» affermai, divincolandomi dal suo
abbraccio e alzandomi con la coperta avvolta intorno al corpo, in cerca
della
mia biancheria sparsa qua e là, piegandomi per raccoglierla.
Mi sollevai,
respirando piano per compensare la fatica di quel gesto, «oh,
guarda! Abbiamo
risparmiato: un reggiseno e tre quarti di slip, questa
volta!» lo presi in
giro, sventolando i pezzi superstiti e spostando via
l’attenzione da me, dalla
mia stanchezza, dalla mia sofferenza… cose di cui non mi
andava assolutamente di
parlare.
In un istante mi
sentii afferrare alle spalle, mentre le sue labbra si posavano sul mio
collo.
«Vorrei ben vedere; se tu fossi un vampiro non rimarrebbe
nulla dei miei
abiti».
Arrossii
violentemente, memore della mia focosità.
Mi schiarii la voce,
dirigendomi in camera, in cerca di qualcosa di pulito e integro
da
indossare. «In ogni caso» esordii, riprendendo il
discorso interrotto dal mio
banale appunto, con l’intento di far valere almeno per una
volta le mie ragioni
senza che il discorso fosse dirottato direttamente su di me,
«lo sai che voglio
solo capire. È tutto qui. Dobbiamo cercare di scoprire il
più possibile su
questa bambina. Questi strani sogni non mi turbano più di
tanto» sottolineai
sicura, indossando dei nuovi vestiti.
Lo sentii protestare
qualcosa, ma non tanto alacremente da spingermi a tacere.
«Infatti» indugiai, indossando un largo
maglione «sono
dell’avviso che non avremmo bisogno di accettare il patto
proposto dal
professor Philip; mi sembra molto più un ricatto».
«Ne abbiamo
discusso»
ribatté tranquillo, sicuramente già vestito di
tutto punto. Ero quasi certa che
non me l’avrebbe mai data vinta, era una discussione persa in
partenza, ma non
potevo fare a meno, ancora una volta, di tentare.
Alzai gli occhi al
cielo, indossando dei comodi fuseaux e saltellando per farli scorrere
lungo le
gambe. «Ne abbiamo discusso, dicendo che lo avremmo fatto
ancora. Edward, sono
più i contro che i pro, e lo sai meglio di me».
Sbucò nella cabina
armadio, venendomi incontro e facendo al mio posto un piccolo fiocco
sul
davanti, appena sulla pancia. «Abbiamo bisogno di tutto
l’aiuto possibile per
proteggere te e la bambina. Perché non accettare quello che
ci ha offerto
lui?».
Dopo la sua proposta,
Edward aveva sin da subito detto di voler accettare il patto del
professore,
nonostante il fatto che continuasse a non sopportarlo. Avrebbe fatto
qualunque
cosa per avere qualche certezza sulla gravidanza. Non gli avevamo
ancora dato
una risposta, rimanendo in accordo che quella sera stessa, dopo esserci
consultati con gli altri, gliel’avremmo fatto sapere. Lui non
aveva aggiunto
nient’altro sul suo conto, né risposto a qualsiasi
altro nostro quesito. Io non
avevo più parlato, rimanendo a osservarlo in silenzio e a
disagio.
Sospirai, vedendo mio
marito così tranquillo e risoluto.
«Perché se lo scoprissero i Volturi ci
potrebbero essere mille problemi, perché non mi va che vi
arrischiate in un’impresa
che non sappiamo quanto possa essere pericolosa, e perché
non mi fido di lui.
Punto». Protestai, mettendo il broncio e incrociando le
braccia sul petto.
Mi guardò, e fui certa
che nei suoi occhi ci fosse un immenso divertimento. Oh, sì,
ridiamo pure di
Bella: la patetica donna incinta! Sentii il consueto divertimento
provenire
anche dalla bambina. «Amore» mi chiamò
calmo «i Volturi non potranno mai
punirci per qualcosa che è stato infranto da lui, non con il
rischio che c’è
che andassimo a raccontare che esiste».
«Ma non voglio che voi
rischiate tutto questo per me» ribadii convinta.
«Non rischiamo proprio
niente. Philip sa esattamente quello che fa, e a lui, che è
un umano, non è
successo ancora nulla, fino ad oggi. E per quanto riguarda
te» mi precedette,
prima che potessi aggiungere qualcosa «vedrai che imparerai a
fidarti di lui».
Pensai ai suoi
occhietti chiari sulla mia figura e al senso di disagio che ogni volta
ne
scaturiva. «Certo, lui non fissa te. Fissa me. Fissa
continuamente me»
brontolai. «Non mi fido. Mi spighi come fai?» gli
chiesi, guardandolo torva e
pensando a quanto fosse brusco il professore nei suoi confronti.
Assurdo. «Lo
sopporti meno di me e non riesci neppure a leggergli nel
pensiero!» sbottai,
pensando alla sconcertante rivelazione, che più di tutte mi
aveva convinta a
non fidarmi di quell’uomo.
Avevamo infatti
scoperto che la fede che si portava al dito non fosse altro che un
potente
scudo, fisico e mentale, che con il tempo era andato molto
affievolendosi. Era
stato creato dalla sua stessa moglie, che aveva il potere di trasferire
questo
tipo di potere in un oggetto. Non più di tre
contemporaneamente, comunque. Il
piccolo anello nero l’aveva protetto da molti attacchi del
mondo
sovrannaturale, e riusciva parzialmente a schermare i suoi pensieri.
Con questo
mi spiegai il perché la bella Caterina fosse tanto amata dai
Volturi.
«Perché so che
non
avere nessuna informazione sulla gravidanza quando possiamo averle
è una
follia. La settimana scorsa Carlisle ha dovuto farti un altro ciclo di
terapia
endovenosa per l’anemia. Se succedesse di nuovo e non avessi
fatto nulla per
contrastarlo? Se i sogni della bambina aumentassero tanto da farti
stare
peggio? Non possiamo rischiare» fece con logica
inoppugnabile. «E poi
nonostante non lo sopporti mi fido di lui, e so che non ci, ma
soprattutto, ti,
farebbe mai del male. Abbiamo votato, e il discorso è
chiuso» mi liquidò,
afferrando le chiavi dell’auto.
Sospirai, certa che
non sarei riuscita a fargli cambiare idea. Né a lui,
né ai Cullen, tutti
estremamente entusiasti della possibilità di avere notizie e
di fare nuove
scoperte. Evviva!
Presi un bicchiere
d’acqua e lo bevvi in un sorso, tentando di non pensarci; non
potevo fare nulla
per fargli cambiare idea. Sistemai la mia trousse e il mio vestito,
ricoperto
dalla grande fodera.
Quella sera, infatti,
Edward si sarebbe esibito al “Pantages
Theatre”. Ci voleva un bel vestito da sera,
così aveva detto Alice, e non
mi aveva permesso di obiettare. Avrei passato il pomeriggio a casa
loro, con la
scusa che presto o tardi sarei finita nelle sue grinfie. Cosa
più importante,
sarei stata un intero pomeriggio senza Edward.
Mi avviai verso la
porta d’ingresso, sbilanciata un po’ dalla piccola
pancia in crescita un po’ dall’eccessivo
ingombro degli oggetti che portavo.
«Sei
incredibile»
mormorò divertito Edward, vedendomi ondeggiare.
«Fermo lì, ce
la
faccio» lo minacciai, brandendo il mio carico sul vialetto
della nostra casa,
nel breve tragitto fino all’auto.
«Come vuoi»
disse,
appoggiandosi alla portiera dell’auto con la schiena.
Intrecciò le braccia sul
petto e aspettò, con un sopracciglio alzato e uno sguardo
sarcastico, che
m’ingegnassi per scendere i due unici gradini che mi
separavano da lui, senza
cadere e senza guardarmi i piedi.
Ondeggiai da un lato,
appoggiandomi con un fianco alla siepe accanto. Mi morsi il labbro,
titubante,
su come avrei dovuto affrontare il secondo e valutando il peso sulle
due
braccia. Decisi di avanzare con in piede destro, appoggiandomi al lato
sinistro, ma non trovai il terreno sotto i piedi.
«Fin troppo
aggraziata. Mi dispiace amore, ma non abbiamo il tempo di fare una
visita al
pronto soccorso oggi». Spavaldo mi depositò in
auto con la sua forza sovrumana,
sistemando in un battibaleno tutte le mie cianfrusaglie nel vano
posteriore.
«Molto divertente
Edward, davvero molto divertente» sibilai sarcastica
«sei peggio di un bambino»
lo rimproverai, scuotendo il capo e massaggiandomi la piccola pancia.
«Sorellina! Ti vedo
radiosa… Vi siete dati da fare, eh?»
insinuò Emmett, sollevandomi e facendomi
compiere una mezza giravolta.
Arrossii
violentemente, pensando alle possibili orecchie indiscrete presenti in
quella
casa e soprattutto vergognandomi della possibilità che una
cosa del genere mi
si leggesse in faccia. «Emmett» borbottai, in vago
tono di rimprovero.
«Sì, Emmett,
lasciala
in pace» riprese Edward, trucidando il fratello con lo
sguardo.
Lui rise, strafottente
come al solito.
Mio marito scosse il
capo, contrariato, depositando il mio vestito e la mia roba sul divano
più
vicino. Lo osservavo fare ogni cosa, in silenzio. Quando ebbe finito
venne
vicino a me, e mi prese le mani con la sua, grande, posando
l’altra sulla
pancia.
Mi mancherai. Ce l’avevo sulla punta
della lingua, eppure non
osavo dirlo. Ero stata io a convincerlo, a spingerlo a buttarsi in
quell’impresa. Avevo sognato solo un po’ di
normalità nella vita della nostra
bambina. C’erano tante altre cose a cui non avevo pensato,
come, ad esempio,
questa.
«Mi mancherai»
disse al mio posto, risparmiandomi ogni cosa. Ci eravamo più
volte separati,
per colpa dei miei studi, per colpa della sua natura. Eppure
non potevamo fare a meno, di volta in volta, di soffrire anche se solo
per un
minimo distacco.
Mi gettai con le
braccia al suo collo, stringendolo con tutta la forza che pensavo di
possedere.
«Sarai perfetto stasera» dissi sicura, lasciandogli
un bacio sulla fredda
guancia. Si scostò baciandomi nuovamente, a sua volta,
facendo toccare le
nostre labbra.
Poi si staccò,
osservandomi con un luccichio negli occhi. Strinse le labbra. Mi pareva
assorto. «Carlisle» chiamò infine,
pacato, non interrompendo il contatto con i
miei occhi.
Non ebbi il tempo di
chiedergli perché lo stesse chiamando, né di
pensarlo seriamente, che la figura
carismatica di mio suocero comparve accanto a noi.
«Sì, Edward?» chiese
attento, con un sorriso, facendo passare lo sguardo fra me e lui.
Lo fissò un istante
attentamente e suo padre fece un passo, avvicinandosi ancor di
più a noi.
«Carlisle, lo sai che mi fido di te e sai quanto vale la mia
stima nei tuoi
confronti. Mia moglie stasera, a teatro, sarà sola, e vorrei
che ti occupassi
di lei e che accompagnassi anche lei, oltre a Esme».
Arrossii
violentemente, comprendendo le sue intenzioni, mentre Edward posava la
mia mano
che aveva fra le sue su quella di Carlisle.
«Ed-Edward» balbettai sgomenta.
Come gli veniva in mente una cosa simile? Mi sentivo più o
meno come in uno di
quei film pieni di lunghi abiti vaporosi e ore e ore di estenuanti
balli.
Eppure, quando
Carlisle gli rispose, sembrava estremamente serio. «Certo
Edward, accompagnerò
io Bella stasera».
«M-ma…
io…» farfugliai
a disagio, completamente rossa in viso.
«Povera
ragazza»
commentò la voce di Esme, sulla porta del soggiorno,
«non vi accorgete quanto
la mettete in difficoltà con queste cose d’altri
tempi? Oh, cara. Non ti curare
di questi schiocchini»
affermò venendomi accanto in
un secondo e prendendomi per le spalle, trascinandomi con sé
«vieni con me.
Sono sicura che non hai mangiato abbastanza! Ti preparo dei dolci, ne
vuoi?».
Circa due ore più
tardi, dopo essermi adeguatamente salutata con Edward, avevo preso il
mio posto
sul deserto tavolo da pranzo, impegnata con un libro per i prossimi
esami. Molte
volte ebbi l’impressione di sentire lo sguardo di Carlisle su
di me, seduto sul
divano alle mie spalle.
Di certo la storia
dell’ufficialità per la ricerca del mio
accompagnatore mi aveva a dir poco
lasciata basita. Poi però, mentre le parole del grosso tomo
sotto i miei occhi
continuavano a scorrere senza senso, avevo riflettuto. Per quanto
Edward
dimostrasse di essere in tutto e per tutto umano, non poteva rinnegare
la sua
natura. Era un vampiro, un vampiro con un secolo
d’età. Rabbrividii, quando
pensai a quella di Carlisle.
«Hai freddo?»
mi
chiese gentile la sua voce, facendomi tornare con i pensieri al
presente.
Mi voltai verso di
lui, togliendomi la matita con cui stavo giocherellando dalla bocca.
«No, sto
bene… credo» cincischiai. Fui certa che in
quell’istante qualcuno, in casa,
stesse accendendo i riscaldamenti.
Mi sorrise, ritornando
con lo sguardo su un grosso libro consunto che reggeva con compostezza
fra le
mani.
Sbuffai, passando
nervosamente le mani fra i capelli, e fermandoli in una crocchia
asimmetrica
con una penna. Mi stropicciai gli occhi. Mi sentivo assonnata,
probabilmente a
causa del controllo che la bambina aveva su di me con i suoi sogni.
«Qualcosa non
va?» mi
chiese Carlisle, con la sua solita discrezione. Faceva parte del patto
che
aveva fatto con Edward?
A passo umano,
decisamente a mio beneficio, venne a sedersi sulla sedia accanto alla
mia. «No»
borbottai. Presi un respiro, incerta se continuare.
«Sono solo stanca» dissi infine, abbassando lo
sguardo.
«Forse dovresti
rallentare un po’ il ritmo. In questi giorni ti stai
impegnando molto per
l’università» buttò
lì serenamente.
Mi misi una mano sulla
pancia, sentendo la bambina muoversi. «Non mi va di essere
discriminata solo
perché sono incinta» affermai convinta, sollevando
i miei occhi sui suoi con
determinazione.
Mi sorrise
teneramente. «Non lo dico perché sei incinta. A
mio parere sarebbe un ritmo
troppo veloce anche per una qualsiasi ragazza»
ribatté sincero.
«Devo solo finire
questo» chiarii «devo fare tre esami, tutti lo
stesso giorno, appena dopo Natale.
E poi sarò libera fino a giugno; devo affrontare quella
sessione d’esame prima
di poter dare la prima tesi, e siccome non so quanto mi
occuperà la nascita
della bambina, devo cercare di anticipare quanto più
posso».
«Vedo che hai pianificato
tutto quanto. Ma Bella, non darti fretta. Avrai
un’eternità per fare tutto, e
adesso sei molto stanca». Il suo non sembrava un ordine,
un’ammonizione, ma
molto più un consiglio da padre.
Cercai di
dissimularlo, conscia che presto, come spesso mia accadeva, avrei
nuovamente
acquisito appieno le forze. «Ce la faccio, sul serio. Posso
controllare quello
che succede alla bambina, non è un problema».
«Bene»
mormorò con un
sorriso, ritornando al suo divano e al suo libro.
Dopo un’altra ora
passata sui libri pensai che chiaramente qualcuno avesse acceso i
riscaldamenti. Lasciai cadere la matita mangiucchiata sul tavolo e
vagai verso
la cucina alla ricerca di un rinfrescante bicchiere d’acqua.
Lì trovai Esme
intenta a cucinare dolci per me. Un’immagine decisamente
incantevole, quasi
uscita da una fiaba. Mi sedetti sulla penisola della cucina,
sorseggiando la
mia acqua e massaggiando la pancia nel tentativo di far cessare le
capriole
della bambina. Si agitava sempre, quando sentivo caldo.
«Tutto bene
cara?»
chiese, lanciandomi una rapida occhiata fra un biscotto e
l’altro.
Annuii.
«Perché Edward
ha chiesto a Carlisle di accompagnarmi?» chiesi curiosa,
cambiando discorso.
Rise brevemente, una
piccola delizia per l’udito. «Beh. È
così che si usa fra gentiluomini. Non
voleva che andassi a teatro non accompagnata. È sconveniente
per una donna.
Soprattutto se questa è in dolce attesa».
«Capisco»
cincischiai,
saltando giù dallo sgabello. «Oh, Esme. Puoi
spegnere i riscaldamenti?» chiesi
con voluta leggerezza, tentando di non dare a vedere quanto quel calore
mi
turbasse.
«Ma certo»
sorrise,
scomparendo e riapparendo in un attimo. «Ecco. Alice
arriverà fra mezz’ora, per
prepararti» mi informò pacata, pulendosi le mani
dalla farina, strofinandole
una contro l’altra. Le resi un’occhiata che doveva
essere piuttosto eloquente,
tanto da spingerla a deliziarmi ancora con una sua risata.
Mi trascinai fino alla
sala da pranzo, con l’intento di raccogliere i miei libri,
facendomi aria con
una mano contro la calura. Non appena arrivai allo stipite della porta,
però,
sentii un’accentuata sensazione di leggerezza alla testa e
per un attimo il
piano del pavimento s’inclinò da un lato. Sbattei
le palpebre, strizzando gli
occhi e appoggiandomi alla porta con una mano.
«Tutto bene?»
alla
voce di Carlisle fu accompagnato un notevole sostegno sotto le mie
braccia.
«Si…
è solo… un po’ la
testa…» mormorai, sentendomi guidare verso il
divano. Sentii la sua mano fredda
sulla fronte, e dopo pochi secondi la vista tornò piuttosto
nitida, tanto da
permettermi di mettere a fuoco i suoi occhi chiari. Spostò
la mano con cui mi
stava sorreggendo sul polso.
«Sei un po’
ipotesa.
Stai meglio?» mi chiese scrutandomi.
Piuttosto che muovere
la testa e rischiare di scatenare una nuova ondata di vertigini
preferii
mormorare un flebile assenso.
Annuì.
«Esme» chiamò
pacato «per favore porta un succo o una limonata per
Bella» poi si rivolse a
me, poggiando la mano fredda sulla mia guancia. «Anche se non
sei più anemica
come prima hai ancora l’emoglobina un po’ bassa.
Magari per la settimana
prossima valutiamo l’ipotesi di un altro ciclo di terapia in
vena, ve bene?»
fece cortese, studiandomi.
«Mi sento già
meglio».
Mi sorrise. «Bene. Hai
sempre avuto la pressione un po’ bassa, potresti essere
soggetta spesso a questi
episodi, in questo periodo della gestazione sono più
frequenti».
Esme mi portò un
bicchiere di spremuta e un piattino con un pezzo di torta.
«Grazie» le disse
Carlisle, accompagnando la sua dolcezza verso la moglie con lo sguardo
«se ti
dovesse capitare voglio
che bevi possibilmente
qualcosa di zuccherato, che stai tranquilla, e se ne senti la
necessità ti stendi.
Evita i luoghi caldi e portati delle caramelle in borsa, va
bene?».
«Sì, grazie
Carlisle»
mormorai, prendendo un lungo sorso di aranciata.
Mi guardò a lungo,
silenzioso. «Edward ha ragione, lo sai. Quando avremo
più informazioni saremo
senza dubbio più tranquilli».
Sospirai, riconoscendo
la verità nelle sue parole. «La decisione
è stata presa, ormai».
Il resto del
pomeriggio lo passai con Alice, e aldilà di tutto, mi
concessi di riflettere su
quello che presto sarebbe avvenuto. Subito dopo l’esibizione
di Edward, a cui
il professor Philip avrebbe presenziato, gli avremmo comunicato la nostra
decisione.
Sapevo che era la
scelta giusta, ma avevo paura. Paura per loro, paura per Edward, paura
per la
bambina. Mi rendevo conto che accettare, sarebbe andato a svantaggio di
tutti
men che mio. Non farlo, invece, sarebbe andato solo a mio svantaggio.
Perfetto!
Perché non potevano accettarlo in pace? Ce la saremmo
cavata, da soli, senza
problemi.
Già non sopportavo di
sapere Emmett, Rosalie, Alice e Jasper lontani da casa, per la maggior
parte
del tempo, per cercare l’origine di chissà quale
leggenda su dei mezzi vampiri
che avevo scoperto esistere realmente. Figuriamoci accettare che
affrontassero
un’impresa come quella di ricercare una mezza vampira
sperduta chissà dove e in
compagnia di chissà chi. L’unica fortuna era che
Edward sarebbe rimasto con me.
Ero egoista, infinitamente egoista, lo sapevo. Eppure
sapevo anche quanto avrei sofferto nel caso in cui mi sarei dovuta
separare da
lui.
Il viaggio in auto verso
il “Pantages
Theatre” di Tracoma durò
all’incirca due ore e fu per lo più silenzioso. Mi
diede un’altra eccellente
occasione per rimanere a pensare. Arrivai alla conclusione che potevo
fare
davvero ben poco per far cambiare idea a Edward o a uno qualsiasi degli
altri
Cullen.
Cominciai a pensare,
però, a quale melodia avesse deciso di suonare. Non mi aveva
voluto svelare
questo segreto fino alla fine. Mi avrebbe sorpreso, ne ero certa. E di
sicuro
la sua esibizione sarebbe stata perfetta… tanto da
costringerlo a inserire
alcune imperfezioni.
«Signore»
mormorò
Carlisle in cima all’ampia scalinata.
Un ragazzo in frac
prese i nostri soprabiti, lasciando vedere la linea lunga e flessuosa
che il
mio vestito argentato disegnava sulla pancia. Quando ero a casa,
davanti a uno
specchio magari, mi ero più volte fermata ad osservarla
mettendomi di profilo e
stando ore a contemplare la mia immagine. Tuttavia, molto
più spesso mi
capitava di abbassare appena il collo, e vedere appena, oltre quella
piccola
collina, la punta dei piedi.
«Siete
incantevoli»
commentò Carlisle, facendo il baciamano a entrambe. Ero
sicura che Esme sarebbe
diventata, se ne avesse avuto l’opportunità, del
mio stesso color rosso acceso.
Impallidii, quando
comparai mentalmente l’altezza dei miei tacchi e il numero di
gradini che avrei
dovuto scendere. Carlisle mi sorrise rassicurante, accompagnando con un
braccio
sua moglie, e con altro, forte, me.
«Sei nervosa?»
mi
chiese Carlisle a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio ma non
voltandosi verso
di me. Lo spettacolo era sul punto di cominciare, e a illuminare
l’immensa sala
c’erano delle grandi luci circolari di colore giallo, poste a
intervallo fra i
palchi, quella sera sgombri.
Deglutii, osservando i
pezzettini che rimanevano del mio depliant. Dovetti fermare
l’impulso di
passarmi una mano fra i capelli, ricordandomi che così
facendo avrei rovinato
una complicata acconciatura piena di fermagli luccicanti.
«Solo un po’» ammisi
riluttante. Presi un respiro, ricordandomi di una cosa. «Gli
altri?» chiesi
ansiosa.
«Sono passati a
prendere tuo padre. Arriveranno a momenti. Rilassati, Bella»
disse, fermando
con la sua le mie mani, intente a tagliuzzare la carta.
Presi un grosso
respiro, facendo calmare, insieme a me, la bambina. Come previsto gli
altri
arrivarono pochi minuti più tardi, appena in tempo per
l’inizio dello
spettacolo. Edward, come nuovo artista, sarebbe stato uno dei primi a
esibirsi,
in una serata dedicata alternativamente al balletto e al piano.
Mio padre era
indiscutibilmente più nervoso di me, non tanto
perché fosse fuori luogo, quanto
più per quanto si sentisse
un pesce
fur d’acqua.
Sentivo il cuore
sussultare ogni volta che m’immaginavo che dai quei pesanti
drappi bordeaux
sarebbe comparso un meraviglioso sorriso e una splendida chioma
rossiccia.
Al contrario di quanto
mi sarei aspettata, però, il cuore rallentò i
suoi battiti e ogni ansia sparì,
quando realmente lo vidi comparire sul palco. Era lui, Edward, mio
marito, e
sarebbe stato perfetto, ne ero certa.
E così fu.
Così,
seguii la sua immagine mentre con carisma ed eleganza si spostava lungo
il
palco, andandosi a sedere sullo sgabello nero e imbottito.
Così, vidi le sue
mani e le sue dita posarsi sui tasti neri e avorio e suonare una
meravigliosa
melodia. Sapevo che ogni cosa sarebbe stata perfetta, l’avevo
immaginato, mille
volte, nella mia mente. Sapevo perfettamente quanto la bambina avrebbe
apprezzato quelle note così dolci e musicali.
Fu come quando sei
piccola, e aspetti per un intero mese il giorno del tuo compleanno,
aspettando
i giorni che mancano. E poi c’è la festa, ci sono
i tuoi piccoli amici, la
torta e tanta panna. E quel giorno ti sembra di non viverlo mai
totalmente
appieno, di non sfruttarlo abbastanza. Ti senti piena e vuota, ma
capisci, alla
fine, che tutto è andato proprio come doveva andare.
Il forte applauso delle
persone accanto a me ruppe quasi la mia bolla, e mi sollevai
fluidamente,
insieme agli altri, applaudendo ancora e osservando fisso negli occhi
mio
marito, che a sua vota non guardava che me.
«Bella, eri uno
spasso, non la smettevi di piangere» ridacchiò
Emmett, schernendomi ancora.
«No, invece»
ruggii,
tirando su col naso e cercando di cancellarmi le ultime tracce delle
lacrime
infami dagli occhi.
Jasper, che camminava
nei lunghi corridoi circolari accanto a me, mi posò una mano
sulla spalla,
infondendomi un po’ di serenità. Alice gli prese
la mano, continuando a
camminare al mio passo. Ero giusto un po’ lenta, solo
perché non volevo
rischiare di inciampare e rompermi l’osso del collo su quegli
esorbitanti
tacchi. Gli altri avevano già raggiunto Edward nel suo
camerino, mentre loro e
Emmett, che era rimasto con me solo per prendermi in giro,
erano rimasti con me.
Alice lanciò
un’occhiata veloce a suo marito, e poi schizzò in
avanti, insieme a Emmett.
Sbuffai. «Sono troppo
lenta anche per lei, ora?» chiesi massaggiandomi la pancia.
La bambina si era
piuttosto agitata durante l’esibizione del padre. Causa mia,
anche.
Jasper mi sorrise,
carismatico, e sentii un altro po’ di tranquillità
fluire in me. «Ha avuto una
visione. Il professor Philip ci raggiungerà fra dieci
minuti, è andata a dirlo
agli altri».
«Capisco»
commentai, e
sentii in un angolo della coscienza un certo fastidio per non poter
essere
realmente infastidita.
«Amore» mi
chiamò
Edward non appena entrai nel suo camerino, dove già era
presente il resto della
famiglia.
Jasper staccò la mano
dalla mia spalla, e ringraziai mille volte il fatto che non fossi
più
sottoposta al suo potere. «Edward» lo chiamai, e
lasciai che annullasse la
distanza fra di noi, poggiando le labbra sulle mie. Si
staccò un attimo, ma lo
rincorsi, strappandogli altri due veloci baci.
Mi osservò, adorante,
facendomi imporporare le guance. «Sei stupenda»
soffiò, posando una mano sulla
pancia e muovendola piano, circolarmente. Presi un respiro, posando la
fronte
sul suo petto, quando la bimba iniziò a muoversi
impetuosamente.
Spostai il capo di
lato. «Dov’è mio padre?».
«È andato
via» ripose
Rose «sembrava… che fosse urgente»
disse, contenendo un piccolo sorriso.
Sorrisi anch’io, al
pensiero del disagio di mio padre. Un sorriso che durò ben
poco, considerando
quanto velocemente la porta di aprì, rivelando
un’immagine che riusciva in ogni
caso a mettermi a disagio.
«Buonasera» salutò pacato, per
niente disturbato dalla presenza
di tutti quei vampiri.
Carlisle si fece
avanti, salutandolo a sua volta a nome della famiglia. Sentii la presa
di
Edward farsi più forte intorno alle mie spalle proprio
mentre gli occhi cerulei
del professore si posavano su me.
«Mi risparmi i
convenevoli» affermò brusco, fermando le cortesi
parole di Carlisle, e
spostando finalmente lo sguardo su di lui «cosa avete
deciso?».
Carlisle aspettò un
secondo, poi parlò. «Accettiamo» disse
solo.
«Oh, ma bene»
affermò
il professore, zoppicando verso il centro della stanza.
«Spero non ci mettiate
così tanto tempo anche a mettervi all’opera per
cominciare a cercare mia figlia;
tutte queste baggianate, puah» fece disgustato, lasciandosi
cadere sulla sedia rossa,
imbottita, accanto alla scrivania. «Da dove vogliamo
cominciare?» chiese, aggrottando
le bianche sopracciglia.
Tutti attesero in
silenzio, destabilizzati forse dalla sua fretta.
«Mia figlia si trova
di sicuro in America. Le sue ultime tracce erano in Messico. Ha
viaggiato sola,
è stata a volte catturata dai licantropi, fugge da loro. Ha
la dote della
ricerca e della fuga, per questo è così difficile
individuarla. Non
spaventatela. La riconoscerete perché sarà lei a
farsi riconoscere. Ha quasi
settant’anni anni, ne dimostra quindici. Questo, per ora, vi
basterà. Domani vi
porterò una mappa con i luoghi da perlustrare».
Tutti i vampiri
rimasero in silenzio, soppesando le sue parole. Anch’io,
nella mia mente,
pensavo a quello che aveva detto. Sua figlia dimostrava molti meno anni
di
quelli che aveva? Allora sarebbe stato lo stesso anche per la mia. Non
ero mai
stata brava in matematica, e con qualche sforzo feci un calcolo
mentale: un
anno dimostrato corrispondeva a circa quattro anni e mezzo effettivi?
La mia
bambina sarebbe cresciuta così lentamente? E poi?
Jasper ruppe per primo
il silenzio. «Forse dovrebbe darci più
informazioni sui mezzi vampiri, anche
per agevolare la ricerca, come d’altronde era
d’accordo» dichiarò sicuro,
avanzando di un passo.
Philip rise,
stiracchiando le rughe ai lati della sua bocca. «Withlock,
non è così? Beh… andiamoci piano. Le
cose devono essere ben commisurate».
«Non ci tireremo
indietro dal nostro impegno, può fidarsi di noi»
affermò Carlisle «vogliamo
solo avere più spiegazioni possibile, almeno sulla
gravidanza, per essere
preparati prima che accada qualcosa».
Gli occhi del
professore saettarono su di me, facendomi violentemente arrossire e
battere
forte il cuore. Mi rintanai con il viso sul petto di Edward, a disagio,
e
sentii le sue mani fredde accarezzarmi i capelli.
«Ahh»
brontolò acido. «Come posso sperare che mi
aiutiate, se non capite neppure le
cose più semplici?».
«Si spieghi
meglio»
disse fredda Rose.
Sbuffò. «Non
vi siete
resi conto, pur essendo dei vampiri, di quello che è
accaduto a Isabella».
Sollevai nuovamente il
volto, scontrandomi con i suoi occhi. Edward mi accarezzò
una guancia, e quelli
del professore si spostarono verso il suo viso.
«La bambina
nascerà in
nove mesi. Per ora è lei che ha subito un notevole
rallentamento della
crescita».
Spalancai la bocca,
sconvolta come il resto dei vampiri. Cosa voleva dire?
«Non ci basta»
replicò
Edward, facendo un passo in avanti.
Il volto del
professore si indurì. «Vi dirò il resto
dopo che avrete iniziato le ricerche».
Mio marito scosse il
capo, muovendosi appena di lato per coprirmi, come se volesse farmi
scudo con
il suo corpo. «Ci serve adesso. Bella ha avuto una crisi di
grave anemia al
terzo mese di gestazione. L’ha superata con grande
difficoltà e un supporto
farmacologico non indifferente, ma ha rischiato la vita».
Gli occhietti cerulei
del professore saettarono sul mio volto.
Tremai.
«Adesso sta
meglio»
sibilò stentoreo, teso nella sua posizione.
Carlisle lo guardò,
serio. «Il trend
dell’emoglobina è di nuovo in
discesa. La richiesta sta progressivamente diventando maggiore della
capacità
dell’organismo di Bella di produrne di nuovo».
Il professore mi
guardò ancora, per lungo tempo, serissimo.
Mi portai una mano
alla pancia, distogliendo la sguardo. Sentii un movimento ed un
colpetto. Forse
era un piedino. La bambina stava diventando sempre più
forte.
Edward allungò una
mano indietro, accarezzandomi un fianco e rassicurandomi.
Jasper gli fece un
cenno, ma lui lo bloccò. Non voleva che usasse il suo potere
su di me, non
ancora.
«E va bene!»
esclamò
il professore spazientito, sollevando le mani in cielo.
Ringhiò, inquieto.
«Come fate a non arrivarci?» esclamò
arrabbiato, facendo passare rapidamente lo
sguardo su tutti noi. «Dovete darle ciò di cui ha
bisogno: sangue!».
«Carlisle glielo ha
dato» ribatté Rosalie a denti stretti
«è stato impossibile fare una
trasfusione».
Serrò i denti,
sbuffando. Prese dei respiri veloci, contrariato. Poi puntò
i suoi occhi nei
miei, inchiodandomi con il suo sguardo. «Non una trasfusione.
Lo deve bere».
Presi un respiro,
sentendomi improvvisamente senza fiato.