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Autore: Lenelindgren    11/02/2010    0 recensioni
Questa fic non è nata per caso. E' la trasposizione fedele, fedelissima direi, di un sogno che ho fatto in una notte dell'Estate del 2007. Neanche a farlo apposta, il sogno era diviso in atti, ognuno collegato agli altri, ma distinto per luogo, personaggi etc. in poche parole, capitoli. Tutti i luoghi menzionati nella fiction sono realmente esistenti, e da me personalmente conosciuti. Tutti tranne uno, esistente ma che non ho mai avuto l'occasione di visitare. E' quindi molto probabile che la mia descrizione del luogo non corrisponda affatto alla realtà, ma io l'ho sognato così. Ho cercato di precisare soltanto alcune piccole cose, per rendere la lettura un po' più chiara a chi giustamente non ha la più pallida idea di chi io sia. Ma ricordate, è la trasposizione di un sogno, così come è. Nessun abbellimento, nessun tentativo di inserire una storia più "sensata". Soltanto visione onirica, ed io nei sogni ci vivo.
Genere: Sovrannaturale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lilac- l'attesa

Bologna, Gaibola

25 Luglio 2007

La porta che dava sul suo giardino era aperta. Fuori, ad appena tre metri da lei, sua madre discuteva a bassa voce con il giardiniere. Ma Valentina non riusciva a sentire cosa si stessero dicendo.

Era una luce fioca quella che entrava dalle finestre, ed era tremendamente freddo per essere estate. Camminava nervosamente da una stanza all'altra, controllando ogni volta che tutti i loro bagagli fossero pronti. Dal salotto, la voce gracchiante della televisione continuava a ripetere quell'unico, ormai monotono avviso:

" Tutti i cittadini italiani residenti in agglomerati urbani con densità superiore ai 25,000 abitanti sono pregati di lasciare al più presto la propria abitazione, e seguire attentamente le regole dell'evacuazione. Troverete le forze dell'ordine pronte ad assistervi in ogni vostra esigenza. In caso di oggettiva difficoltà chiamate il numero verde che trasmetteremo ora in sovraimpressione...".

Cosa fosse accaduto, cosa stesse accadendo, restava un mistero inspiegabile per lei, per gli scienziati, per il governo, per chiunque. C'era chi attribuiva la colpa di quegli eventi assurdi ad un potentissimo veleno riversato abusivamente nel Po da un gruppo di industriali senza scrupoli. Una miscela altamente tossica e mutagena di solventi chimici e composti radioattivi. Lei non ci credeva. Nessuno ci credeva. Altri ineggiavano a non meglio identificate radiazioni cosmiche, piogge di neutrini anomali o esplosioni di supernove. Nemmeno a loro credeva. Non aveva desiderio di credere a qualcosa. Non era curiosa di capire perchè. Voleva soltanto che lei e la sua famiglia scappassero in fretta di lì. E basta.

Per questo in quel momento odiava i suoi genitori, odiava suo nonno, il cane, i gatti ed il giardiniere. Loro erano lì che temporeggiavano, che guardavano la televisione, che chiacchieravano, e non erano ancora partiti. Li odiava.

Percorse le stanze della sua casa almeno mille volte, ascoltava suo nonno ripetere " Allora, cosa sono queste cazzate? Ma dove volete andare? Ma credete anche a quello che vi dicono?" Lo odiava perchè lui non c'era. Non aveva capito quale fosse la posta in gioco. Non aveva capito cosa aspettava chi restava in città. In realtà, nemmeno lei l'aveva capito. Ma le città ora odoravano di zolfo e morte. E la gente moriva. Impazziva, gridava cose sensa senso.

Trovò suo padre in cucina, intento ad apparecchiare la tavola. Sembrava molto concentrato su ciò che stava facendo. Fin troppo, quasi. Teneva gli occhi fissi sui piatti, come se avesse avuto paura di farne cadere uno. Sguardo fisso e perso nel vuoto. Valentina restò ad osservarlo per qualche istante. Conosceva gli occhi di suo padre. Sapeva che non era da lui lasciarli vagare così nel vuoto. Anche lui temeva. Anzi, era terrorizzato. Anche suo nonno aveva paura, lei lo sapeva. Fingeva indifferenza, ma era sempre stato un pessimo attore. Vedeva riflesso negli occhi dei suoi parenti quello che le era successo appena due settimane prima. Vedeva lo stesso impotente sgomento, vedeva la voglia assoluta di svegliarsi da un incubo. Forse si sarebbe svegliata insieme a loro, e non avrebbe fatto altro che ridere dei suoi stupidi sogni.

Sentì la voce secca di sua madre che congedava il giardiniere, ed i suoi passi rientrare in casa. " Andiamo via" sbottò rivolta a padre, marito e figlia " Ora!" Era un tono che non ammetteva repliche. E che diradò un po' la nebbia nella mente di Valentina. Corse giù dalle scale, ed una soffice gattina bianca, rossa e nera la salutò con un "miao" strozzato. Valentina la prese in braccio, la strinse, la cullò, poichè sentire quel corpicino caldo e morbido vicino al suo aveva il potere di calmarla profondamente. Fu semplice convincerla ad entrare nel trasportino. " Un po' meno semplice..." pensò, sospirando "sarà convincere l'altra ad entrarci".

Dopo una breve ispezione, trovò la sua tigre in miniatura raggomitolata sotto il letto, che la fissava con la sua espressione più feroce. Anche il viso di Valentina si indurì. Non avevano tempo da perdere. Nessuno aveva più tempo, neppure una gatta. " Muoviti" ordinò, cercando di riversare nelle sue parole tutta l'urgenza di cui era pervasa. " Esci di lì ed entra nella gabbietta". Ottenne un'occhiataccia come risposta. E sua madre chiamava dalla cucina. " Va bene allora. Stà lì e restaci" sussurrò, gelida, mentre si voltava per risalire le scale. Tanto quella gatta era condannata. Ormai aveva più parti del corpo invase da tumori che parti sane. Solo le si stringeva il cuore a pensarla lì, sola, ad affrontare una dolorosa agonia.

Al terzo passo, la gatta le si affiancò. La guardava con aria stanca e rassegnata. " Scusa" mormorò, mentre il suo corpo cresceva, e cresceva ad ogni respiro. Valentina si appoggiò a lei, alta ormai quanto una grossa tigre, e lasciò che la sua capricciosa gatta la aiutasse a salire le scale. Non che ne avesse bisogno. Era soltanto il modo di mostrarsi dispiaciuta di una creatura indomabile come il mare stesso. Come il mondo in cui stavano precipitando.

" Hai preso tutte le valigie?" le domandò sua nonna, che aveva aspettato fino all'ultimo momento per scendere dalla sua stanza. Le rispose con un cenno, mentre il senso di urgenza diventava sempre più forte e pesante. Vide suo padre già in macchina, pronto a fuggire da quel luogo che non potevano più chiamare casa.

Mentre attraversavano il vialetto, scosse la testa, come a voler scacciare un pensiero. Guardava la tigre scura al suo fianco, e la barcollante vecchietta appena davanti a lei. Le ci vollero molti secondi per realizzare che erano già morte entrambe. Si, ne era certa. erano morte da molto ormai. Però, in un mondo dove il mare era stato tinto di viola, dove le onde erano alte come montagne, dove le persone cadevano come mosche per strada, che differenza poteva fare? Ormai tra la vita e la morte non vi era differenza alcuna.

" Ciao fantasmino" sussurrò alla sua gigantesca compagna. Ma quella si limitò ad ondeggiare appena la coda tigrata in quell'aria che sapeva di zolfo. Entrò in macchina e chiuse gli occhi, pensando soltanto " andiamo".

  
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