Le solleticava il palmo della
mano. Sei delicate zampine le strusciavano la pelle con delicatezza.
Erano i
piedini di una coccinella. Fin da piccola Abby avrebbe voluto essere
una
coccinella. Così semplici e delicate. Con ali leggere e
rossicce, quasi
trasparenti in controluce, da apparire fragili. Le coccinelle
sembravano
fragili. In effetti, con una ditata potevi schiacciarle, ma con un
fremito
d’ali potevano librarsi in aria e volarsene via. Erano molto
sensibili,
percepivano anche il minimo movimento d’aria.
Soffiò delicatamente sul piccolo
insetto ed esso volò elegantemente via.
Sospirò, sdraiandosi
nell’erba tiepida. Non riusciva a pensare a Farm Cottage
senza di lei. Quella
fattoria era un pezzo di anima. Lei era nata e cresciuta lì.
Non riusciva a
capacitarsene; ma tra pochi minuti se ne sarebbe andata. Aveva compiuto
diciotto anni da qualche mese ed era stata accettata
all’Università di Oxford.
Le sembrava un miracolo, eppure i suoi sforzi erano stati ricompensati.
Alzò
gli occhi verso i rami del grande salice piangente del giardino.
Respirava
lentamente, movimenti impercettibili muovevano il suo ventre.
Osservò
attentamente le foglie verdi illuminate dal sole, mentre filtravano la
luce
calda. Amava il sole. Sua madre le aveva raccontato che quando era nata
era uno
dei rari giorni in cui l’enorme stella splendeva
indisturbata, senza nessuna
nuvola intorno. Una giornata come quella. Ma del resto, la campagna
gallese non
era famosa per le sue giornate di sole. Chiuse gli occhi, lasciandosi
trasportare dal fresco venticello del Mar d’Irlanda. Abitava
a Little Haven,
una minuscola cittadina nella campagna gallese, a pochi chilometri da
Haverfordwest.
«Abby!», la
squillante voce
di suo fratello James interruppe i suoi pensieri.
«Arrivo!», gli
urlò in
risposta.
Si alzò svogliatamente e
attraverso i campi, diretta verso la casa che tanto temeva
d’abbandonare.
Giunse sotto lo stretto
portico in legno, costruito da suo padre. Era un muscoloso uomo bruno
sulla
cinquantina.
«E’ arrivato il
pullmino,
Abigail», la informò sua madre, l’unica
che si ostinava a chiamarla con il suo
nome di battesimo. Era una donna minuta e rotondetta ma molto graziosa,
bionda
con gli occhi castano dorati come la figlia.
«La valigia?»,
chiese
parlando al singolare. Non aveva molte cose da portare con
sé, né molte cose da
lasciare a casa. Avrebbe portato via i suoi pochi vestiti e libri e
lì avrebbe
lasciato il suo cuore.
«Tuo padre l’ha
già caricata»,
sua madre era una donna forte, ma si notavano gli occhi lucidi, era
impossibile
trattenere il pianto in quella situazione.
«Mi... Mancherete
ragazzi»,
sospirò Ab, abbracciando i due fratelli minori.
«Anche tu ci
mancherai»,
dissero senz’esitazione. Abigail arrossì
violentemente. Affiorarono i sensi di
colpa, come al solito. Litigava con i suoi fratelli quindicenni per
delle
assurdità. Ma in fondo, gli voleva bene.
Si girò e
fissò ansiosa il
pullmino blu metallizzato, che l’avrebbe portata ad Oxford.
Sospirò e
salì le scale. Si
sedette nell’unico posto libero rimasto, in fondo, contro il
finestrino.
Rispose ai saluti dei suoi familiari con un lieve sorriso che
nascondeva molta
tristezza e malinconia. L’autista piegò verso il
basso il freno a mano,
appoggiò il piede sul pedale dell’acceleratore e
il mezzo partì, sbuffando.
Ciao vita vecchia, benvenuta
vita nuova.