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Autore: Terre_del_Nord    13/02/2010    10 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.010 - Nulla è Come Appare (2)

MS.010


Mirzam Sherton
Amesbury, Wiltshire - 
ottobre 1970

    “Prego, padrone…”

Kreya mi saltellò davanti, facendomi cenno di seguirla, felice perché stavolta ero tornato per restare: di corsa andò ad aprire le tende e la luce del pomeriggio s’impadronì dell’appartamento. Mi guardai attorno: mio padre aveva curato tutto alla perfezione, riproducendo la mia stanza di Herrengton fin nei dettagli più insignificanti. Mi aveva concesso, però, molto più spazio e libertà: aveva sistemato, infatti, la piccola dependance di Amesbury per accogliermi con tutte le comodità possibili, unendo così il desiderio della mia famiglia di riavermi vicino, con la promessa che mi aveva fatto, di non assillarmi se fossi tornato a vivere con loro.

    “Di qualsiasi cosa il padrone abbia bisogno…”
    “È tutto già perfetto così, Kreya: tra poco arriverà Cáel con le mie ultime cose. Puoi andare.”
    “Il padrone avrà bisogno di me per mettere in ordine…”
    “No, Kreya: non ho portato molto con me e non userò tutto questo spazio. Può facilmente mettere a posto Cáel.”

Kreya mi rivolse un’occhiata abbattuta: si era sempre occupata lei di me, tranne quando studiavo a Hogwarts o nei mesi che avevo vissuto lontano di casa. Capivo che aveva sentito la mia mancanza, non quella che un servo deve provare per obbligo verso il padrone, ma quella nostalgia che i nostri Elfi provavano per ogni membro della mia famiglia: affetto nato dal rispetto, non paura nata dal dolore. La guardai, volevo affrontare subito con lei una questione che mi stava a cuore da tempo.

    “Come vanno le cose con Meissa? Sai di cosa parlo, Kreya, non puoi mentirmi.”

La piccola Elfa abbassò gli occhi acquosi, immaginavo il conflitto che ora viveva, presa tra il dovere di darmi una risposta sincera e la volontà di non tradire mia sorella.

    “Il padrone non deve arrabbiarsi con la padroncina, lei ha sentito tanto la sua mancanza…”
    “Non mi arrabbierò con lei, Kreya, ma negando la verità non la proteggeresti, perché se lo scoprisse mio padre, per lei sarebbe molto peggio!”

Kreya annuì, afflitta e mi confermò che Meissa, in un momento di rabbia, si era sfogata di nuovo su di lei. La presi al volo prima che provasse a colpire la testa sul muro e placai il suo senso di colpa assegnandole una “punizione” per il suo “tradimento” ai danni di mia sorella: ai suoi normali compiti, aggiunsi la lucidatura delle vecchie scope da Quidditch custodite nella rimessa. Era prassi a casa Sherton, per evitare che, in casi simili a quello, gli Elfi si ferissero per sopire il loro senso di colpa, aggiungere per qualche giorno un po’ di occupazioni in più. Mio padre mi aveva spiegato che il lavoro li distoglieva dai propositi autodistruttivi e assegnargli compiti che li mettevano a contatto con oggetti che per noi avevano un particolare valore affettivo, aumentava la loro autostima. Con quest’approccio, mio padre dimostrava autorità, ma anche la sua fiducia nei loro confronti e otteneva dai suoi Elfi ciò che quasi tutti gli altri conquistavano con la violenza e l’umiliazione. Kreya mi guardò più sollevata e annuì. Avrei dovuto far ragionare Meissa: a Herrengton, nei giorni precedenti la nascita di Wezen, avevo intuito che mia sorella aveva preso l’abitudine di sfogare sugli Elfi i propri malumori, ma avevo immaginato fosse per la sua preoccupazione verso la mamma, per cui non ero intervenuto. Ora, invece, dovevo fare qualcosa, perché quello era un argomento su cui mio padre era particolarmente intransigente e se si fosse accorto, l’avrebbe punita.

    “Ti occuperai delle scope quando non avrai altri compiti: il tuo primo impegno sono i miei fratelli. Per me non dovrai fare altro, non c’è bisogno nemmeno che tu venga ancora qui.”
    “Padrone…”
    “Sei la migliore Elfa che uno Sherton possa desiderare, Kreya, per questo devi occuparti dei miei fratelli; io, adesso, non ho bisogno di molte cure, di me può occuparsi anche un Elfo inesperto.”

Le sorrisi e Kreya, pur poco convinta, sembrò riprendersi un poco: era talmente affezionata a noi che, se mio padre le avesse dato la libertà, non sarebbe mai andata via, e nel caso fosse stata costretta a lasciarci, sarebbe morta di dolore. Anch’io ero affezionato a lei, per questo, se mai si fosse presentata l’occasione, avrei fatto in modo di prenderla e portarla con me. Ci avevo già provato quando avevo lasciato Herrengton, con solo i miei libri e alcuni vestiti, avevo il denaro necessario per riscattarla, ma mio padre si era opposto, offrendosi di cedermela solo in prestito: in quel modo sarebbe stata ancora sua e lei gli avrebbe dovuto rendere conto in ogni momento, così avevo cercato un altro Elfo, che ora avevo portato con me anche ad Amesbury. Era stato Warrington a trovare in Irlanda Cáel, un Elfo di nemmeno un anno, giovane e inesperto, che non aveva ancora mai servito. La nostra convivenza non era stata semplice: all’inizio era necessaria una disciplina ferrea per indirizzare in modo adeguato la loro naturale inclinazione a servirci. Complice l’educazione paterna, però, mi era bastato guardarlo per capire che non sarei mai riuscito a impormi con la violenza su quell’Elfetto, così avevo impiegato molto tempo cercando di imitare i metodi usati da mio padre, anche se con scarsi risultati: Cáel, pur ubbidiente e fidato, era “cresciuto” tremendamente maldestro, al punto che, spesso, per evitare danni, facevo tutto da solo.

    “Mio padre è in casa?”
    “È nel suo studio, padrone: ha detto che per oggi non sarebbe uscito.”
    “Appena ha tempo per me, digli che lo aspetto. Avrei bisogno di parlargli di alcune questioni…”
    “Vado subito.”

Kreya si congedò con un inchino e si smaterializzò con un piccolo "poff", io mi guardai attorno: nell’appartamento arioso e ordinato, fuori posto c’eravamo già io e le tre casse di libri che avevo portato con me, di lì a poco sarebbe arrivato Cáel con l’equipaggiamento da Quidditch, i miei abiti e pochi altri effetti personali. Sul divano nel salottino avevo appoggiato la sacca da viaggio con cui ero arrivato: di sicuro la mia nuova casa avrebbe avuto per settimane l’aspetto di un accampamento di profughi. Guardai fuori, il parco era innevato, attorno alla tenuta, ad affiorare dagli alberi che circondavano la proprietà e la rendevano una specie di paradiso segreto, si stagliavano leggere delle colline. Mio padre aveva comprato quella tenuta nello Wiltshire quando pensava che non avrebbe più rimesso piede a Herrengton, perché considerava quel luogo l’unico adatto a far vivere liberi me e i miei fratelli. Non potevo dargli torto, era magnifico. La mia mente scivolò avanti e indietro nei ricordi legati a quella casa, perdendomi in ragionamenti senza capo né coda. Notai i roseti protetti dal rigore dell’inverno, ormai prossimo, dalle mani esperte di Doimòs: in primavera avrebbero abbellito e inondato di profumo il sentiero che univa la villa alla casetta. Sarebbe stato bello per Wezen crescere in quella meraviglia, come lo era stato anni prima per me e gli altri miei fratelli. All’improvviso tra gli alberi apparve la figura di mio padre, intabarrato in un caldo mantello scuro, con gli stivali di pelle di drago che calpestavano silenziosi la neve. Mi ritrassi, aprii una delle casse e tirai fuori alcuni libri per sistemarli sui ripiani capienti: volevo che mi trovasse intento a mettere ordine, non perso nelle mie riflessioni, perché mi avrebbe chiesto subito a cosa stessi pensando ed io non avrei saputo cosa rispondergli. Quando sentii bussare, il mio cuore accelerò impazzito, provai il bisogno di fuggire, di nascondermi: dopo quel nostro riavvicinamento, a Herrengton, lontani dall’emozione per la nascita di mio fratello, era arrivato il momento di affrontarci e di svelare quello che aleggiava tra noi ormai da troppo tempo. Era giunto il momento della verità. E, forse, del coraggio.

*

Mirzam Sherton
Inverness, Highlands - ottobre 1970 inizio flashback

    “Non può cavarsela così! Il Ministero deve sapere, mi appellerò al vostro Wizengamot!”
    “Corso, voi non capite…”
    “Fate silenzio per favore!”
    “Non è cosciente, non può rispondere… Abbiate rispetto se non per lui, almeno per la madre!”
    “Anche mio figlio ha una madre! Quale rispetto ha avuto quel bastardo per lei? Anche il mio sangue è stato disperso! Ed è solo colpa di quel farabutto se Sile…”
    “Questo è un ospedale! Non posso permettere oltre! Fuori di qui! Tutti! Fuori di qui!”

Se fossi stato in me, avrei capito il senso di quel coro di voci alterate, ma riuscivo a stento a percepirle, disperse lontano dal mondo ovattato in cui mi trovavo, un mondo pervaso da una luce chiara, soffusa. Non capivo da dove venisse, dove fossi. Non vedevo nulla. Sentivo i miei occhi chiusi, le palpebre incollate, mi sembrava di muovermi galleggiando in un torpore tiepido, in una specie di chiarore indefinito,forse una nebbia che ammantava ogni forma. A volte mi sembrava di emergere, quando mi sembrava di sentire qualcosa di gelido toccarmi il viso, forse una mano, o passarmi qualcosa di umido sulle labbra, per darmi sollievo. Allora quelle voci diventano più chiare, ma continuavo a non capire il senso delle parole. In lontananza, però, costantemente, percepivo dei singhiozzi: solo di quelli capivo il senso, fusi a una litania continua sussurrata al mio orecchio.

    “… Ti prego… Apri gli occhi… Mirzam… Apri gli occhi…”

E un odore: l’odore inconfondibile di erbe bruciate, quelle erbe che si raccolgono a Herrengton in primavera, mischiato al profumo di mia madre… Poi, di nuovo, scivolavo più in fondo.

*

"... L’erba alta è percorsa da un ondeggiare ritmico, il profumo dell’oceano sale, permeando salmastro ogni cosa, il vento frusta la collina e mi toglie quasi il fiato.
Corro tra i fiori selvatici, ridendo, cercando di sfuggire per gioco a mio padre, poi accelero. Ho visto lei, lei che ci viene incontro, lei che volge il viso verso il sole, smeraldi puri che scintillano tra le lentiggini, i capelli rossi sciolti nel vento. Guarda me, mi sorride… la sua risata… le sue braccia tese ad abbracciarmi…
Vorrei saper già volare solo per raggiungerla prima.
    “…Mamma…”
Sulla pelle accaldata scivolano nuvole e freddo. E qualcosa si frappone tra lei e me. Non riesco più a correre: mi sembra di strisciare a terra, mi guardo le gambe, l’erba sembra averle inghiottite. Alzo gli occhi: lei non c’è… non la vedo… non vedo più nulla…
    “Madre… dove sei?”
Mi sforzo di gridare, ma la voce non esce dalla mia bocca. Provo ad alzarmi, ma le braccia non hanno forza. Una fitta dolorosa in pieno petto mi fa boccheggiare, l’aria sembra fuoco incandescente che entrando dilania naso e bocca e scende giù… ustionandomi dentro.
Mi sento stringere in una morsa, senza scampo. Sono prigioniero di un qualche mostro sotterraneo. Lo guardo ghermirmi, nel buio, lo osservo.
E, come in uno specchio, vedo me stesso. ..."

*

    “Mirzam…”

Chiusi gli occhi, le lacrime velavano ancora il panorama innevato fuori dalla finestra: era una gelida mattina di quasi metà febbraio, da pochi giorni avevo ripreso conoscenza e tutti i giorni, all’alba, mia madre entrava in quella stanza e si ripeteva la stessa scena. Ero semisdraiato nel letto, la giacca di seta del pigiama era troppo leggera, ma io non mi curavo del freddo, non m’importava più di niente. Tutto quello che avevo intorno, ormai, era cenere ai miei occhi.

    “… Come ti senti oggi?”

Sentii il fruscio lieve di mia madre che si sedeva sul letto, sempre nello stesso punto, non vicinissima a me, come faceva da bambino: forse aveva paura di me, o forse aspettava invano un mio cenno, per avvicinarsi di più, stringermi e abbracciarmi. Io non mi voltai e non dissi niente. Come tutte le altre mattine fece scivolare la mano sulla trapunta leggera, ne percepivo appena il fruscio, dal bordo della coperta si avvicinava a me e come sempre, dopo poco, raggiunse le mie gambe ed io mi morsi le labbra per non urlare: sapevo che la sua mano era appoggiata sul mio corpo, ma non sentivo né la sua pressione, né il suo calore su di me. Non sentivo più niente. Solo quando, risalendo ancora, raggiunse le mie mani, incrociate sul petto, sentii il suo calore, quasi volesse riportare vita nel mio mondo fatto di morte. A quel punto, cercando di trattenere le mie lacrime e nasconderle nella mia maschera di sorda indifferenza, voltai la testa per guardarla: era vestita con una lunga tunica antracite, i capelli legati in una treccia morbida, si capiva che non aveva dormito nemmeno quella notte. Immaginavo la sua figura, nervosa, agitarsi come uno spettro, davanti al camino, a ripetere come una litania tutte le pozioni che conosceva, utili in casi come questo, fermandosi per cercare vano conforto davanti a quella poltrona, in cui mio padre si era abbandonato come un vecchio cencio, la testa tra le mani, muto, distrutto. Davanti a me, dopo giorni di sofferenza, sembrava invecchiata di dieci anni, gli occhi verdi e meravigliosi cerchiati di rosso. E lucidi: aveva pianto, di nuovo, per colpa mia.

    “Sile?”

Era questa la mia sola domanda, una specie di rituale e di ossessione. E ogni volta, seguiva sempre lo stesso silenzio: Sile ed io eravamo rimasti per ore sotto le stesse macerie e per giorni dentro la stessa prigione dell’incoscienza. Alla fine, però, io ero riuscito a uscirne. Lei no. E più passavano i giorni, minori possibilità c’erano che si risvegliasse. Era questo che avevo ottenuto con le mie idee geniali. Di restare di nuovo divisi, per sempre, prigionieri ognuno del proprio dolore.

    “Voglio uscire da qui… Voglio andarmene… Voglio vederla…”

Mia madre strinse più forte la mia mano, senza più il coraggio di guardarmi in faccia.

    “Non puoi uscire. È troppo presto. Per il dottor McGuigan stai facendo molti progressi, ma ci vorranno ancora delle settimane prima che…”
    “Perché continuare questa farsa?Non ne posso più delle tue bugie pietose! Lo so che non cambierà più niente… Ed io voglio andarmene adesso!”
    “Ti sbagli, Mirzam! Ora sei debole, ma se recupererai le tue energie, guarirai! Devi guarire!”
    “Devo? Ne sei certa? E perché? Per chi? Per Sile, forse? Lei sta morendo per colpa mia…”

Lo sospirai appena. E tornai a guardare fuori: l’ospedale magico di Inverness sorgeva su una collina, in quel momento illuminata da un sole che voleva illuderci della fine anticipata dell’inverno. Io sapevo che non ci sarebbe stato più calore, né primavera, per me, anche se la natura rinasceva. Più niente, per nessuno dei due. Mia madre non lo sapeva, ma io avevo sentito il Medimago dirle che solo un miracolo avrebbe strappato Sile alla morte. Ed io avevo finito la mia scorta di miracoli ormai da tanti, troppi anni.

    “Non c’è più nulla… Per nessuno dei due… Grazie a me…”
    “Mirzam… Non fare così… Devi reagire o non guarirai mai… Se ti mostri così…”
    “E come dovrei mostrarmi? Come? Sono questo… Sono solo questo… Che senso ha combattere?”
    “Per la tua vita…”
    “La mia vita? Quale vita? Quale dannata vita?”
    “… per noi che ti vogliamo bene, Mirzam… Per i tuoi sogni, per i tuoi amici, per il tuo futuro…”

Scoppiai in una risata isterica e mi morsi la lingua per non dire quello che pensavo, per non riversarle addosso quella rabbia, cattiva, che sentivo montarmi dentro e farmi violenza per uscire.

    “La metà di quello che hai detto non esiste… Non più… E l’altra metà… Posso solo far del male a chi è così pazzo da starmi accanto… Voglio uscire e affrontare quello che hanno deciso per me…”
    “Ma cosa dici, Mirzam?”
    “Voglio affrontare la Commissione subito e farla finita il prima possibile! Non ho alcuna intenzione di difendermi. Io merito qualsiasi cosa mio padre e i giudici decideranno.”
    “Non te lo permetterò, Mirzam! Tu non stai bene, ed io non ti guarderò rovinarti con le tue mani!”
    “Io sono già rovinato! Non lo vedi? Tutte le accuse nei miei confronti sono fondate. Io merito quello che mi aspetta. Merito quello che sto vivendo. E la morte è l’unica libertà che mi rimane.”

Mi diede uno schiaffo, gli occhi di nuovo umidi di lacrime: in tutta la vita non aveva mai pianto così tanto per causa mia, nemmeno quando, a otto anni, aveva creduto di avermi perso.

    “Non osare parlarmi così! Non osare mentire a me! Io ti conosco! Tu sei mio figlio, non sei un assassino! Io ti aiuterò a guarire, io posso farti guarire, perché il tuo corpo non ha niente, non ha assolutamente niente! È la tua mente… È il tuo dolore… che t’impedisce di guarire…”
    “Ti sbagli, tu non mi conosci. Non mi conosci più.”

Presi fiato, la testa mi scoppiava. E continuare, dicendo quello che avevo nel cuore, mi avrebbe privato anche di lei, ma dovevo farlo, era giusto. Perché mia madre avrebbe sofferto, certo e avrebbe pianto, ma almeno, alla fine, sarebbe stata libera dalle mie colpe. Almeno lei. Le stampai il mio sguardo fiero addosso e, con una voce che fingeva una sicurezza che non avevo, mentii.

    “Milady… Quello, che conoscevate come vostro figlio, è morto uscendo da Essex Street: io non sono vostro figlio. Voi non siete mia madre. Avete un marito, che non è mio padre, che vi aspetta qui fuori, e un figlio a Hogwarts e una figlia a casa, che non sono i miei fratelli. Occupatevi di loro, non sprecate, qui, il tempo che dovreste riservare a loro. Andatevene e non tornate più…”
    “Mirzam… Ma cosa dici? Non parlare così.”
    “Vi prego. Siate gentile. Non fatemi chiamare l’infermiera per farvi allontanare…”

Tornai a guardare fuori, muto, chiuso nei miei pensieri. Osservai per ore l’ombra degli alberi scivolare sulle superfici, segnando il passare rapido del tempo. Non dissi più niente, anche se lei era lì, seduta poco lontano da me, la mano appoggiata alla mia, aperta, per liberarla dalla mia presa. Non mi voltai più a guardarla, anche se il mio cuore, l’unica parte di me ancora viva, urlava per dirle che non era vero niente, che io ero suo figlio, che non avevo ucciso nessuno, che l’amavo disperatamente e che non volevo perderla, che avrei voluto alzarmi solo per correre da lei, e perdermi nel suo abbraccio, com’era sempre stato, negli anni più belli e felici della mia vita. Ma non potevo, non era giusto, avevo sbagliato e dovevo pagare. Io solo. E restai così, muto e sordo ai suoi singhiozzi, preso nei miei pensieri, finché, ormai di nuovo sera, sentimmo bussare alla porta e la voce di Orion Black infranse quel silenzio: specchiato sul vetro della finestra, vidi il mio padrino posare i suoi occhi angosciati su di me, avvicinarsi a mia madre, lasciare che si aggrappasse a lui come a un’ancora, e infine scivolare fuori, insieme, mestamente, da mio padre. Avevo sentito un’infermiera dire che Lord Sherton aspettava tutto il giorno fuori della mia stanza, perso nei suoi pensieri, annientato, e che non parlava più da tempo. Io non l’avevo più visto. Da quando avevo ripreso coscienza, non aveva mai posato il suo sguardo su di me: sapevo che la sua vita si era interrotta di nuovo, come dodici anni prima, nell’istante esatto in cui Donovan Kelly aveva messo il mio corpo, esanime, tra le sue braccia.

*

Avevo pregato un’infermiera di farmi avere carta, piuma e un gufo, e con sorpresa ottenni con sollecitudine quanto avevo chiesto. Non ero sicuro che fosse possibile raggiungermi, ma dovevo tentare: non sapevo nulla di preciso, ma immaginavo di essere prigioniero della Confraternita in attesa del processo e di non poter ricevere nessuno, esclusi i miei familiari. Perplesso, mi limitai a scrivere poche parole, legai, con fatica, la pergamena alla zampa del messaggero e controllai che la Strega lo liberasse nel cielo, prossimo al tramonto, senza leggere il nome del destinatario. Aspettai fin quasi all’alba, rassegnato all’evidenza che non sarebbe accaduto niente, Doimòs era con me, mio padre non si fidava a lasciarmi da solo, per questo mandava il suo Elfo personale a occuparsi di me, di notte. Sentii un po’ di trambusto nel corridoio, in lontananza, poi più niente, pensai che un paziente fosse uscito da una stanza e fosse inciampato nel buio. Quando, però, percepii un bussare lieve alla porta, il mio cuore si accese di speranza. Doimòs si destò ed io gli ordinai di alzarsi e aprire: quando vide la figura mascherata entrare, si voltò verso di me, allarmato, e provò a difendermi, ma io lo colpii con un leggero Schiantesimo e con un Oblivion, perché non avesse nulla da riferire a mio padre. 

    “È ora di alzarsi, Sherton! Si può restare così a lungo a letto solo se si hanno con sé almeno tre donne da soddisfare!”

Rodolphus, scoppiando a ridere, si tolse la maschera ed io, che non avevo sue notizie da quella notte sciagurata, non fui mai tanto felice di rivederlo. Si avvicinò e si sedette con cautela sul letto per abbracciarmi, una nota preoccupata nello sguardo si trasformò in una presa leggera quando mi strinse a sé, per non farmi male. Io, al contrario, misi tutta la forza che ancora avevo per rispondere alla sua stretta, perché non volevo sapesse quanto fossi debole, né che mi trattasse con pietà. Mi sorrise, in silenzio, un sorriso al tempo stesso ironico e incoraggiante.

    “Ti ringrazio per essere venuto subito. Hai avuto problemi fin qui? Hai dovuto schiantare molti?”
    “Non ti hanno posto sotto stretta sorveglianza, ci sono solo le normali procedure anti intrusione, il che è strano, perché alcuni vorrebbero farti la pelle, da quanto ho sentito, ma immagino che il nome di tuo padre calmi gli animi. Ci siamo occupati in tutto di due infermiere e un Medimago!”
    “Ci siamo? Lui è qui?”
    “Sì, è impegnato con la memoria di quei tre miserabili. Ha pensato che volessi incontrarlo subito. Ti aiuteremo a uscire, senza lasciare tracce, Milord ha preparato una pozione, è solo una cura momentanea, s’intende, ma può rimetterti in piedi, poi finirà di curarti a Little Hangleton.”
    “Io non voglio fuggire, Rodolphus: voglio parlare con Lui, solo parlare con Lui…”
    “Parlare? Non dire sciocchezze, Sherton! Vuoi forse rimanere legato a quel letto per sempre? Non guarirai mai qui, lo capisci? O preferisci farti processare, come vuole quel maledetto di Corso? Noi siamo venuti per farti fuggire, per aiutarti! Non permetterò che tu…”
    “Calmati, Rodolphus… Calmati… Il nostro amico vuole il nostro aiuto, certamente… Credo, però, che non lo voglia per se stesso… Dico bene, Mirzam Sherton?”

Alzai gli occhi, puntandoli nel buio, senza vedere l’origine di quella voce sibilante: l’aria nella stanza sembrò farsi ancora più gelida e spessa, palpabile, la sentivo premermi addosso, viva, permeandomi. Avevo la sensazione che fosse sparita ogni cosa, che nella stanza ci fossimo solo io e Lui. E tutto il dolore che dimorava dentro di me. Riuscii a percepirlo con la vista quando si mosse sinuoso, simile a una serpe, scorsi i suoi occhi, fiammeggianti come braci ardenti. Si avvicinò, infine, e il suo pallore, nascosto dal cappuccio del mantello, sembrò illuminare la stanza.

    “Milord…”
    “Rodolphus, per favore, aspetta fuori e controlla che nessuno venga a disturbarci.”

Lestrange si era alzato dal letto e si era ritirato in un angolo, appena i miei occhi erano stati catturati dalla figura che era emersa dall’ombra alle sue spalle; solo quando sentì l’ordine, parve uscire dallo straniamento che aveva colpito entrambi e scivolò via, in attesa di altre istruzioni.

    “Eccoci infine qui, insieme… Non credevo avresti aspettato tanto, Mirzam Sherton: tutti sono soliti chiedere aiuto alla prima difficoltà o per ottenere qualcosa facilmente, tu invece hai aspettato fino a che non hai avuto altra scelta… Hai chiesto di me solo ora, ora che sei solo, ferito, rovinato e che vorresti persino morire. Spiegami: come può un giovane come te desiderare la morte? Per punirsi per i propri errori, per giunta! No, Mirzam Sherton, no… Te l’ho già detto una volta, questo non è un motivo valido per morire, come non lo era sacrificarsi a Londra quella notte…”
    “Vi assicuro che non ho alcuna intenzione di morire, Milord, non ora che…”
    “… non ora che hai compreso che c’è ancora una speranza? Mi sono informato su di te, sono anni che lo faccio, so qual è l’unica forza che ti anima e ti confesso che non c’è nulla che mi ripugni di più, quella sciocchezza cui tutti agognano, dandogli più valore di quanti meriti: l’Amore. Ti rivelo un segreto: al mondo esistono forze superiori e necessità e ambizioni ben più alte dell’amore. Un giorno lo capirai: col mio aiuto, la tua mente potrebbe spaziare oltre i tuoi limiti. Se sono qui, è per offrirti di nuovo molto più di quanto vuoi chiedermi: so che non vuoi che ti guarisca, rendendoti così il futuro di fama e onore che hai sempre sognato, desideri invece che impieghi la mia Magia in favore di una Strega che, se vivrà, sposerà un altro e non te. Perché?Non ha alcun senso!”
    “Forse non ha senso, ma, Milord, non rimane molto tempo e solo la Vostra Magia può risvegliarla. Guarire me stesso, pur faticoso, è nelle mie possibilità, dipende da volontà e tempo. Salvare lei, invece… Io non ne sono capace, mentre Voi, Milord, Voi potete salvarla, perché Voi non siete solo il più potente Mago dei nostri tempi, Voi siete l’erede di Salazar: ho capito cos’ho visto nel Pensatoio, so chi Siete, nelle Vostre vene scorre il Sangue del più potente Mago di sempre, voi siete Colui che tutti aspettiamo da secoli! Perciò Vi prego, Voi che potete, salvatela! Vi offro in cambio la mia vita, o qualsiasi cosa vogliate! Farò qualsiasi cosa per Voi,Ve lo giuro… Qualsiasi…”

Milord mi fissò ed emise un profondo sospiro, le sue labbra sottili, quasi inesistenti, si distesero in una specie di sorriso, sembrava pervaso di serenità e soddisfazione. Sapevamo entrambi che alla fine aveva vinto.

    “La vita di ognuno di noi ha un prezzo, Mirzam Sherton, anche quella di chi ripete di non essere in vendita. Ora ti chiedo: è questo il tuo prezzo, il prezzo di uno Sherton? Potresti reclamare di più: ricchezza, potere, gloria. Vuoi davvero questo? Solo la vita, nemmeno l’amore, di quella Strega?”
    “Sì, Milord, solo la sua vita, non m’interessa nient’altro! Voglio soltanto che Sile guarisca…”

*

Spettava a mio padre, capo della Confraternita, presiedere quelle cause che, per tanti motivi, i Maghi del Nord preferivano risolvere lontano da Londra. Corso aveva strepitato per giorni, accusando mio padre di volere insabbiare la vicenda, e aveva preteso di portarmi davanti al Wizengamot. Quando, però, comprese che, a Londra, tutti i Maghi presenti nella Cancelleria, la notte di Imbolc, avrebbero dovuto testimoniare che suo figlio aveva pronunciato una Maledizione senza Perdono contro di me, e che entrambi saremmo andati incontro a una condanna ad Azkaban, Edgar Corso si ravvide e acconsentì che la questione fosse risolta a Doire. Tra l’altro, dopo l’incontro notturno con Milord, nel giro di pochi giorni, si era rapidamente risolta ogni cosa e tutti gli interessati non vedevano l’ora di dimenticare e andare avanti con la propria vita. Sile, uscita dal coma senza riportare apparenti conseguenze, si apprestava a raggiungere Lucien, curato in Francia per alcune bruciature alle mani, e sarebbe rimasta lì, per riposarsi e per organizzare finalmente il loro matrimonio, fissato per Hogmanay. Appresi la notizia con un misto di sollievo e rassegnazione: dopo la paura di quelle ultime settimane, l’importante per me era solo che fosse viva e cercavo in ogni modo di convincermi che quelle sue parole, quel “Ho amato solo te”, detto prima di perdere i sensi, fosse il frutto della confusione, del dolore, della paura provati in quei momenti spaventosi. Non potevo soffermarmi a credere che fosse la verità, o avrei commesso qualche altra pazzia. E non potevo permettermene altre: dovevo smettere di pensare a lei, dovevo affrontare la Commissione e mio padre, tutti chiedevano che si facesse chiarezza sulla vicenda, ed io dovevo dimostrare quali fossero le mie responsabilità e le mie motivazioni.
Rientrare nella Cancelleria, di giorno, nonostante quanto era successo, non mi trasmise alcuna emozione, lontano com’ero da tutto e tutti. Milord aveva accettato di aiutarmi purché m’impegnassi a rimettermi in forze e a difendermi dicendo la verità, perché morto, prigioniero, o invalido non gli sarei tornato utile: mi aveva costretto a bere subito la Pozione che aveva realizzato per me e, in seguito, Rodolphus era entrato sotto mentite spoglie nell’ospedale diverse volte, per somministrarmene un’altra che rese rapido il recupero parziale delle mie gambe. Per questo, quel giorno, riuscii a presentarmi alla Confraternita in piedi, seppur ancora debole e zoppicante, e in parte bisognoso dell’aiuto di Jarvis Warrington. L’aula, al piano terra della Cancelleria, era di dimensioni modeste, costruita con pietre scure e squadrate, coperta da basse crociere sostenute da tozze colonne: i capitelli, di marmo bianco, erano scolpiti con motivi arcaici, testimoniando che erano state erette da quasi ottocento anni. Il pavimento era decorato a mosaico con pietre bianche, nere e verdi a comporre un disegno che rappresentava Habarcat sorretta da serpi intrecciate. Al centro della stanza c’era un lungo tavolo di mogano scuro, con sei seggi per parte e uno scranno a capo tavola, tutti riccamente intarsiati; alle pareti, in alto, si aprivano dodici piccole finestre a feritoia da cui entrava una luminosità tenue e soffusa. Per riscaldare e illuminare l’ambiente, infine, erano stati accesi dodici bracieri d’argento, quattro agli angoli della stanza, due ai lati dell’ingresso e sei a ferro di cavallo attorno al tavolo dei giudici. Quando entrai, i membri anziani della Confraternita erano già seduti ai propri posti e mio padre, a capotavola, stava parlando con Donovan Kelly, seduto alla sua destra. Ai lati del tavolo, disposti su due basse e lunghe tribune di legno, c’era un numero imprecisato di posti a sedere, per chi voleva partecipare alle udienze, ma in quel processo sarebbero rimasti pressoché vuoti, l’ingresso, infatti, era stato concesso solo a parenti e testimoni. Nello spazio di fronte a me, tra il tavolo e l’ingresso, c’erano altri posti, destinati ai testimoni che avrebbero parlato quel giorno: vidi lì, seduti in prima fila, Edgar Corso e sua moglie. Avanzai con passo incerto fino al mio posto, all’altro capo del tavolo, di fronte a mio padre, Warrington mi aiutò a sedermi poi, in imbarazzo, si dileguò scortato fuori da un usciere. Passai lo sguardo sulla tribuna alla mia destra e riconobbi la figura inconfondibile di Fear, avvolto in un lungo mantello nero, seduto nel posto più in alto, isolato, quasi un’ombra addossata alla parete, il viso e le chiome d’argento nascoste nel cappuccio. Mia madre era seduta nella tribuna alla mia sinistra, in prima fila, stretta tra i miei zii e Orion Black, che cercavano invano di farle coraggio. Sospirai: ero solo, ma l’avevo voluto io, avevo imposto a me stesso quella solitudine per non trascinare gli altri con me. Ero di fronte al risultato delle mie scelte, avevo messo tutto in conto fin dall’inizio. Era inutile, adesso, soffrire e avere dei rimpianti.

    “Sei pronto?”

Mi voltai sorpreso, riconoscendo la voce alla mia destra, ma senza capire perché fosse lì.

    “Che cosa ci fate voi qui? Perché non sedete tra gli altri giudici?”
    “Puoi ricusarmi, se vuoi, ma non troveresti in tempo un legale per sostituirmi: tuo padre darà l’avvio tra meno di cinque minuti.”
    “Io non voglio alcun genere di aiuto da…”
    “A tuo padre non basterebbe Herrengton per convincere uno qualunque dei Maghi del Nord a difenderti, visto che sei accusato di omicidio e di aver quasi distrutto un luogo per noi sacro!”
    “Se non è per fare un favore a lui, perché siete qui al mio fianco?”
    “Perché ho bisogno di conoscere la verità.”

Chiusi gli occhi e mi chiesi per quale vero motivo Kenneth Emerson avesse scelto di andare contro il pensiero generale della Confraternita, lui che, da bravo Corvonero, era uno dei più inflessibili custodi delle Regole. Sapevo che mio padre non glielo avrebbe mai chiesto, non si sarebbe mai più umiliato per un figlio come me; forse mia madre, disperata, poteva essersi servita dell’aiuto di Orion e… Di sicuro, però, dagli sguardi che mi lanciava, Emerson non era lì perché credeva alla mia innocenza: non si fidava di me. Aveva un interesse personale, ma non capivo quale fosse.

    “Diamo inizio alla seduta. La Commisisone si riunisce per giudicare Mirzam Alshain Sherton, in merito agli eventi occorsi la notte di Imbolc in questo edificio: signor Sherton, lei è consapevole che sarà giudicato in merito alla morte di Heverard McPatrick, all’aggressione ai danni di Lucien Corso e Sile Kelly, oltre all’incendio che si è verificato in questo edificio, con conseguenti danni a cose e persone. Vorremmo sentire dalla sua voce come si dichiara, qui di fronte a tutti noi.”

Guardai mio padre, mi teneva gli occhi fissi addosso ma non aveva alcuna espressione nello sguardo, nessuna emozione, si rivolgeva a me come a un estraneo; sapevo che doveva rimanere imparziale, ma quello che percepivo in lui, andava ben oltre quello che era richiesto alla sua carica. Sapevo che si sentiva umiliato per colpa mia e che era profondamente deluso da me.

    “Sono colpevole, milord…”

Sentii i brusii levarsi tutti attorno a me e con difficoltà riuscii a mantenermi calmo e concentrato: con la coda dell’occhio vidi mia madre piegare il capo per nascondere le lacrime e mio padre farsi ancora più pallido. Sospirai e, con voce falsamente sicura, andai avanti.

    “… ho volontariamente aggredito Lucien Corso, Sile Kelly e Heverard McPatrick e ho, seppur casualmente, causato l’incendio che ha provocato danni alla Cancelleria, coinvolgendo persone e cose. Io, però, ho colpito il sacerdote McPatrick solo con un Petrificus, non l’ho ucciso!”

Vidi mia madre risollevare la testa verso di me, incredula, e riprendere colore, annuì in maniera impercettibile, i suoi occhi pieni di lacrime tornavano a sperare, mentre Orion la stringeva nel suo abbraccio e mi faceva un lieve cenno d’incoraggiamento. Mio padre, al contrario, non sembrò particolarmente colpito dalle mie parole, anzi mantenne il suo aspetto glaciale, forse credeva che stessi mentendo per salvarmi. Scorsi con gli occhi la tribuna di destra: Fear era andato via.

    “Bugiardo! Voi siete un bugiardo, Sherton!”
    “Silenzio, Corso, o la faccio allontanare! Ci spieghi quest’ultima dichiarazione, signor Sherton…”
    “Entrando nella radura, ho colpito Heverard McPatrick con un Petrificus, perché non intervenisse nel duello, da quel momento non mi sono più curato di lui, perché ero impegnato con Corso.”
    “E chi avrebbe colpito, allora, Heverard McPatrick, dopo il suo Petrificus, signor Sherton?”
    “Quando ho trascinato nella boscaglia Sile, per quanto io ne sappia, è rimasta indietro solo una persona, insieme al sacerdote: avevo colpito Lucien Corso e lui…”
    “Questa è una farsa! Come potete dargli credito? È logico che menta per salvarsi! E voi… come potete essere imparziale voi, signor Giudice? Voi che siete suo padre? Questa è una vergogna!”
    “Corso, la smetta subito o sarà allontanato! Ora deve parlare l’accusato, lei avrà modo di dire quello che ha visto come testimone, quando sarà il suo turno. E alla fine, saranno questi dodici giudici, non io, a emettere una sentenza. È questo che impone la Legge del Nord!”

*

Sapevo che quel giorno avrebbe testimoniato anche lei, ma a me non era concesso assistere a quello che avrebbe detto la maggior parte dei testimoni. Dovevo però restare lì, come tutti gli altri giorni, perché Emerson spesso m’interrogava ancora su qualche dettaglio, per affrontare al meglio i testimoni: ormai mi aveva fatto ripetere un migliaio di volte, fino alla nausea, gli avvenimenti e doveva aver capito anche lui che non stavo mentendo. L’unica cosa che mi rifiutavo di rivelargli era la presenza nella Cancelleria di Rodolphus Lestrange, perché sapevo che non poteva avere passato la feritoia, quindi non aveva relazione alcuna con l’omicidio. Ero però convinto che avesse appiccato l’incendio per salvarmi dall’orda inferocita dei Maghi, e vista la straordinaria tempestività del suo intervento, non potevo che ringraziarlo. Senza di lui, Corso mi avrebbe ucciso, per questo preferivo prendermi la colpa dell’incendio che coinvolgerlo. Quasi al termine di quella mattinata, passata come sempre in attesa nei corridoi della Cancelleria, seduto su una panca di legno, vidi dei lucidi capelli corvini fare capolino tra le figure di tre Maghi di scorta: seguii con gli occhi il gruppetto, mentre il respiro mi si spezzava nel petto all’istante. Una donna li fermò per chiedere notizie ed io ebbi più tempo per osservare quei capelli, soffocando a stento una specie di fuoco che mi lacerava dentro, che mi spingeva ad alzarmi e correre da lei. Fu allora che si accorse di me, voltò la testa nella mia direzione, e sentii lo sguardo, carico di tristezza, di Sile posarsi su di me: aveva appena testimoniato e stava per andarsene, mi chiedevo che cosa avesse detto, se fosse stata sincera o avesse preferito dire la cosa giusta, per chiudere con il passato e guardare al futuro, alla famiglia che aveva intenzione di formare, lontano da tutto quanto avevamo condiviso. Mi bastò incrociare quegli occhi per sapere la verità: quelle sue parole, quella notte, erano sincere. Poi sparì oltre la porta: come mi era stato promesso, era viva e stava bene. Ma io non l’avrei rivista mai più.

*

Emerson mi raggiunse poco dopo con un’espressione strana in faccia, dicendomi sbrigativo che dovevo seguirlo. Ancora confuso per Sile, lo guardavo senza capire: le Norme dicevano che avrei dovuto affrontare la Commissione solo alla fine del procedimento e sapevo che dovevano essere ascoltati ancora numerosi testimoni. Sarebbe andata avanti almeno per altri due giorni. Con difficoltà riuscii a stare dietro al suo passo imperioso, quando, però, vidi che non stavamo andando nell’aula, ma in uno studiolo in cui erano conservati solo faldoni di vecchie sentenze, mi fermai.

    “Non farò un altro passo se prima non mi dite che cosa sta succedendo, Emerson!”
    “Non fare storie, Sherton! Entra e stai zitto!”
    “No! Che intenzioni avete?Perché devo entrare là dentro? Per interrogarmi, va bene anche qui…”

Emerson non rispose, mi afferrò per un braccio e mi cacciò in malo modo nella stanza: non si era mai comportato così da quando lo conoscevo, ero confuso, ci misi un po’ ad abituarmi all’oscurità e a riprendermi dal dolore che quegli strattoni mi avevano causato alle gambe. Poi, malfermo, mentre la mente si faceva più lucida, mi travolse in pieno la paura irrazionale che volesse uccidermi, soprattutto quando dei respiri nell’oscurità mi fecero capire che non eravamo soli.

    “Chi siete? Cosa diavolo volete da me?”
    “Calmati, ragazzo… e siediti”

Emerson mi spinse verso una panca davanti a me, poi mosse la mano nell’aria, tutto attorno a noi, accendendo tutte le lampade a olio appoggiate sui tavoli presenti nella stanza con un solo gesto e permettendomi di riconoscere le persone che ci stavano sedute di fronte: Donovan Kelly, Fear e mio padre.

    “Sollevagli la manica sinistra!”

Fear fumava il suo sigaro dall’aroma inconfondibile e parlò con l’autorità che gli era consueta, Emerson, di cui ora capivo la strana aggressività, mi strattonò di nuovo ed espose la mia pelle al chiarore delle lampade. Il vecchio si alzò con un’agilità impensabile per la sua età, si avvicinò al mio braccio, lo studiò a lungo, prima con lo sguardo, poi col tatto, infine estrasse la bacchetta e, pronunciando delle formule in gaelico, colpì la mia pelle. In ultimo, prima di lasciarmi andare, recitò di nuovo le formule che svelavano segni nascosti, senza usare la bacchetta. Sapevo che cosa stavano cercando: poteva essere stato solo Donovan a parlare agli altri di me e Milord, ma non capivo a che gioco stesse giocando. Non sapeva che, messo alle strette, l’avrei smascherato a mia volta? Ed era lui, non io, ad avere già un Marchio Nero sul braccio! Forse, però, sapendo che avevo giurato fedeltà a Milord, pensava, sbagliando, che avrei taciuto. Vidi Fear fare un cenno negativo agli altri e mio padre riprendere un po’ di colore.

    “Non so che cosa vi sia stato detto, erroneamente, su di me, ma visto quanto v’interessa questo argomento, dovete sapere che qui c’è qualcun altro che, a ragione, dovrebbe mostrarvi il braccio!”

I quattro uomini si guardarono tra loro e guardarono me, un lampo d’inquietudine si accese in tutti loro: osservai Donovan, stranamente non mi minacciò con lo sguardo.

    “Davvero? E chi sarebbe? Siamo tutto orecchi, ragazzo!”
    “Lui!”

Puntai sicuro il dito contro Donovan Kelly, che non fece una piega, mentre mio padre impallidì di nuovo e lanciò uno sguardo preoccupato a Fear. Kelly, chiamato in causa, si alzò e senza tanti preamboli si arrotolò a sua volta la manica, esponendo il braccio sinistro a mio padre e al vecchio, che procedette di nuovo con la sua analisi. Alla fine Fear si rivolse a mio padre ed entrambi mi guardarono interrogativi. Donovan, con la consueta espressione rilassata, piegò il braccio verso di me, perché lo vedessi bene sotto la luce: non c’erano segni sulla sua pelle.

    “Se vuoi, puoi avvicinarti e controllare di persona, Mirzam, non ho nulla da nascondere, sono, però curioso di sapere perché vuoi peggiorare la tua situazione, arrivando a calunniarmi.”
    “Non so come avete fatto a nasconderlo, milord, ma io vi ho visto a Doire con il Marchio Nero, la notte di Samhain: mi avete parlato, dicendomi di dimenticare Sile e dandomi del codardo. Quando vi ho detto che avrei fatto di tutto per dimostrarvi che non lo sono, invece di propormi una prova, avete sollevato la manica e mostrato quel segno. So che siete un seguace di Milord da allora!”
    “Un racconto interessante, Sherton, ma totalmente privo di fondamento: la notte di Samhain Donovan e Sile Kelly sono stati miei ospiti a Inverness e non ho perso di vista quest’uomo per tutto il tempo, al tavolo, dove mi ha vinto un’ingente somma di denaro!”

Mio padre guardò sia Donovan sia Kenneth e annuì, era una circostanza di cui era già informato.

    “E cosa ancora più importante, durante i riti di Hogmanay, è stato tuo padre a presenziare, perciò ha visto bene il mio corpo. Se invece di andare non si sa dove, quella notte, avessi partecipato anche tu, sapresti già che stiamo affermando la verità, dico bene, Alshain?”

Mio padre, perso nei suoi pensieri, annuì di nuovo, impercettibile: evidentemente, per lui, non era più nemmeno il caso di discutere ancora delle mie fantasie.

    “No, non è possibile! Dovete credermi, io so quello che ho visto, io so che…”

Avevo guardato Emerson con sospetto e rabbia, quando aveva fornito un così brillante alibi a Kelly, ma la tacita conferma di mio padre mi atterrò: sapevo che era deluso da me, perché avevo fatto delle cose orribili, e presto ne avrei fatte di peggiori, probabilmente, ma quel suo silenzio… Fear gli si avvicinò e gli fece cenno di seguirlo, mio padre si alzò riluttante e andarono a parlottare tra loro. Non sentii una sola parola, ma da come si fronteggiavano, capii quanto fosse tesa e animata quella discussione: Fear sembrava spiritato, mio padre negava con la testa. Il vecchio, alla fine, esasperato, tornò davanti a me e, con le mani grinzose appoggiate sul tavolo, mi parlò fissandomi con occhi ardenti.

    “Le possibilità sono due, ragazzo: o ti stai prendendo gioco di tutti noi, complicando ancora di più la tua situazione già difficile, oppure… Oppure… Stiamo subendo quell’attacco di cui parlo da tempo, che mi aspetto da tempo e che nessuno di voi vuole ammettere!”
    “Ti prego, Fear, non tirare fuori le tue fantasie anche in casi semplici come questo! È evidente che mio figlio ha fatto una delle sue abituali sciocchezze e ora cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità inventandosi queste assurde accuse contro Donovan!”
    “Forse… ma se non fosse così? Sulle braccia di Donovan non ci sono segni e quella notte, loro due erano insieme: evidentemente Donovan non è coinvolto! Ciò non significa però che il ragazzo menta: lo conosciamo tutti, non è pazzo, né stupido, è solo innamorato di Sile e ha la tendenza a mettersi nei guai, ma a parte questo… Perché dovrebbe mentire?”
    “Te lo dico subito, il perché: ritiene Donovan responsabile della sua rottura con Sile, quando invece è stato lui a rovinare tutto con le sue indecisioni e le sue pazzie!”
    “No, non mi basta, credo che Mirzam abbia visto qualcosa e stia dicendo la verità, come tutti noi…”
    “Fear, la verità può essere una sola, non possiamo avere ragione tutti quanti!”
    “Invece sì, Kenneth: se qualcuno avesse assunto le sembianze di Donovan con una Polisucco per avvicinarlo, ingannarlo e magari, in qualche modo “stregarlo”… può essere un complotto…”
    “Sì, è possibile, in fondo tutti a Doire sapevano che avrei passato Samhain a Inverness con Sile…”
    “No, Donovan, no! Nessun Mago del Nord farebbe una cosa del genere! Mirzam è uno Sherton, tutta la Confraternita ha giurato fedeltà a Herrengton! Nessuno dei nostri li tradirebbe!”
    “La festa di Samhain a Doire è stata organizzata da suo cognato, che non ha le Rune, Kenneth, era una festa aperta a tutti, quindi potrebbe averlo avvicinato chiunque. Inoltre, anche se a nessuno di noi piace ammetterlo, alcuni Slytherin del Nord …”
    “No… non voglio ascoltarti, Fear… nessuno… e ripeto… nessuno dei nostri…”
    “Apri gli occhi, Kenneth: tra i Maghi del Nord serpeggia il sospetto che questo nuovo Mago Oscuro, questo Lord Voldemort, possa essere l’erede di Salazar Slytherin! Tutti conosciamo le opinioni di Alshain in merito: perciò per quei Maghi, i traditori sono gli Sherton, che non vogliono piegarsi a Milord!Vogliono spaccare la Confraternita, renderci deboli e alla fine distruggerci…”
    “Mi rifiuto di credere che qualcuno possa tradire Alshain per una supposizione! Se fosse l’erede di Salazar, avrebbe già fatto il suo ingresso a Herrengton!”
    “Per molti non sarebbe più una supposizione, se il figlio contestasse le opinioni del padre e commettesse un omicidio spinto da Milord! Capisci ora che cosa sta succedendo, Emerson?”
    “Io non ho ucciso nessuno, ho solo duellato con Corso! Nessuno di voi c’era: gli unici che sanno, sono quelli che erano con me, e nessuno di loro può dire di avermi visto uccidere, appiccare incendi o altro, perché non ho fatto niente del genere, né per volontà mia, né per volontà di altri!”
    “Basta così…”

Mio padre ci guardò tutti, riemergendo dai suoi pensieri e gelandoci con una voce che prometteva vendetta, Fear fece un cenno a Emerson ed entrambi tacquero, ancora alterati e confusi.

    “Che cosa dobbiamo fare, Alshain?”
    “L’unica cosa possibile: ascoltare gli ultimi testimoni e chiudere tutto entro stasera… del Marchio Nero non voglio sentire parola fuori di qui. Fear, tu sai cosa devi fare, è illegale, lo so, ma nessuno oltre a noi deve avere memoria della testimonianza di Sile riguardo al Marchio…”
    “Alshain… ma… bisognerebbe prima capire se…”
    “Ho già detto come la penso: la faccenda del Marchio Nero è chiusa!”

Emerson, poco convinto come tutti gli altri, mi riagguantò per portarmi fuori, io, sconvolto, comprendendo per la prima volta in parte quello che stava succedendo, volevo restare per far capire loro che stavano sbagliando, che bisognava scoprire chi fosse quel Mago nel bosco. Invano. Quando ero ormai sulla porta, mi voltai, in tempo per vedere mio padre alzare su di me uno sguardo enigmatico e al tempo stesso carico di dolore: anche lui, come tutti, credeva a Fear e per questo stava per rompere il giuramento fatto davanti al nonno, tanti anni prima, al suo ritorno a Herrengton, quello per cui la sua famiglia sarebbe venuta sempre prima di ogni altra cosa. Ero stato io, con le mie azioni, a metterlo davanti a quel dilemma e ora si trovava a dover scegliere tra aiutare suo figlio, o abbandonarlo al proprio destino, per il bene della Confraternita e delle Terre del Nord.

*

Bandito dalla Confraternita e privato del potere delle Rune: questa la decisione del Consiglio dei Saggi, emessa a Doire il 25 febbraio 1970. A mio padre spettava decidere se rendere permanente quella sentenza, per ora limitata ai successivi sei mesi. Appurato, grazie a Sile, che non avevo avuto la possibilità di uccidere McPatrick, né quella di appiccare l’incendio, i dodici Maghi, accogliendo le teorie complottistiche di Fear, avevano adottato solo misure mirate alla difesa della Confraternita. Con quella sentenza, però, proteggevano anche me: mi avevano, infatti, messo nelle condizioni di non poter esaudire certe richieste di Milord, nemmeno se l’avessi voluto veramente. I giudici avevano lasciato l’aula appena era stata emessa la sentenza, senza dire più alcuna parola: smessi gli abiti del giudice, mio padre, probabilmente, stava rivivendo la propria esperienza personale, quando era stato cacciato dal nonno, e in quel momento soffriva quanto me, perché sapeva cosa avrei provato nei mesi successivi, lontano da quanto avevo di più caro e per giunta completamente solo. Io non sapevo ancora cosa provassi: anche se il mio allontanamento fosse stato solo momentaneo, i miei rapporti con la mia famiglia e il mio mondo non sarebbero più stati gli stessi, inoltre avevo perso Sile e le mie condizioni fisiche erano tali che forse non avrei più giocato a Quidditch. Vedere scagionato Donovan, poi, aveva aperto una voragine di dubbi dentro di me: chi c’era dietro a tutta quella vicenda? Chi aveva stregato Corso perché mi lanciasse un Avada? C’era qualcun altro nel bosco, che aveva stregato lui e ucciso McPatrick? E se non fosse stato Rodolphus ad appiccare l’incendio? Non riuscivo a non pensare che dietro a tutto ci fosse il mandante dell’aggressione di dodici anni prima e per questo, più di ogni cosa, temevo per i miei. Emerson mi strinse la mano, io lasciai perdere i miei pensieri e lo guardai.

    “Credo che ora dovresti parlare con tua madre, Mirzam…”

Mi voltai, lei era lì, a pochi passi da me: la mamma, ascoltata la sentenza, pur rattristata per la lontananza forzata, aveva abbracciato radiosa Orion e si era avvicinata per ringraziare Emerson, soddisfatta che fossi vivo e libero e, soprattutto, convinta che presto avremmo sistemato le cose. Aveva provato a parlarmi, ma io, per evitarla, mi ero allontanato per firmare un assegno a Emerson e cercare Warrington.

    “Questi sono parte del vostro onorario, Emerson… appena avrò il resto…”
    “Mirzam, lo sai che non ti ho seguito per denaro, ma per conoscere la verità…”
    “E credete di conoscerla meglio di prima, Emerson?Prendeteli o bruciateli, a me non interessa…”

Mi voltai e feci qualche passo verso l’uscita, sorretto da Jarvis, che mi avrebbe riaccompagnato a Inverness, continuando a ignorare mia madre. Orion cercò di fermarmi, per convincermi a parlarle, ma io, imperterrito, mi nascosi nella mia corazza di totale distacco.

    “Milord, io non ho più famiglia: questa sentenza lo conferma… Non ho più nulla da dire, a nessuno di voi… Vi sarei grato se Kreya raccogliesse le mie cose, visto che non posso mettere piede a Herrengton, e me le spedisse a Inverness… Sarei disposto anche a comprare Kreya: è l’unica cosa che vorrei riferiste a Lord Sherton… E ora, se non vi spiace, addio…”

Orion mi seguì, ammutolito, poi mi strattonò in malo modo, mi sibilò all’orecchio che se non fosse stato per le mie condizioni di salute mi avrebbe volentieri spaccato la faccia, per come mi comportavo con mia madre, perché lei che non meritava un atteggiamento simile da parte mia. Io rimasi indifferente alle sue minacce, guardandolo senza nemmeno vederlo, quasi sfidandolo a farlo davvero. Dentro di me, speravo che mi ferisse, che mi facesse del male. Perché forse, solo vedendolo scorrere, mi sarei convinto di avere ancora il mio sangue nelle vene, di essere ancora, in parte, vivo. Di non essere quel mostro che avevo visto nel delirio, e che ora riconoscevo avere i tratti di Milord.
fine flashback

***

Mirzam Sherton

Amesbury, Wiltshire - ottobre 1970

Andai ad aprire e mi ritrovai di fronte mio padre, sorridente e al meglio delle sue condizioni: la preoccupazione e quel cenno di debolezza che avevo visto il giorno della nascita di Wezen erano solo un pallido ricordo. Alto ormai poco più di me, i capelli corvini sciolti sulle spalle, vestiva alla babbana, con un completo grigio antracite e la camicia di seta, sotto il mantello scuro che aveva iniziato ad allentarsi già all’ingresso. Lo feci accomodare nel salottino, con un colpo di bacchetta ravvivai il fuoco nel caminetto ed evocai sul tavolo la bottiglia di vino che tenevo nella mia sacca da viaggio: l’avevo comprato a Londra per lui, prima di smaterializzarmi diretto nello Wiltshire. Lo servii e lo guardai mentre faceva volteggiare il liquido rubino due o tre volte nel suo calice, ammirandone rapito la trasparenza, seduto di fronte a me davanti al caminetto, poi ne annusò a occhi chiusi il profumo, infine fissò lo sguardo su di me, assaggiandolo compiaciuto.

    “1964, una delle migliori annate recenti per il Brunello… Un’ottima scelta!”
    “Se ho davvero indovinato, è solo merito del mio insegnante!”

Mio padre sorrise e si guardò intorno: avevo sistemato solo alcuni libri e qualche foto prima che entrasse, e capii subito cosa avrebbe catturato la sua attenzione, la foto con Rodney Stenton e gli altri ragazzi della squadra di Inverness, scattata circa un anno prima. Sembrava passato un secolo.

    “Riprenderò gli allenamenti la prossima settimana, perciò ti ringrazio di avermi sistemato qui, perché potrei star fuori anche tre giorni di seguito, o ritornare piuttosto tardi, a volte… E rischierei di disturbare la mamma e Wezen…”
    “Non devi rendere conto dei tuoi spostamenti, Mirzam, ma sarebbe gentile se il tuo Elfo ci annunciasse per tempo quando ti fermerai a mangiare con noi, così Kreya si organizzerà al meglio.”

Annuii, incredulo di essermela cavata con così poco.

    “Non senti più dolore alle gambe, vero?”

La domanda arrivò a tradimento: pensavo che avremmo impiegato ore a concordare i termini della mia permanenza lì, ero pronto a lottare perché non volevo si preoccupasse per le mie uscite notturne. Invece… Non ero pronto a rispondere a domande di tutt’altro genere. Soprattutto a domande di quel genere. Mentre mi fissava addosso i suoi occhi indagatori, negai con la testa ma, turbato, sfuggii il suo sguardo fermo, fingendo di osservare gli alberi, fuori della finestra.

    “Cerca di non forzare il recupero: se sarà necessario, Rodney aspetterà. Le tue gambe…”
    “Le gambe non mi fanno più male da tempo, padre, ma, comunque vada, ho già deciso che questo sarà l’ultimo anno che dedicherò alla mia preparazione…”
    “Tu sei nato Cercatore, Mirzam: un anno in più, per guarire bene, non è nulla, di fronte a quindici o venti anni di attività ai massimi livelli! Hai già tecnica e una fibra particolarmente forte…”
    “Forse hai ragione, ma… vedi… io non intendo perdere altro tempo… La verità è che la vita mi sta scorrendo via senza lasciarmi nulla in mano, se mi confronto con i miei amici, io non ho ancora costruito niente: non ho una famiglia mia, come Jarvis o Augustus, né un’attività o uno scopo. E forse quella del Quidditch non è nemmeno la mia strada.”
    “Capisco… Immagino che tu abbia scoperto di avere altri interessi in quest’ultimo periodo…”

Mi sembrò che quell’affermazione sottintendesse brucianti verità, che mio padre sapesse cosa avevo fatto in quei mesi, che temesse che fosse a quello scopo che avrei dedicato il resto della mia vita. Era questo che stavo dicendo? Ero pronto a rinunciare al Quidditch? O parlavo così per prepararmi al peggio? Al momento in cui anche il mio ultimo sogno sarebbe sfiorito? Sapevamo entrambi che solo salendo su una scopa e volando, avrei scoperto se la mia volontà di continuare si sarebbe sposata alla resistenza delle gambe o le mie sarebbero rimaste velleità senza fondamento.

    “Non lo so, può darsi. Io… ci dovrei riflettere… Voglio valutare tutto…”
    “Capisco.”

Mio padre annuì di nuovo, gelido, poi si alzò e con un incantesimo richiamò il suo mantello.

    “Te ne vai già? Credevo…”
    “Vedo che hai molto da fare qui, Mirzam… Ti lascio al tuo lavoro! Senza Kreya, sistemarti ti porterà via tutto il pomeriggio e non voglio disturbare oltre. Se ti fa piacere, sei invitato a cena...”
    “Io non volevo offenderti…”
    “Non mi hai offeso, Mirzam.”
    “Allora perché te ne vai così? Credevo avessi delle domande da farmi…”

Mi fissò: ne aveva, eccome, di domande, glielo leggevo in faccia, ma non mi avrebbe reso le cose semplici, non mi avrebbe indirizzato con le sue parole, dovevo scegliere da solo cosa dire e cosa tacere. Avrei dovuto fare io la prima mossa. Lo sapevo, tornando da lui, avevo messo in conto anche questo.

    “Hai ragione, scusami… Limitarmi a rispondere sarebbe troppo semplice. Dire quello che ho nel cuore è ben diverso ed io, come forse immagini, ho molto da dirti… Mi hai dato tutto questo, la libertà di fare quello che voglio, ma devo anche imparare ad affrontarti, da adulto. Hai ragione.”

Mio padre, interessato al mio diverso atteggiamento, mi fissò con un’aria strana, annuendo: tornò a sedersi, in silenzio, io invece andai alla finestra, guardandolo attraverso il vetro, pensando che così fosse più facile raccontare la verità.

    “Immagino che tu voglia sapere di quella notte, ma non so come iniziare il discorso: la verità te l’ho detta allora, e ti giuro che le cose sono andate in quel modo. Non ho detto che con me c’era Rodolphus, vero, ma lui ha aspettato fuori della feritoia, non aveva senso coinvolgerlo nella storia dell’omicidio. Forse ha appiccato l’incendio, ma visto che potrebbe avermi salvato da un Avada…”
    “Era un motivo valido per non coinvolgerlo, in effetti… Sapevo già che c’era anche lui, siete stati bravi, ma avete lasciato qualche traccia, le sue finivano all’ara di alabastro: suppongo abbia provato a stregare le candele per non farle spegnere e forse è così che è scoppiato casualmente l’incendio…”

Mi sorrise, comprensivo, ed io pensai che quel maledetto pallone gonfiato di Rodolphus fosse davvero la persona più incredibile che avessi mai conosciuto, se al termine di una vicenda tremenda come quella era riuscito a guadagnarsi, lui, un Lestrange, addirittura la benevolenza di mio padre.

    “D’accordo, almeno una domanda ha trovato risposta... Io so di aver commesso un errore, un terribile errore, quella notte, ma se mi chiedi il perché, non so risponderti: non so cosa mi sia passato per la testa, quando ho deciso di… ma appena sono entrato nel bosco, ho capito che desideravo solo parlare con Sile… Quando li ho visti insieme, la gelosia mi ha accecato, vero, e… Salazar… non sai quanto ho desiderato di nuovo ucciderlo, ma se l’avessi fatto, lei…”

Non mi ero accorto di aver chiuso gli occhi, non mi ero accorto che mio padre si era alzato e si era avvicinato: mi afferrò per un braccio, mi strinse a sé, mentre perdevo definitivamente quella mia lotta impari contro le lacrime che scendevano sulla mia faccia già da qualche istante, senza controllo.

    “Mi spiace, ti ho deluso ancora, sono solo un ragazzino, sono solo un idiota che ha rovinato tutto!”
    “No, Mirzam, no, non sei un idiota! E al tuo posto avrei fatto lo stesso errore, se può chiamarsi errore, mettere in gioco tutto, persino la propria vita, per chi si ama. E al contrario di te, io non sarei nemmeno riuscito a fermarmi in tempo: tu sei sempre stato migliore di me, Mirzam, tu senti la voce della tua coscienza. E spero che forse un giorno questo ti aiuterà a perdonarmi.”
    “Perdonarti? Io? E per cosa? Per i guai che mi sono cercato da solo?”
    “Perché ho commesso troppi errori nel corso degli anni, errori che ti hanno portato a non trovare in me qualcuno con cui confidarti e chiedere consigli. Ho pensato tanto in quei giorni Mirzam, quando di nuovo ho temuto di perderti, ai miei errori soprattutto… Quando ti sei ripreso, però, io… invece di ringraziare gli dei, io ho sbagliato ancora. Non ho capito: ho pensato che mi avessi tradito, che… Invece qualcuno ha approfittato del tuo amore per lei per provare a dividerci…”
    “In quel momento non eri soltanto mio padre: dovevi proteggere anche tutti gli altri, non solo me… Io potevo essere un pericolo anche per i miei fratelli, per te, per la mamma… Inoltre, io ho sempre pensato che quella di Milord fosse la strada da percorrere, sai che l’ho ascoltato, che l’ho incontrato… E sai cosa ho visto nel pensatoio… Era normale sospettare di me…”
    “Vorresti dire che i miei errori erano giustificati? No, non è così, io sono tuo padre, dovevo capire!”

Mi staccai da lui, lo guardai. Avevo riflettuto a lungo in quei giorni, da quando era nato Wezen e mio padre mi aveva prospettato la possibilità di ritornare all’interno della famiglia e della Confraternita. Per questo l’avevo voluto lì, subito, per dirgli tutta la verità e informarlo di alcuni aspetti che ignorava. Dovevo farlo adesso o non avrei più trovato il coraggio; inoltre, se avesse scoperto la verità da solo, non sarebbe più riuscito a perdonarmi. Se, invece, avessi fatto, ora, la prima mossa...

    “Per favore, siediti e ascoltami… Senza interrompermi… C’è un motivo serio se ti ho chiesto di vederci subito… Tu non hai sbagliato, su di me: alla fine, ho davvero preso quella strada, anche se questo non c’entra nulla con i fatti di quella notte… o almeno non del tutto…”
    “Che cosa? Mi stai prendendo in giro, Mirzam… vero? Stai scherzando, vero?!”
    “No, non sto scherzando: non ho ancora preso il marchio ma è solo questione di tempo…”
    “Sei forse impazzito?”
    “No… Ci ho riflettuto a lungo e alla fine… ho capito che era l’unica soluzione possibile…”
    “L’unica soluzione? Non può essere vero! Non puoi essere sceso a patti con Lui! L’hai detto tu stesso, cosa hai visto fare ai Suoi uomini! Ho visto il tuo disgusto, tu non sei come loro!”
    “Hai ragione, ma ho avuto bisogno di Lui e l’ho cercato… e dopo… ho deciso di seguirlo…”
    “Chiedere aiuto a Lui? A Lui? Per avere che cosa? Quando mai ti abbiamo negato aiuto, io e tua madre? Salazar… Non dirmi che… l’hai fatto per la tua guarigione, vero? Oh no… no! Salazar! Hai davvero creduto fosse necessario comprarla da Lui? Hai davvero così poca fiducia, non in me, ma in tua madre, da pensare che non avrebbe mosso un dito per aiutarti? Perché? Per le accuse che ti muovevano? La conosci così poco? Sei nostro figlio, Mirzam, sei uscito dal suo ventre! L’unica cosa che conta per noi, per lei, è che tu stia bene, qualsiasi cosa tu possa fare!”
    “No, padre, no… non è come credi!”
    “Stai zitto! Come hai potuto farle una cosa del genere?”

Era saltato in piedi, sconvolto e allucinato, il fatto di aver rinunciato persino all’aiuto di mia madre lo aveva colpito più di tutto il resto, perché poteva aspettarsi che, dopo i nostri trascorsi, non mi fidassi del tutto di lui, ma la mamma era sempre stato un punto fermo nella mia vita. Non poteva immaginare che non avevo avuto scelta, che non era per me, che avevo chiesto l’aiuto di Milord.

    “Per favore… Ti prego… Calmati e ascoltami… Non è come credi… Il punto non è questo…”
    “Ah no? E quale sarebbe, allora? Hai di colpo provato una necessità viscerale di andare in giro ad ammazzare Babbani e Sanguesporco? È questa l’attività principale dei tuoi amici, mi pare…”
    “Io non ho ucciso nessuno… Mi devi credere!”
    “Per ora, forse! Ma per quanto tempo sarai il Suo giocattolino nuovo, da trattare con riguardo? Quando si stancherà della novità, vorrà da te quello che vuole da tutti! Che cosa credi? Che ti abbia chiamato a sé, per invitarti a raccogliere margherite nei campi? Svegliati Mirzam! Non so che cosa quel Maledetto ti abbia promesso, ma di certo ti ha raggirato!”
    “Non mi ha promesso nulla, a parte quello che gli ho chiesto e che mi ha già dato… Abbiamo parlato molto, mi ha fatto vedere delle Magie e delle pozioni particolari…”
    “E sì, perché senza di Lui, c’era il rischio che tua madre ed io t’insegnassimo solo Magia infima, di livello scolastico, vero? Salazar! È bastato star lontani pochi mesi per buttare al macero vent’anni!”
    “Ti sbagli! Sono qui, oggi, proprio per questo, per dirti delle cose importanti… Per non buttare al macero quello che c’è tra noi… Ascoltami… Milord è davvero l’erede di Salazar Slytherin, l’ho capito guardando nel Pensatoio e ne ho avuto anche la prova… Ho appreso molte cose, in questi mesi, cose che possono tornare utili a te, alla Confraternita e alla nostra famiglia…”

Si lasciò cadere sulla sedia, esasperato, lo sguardo perso sul soffitto, in silenzio. Credevo di aver fatto una breccia, ed ero in attesa che m’invitasse a continuare, quando invece mi fissò di nuovo, una luce malevola negli occhi.

    “Perché sei qui, Mirzam? E rispondimi sinceramente, perché credo di meritare almeno un po’ di verità da parte tua… Ti ha mandato Lui? La tua missione è convertire me alla sua causa? Beh, perdi il tuo tempo… E sappi che t’impedirò in ogni modo di avvicinare tua madre e i tuoi fratelli con le bestemmie del tuo “Milord”… Però sono tuo padre e voglio essere generoso con te, ancora una volta, l’ultima volta! Ti consiglio di approfittare di un’offerta che non ti farò più in seguito. Devi lasciarlo, Mirzam, devi farlo adesso! Subito! Non preoccuparti, se temi la persecuzione dei Suoi seguaci, ti aiuterò a nasconderti… Conosci la storia della figlia di Orion, sai che, se voglio, so “far sparire” le persone e metterle al sicuro per sempre…”
    “Io non ho alcuna intenzione di fuggire, né di tornare sui miei passi, padre, né mi è stato chiesto di approfittare della tua ospitalità per convertirti… Lui nemmeno saprà quello che ti ho detto…”
    “Sì, certo… certo… lo immagino! Credi che sia così idiota da non capire che è tutto un suo piano?”
    “Beh, pensa ciò che vuoi… Io ora ti dirò quello che so, poi tu, di queste informazioni, farai ciò che credi… Milord da me non vuole nulla, a parte i contatti che posso garantirgli tra amici e conoscenti, invece per te ha una vera ossessione, vuole sapere tutto di te, vuole che tu aderisca alla sua causa ad ogni costo, gli interessa solo questo, e non credo sia solo per il tuo nome, come sosteneva Fear. Io credo che per i suoi progetti, tu sia essenziale, che non possa fare a meno di te…”
    “E dove sarebbe la novità in quello che mi stai dicendo? Senza di me, Milord non avrà mai il sostegno della Confraternita, l’hai visto con i tuoi occhi… e senza Herrengton non può convincere gli Slytherin di essere l’erede di Salazar! Se è chi dice di essere, conosce anche il modo di entrare nelle Terre del Nord, non ha bisogno del mio aiuto… Perciò puoi dirgli, fin da subito, che non ho alcuna intenzione di incontrarlo: ha perso ogni possibilità con me, quando ha deciso di rovinare mio figlio!”

Non l’avevo mai visto così furente, sembrava una belva che avrebbe lottato fino alla morte per ciò che aveva a cuore. E non mi avrebbe mai creduto, lo sapevo, anche se non ero mai stato tanto sincero quanto in quel momento.

    “Hai ragione, ma ora, per favore, lascia perdere la rabbia e ascoltami, perché tu non sai ancora tutto… Ricordi? Anche Emerson, quel giorno, ha detto:“Se fosse l’erede di Salazar, avrebbe già fatto il suo ingresso a Herrengton!”. Io ti assicuro che Lui è l’erede di Salazar, e credo di aver capito perché non può farlo, e perché gli servi così disperatamente tu…”
    “Che cosa cerchi di fare? Il doppio gioco? Milord crede di fregarmi con questa tua recita? Se non intendi allontanarti da lui, Mirzam, il discorso Milord non è gradito in questa casa… Non ho intenzione di metterti alla porta, e non per te, ma perché tua madre ne soffrirebbe troppo e per causa tua ha già sofferto a sufficienza, ma ti avverto, al primo cenno, non mi fermeranno nemmeno le lacrime di tua madre… Non sto scherzando!”
    “D’accordo, mi sta bene, non parlerò mai più di Lui con te, però, ora, per favore, ascoltami per l’ultima volta: puoi credermi o no, ma ti scongiuro di tenerne conto. Milord è l’erede di Salazar ma credo sia un Mezzosangue! Ho provato a dargli appuntamento a Loch Moidart e in altre località delle Terre del Nord, ha sempre accampato scuse… Se è come sospetto, non può rivelarsi per ciò che è senza averti prima convinto a mettere tra le sue mani Habarcat e...”
Mi ascoltava in silenzio, rifletteva, ponderava la situazione, mi guardava per capire se stessi affermando la verità, o piuttosto fossi un pazzo esaltato. O peggio ancora un traditore. Non capivo a quale conclusione fosse arrivato, probabilmente che fossi solo un pazzo.

    “Bellissima teoria… ma io ne ho una migliore: quel Mago è un impostore e si sta prendendo gioco di te… E tu, per motivi che sai solo tu, sei diventato improvvisamente così pazzo e sciocco da piegarti ai suoi voleri e farti convincere delle sue menzogne… L’erede di Salazar un Mezzosangue? Non lo senti questo rumore? È Salazar nella tomba che strepita come un ossesso…”
    “Dammi dello sciocco quanto vuoi, dammi del pazzo, padre, ma se è davvero un Mezzosangue… anche se mettesse le sue mani Habarcat, non potrebbe servirsene senza l’anello… Ritrova e distruggi l’anello che Salazar usava per governare Habarcat… Farlo non ti costa niente, a noi non serve… Se ho ragione, però, avremmo fatto la differenza tra la nostra vita e la nostra morte… e la Confraternita, la nostra famiglia, tutti noi, non correremmo più alcun pericolo.”
    “Ammesso che tu abbia ragione e mi stia dicendo la verità, c’è una cosa che non capisco, Mirzam… Perché lo stai facendo? Anche adesso… Hai detto “Quell’anello farà la differenza tra la nostra vita e la nostra morte…”. Nostra, Mirzam? La mia e quella della tua famiglia, della tua gente, forse, ma di certo non la tua. Se davvero mi muovesse guerra, faresti bene a decidere da che parte stare, e soprattutto evitare cambi di fronte, perché il tuo Milord non credo apprezzi certi comportamenti. Perciò, o decidi ora di lasciarlo, o vai avanti per la strada che hai scelto, non ci sono vie di mezzo: io non intendo usarti per avere informazioni, ti sei già messo nei guai a sufficienza”
    “Mi stai dicendo che non cercherai quell’anello?”
    “Questo genere di scelte, d’ora in avanti, non ti riguarda più, Mirzam… Hai scelto tu di non far più parte del nostro mondo, e non mi riferisco a quello che è successo nella Cancelleria, mi riferisco a quando hai deciso di affidarti a Milord…”
    “Hai ragione… Hai ragione soprattutto a essere arrabbiato con me, ma sono sicuro che un giorno capirai… e quel giorno mi dirai di nuovo che al mio posto avresti fatto lo stesso…”
    “Se lo credi davvero, Mirzam, non conosci affatto tuo padre. Per come la vedo, tutto questo è un’assurda follia: se pensi sia l’erede di Salazar, dovresti aiutare Milord, indipendentemente da cosa può offrirti, non ostacolarlo, perché gli Sherton da sempre sono fedeli a Salazar; d’altra parte, se fossi fedele alla tua famiglia, non avresti mai chiesto aiuto a quel Mago ma a noi…”
    “Forse è vero… ma non tutto è così semplice e lineare. Non tutto è come appare…”
    “Esattamente… non tutto è come appare… ed io, al contrario di te, amo le certezze…”

Si alzò, deciso a lasciarmi lì, stanco di quelle chiacchiere per lui inutili, almeno quanto per me erano fondamentali: non avevo ottenuto nulla di quanto mi ero prefisso, credevo che mi avrebbe ascoltato e promesso di pensarci, di cercarlo, quel famigerato anello, invece… Si avvicinò al mobile su cui avevo disposto alcune foto, si fermò ad ammirarne una, che ci ritraeva felici, alcuni anni prima: io e mio fratello in tenuta da Quidditch ai lati di mio padre, Meissa sulle ginocchia della mamma. Di fianco c’era quella scattata alla fine del mio sesto anno, il periodo per me più bello, quando credevo che nel mio futuro ci sarebbero state certezze simili alle sue, il Puddlemere e la mia Sile.

    “Ti aspetto a cena… Se vuoi… ma prima dimmi una cosa: qual era la prova?”
    “Come?”
    “Quale prova ti ha dato Milord per convincerti di essere l’erede di Salazar?”

Ripensai agli occhi chiari di Sile, all’ultima volta che l’avevo vista nella Cancelleria, sana e salva. Sapevo di non avere più nulla, che la mia vita si sarebbe trasformata in un inferno, ma ne era valsa la pena, perché anche solo sapere che da qualche parte, nel mondo, qualcuno avrebbe ascoltato ancora la sua risata, significava per me vivere almeno di speranza.

    “Stavo per sbagliare di nuovo, con te, Mirzam… E’ vero, hai ragione: io mi sarei comportato allo stesso modo, proprio come te. Perché come te, gli avrei chiesto non che guarisse me, ma che salvasse lei…”

E allora, finalmente, lasciai libere quelle lacrime, senza più vergognarmene.



*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito ecc ecc.

Valeria



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