Il White Rose Garden
era un piccolo parco nel modesto quartiere di Hire’s. Sui due
lati era
fiancheggiato da una serie di edifici tutti uguali, divisi in
appartamenti a malapena decenti. Era un posto tranquillo, la gente
onesta che vi abitava tendeva a badare solo ai fatti propri. Walter
Jasper Coughly era particolarmente legato a quel parco. Quando era
piccolo, andava spesso lì a giocare con i suoi amici: questo
era ciò
che rispondeva alle insistenti raccomandazioni dei suoi assistenti. Un
uomo importante, lui, ammirato dalla maggioranza dei londinesi e odiato
da quella parte che, invece, trafficava nell’ombra. Negli
anni in cui
era stato capo di Scotland Yard era riuscito a dare del filo da torcere
persino ai pezzi grossi della criminalità, che orbitavano
nei vari
quartieri di Londra.
Costretto ad andare in pensione a causa di
una difficoltà di deambulazione, non aveva smesso di offrire
il suo
aiuto alla città che tanto amava. Il suo braccio, come
quello del
peggiore dei boss, arrivava dappertutto. Un patrimonio non indifferente
gli garantiva ora una casa lussuosa e la protezione di un manipolo di
guardie del corpo. Il “vecchio generale”, come era
affettuosamente
chiamato, manteneva il carisma di sempre. Tuttavia, il trascorrere
degli anni e le fatiche di un lavoro a continuo contatto con la morte
l’avevano segnato.
Mentre camminava per i viottoli del suo parco
prediletto, appoggiato ad un pesante bastone e accompagnato da vicino
da una guardia e da un occhialuto assistente, si guardava intorno con
un sorriso gioviale. Diversi passanti lo salutavano con calore e
qualcuno di loro si fermava a fare due chiacchiere. I loro sguardi
nervosi si riflettevano negli occhiali a specchio della guardia del
corpo, che si manteneva a due, massimo tre passi di distanza da Coughly.
Il cielo aveva concesso una tregua all’umida Londra e un sole
pallido
si stava innalzando piano sulla linea dell’orizzonte. Il
riverbero
della luce si soffermava a giocare tra le fronde degli alberi del parco
e colorava i volti della gente di un leggero verde bottiglia. Quei
primi giorni di settembre stavano ormai celebrando la fine
dell’estate
con frequenti raffiche di vento frizzante.
Walter Coughly si era
tolto l’impermeabile all’entrata del parco e ora lo
portava ripiegato
sul braccio libero, mentre con l’altro impugnava il bastone.
La sua
presa era talmente salda che avrebbe potuto spaventare un eventuale
assalitore solo brandendo in aria il suo appoggio.
Questo pensiero
fece sorridere Thanatos. Era seduto a terra, con la schiena appoggiata
al tronco di una grande quercia e le ginocchia, su cui era posato un
taccuino, ripiegate verso il petto. Accanto a lui giaceva il suo
cappotto. Sulla pagina del taccuino si intravedeva uno schizzo del
volto di Coughly; non come lo si vedeva ora, ma molto più
giovane. In
un angolo del foglio erano appuntate una decina di note musicali e, al
di sotto, alcune iniziali:
T. D.
La mano che reggeva la matita era sospesa a mezz’aria, gli
occhi del
suo proprietario guizzavano da Coughly all’uomo seduto in
panchina poco
oltre il punto dove lui si era fermato. Il suo sguardo era fisso, non
scorreva sul giornale che teneva aperto al di sotto della linea del suo
naso. Thanatos aggiunse qualche tratto al volto disegnato e poi
sollevò
nuovamente lo sguardo, puntandolo su una coppia abbracciata che
ridacchiava presso un albero ad un centinaio di metri da Coughly. Lei
non faceva altro che guardare oltre le spalle del suo compagno, verso
l’ex-capo della polizia.
Il sorriso spuntò di nuovo. Un sorriso
tirato, quasi compassionevole. Quasi triste. Sotto al volto sul
taccuino appuntò un piccolo quattro.
«Dobbiamo ringraziare solo lei
se ora i negozianti di questo quartiere possono finalmente fare in pace
il loro onesto lavoro» sentenziò un ometto che
aveva bloccato Coughly
qualche minuto prima e ora gli stava stringendo la mano.
«È il mio lavoro, amico mio. Anzi, lo era
» rispose Coughly con una risata un po’ amara.
«Certo, certo» riprese l’uomo,
sventolando la mano con fare noncurante.
«Ma lei l’ha fatto bene il suo lavoro, ecco.
Qualcun altro se ne
sarebbe lavato le mani.»
«Lei è molto gentile», Coughly si
esibì in
un mezzo inchino di ringraziamento. «Ma confido che la
polizia fa del
suo meglio, sempre.»
Il suo interlocutore sembrava essere di
tutt’altro parere, ma ebbe il buon gusto di restare zitto.
Strinse
un’ultima volta la mano di Coughly e gli augurò
ogni bene, prima di
allontanarsi.
Coughly continuò la sua passeggiata, inoltrandosi in
una macchia di alberi. Poco dopo la sua voce e quella del suo
assistente si affievolirono. La coppietta si divise e lo
seguì da due
direzioni opposte. L’uomo seduto in panchina
ripiegò il suo giornale e
sollevò una mano verso la tempia per ravviarsi i capelli.
Thanatos
rimase seduto presso la quercia. Chiuse il taccuino e lo
posò sul
cappotto. Poi si portò le mani dietro la testa e
inarcò la schiena
contro il tronco. Socchiuse gli occhi, continuando a perquisire i
dintorni attraverso il sottile varco tra le palpebre. Esattamente di
fronte a lui c’era un palazzotto non troppo alto;
poté contare quattro
piani. La facciata esterna era di un color biscotto con qualche
striscia più scura, là dove la pioggia aveva
creato depositi di
umidità. Le sue mani scivolarono verso il taccuino dove
appuntò quel
dettaglio, sulla stessa pagina del disegno.
Da dove si trovava,
però, non riusciva a leggere il numero civico del palazzo.
Così si
alzò, raccolse il suo cappotto e si incamminò
verso l’uscita del parco.
Percorse un tratto di marciapiede su Armory Street
all’esterno del
parco, per tornare al punto preciso in cui si trovava. Voltò
il capo
per individuare la grande quercia. Il semaforo non era funzionante,
all’interno della sua lanterna lampeggiava il pedone giallo.
Thanatos
lanciò un’occhiata alla strada trafficata e si
posizionò sul bordo del
marciapiede, in paziente attesa. Teneva il cappotto dietro la schiena,
reggendolo con le dita della mano destra, la sinistra stringeva il
taccuino.
Il rumore e i gas di scarico delle automobili sembravano
avere un alto potere stordente. I veicoli sfilavano nelle loro corsie.
Thanatos inclinò lo sguardo alla sua sinistra per pochi
istanti, prima
di riposarlo sulla strada.
Una ragazzina di circa dieci anni, che
gli arrivava a malapena al gomito, si torceva le mani, impaziente di
attraversare. I suoi capelli biondi erano costretti in
un’unica, severa
treccia. Sulle spalle reggeva uno zainetto sormontato dalla testa di un
cagnolino. Lanciò un’occhiata di traverso a
Thanatos, aspettando che
lui iniziasse l’attraversamento, per poterlo seguire. Dopo
una ventina
di secondi dovette decidere che aveva atteso abbastanza,
perchè sbuffò
e si apprestò a tentare l’impresa da sola.
Un solo passo. Il
braccio sinistro di Thanatos scattò di lato e il taccuino
che teneva in
mano urtò contro il naso della bambina, oscurandole la
vista. Un
battito di ciglia dopo, un improvviso spostamento d’aria
riportò la
piccola sul marciapiede.
Una moto di grossa cilindrata era appena
passata nel punto in cui si sarebbe dovuta trovare la bambina,
sfrecciando ad alta velocità. Il passeggero che viaggiava
dietro
rivolse un gesto volgare alle proprie spalle, prima di essere
inghiottito dalla nube grigia causata dallo scarico.
All’incrocio
successivo la moto svoltò. Si udì una brusca
frenata e un rumore di
vetri infranti.
Il traffico sulla strada cominciò ad intasarsi. La
bambina, pietrificata dallo spavento, aveva gli occhi sgranati e
lucidi. Senza degnarla di uno sguardo, quasi si fosse dimenticato della
sua presenza, Thanatos attraversò la strada, zigzagando tra
le macchine
ferme. La bambina seguì il suo esempio un minuto dopo e,
raggiunto il
marciapiede opposto, scappò via.
Thanatos, ora fermo davanti al
portone dell’edificio che aveva osservato dal parco,
sollevò gli occhi
verso la targhetta scrostata che segnava il numero 37. Si
infilò il
cappotto, tirò fuori la matita dalla tasca in cui
l’aveva riposta e
appuntò il numero sul taccuino. Senza troppe cerimonie,
spinse il
portone di vetro ed entrò nell’atrio. A distanza
di mezzo metro
dall’entrata partivano le scale. Sulla destra, di fronte alle
cassette
per la posta, c’era una porta che conduceva alla portineria.
Dall’interno proveniva un vocio concitato che Thanatos decise
di
ignorare. Si avvicinò invece alle cassette delle lettere,
per poter
guardare i vari nomi con attenzione.
Li aveva già letti tutti due
volte, quando le voci in portineria si fecero più forti e
lui, pur
continuando a rivolgere la propria attenzione alle cassette, si mise in
ascolto.
«Ti dico che quello stupido aggeggio non funziona! Il
bagno di un pinguino sarebbe più caldo!» stava
gridando una voce
maschile.
Sembrava appartenere ad una persona anziana, aveva un
tono a dir poco indisponente. Un’altra voce tentava
inutilmente di
farlo ragionare.
«Signor Dwight, la prego… La prego, si calmi!
Abbiamo mandato la manutenzione del condominio appena due settimane fa,
non c’è assolutamente niente che non va.»
«Non c’è niente che non va,
dici?»
«Ma certo, le assicuro che... »
«ASSICURALO ALLE MIE CHIAPPE!»
«La prego, abbassi la voce… Gli altri
inquilini...»
«Non me ne importa un accidente! È il mio
fondoschiena quello che gela, non il loro!»
Si udì uno scalpiccio di passi e un uomo
sull’ottantina uscì dalla
portineria con aria marziale. La mascella priva di denti era contratta
per la rabbia e i suoi occhi erano puntati sul pavimento. Sembrava
zoppicare un po’ senza l’appoggio di un bastone e
si sorreggeva ai
muri. Ad ogni passo il suo viso si contraeva in una smorfia.
Passò
oltre Thanatos, che gli dava la schiena e salì il primo
gradino. Il
portinaio lo seguiva, il viso infiammato dall’imbarazzo.
«Levati di
torno, Ralph. Chiamerò qualcuno con un po’ di
cervello che sia in grado
di riparare la mia stupida caldaia!» strillò
un’ultima volta il signor
Dwight.
Continuò a salire le scale, appendendosi al corrimano, con
Ralph, il portinaio, alle calcagna. Nessuno dei due aveva prestato la
minima attenzione a Thanatos, che al contrario aveva seguito la scena
con crescente interesse. Rimase fermo vicino alle cassette della posta
per qualche istante, taccuino e matita premuti contro il petto. Non
riusciva più a distinguere le parole che i due si stavano
scambiando
sulle scale. Lo raggiunse il rumore di alcune porte che si aprivano.
Rigirandosi il taccuino fra le mani, si voltò, trovandosi di
fronte
alla portineria. Sulla parte di scrivania che si intravedeva
dall’esterno c’erano dei registri aperti. Un
vecchio schedario di ferro
occupava metà della parete alla sinistra della scrivania.
Uno dei
cassetti scorrevoli era aperto.
Alzò lo sguardo verso le scale. Ora
non si sentiva nulla. Era possibile che Ralph avesse convinto
l’iroso
signor Dwight a farlo entrare in casa, per discutere in maniera
più
civile e silenziosa. Un orologio in portineria batté le
dieci. Nel
momento in cui il decimo rintocco echeggiava nell’aria
viziata della
stanza, Thanatos, piazzatosi dinanzi al cassetto aperto dello
schedario, iniziò a sfogliare le intestazioni delle
cartelle. Le sue
dita si muovevano veloci e sicure fra le cartelle. Gli incartamenti
conservati in quel cassetto riguardavano i contatori d’acqua
del
condominio e le varie spese per i singoli appartamenti.
Inaspettatamente c’era un discreto ordine e le cartelle dei
vari
inquilini erano aggiornate. Verso la fine del cassetto, tanto in fondo
che Thanatos dovette tirarlo fuori quasi completamente e posizionarsi
di lato per continuare la sua ricerca, c’era un unico foglio
raggrinzito. La parte inferiore era diventata simile ad una fisarmonica
cartacea, poiché il foglio era stato spinto sempre
più dietro con
l’inserimento forzato di altre cartelle. Thanatos
infilò a forza la
mano e lo estrasse. Era un semplice dattiloscritto con un elenco di
nomi e cognomi. Non gli fu difficile riconoscerli: erano quelli che
aveva letto poco prima sulle cassette per la posta. Accanto ad ogni
cognome c’era il piano corrispondente e il numero degli
abitanti
dell’appartamento. Thanatos cercò di appiattire la
parte inferiore del
foglio per scorrere l’elenco nella sua interezza. Accanto ad
ogni nome
battuto dalla macchina c’erano delle aggiunte a mano.
Sembravano
promemoria non ufficiali, tracciati in fretta con una grafia nervosa.
Ricorreva spesso il termine “Famiglia”, un paio di
volte si leggeva
“Single” e solo una “Studenti”.
Ralph doveva essere un tipo preciso,
oltre che molto sospettoso. Forse aveva anche il compito di assicurarsi
dell’identità degli inquilini o forse era solo un
gran ficcanaso.
Thanatos piegò in due il foglio e lo intascò,
richiudendo piano il
cassetto fino a riportarlo alla posizione in cui l’aveva
trovato. Senza
soffermarsi a guardare oltre la stanza, sollevò la testa e
tese
l’orecchio. I suoi occhi si spostarono nella direzione in
cui,
all’esterno della portineria, c’erano le scale.
Rimase immobile così
per qualche secondo, come se potesse vederle attraverso la parete. Dei
passi affrettati echeggiarono sulle scale di lì a poco.
Thanatos
affondò le mani nelle tasche e uscì dalla
portineria.
Quando Ralph
raggiunse l’atrio, lo trovò deserto. Il portone di
vetro ondeggiava
appena, ma lui non lo notò, occupato com’era a
tergersi il sudore
freddo dalla fronte. Il telefono si mise a squillare con selvaggia
tenacia e l’uomo si precipitò in portineria per
rispondere.
«Ralph?» gracchiò dall’altra
parte la voce del signor Dwight. «Hai chiamato il
tecnico?»
«Ma signor Dwight, sono appena sceso...»
«Muoviti, scansafatiche che non sei altro!» fu la
risposta del vecchio, che riattaccò subito dopo.
Ralph imprecò contro la cornetta muta e si lasciò
cadere sulla sedia
dietro alla sua scrivania. All’esterno
dell’edificio, appoggiato al
muro con il viso rivolto verso il cielo, Thanatos sorrise.