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Autore: Esteliel    18/02/2010    1 recensioni
Per chi bazzica in certi posti, è quasi usuale richiedere commissioni che giochino con la vita altrui. Per chi ne ha il potere, è quasi facile decretare a tavolino quando di preciso un altro essere umano finirà di esistere. Forse, però, chi ritiene di avere il potere di decidere non ha fatto i conti con chi ce l'ha davvero.
Genere: Malinconico, Thriller, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il White Rose Garden era un piccolo parco nel modesto quartiere di Hire’s. Sui due lati era fiancheggiato da una serie di edifici tutti uguali, divisi in appartamenti a malapena decenti. Era un posto tranquillo, la gente onesta che vi abitava tendeva a badare solo ai fatti propri. Walter Jasper Coughly era particolarmente legato a quel parco. Quando era piccolo, andava spesso lì a giocare con i suoi amici: questo era ciò che rispondeva alle insistenti raccomandazioni dei suoi assistenti. Un uomo importante, lui, ammirato dalla maggioranza dei londinesi e odiato da quella parte che, invece, trafficava nell’ombra. Negli anni in cui era stato capo di Scotland Yard era riuscito a dare del filo da torcere persino ai pezzi grossi della criminalità, che orbitavano nei vari quartieri di Londra.
Costretto ad andare in pensione a causa di una difficoltà di deambulazione, non aveva smesso di offrire il suo aiuto alla città che tanto amava. Il suo braccio, come quello del peggiore dei boss, arrivava dappertutto. Un patrimonio non indifferente gli garantiva ora una casa lussuosa e la protezione di un manipolo di guardie del corpo. Il “vecchio generale”, come era affettuosamente chiamato, manteneva il carisma di sempre. Tuttavia, il trascorrere degli anni e le fatiche di un lavoro a continuo contatto con la morte l’avevano segnato.
Mentre camminava per i viottoli del suo parco prediletto, appoggiato ad un pesante bastone e accompagnato da vicino da una guardia e da un occhialuto assistente, si guardava intorno con un sorriso gioviale. Diversi passanti lo salutavano con calore e qualcuno di loro si fermava a fare due chiacchiere. I loro sguardi nervosi si riflettevano negli occhiali a specchio della guardia del corpo, che si manteneva a due, massimo tre passi di distanza da Coughly.
Il cielo aveva concesso una tregua all’umida Londra e un sole pallido si stava innalzando piano sulla linea dell’orizzonte. Il riverbero della luce si soffermava a giocare tra le fronde degli alberi del parco e colorava i volti della gente di un leggero verde bottiglia. Quei primi giorni di settembre stavano ormai celebrando la fine dell’estate con frequenti raffiche di vento frizzante.
Walter Coughly si era tolto l’impermeabile all’entrata del parco e ora lo portava ripiegato sul braccio libero, mentre con l’altro impugnava il bastone. La sua presa era talmente salda che avrebbe potuto spaventare un eventuale assalitore solo brandendo in aria il suo appoggio.
Questo pensiero fece sorridere Thanatos. Era seduto a terra, con la schiena appoggiata al tronco di una grande quercia e le ginocchia, su cui era posato un taccuino, ripiegate verso il petto. Accanto a lui giaceva il suo cappotto. Sulla pagina del taccuino si intravedeva uno schizzo del volto di Coughly; non come lo si vedeva ora, ma molto più giovane. In un angolo del foglio erano appuntate una decina di note musicali e, al di sotto, alcune iniziali:

W.J.C.
T. D.


La mano che reggeva la matita era sospesa a mezz’aria, gli occhi del suo proprietario guizzavano da Coughly all’uomo seduto in panchina poco oltre il punto dove lui si era fermato. Il suo sguardo era fisso, non scorreva sul giornale che teneva aperto al di sotto della linea del suo naso. Thanatos aggiunse qualche tratto al volto disegnato e poi sollevò nuovamente lo sguardo, puntandolo su una coppia abbracciata che ridacchiava presso un albero ad un centinaio di metri da Coughly. Lei non faceva altro che guardare oltre le spalle del suo compagno, verso l’ex-capo della polizia.
Il sorriso spuntò di nuovo. Un sorriso tirato, quasi compassionevole. Quasi triste. Sotto al volto sul taccuino appuntò un piccolo quattro.
«Dobbiamo ringraziare solo lei se ora i negozianti di questo quartiere possono finalmente fare in pace il loro onesto lavoro» sentenziò un ometto che aveva bloccato Coughly qualche minuto prima e ora gli stava stringendo la mano.
«È il mio lavoro, amico mio. Anzi, lo era » rispose Coughly con una risata un po’ amara.
«Certo, certo» riprese l’uomo, sventolando la mano con fare noncurante. «Ma lei l’ha fatto bene il suo lavoro, ecco. Qualcun altro se ne sarebbe lavato le mani.»
«Lei è molto gentile», Coughly si esibì in un mezzo inchino di ringraziamento. «Ma confido che la polizia fa del suo meglio, sempre.»
Il suo interlocutore sembrava essere di tutt’altro parere, ma ebbe il buon gusto di restare zitto. Strinse un’ultima volta la mano di Coughly e gli augurò ogni bene, prima di allontanarsi.
Coughly continuò la sua passeggiata, inoltrandosi in una macchia di alberi. Poco dopo la sua voce e quella del suo assistente si affievolirono. La coppietta si divise e lo seguì da due direzioni opposte. L’uomo seduto in panchina ripiegò il suo giornale e sollevò una mano verso la tempia per ravviarsi i capelli.
Thanatos rimase seduto presso la quercia. Chiuse il taccuino e lo posò sul cappotto. Poi si portò le mani dietro la testa e inarcò la schiena contro il tronco. Socchiuse gli occhi, continuando a perquisire i dintorni attraverso il sottile varco tra le palpebre. Esattamente di fronte a lui c’era un palazzotto non troppo alto; poté contare quattro piani. La facciata esterna era di un color biscotto con qualche striscia più scura, là dove la pioggia aveva creato depositi di umidità. Le sue mani scivolarono verso il taccuino dove appuntò quel dettaglio, sulla stessa pagina del disegno.
Da dove si trovava, però, non riusciva a leggere il numero civico del palazzo. Così si alzò, raccolse il suo cappotto e si incamminò verso l’uscita del parco. Percorse un tratto di marciapiede su Armory Street all’esterno del parco, per tornare al punto preciso in cui si trovava. Voltò il capo per individuare la grande quercia. Il semaforo non era funzionante, all’interno della sua lanterna lampeggiava il pedone giallo. Thanatos lanciò un’occhiata alla strada trafficata e si posizionò sul bordo del marciapiede, in paziente attesa. Teneva il cappotto dietro la schiena, reggendolo con le dita della mano destra, la sinistra stringeva il taccuino.
Il rumore e i gas di scarico delle automobili sembravano avere un alto potere stordente. I veicoli sfilavano nelle loro corsie. Thanatos inclinò lo sguardo alla sua sinistra per pochi istanti, prima di riposarlo sulla strada.
Una ragazzina di circa dieci anni, che gli arrivava a malapena al gomito, si torceva le mani, impaziente di attraversare. I suoi capelli biondi erano costretti in un’unica, severa treccia. Sulle spalle reggeva uno zainetto sormontato dalla testa di un cagnolino. Lanciò un’occhiata di traverso a Thanatos, aspettando che lui iniziasse l’attraversamento, per poterlo seguire. Dopo una ventina di secondi dovette decidere che aveva atteso abbastanza, perchè sbuffò e si apprestò a tentare l’impresa da sola.
Un solo passo. Il braccio sinistro di Thanatos scattò di lato e il taccuino che teneva in mano urtò contro il naso della bambina, oscurandole la vista. Un battito di ciglia dopo, un improvviso spostamento d’aria riportò la piccola sul marciapiede.
Una moto di grossa cilindrata era appena passata nel punto in cui si sarebbe dovuta trovare la bambina, sfrecciando ad alta velocità. Il passeggero che viaggiava dietro rivolse un gesto volgare alle proprie spalle, prima di essere inghiottito dalla nube grigia causata dallo scarico. All’incrocio successivo la moto svoltò. Si udì una brusca frenata e un rumore di vetri infranti.
Il traffico sulla strada cominciò ad intasarsi. La bambina, pietrificata dallo spavento, aveva gli occhi sgranati e lucidi. Senza degnarla di uno sguardo, quasi si fosse dimenticato della sua presenza, Thanatos attraversò la strada, zigzagando tra le macchine ferme. La bambina seguì il suo esempio un minuto dopo e, raggiunto il marciapiede opposto, scappò via.
Thanatos, ora fermo davanti al portone dell’edificio che aveva osservato dal parco, sollevò gli occhi verso la targhetta scrostata che segnava il numero 37. Si infilò il cappotto, tirò fuori la matita dalla tasca in cui l’aveva riposta e appuntò il numero sul taccuino. Senza troppe cerimonie, spinse il portone di vetro ed entrò nell’atrio. A distanza di mezzo metro dall’entrata partivano le scale. Sulla destra, di fronte alle cassette per la posta, c’era una porta che conduceva alla portineria. Dall’interno proveniva un vocio concitato che Thanatos decise di ignorare. Si avvicinò invece alle cassette delle lettere, per poter guardare i vari nomi con attenzione.
Li aveva già letti tutti due volte, quando le voci in portineria si fecero più forti e lui, pur continuando a rivolgere la propria attenzione alle cassette, si mise in ascolto.
«Ti dico che quello stupido aggeggio non funziona! Il bagno di un pinguino sarebbe più caldo!» stava gridando una voce maschile.
Sembrava appartenere ad una persona anziana, aveva un tono a dir poco indisponente. Un’altra voce tentava inutilmente di farlo ragionare.
«Signor Dwight, la prego… La prego, si calmi! Abbiamo mandato la manutenzione del condominio appena due settimane fa, non c’è assolutamente niente che non va.»
«Non c’è niente che non va, dici?»
«Ma certo, le assicuro che... »
«ASSICURALO ALLE MIE CHIAPPE!»
«La prego, abbassi la voce… Gli altri inquilini...»
«Non me ne importa un accidente! È il mio fondoschiena quello che gela, non il loro!»
Si udì uno scalpiccio di passi e un uomo sull’ottantina uscì dalla portineria con aria marziale. La mascella priva di denti era contratta per la rabbia e i suoi occhi erano puntati sul pavimento. Sembrava zoppicare un po’ senza l’appoggio di un bastone e si sorreggeva ai muri. Ad ogni passo il suo viso si contraeva in una smorfia. Passò oltre Thanatos, che gli dava la schiena e salì il primo gradino. Il portinaio lo seguiva, il viso infiammato dall’imbarazzo.
«Levati di torno, Ralph. Chiamerò qualcuno con un po’ di cervello che sia in grado di riparare la mia stupida caldaia!» strillò un’ultima volta il signor Dwight.
Continuò a salire le scale, appendendosi al corrimano, con Ralph, il portinaio, alle calcagna. Nessuno dei due aveva prestato la minima attenzione a Thanatos, che al contrario aveva seguito la scena con crescente interesse. Rimase fermo vicino alle cassette della posta per qualche istante, taccuino e matita premuti contro il petto. Non riusciva più a distinguere le parole che i due si stavano scambiando sulle scale. Lo raggiunse il rumore di alcune porte che si aprivano. Rigirandosi il taccuino fra le mani, si voltò, trovandosi di fronte alla portineria. Sulla parte di scrivania che si intravedeva dall’esterno c’erano dei registri aperti. Un vecchio schedario di ferro occupava metà della parete alla sinistra della scrivania. Uno dei cassetti scorrevoli era aperto.
Alzò lo sguardo verso le scale. Ora non si sentiva nulla. Era possibile che Ralph avesse convinto l’iroso signor Dwight a farlo entrare in casa, per discutere in maniera più civile e silenziosa. Un orologio in portineria batté le dieci. Nel momento in cui il decimo rintocco echeggiava nell’aria viziata della stanza, Thanatos, piazzatosi dinanzi al cassetto aperto dello schedario, iniziò a sfogliare le intestazioni delle cartelle. Le sue dita si muovevano veloci e sicure fra le cartelle. Gli incartamenti conservati in quel cassetto riguardavano i contatori d’acqua del condominio e le varie spese per i singoli appartamenti. Inaspettatamente c’era un discreto ordine e le cartelle dei vari inquilini erano aggiornate. Verso la fine del cassetto, tanto in fondo che Thanatos dovette tirarlo fuori quasi completamente e posizionarsi di lato per continuare la sua ricerca, c’era un unico foglio raggrinzito. La parte inferiore era diventata simile ad una fisarmonica cartacea, poiché il foglio era stato spinto sempre più dietro con l’inserimento forzato di altre cartelle. Thanatos infilò a forza la mano e lo estrasse. Era un semplice dattiloscritto con un elenco di nomi e cognomi. Non gli fu difficile riconoscerli: erano quelli che aveva letto poco prima sulle cassette per la posta. Accanto ad ogni cognome c’era il piano corrispondente e il numero degli abitanti dell’appartamento. Thanatos cercò di appiattire la parte inferiore del foglio per scorrere l’elenco nella sua interezza. Accanto ad ogni nome battuto dalla macchina c’erano delle aggiunte a mano. Sembravano promemoria non ufficiali, tracciati in fretta con una grafia nervosa. Ricorreva spesso il termine “Famiglia”, un paio di volte si leggeva “Single” e solo una “Studenti”. Ralph doveva essere un tipo preciso, oltre che molto sospettoso. Forse aveva anche il compito di assicurarsi dell’identità degli inquilini o forse era solo un gran ficcanaso.
Thanatos piegò in due il foglio e lo intascò, richiudendo piano il cassetto fino a riportarlo alla posizione in cui l’aveva trovato. Senza soffermarsi a guardare oltre la stanza, sollevò la testa e tese l’orecchio. I suoi occhi si spostarono nella direzione in cui, all’esterno della portineria, c’erano le scale. Rimase immobile così per qualche secondo, come se potesse vederle attraverso la parete. Dei passi affrettati echeggiarono sulle scale di lì a poco. Thanatos affondò le mani nelle tasche e uscì dalla portineria.
Quando Ralph raggiunse l’atrio, lo trovò deserto. Il portone di vetro ondeggiava appena, ma lui non lo notò, occupato com’era a tergersi il sudore freddo dalla fronte. Il telefono si mise a squillare con selvaggia tenacia e l’uomo si precipitò in portineria per rispondere.
«Ralph?» gracchiò dall’altra parte la voce del signor Dwight. «Hai chiamato il tecnico?»
«Ma signor Dwight, sono appena sceso...»
«Muoviti, scansafatiche che non sei altro!» fu la risposta del vecchio, che riattaccò subito dopo.
Ralph imprecò contro la cornetta muta e si lasciò cadere sulla sedia dietro alla sua scrivania. All’esterno dell’edificio, appoggiato al muro con il viso rivolto verso il cielo, Thanatos sorrise.

  
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