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Autore: keska    18/02/2010    46 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Oh

«Oh Dio, grazie di aver inventato i dolci. Voglio mangiare solo dolci per il resto della mia vita».

«Sembra gradire» commentò Edward, seduto davanti a me, accarezzandomi la piccola pancia.

«Sì, sì, lo sento. Me lo sta dicendo in ogni modo possibile… Oh» m’interruppi, riflettendo sulle sue parole «non si stai muovendo. La senti lo stesso?» chiesi curiosa.

Annuì, sorridente. «Un po’».

Sorrisi anch’io, prendendo un altro morso del mio cornetto al cioccolato, lasciando che continuasse ad accarezzare sua figlia. Stava maturando sempre più con i suoi pensieri ed io e Edward ne eravamo davvero orgogliosi.

«Allora» esordì Carlisle, rientrando nel suo studio. Mi ricomposi leggermente sul lettino, pulendomi le briciole ai lati della bocca e arrossendo. «La analisi del sangue vanno piuttosto bene» asserì, fermandosi composto e in piedi al centro della stanza.

«Piuttosto?» domandai un po’ spaventata.

«Finisci il tuo cornetto al cioccolato» mi rassicurò Edward notando la mia espressione nauseata «non dovrai bere nessun bicchiere di sangue».

Mi veniva da vomitare solo all’idea. «Per oggi» balbettai, allontanando quello che rimaneva della mia colazione. La rivelazione del professor Philip ci aveva sconvolto notevolmente, ma Carlisle mi aveva rassicurato che avremmo considerato quell’ipotesi solo nel caso in cui non avessimo avuto altre alternative.

«Bella, le donne di cui parla Philip non avevano a disposizione la terapia farmacologica che stiamo dando a te» mi rassicurò mio suocero con un sorriso «sei sempre anemica, è vero, ma lo sono anche molte altre gestanti con gravidanze meno… speciali».

Edward mi lasciò un bacio sui capelli. «Affronteremo ogni cosa quando ce ne sarà bisogno, ve bene?».

Annuii, accarezzandomi la pancia. Per quanto l’idea mi repellesse avrei fatto qualunque cosa per mia figlia, anche bere del sangue mentre ero ancora umana. Speravo solo non ce ne fosse bisogno.

«Non lo vuoi più?» mi chiese Edward, distraendomi dai miei pensieri e indicando il pezzettino di brioche che avevo lasciato.

Feci una smorfia. «Non mi va».

Ridacchiò, buttandolo via. «Non volevi mangiare solo dolci per il resto della tua vita?».

Sollevai gli occhi al cielo, lasciando dondolare i miei piedi, liberi di muoversi sul bordo del lettino su cui ero seduta. «Possiamo andare?» chiesi speranzosa. Era stata un’estenuante mattinata in ospedale. Considerando quanto poco amassi quel luogo e tutti i trattamenti a cui ero stata sottoposta, non vedevo l’ora di fuggire. Avevo preso seriamente in considerazione l’idea che Edward avesse deciso di comprarmi quei dolci solo per tapparmi in qualche modo la bocca. Ma mi diedi subito della sciocca, capendo che l’aveva fatto solo per il mio benessere, per farmi distrarre e stare meglio.

Eppure, a parte l’idea del sangue, mi sentivo davvero bene.

Alle mie parole l’espressione di Carlisle si contrasse di dispiacere. «Vorrei solo fare un’ultima cosa».

Sospirai, desolata.

«Deve solo controllare quanto stai crescendo» mi sussurrò lievemente Edward «non ci vorrà molto e non ti darà fastidio».

Annuii, seppur riluttante. «Certo, va bene».

Anche l’altra rivelazione del professore era stata piuttosto sconcertante. Pensavo spesso alla bambina, a come sarebbe cresciuta lentamente, e a come io stessa non mi fossi resa conto dei cambiamenti del mio corpo. O meglio, non cambiamenti.

Carlisle prese delicatamente le mie mani fra le sue, osservando le mie unghie. Passò ai capelli, misurò l’altezza, le proporzioni del mio corpo. Disse che in effetti, come Philip ci aveva informati, stavo crescendo più lentamente del solito. Era stato difficile, quasi del tutto impossibile notarlo, per le strane variazioni che ha «l’organismo umano» - sue parole - e per le fasi alternanti di crescita. L’importante era che andasse tutto bene, anche solo per sentire Edward sereno.

Arrossii lievemente quando dovetti salire sulla bilancia. Mi morsi il labbro inferiore, mentre sia Carlisle che Edward osservavano l’infame numeretto rosso sul display. «Prometto che non mangerò più così tanti dolci. O sì, e prometto che non mi farò abbindolare dai manicaretti di Esme…» pensai velocemente, invocando Dio ed alzando gli occhi al cielo.

«Hai preso due chili e mezzo» disse Carlisle sorridendo divertito alla mia espressione eloquente.

Arrossii.

«È anche fin troppo poco. Andiamo… puoi mangiare quanti dolci vuoi» mi disse Edward intuendo i miei pensieri, sollevandomi con un braccio e facendomi scendere dalla bilancia.

«Andiamo via?» chiesi entusiasta.

«Esatto» mi rispose con un sorriso. «Dobbiamo andare in un posto».

«Andate pure. Rinnovo le mie raccomandazioni Bella, non ti stancare troppo». Carlisle si fece improvvisamente più serio. «Come va con i sogni?».

Prima che Edward potesse aprire bocca, risposi io. «Bene» dissi, con forse troppa enfasi, arrossendo subito dopo per la possibile duplice interpretazione delle mie parole. «Va… tutto bene… considerando che sono cosciente di quello che mi accade riesco a controllare la situazione». Nell’ultimo periodo in effetti, grazie anche allo yoga - dovevo ammetterlo - ero riuscita a scoprire di poter acquisire un nuovo ed imprevedibile controllo di me stessa. Per quanto i sogni della bambina mi stancassero notevolmente, l’importante era che lei stesse bene. Tutto andava per il meglio.

La porta marroncina si spalancò di botto. «Dottor Cullen!» esclamò Mark, entrando di corsa nello studio. Era lo specializzando di ginecologia, il migliore del suo corso, che avrebbe dovuto assistere al mio parto. Mi chiedevo se ci fosse una persona più paziente di Carlisle in grado di stargli dietro. Avanzò nello studio frettolosamente. «Stavo registrando i dati sulla cartella e mi sono accorto che forse la VES è troppo bassa!».

Carlisle sorrise composto, scuotendo il capo e offrendogli delucidazioni. Mark era un ragazzo dolcissimo, e con infinita voglia di imparare. Ma anche così maledettamente curioso! Mi sfregai il braccio, ancora dolorante per il prelievo che mi ero lasciata fare da lui per dissuaderlo dalla storia dell’ecografia. Assurdo.

«Ciao Carlisle!» lo salutai, uscendo dall’ambulatorio accanto a mio marito, «ciao Mark, mi raccomando, non lavorare troppo» ironizzai con un sorrisino.

«Oh, no, no» rispose serio «ma Bella, già te ne vai?» chiese, e mi sembrò tanto di vedere un bimbo a cui hanno appena tolto il gioco nuovo.

Ridacchiai, lasciandomi trascinare via da Edward. In fondo, come Carlisle mi aveva spiegato, per uno specializzando era una grande soddisfazione poter seguire personalmente un caso e avere tutto lo spazio che gli stava offrendo. Con la sua curiosità e la sua inesperienza, manipolarlo sarebbe stato più semplice, e Carlisle avrebbe avuto un paio di mani in più su cui contare.

«Oddio, Edward, dove mi hai portata?» esclamai, osservando il grande recinto, pieno di abeti di ogni misura, tutti innevati. Scesi velocemente dall’auto, osservando lo spettacolo di lucine di fronte ai miei occhi. La neve che cadeva giù dal cielo rendeva tutto il quadro decisamente più pittoresco.

Sentii le sue mani fredde sulla vita, e l’euforia della bambina si unì alla mia, mentre l’aria fredda entrava nella mia bocca, aperta per lo stupore. «Puoi scegliere quello che vuoi» mormorò al mio orecchio mio marito, con la sua voce carezzevole.

«Attento, così urterai al muro» lo chiamai, guidandolo.

Rise. «Bella, credi forse che abbia difficoltà a trasportare un abete?».

Borbottai, sfilandomi i guanti e sfregando le mani una contro l’altra, per impedire che si congelassero definitivamente. Lo osservai mentre lasciava ondeggiare l’albero, senza sfiorare alcuna parete o oggetto d’arredamento.

Era davvero un bell’albero. Non troppo alto, anche se Edward aveva voluto che sfiorasse il basso soffitto del salotto. Io, dal canto mio, avevo preteso che avesse una chioma ampia e fitta, e che le foglie fossero verde smeraldo. Era un bell’albero. Il nostro primo albero.

Lo mise in piedi, tenendolo dritto con un braccio ed emergendo dalla folta chioma. «Dove lo vuoi?» chiese con un sorriso contento da ragazzino. Sembrava davvero felice.

Sorrisi anch’io. «Aspetta» mormorai, scomparendo dalla stanza, per poi ritornare con un grosso vaso e un sacco di terra. Lo trascinai sul pavimento, tirandolo.

«Bella» mi sgridò.

«Ce la faccio» mormorai, continuando a trascinare il vaso fino all’angolo opposto al camino. Lo avrei posizionato in modo che i nostri inesistenti vicini potessero vederlo dall’esterno, dalla grande vetrata. Nella notte, con tutte le lucine accese, avrebbe scintillato nell’oscurità, e magari avrebbero potuto vederlo anche gli animali della foresta. Era il nostro albero, il nostro primo albero, ma ogni anno, come ogni famiglia, avrei preteso di addobbarlo sempre nello stesso punto. Stavamo creando la nostra prima consuetudine, di quelle che ti scaldano il cuore ogni volta che le ripeti. Di quelle che ti fanno sentire una famiglia.

«Lascia» disse Edward, togliendomi il sacco di terra dalle mani e posando l’albero al centro esatto del vaso.

Mi pulii le mani, una contro l’altra. «Vorrei fare dei biscotti», dissi a mezza voce, confessando la mia idea e arrossendo un po’, timorosa del fatto che potesse trovarla banale o stupida, «che ne dici? Mi dispiace che vadano buttati, magari li mangerei solo io…».

Mi sorrise. «Potremmo chiamare tuo padre e la mia famiglia stasera. Ti va?» mi baciò la fronte, stringendomi una mano con la sua.

Annuii, radiosa. «Certo». Era sempre attento ad ogni mia richiesta, premuroso, e felice di farmi felice, in qualsiasi modo. L’amavo tantissimo, e pensavo che ben presto mi potesse mancare il respiro dalla felicità.

Mi dedicai alla cucina, cercando fra le vecchie ricette che avevo portato con me da Phoenix, lasciando mio marito a occuparsi della sistemazione dell’albero. Canticchiai, leggera, allegra, impastando la soffice pasta, trasmettendo la stessa allegria alla bambina. Chissà, mi chiesi, se una volta nata avei potuto cucinare per lei, se ci fosse stato qualcuno in grado di apprezzare la mia cucina. L’avrei amata in ogni caso ma speravo di non dover allattare mia figlia con dei biberon pieni di… sangue.

Avremmo potuto risolvere chiedendo semplicemente al professore, eppure lui si ostinava a rimanere in silenzio. Che arroganza! Eppure Rosalie ed Emmett erano via da una settimana, solo per aiutare lui!

«Hai finito?» la voce di Edward, alle mie spalle, mi fece sussultare. Mi abbracciò da dietro, posando la testa sulla mia spalla.

Coprii la ciotola con l’impasto con un canovaccio, spingendolo in avanti sul ripiano della cucina. Mi voltai tanto da poterlo baciare liberamente. Ben presto, però, le sue mani furono sul mio viso, le mie fra i suoi capelli, e la stanza fu riempita di gemiti.

«Edward» mormorai ansante «dobbiamo finire l’albero». Cacciai un urletto quando mi strinse le natiche con le mani.

«Dobbiamo…» mormorò roco baciandomi ripetutamente il collo, tenendomi la testa bloccata e reclinata da un lato.

«Dobbiamo» esalai, lasciandomi andare sul suo petto sconvolta, il cuore che mi batteva dirompente nelle vene, «andiamo».

Aveva fatto un lavoro eccellente, come al solito, piantando l’albero. Pretesi che non utilizzasse, o che almeno tentasse di frenare, le sue doti da vampiro mentre lo addobbavamo. Avevamo comprato tante di quelle decorazioni che a stento si sarebbe visto il verde dei rami sottostanti! Ma Edward non aveva una misura, e non appena aveva visto i miei occhi posarsi su una o su un’altra cosa l’aveva presa. Avremmo deciso più tardi se utilizzarla, così aveva detto. Voleva sempre accontentarmi in tutto, eppure questa volta mi pareva ci fosse qualcosa in più. Mi pareva che anche lui fosse piuttosto preso dalla storia dell’albero.

«Da dove cominciamo?» chiese entusiasta, osservando i rami ancora spogli.

«Dalle luci» risposi, come se fosse ovvio, «dobbiamo metterle intorno».

«Oh… Bene».

«Edward» chiesi perplessa «non sai come si fa un albero? Credevo che sapessi tutto, ormai» dissi ridendo.

Si passò una mano fra i capelli, come imbarazzato. «Se ne sono occupate sempre Esme e Rosalie. Non ricordo molto dell’ultimo albero che ho fatto» mormorò «sono passati tantissimi anni. Allora non c’erano le luci elettriche, suppongo di averlo decorato con mia madre, con delle candele. Avrò avuto all’incirca otto o nove anni».

Mi parve di scorgere un velo di malinconia fra le sue parole. Mi avvicinai, prendendo le sue mani fra le mie, dandomi ella stupida per la mia leggerezza. «Non ti preoccupare, ti insegno io».

Mi sorrise, accarezzandomi i capelli e baciandomi la fronte.

Rispettò il patto, e non usò nessun potere da vampiro. Sistemammo tutte le lucine colorate, e le palline di vetro, e gli addobbi. I nastri, le ghirlande, i fiocchi. Cominciavo a decorare dal basso, e lasciavo che lui si occupasse della parte più alta, un sorriso euforico stampato sul suo volto da ragazzino smaliziato. Sentii più volte la bambina muoversi, e ogni volta lui sollevava il capo e mi osservava, felice.

«È bellissimo» disse infine, osservando il nostro lavoro. Era ricco di addobbi, ma era speciale e nostro. Esprimeva la nostra armonia. Mi piaceva tanto, eppure…

Portai le mani sui fianchi. Immediatamente vidi una delle tante decorazioni avanzate sul tavolo. «Mettilo su, mettilo lassù quel fiocco!» esclamai porgendoglielo. Mancava ancora qualche ritocco. Mi sollevò per i fianchi, facendomi sedere sulle sue spalle. «Oddio, Edward, sei troppo alto…» risi, agitando le braccia.

«Non ti muovere, metti quel fiocco» mi rispose divertito. Non appena l’ebbi sistemato mi afferrò per i fianchi per farmi scendere.

«No, aspetta» dissi stringendomi con le gambe, fasciate dalle calde calze chiare e morbide. «Voglio mettere il puntale!».

«Dove l’hai messo?» chiese, volgendo una rapida occhiata alla stanza e facendomi girare velocemente.

Mi aggrappai con le mani alle sue spalle, facendolo fermare. «Non lo so, l’hai preso tu!».

Mi fece scendere, mettendosi di fronte a me. «Beh, no, pensavo l’avessi preso tu. Ne faremo a meno» mormorò, facendo spallucce, come se fosse una cosa assolutamente normale.

«Beh» mormorai perplessa. «Solitamente il puntale è necessario».

Inarcò un sopracciglio. «Ne sei sicura? Il nostro albero è bellissimo anche così».

«Già» ammisi, osservandolo. Non mi curavo poi tanto di essere tradizionalista. Si poteva dire che il nostro albero non seguisse alcuna tradizione, con l’eclettismo dei suoi addobbi. Sorrisi, facendomi abbracciare e ricordando le parole di mia madre. «Un Natale il nostro puntale si ruppe. Mia madre impazzì, ribadendo l’importanza di quello stupido oggetto. Tutti i negozi erano ormai chiusi, vagammo per tutta la città in cerca di un puntale. Camminavamo fra la neve fredda, congelate, ma le si ostinava a ripetere: “È una questione di principio, il puntale è la parte più importante dell’albero! È così, e basta. Si può fare un albero anche senza nessun addobbo, solo con un puntale, sarebbe stupendo. Il contrario sarebbe una cosa orrenda!”» risi, ricordando la febbre del giorno dopo. Avevamo il nostro albero col puntale, ma dovemmo godercelo entrambe a letto.

Edward strinse le labbra, sollevando entrambe le sopracciglia. «Non credevo fosse così importante. Sicura che non sia necessario?».

Feci spallucce, ma vidi nei suoi occhi una strana scintilla. Già, era il suo primo albero dopo tantissimo tempo. Il nostro primo come famiglia. Era comprensibile che volesse fare tutto quello che andava fatto. «Vado a prenderlo e torno, va bene?» mi chiese, quasi come se volesse il mio permesso.

Annuii, sorridendo. «Certo». Mi sorrise, baciandomi la fronte. «Riordino» dissi osservando lo scempio attorno a noi, «torna presto».

Quando fu scomparso dalla mia vista mi concessi di iniziare a sistemare quel putiferio. C’erano buste di cartone e addobbi in ogni dove. Eravamo stati proprio dei bambini! Sorrisi, invece, ripensando all’espressione contenta sul viso di mio marito. Chissà, magari, una volta tornato a casa, dopo aver messo il puntale… per cuocere i biscotti ci voleva un’ora, era più che sufficiente, potevamo riprendere da dove avevamo lasciato…

Il telefono di casa squillò, così mi affrettai lesta a rispondere, rossa in viso. Scavalcai poco agevolmente il divano, afferrando la cornetta. «Pronto?» feci trafelata.

«Ci sono così tanti tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi tutti…».

Risi alla voce divertita di mio marito. Mi sollevai dal divano, andando verso la vetrata. «Dimmi come sono» feci comprensiva, capendo quanto fosse importante per lui. Osservai il cielo ghiacciato e crepuscolare, e gli alti alberi ricoperti di neve. Il giorno stava quasi volgendo al suo termine. «Credo che quello dorato sia perfetto» mormorai alla cornetta, posando una mano sul vetro trasparente.

«Bene, prenderò questo allora. Hai fatto una magnifica scelta».

Non feci a tempo ad arrossire, che una macchia inconsueta richiamò la mia attenzione. «Ma… cosa…» farfugliai, stringendo gli occhi per vedere meglio in mezzo al bianco accecante della neve.

Solo dopo alcuni istanti riuscii a realizzare che un grosso lupo dal folto pelo marroncino stava correndo velocemente proprio verso di me. Seth!

Edward richiamava la mia attenzione, chiamandomi. «Bella, Bella!». Fissai il lupo in silenzio, completamente paralizzata da quello che stava avvenendo. Era vicino non più di dieci metri, i grandi occhi concentrati su di me.

Lasciai cadere il telefono.

Le orecchie del lupo si appiattirono e le sue zampe anteriori si stirarono frenando bruscamente sulla neve. Era come se un’immensa forza invisibile lo stesse frenando, schiacciandolo. Ululò.

Contemporaneamente, un fischio acutissimo stridette nella mia testa, facendomi vibrare. Urlai, portandomi le mani fra i capelli. Gemetti, mentre il dolore diventava sempre più martellante e una gabbia invisibile m’imprigionava, pervadendomi da dentro.

 

Edward

 

Avevo trascorso una magnifica giornata con mia moglie. Carlisle mi aveva rassicurato su ogni cosa. Prima della visita avevo avuto una certa ansia riguardo all’andamento della gravidanza, riguardo alla sua anemia e alla possibilità che dovesse modificare la sua… dieta. E ancor di più, paura condivisa da mio padre, ero preoccupato riguardo al possibile stress di cui mia moglie avrebbe potuto risentire a quella rivelazione.

«Non l’ho mai vista così serena» mi aveva rassicurato mio padre subito dopo la visita, «sta benissimo. È una donna forte e molto coraggiosa, non avere paura per lei, Edward». E l’aveva guardata con affetto, accarezzandole e capelli e sorridendo per il rossore sulle sue guance.

Così mi ero concesso di essere tranquillo, felice, estraniato dal mondo, dai problemi, e dal sovrannaturale. Almeno per un giorno.

La mia Bella. Era un amore, mentre sgambettava trascinandosi dietro il grande vaso. Era un amore, mentre cucinava con il grembiulino giallo, che le metteva in evidenza la piccola pancia. Era un amore, mentre dirigeva i lavori per la costruzione del nostro albero, il nostro primo albero.

Lei era il mio amore, e noi eravamo una famiglia. Ero semplicemente troppo contento. Non che non mi fossi mai sentito parte di una famiglia, avevo ricevuto tantissimo affetto. Da Carlisle, Esme, da ogni mio fratello. Ma con Bella e la nostra bambina tutto era diverso. Le amavo immensamente, tanto da lasciarmi andare spesso e volentieri in comportamenti che con la freddezza di qualche anno addietro avrei giudicato stupidi e superficiali, ma di cui ora non avrei potuto fare a meno.

Ignorai con un sorriso sarcastico l’occhiata che le donne, giovani e non, mi rivolsero non appena misi piede nel piccolo supermercato di Forks. Ignorai i loro pensieri, quelli rivolti a me, e quelli rivolti a mia moglie, scorrendo veloce verso il reparto che stavo cercando.

Quando mi trovai di fronte all’immensa varietà di addobbi e puntali rimasi allibito. Possibile che in una cittadina con Forks, in cui mancavano cosa fondamentali, come ad esempio una libreria, si desse così tanto spazio alla superficialità?

Composi velocemente il numero di casa. «Pronto?» mi rispose Bella al settimo squillo. Sentivo il suo respiro pesante dall’altro lato della cornetta. Sorrisi, immaginandola destreggiarsi fra la confusione che avevamo creato. Sarei presto tornato da lei, per aiutarla a sistemare.

«Ci sono così tanti tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi tutti» affermai sarcastico, godendomi subito dopo il suono della sua risata allegra. Sentii il fruscio della stoffa e il rumore dei suoi passi, inconfondibili, una musica per le mie orecchie. Immaginai le sue gambe snelle ondeggiare, meravigliosamente perfette.

«Dimmi come sono», disse serena.

Osservai lo scaffale delle decorazioni di fronte a me, e mi lanciai in una minuziosa descrizione. Volevo che scegliesse lei, che tutto fosse come voleva lei. Vederla contenta e felice valeva più di qualsiasi cosa al mondo. Vetro, metallo, forme e dimensioni. Immaginai il nostro eclettico albero, dubbioso. Quale sarebbe stato quello giusto?

«Credo che quello dorato sia perfetto» m’interrupe mia moglie.

«Bene, prenderò questo allora. Hai fatto una magnifica scelta». Sulla mia bocca spuntò un sorriso. Era mia moglie, era Bella, sapevo che mi avrebbe sorpreso, come sempre. Afferrai l’oggetto e mi diressi alla cassa, ansioso di ritornare a casa.

«Ma… cosa…» sentii le parole sconclusionate di mia moglie e un suono strano scalpiccio come sottofondo. Una terribile sensazione s’impossessò di me.

«Bella? Bella?» la chiamai ripetutamente. Non raccolsi il resto, afferrai la mia busta e mi diressi verso l’auto a grandi falcate. Delle terribili prospettive si stavano affacciando alla mia mente. Cos’era successo, cosa stava succedendo? Stava male?

Sentii il tonfo sordo del telefono, mentre cadeva a terra. «Bella! Bella!» continuai a chiamarla, spingendo a fondo l’acceleratore, sempre più perplesso e preoccupato. L’angoscia mi stava divorando.

Due suoni contemporanei e sovrapposti, eppure ben distinguibili al mio udito da vampiro, mi lasciarono spiazzato. Un ululato, e l’urlo di mia moglie. «Bella!» gridai agghiacciato. Dei gemiti bassi e doloranti. Cosa stava accadendo?!

Lasciai l’auto sul vialetto e corsi molto più velocemente dentro casa. Mia moglie era lì, in piedi, di fronte alla vetrata. Avanzai rapidamente verso di lei, e quello che vidi mi lasciò senza fiato.

La sua pelle, pallida. La sua espressione, vacua. I suoi occhi, spalancati, neri.

Sentii un trotterellare veloce, e distinsi con perfezione la figura di un lupo correre via, fra gli alberi. Lo avrei seguito sicuramente, se solo non avessi avuto il viso pallido di mia moglie fra le mani, se solo le sue labbra non si fossero mosse per chiamarmi. «Edward».

Non si agitava. E sarei stato molto meno preoccupato se, come di consueto, l’avesse fatto. Se, come era sempre accaduto, non fosse stata affatto cosciente. «Bella» la chiamai, passando le dita fra le lunghe ciocche scure dei suoi capelli, «Bella, amore. Sono qui… Mi senti?» sussurrai agitato, tentando in qualche modo di farla rinvenire.

Fece un breve e piccolo movimento con il capo, e mi parve come se stesse annuendo.

Mi imposi di mantenere la calma, di pensare lucidamente e razionalmente per aiutarla. La scossi per le spalle, le baciai la fronte, il naso, la bocca. Immobile, era terrorizzata e immobile. La sollevai di peso, prendendola fra le braccia, agitato, preoccupato. «Amore, amore, rispondimi» la chiamai, accarezzandole freneticamente la fronte nivea. Se sue labbra si mossero, ma non ne uscì alcun suono. L’adagiai, facendola sedere sul divano e chinandomi di fronte a lei, continuando a chiamarla, continuando ad accarezzarla.

Un lampo bianco mi colpì gli occhi. Rimasi esterrefatto. Normalmente dovevo notevolmente concentrarmi per poter vedere qualcosa. Questo pensiero mi aveva colpito all’improvviso. Poi di nuovo, la luce. Bella era rigida, immobile. Strinsi le sue mani fra le mie, avvicinandomi alla pancia, tremante, tentando di porre fine a quella tortura.

La luce mi accecò completamente, riempiendomi gli occhi. Era bianca e iridescente. Tuttavia, sentii una sensazione inconsueta. Freddo. Era allo stesso tempo così piacevole e spiacevole. All’improvviso, mentre i miei occhi osservavano, attenti, capii. Era neve. Un’immensa distesa di neve. La sensazione di ricerca, la solita e consueta, crebbe a dismisura dentro di me. Mi aspettai che tutto finisse, come al solito. Invece, questa volta, la mia ricerca fu soddisfatta. Avevo coscienza di me.

Avevo trovato me stesso.

«Ahhh!» l’urlo di mia moglie mi fece tornare alla realtà. Si dimenò, agitandosi, roteando gli occhi, tornati del suo intenso marrone naturale.

«Bella!» esclamai angosciato, vedendola agitarsi dolorante, bloccandole le braccia per impedirle di farsi alcun male.

Si prese la testa fra le mani, gemendo, dondolando avanti e indietro come una forsennata. I denti stretti. Gli occhi, nocciola, sgranati.

«Amore, amore» la chiamai, stringendo il suo piccolo e fragile corpo fra le mie braccia e costringendola a fermarsi, attento a non farle del male.

Ansimò, prendendo dei respiri profondi e veloci, come se fosse appena uscita dall’apnea. Artigliò le mani al mio maglione, stringendomi, aggrappandosi, graffiandomi, come se fossi uno scoglio in un fiume.

«Shh, shh. È tutto finito» la rassicurai, sorpreso dalla sua reazione. La strinsi più forte, attento a non farle male, facendo calmare il battito del suo cuore. Continuava a gemere, a mezza voce. L’allontanai, aspettandomi di trovare i suoi occhi appannati di lacrime. Ma non ce n’erano. C’era solo tanto terrore.

«Edward» esalò, stringendosi sofferente al mio corpo, allacciandosi con forza, tanta da tremare, con le braccia e le gambe. Era bollente. Sentivo tutto il suo calore irradiarsi dal suo corpo verso il mio.

Ero spaventato, sopraffatto dalla veloce successione degli eventi. L’agonia, il sogno, il terrore. Troppe cose persino per una mente spaziosa come la mia. Troppi quesiti irrisolti, troppi i possibili risvolti e collegamenti. Ma ora c’era decisamente una priorità: rassicurare mia moglie.

Mi imposi di avere un tono calmo e pacato, di trasmetterle sicurezza. «Amore» la chiamai dolcemente «è tutto finito. Cosa succede?». Ero preoccupato. Ogni volta lei sminuiva il suo stato, faceva di tutto per nascondermi la sua stanchezza. Ogni volta, ironizzava sulla sua condizione, su quello che le era accaduto. Era convinta di poter tenere tutto perfettamente sottocontrollo.

Ma questa volta era stato evidentemente diverso.

Si strinse con più forza a me, continuando a tremare. Feci per alzarmi, per farla stendere sul divano, o farla mettere in una posizione più comoda. Fare qualsiasi cosa che mi consentisse di aiutarla. Sussultò, cantilenando un no. Posai una mano sulla sua fronte, sul suo collo, trovandoli certamente più caldi di quanto avrebbero dovuto essere. Si appoggiò al mio palmo, rimanendo tremante e silenziosa.

Pochi istanti dopo aver sentito i pensieri dei miei familiari, la porta di casa si aprì.

«Cos’è successo?». I pensieri di Alice, allarmati, furono i primi a giungermi. Si era bloccata a pochi metri da noi, una mano alla bocca. Jasper le fu subito accanto, stringendola.

«Edward» i pensieri di mio padre mi costrinsero a voltarmi verso di lui, al mio fianco.

Bella sussultò, gemendo, stringendo le gambe attorno a me, spaventata, sentendo l’inaspettato contatto con la mano di Esme. Continuava a tremare, gli occhi gradi e fissi nel vuoto. Le accarezzai la schiena, acquietandola. «Shh. Calma».

«Sono entrambe disorientate, destabilizzate» disse Jasper con delicatezza, osservando mia moglie e percependo la gravità della situazione, «Bella è terrorizzata. Cosa diamine è successo?» pensò sgomento.

Sentii i deboli pensieri della bambina, disturbata dal calore. «È calda» dissi conciso, voltandomi verso Carlisle.

Mio padre ricambiò il mio sguardo, allungando una mano verso il viso di mia moglie, attento a farsi guardare e non compiere movimenti bruschi. Non fece una piega quando la mano si posò sulla sua fronte. Subito i suoi pensieri confermarono i miei, la sua temperatura era decisamente più elevata di come avrebbe dovuto essere. «Aspetta» pensò, resosi conto del mio stato d’angoscia «Aspettiamo, forse ora si abbassa».

Lo guardai preoccupato, tentando di leggere nei suoi pensieri quanto fosse sincero e convinto della sua affermazione.

«Cos’è successo, Bella?» chiese Alice preoccupata, avvicinandosi a colei che considerava a tutti gli effetti sua sorella. S’inginocchiò accanto a me, sfiorandole una mano.

Levò un lamento lieve, portando lentamente un palmo aperto sulla tempia e gemendo. «La testa…» mormorò, «la testa…». Mio Dio, cosa le stava accadendo? Cosa le era successo?

La mente di mia sorella fu invasa da una serie di immagini, velocissime, tutte con Bella protagonista. Poi si concentrarono su un altro tipo d’immagine. Non era una visione, era un ricordo. Era Alice, da umana. Una camicia lunga e bianca, sporca. Delle bruciature, un forte dolore alla testa. Ansimò, spalancando gli occhi e guardando Bella.

Jasper venne immediatamente accanto a sua moglie, sollevandola e portandola lontano.

In quel momento notai che il tremore di Bella era cambiato. Si mosse, velocemente, tossendo. «Edward… I…» farfugliò, guardando la porta del bagno.

Capii. La sollevai velocemente e la portai nella stanza, sorreggendola, tenendole la fronte e i capelli. Ci seguì solo Carlisle, chiudendosi la porta alle spalle. «È sotto shock» pensò, osservandola. Mi passò un asciugamano. «Il dolore alla testa potrebbe essere dovuto alla temperatura elevata».

Le asciugai il sudore sulla fronte, le pulii le labbra, sollevandola fra le braccia. Vederla così indifesa mi annientava. Il coraggio che aveva sempre dimostrato mi aveva aiutato ad andare avanti. Era vero, capivo perfettamente quanto minimizzasse, ma lei mi sorrideva, mi guardava tranquilla, mi accarezzava i capelli, dicendomi che tutto andava bene. Come se fossi io quello da rassicurare. Ed era vero, solo ora lo capivo, l’aveva sempre fatto.

«Ti viene ancora da vomitare?». Le scostai una ciocca dal viso.

Scosse il capo, e feci un piccolo sospiro di sollievo, quando mi resi conto che stava riacquistando lucidità. La portai in camera, adagiandola sul copriletto. Le tenni le dita strette alle mie, comprendendo quanto ne avesse ancora bisogno.

Mio padre le sfiorò la fronte, costatando con serenità che la temperatura stata tornando normale. Lo ringraziai della sua rassicurazione. Bella sbatté le palpebre, chiudendole per alcuni secondi, stanca, portandosi una mia mano sulla guancia.

«È tutto finito» le ripetei, ansioso di farla stare meglio.

«Cos’è successo?» chiese Carlisle alle mie spalle. «Alice ha avuto una visione, non molto differente da quello che abbiamo trovato appena siamo arrivati. Cos’è accaduto?» chiese calmo, avvicinandosi a Bella e facendole comprendere le sue intenzioni. Lei annuì. Sollevò con cautela il suo vestito, fin sull’ombelico, tastandole l’addome.

Mi scostai leggermente per agevolargli i movimenti. «È tutto troppo complesso. Ci sono i licantropi di mezzo, e non capisco come possano centrare. Per il resto, la bambina ha fatto il suo solito sogno» osservai mia moglie, mentre ricambiava attenta il mo sguardo, «Sono riuscito a seguirlo tutto. Ma…» deglutii, e Bella strofinò il suo pollice contro la mia guancia «Bella era lucida, e cosciente» rivelai.

I pensieri di mio padre si bloccarono, così come i suoi movimenti. Lei chiuse gli occhi, e mi aspettai che delle lacrime scendessero dalle sue ciglia fitte. Ma non fu così.

Si sollevò, prese il bicchiere che Carlisle le aveva porto e ingoiò in un sorso la compressa. Non chiese perché, non chiese cosa fosse. Tocolitici, mi aveva spiegato, a scopo preventivo per le contrazioni.

Ci lasciò soli non appena la temperatura di Bella fu di nuovo vicina alla normalità. Mi stesi accanto a lei, avvolgendola in una coperta. «Va meglio?» chiesi, accarezzandole il fianco destro.

«Sì» mormorò abbracciandomi.

Le baciai la fronte, morbida e vellutata come la buccia di una pesca. «Mi vuoi dire cosa è successo?» chiesi delicatamente, attento a non turbarla, «anche solo approssimativamente se vuoi».

Strinse le labbra, posando la testa sul mio petto. «La testa… mi… faceva male. Era Seth, il lupo. Era Seth. Ma non si è avvicinato. Si è bloccato, ha ululato, è andato via». Chiuse le palpebre, ancora una volta, stanca.

L’accarezzai. «Riposa» sussurrai a mezza voce.

Rimase in silenzio per molti minuti, ma non si addormentò. Riaprì gli occhi e mi guardò in silenzio, forse titubante. «Sta bene?» chiese infine, a voce appena udibile. Mi resi conto che stesse parlando della bambina, ma mi colpì il tono che aveva usato.

«Sì, sta bene, non ti preoccupare. Non accadrà niente, è tutto passato. Riposa» ripetei, premurandomi di rassicurandola.

Chiuse gli occhi. «Edward» mi chiamò, vibrando nel silenzio.

«Sì?».

Scosse il capo sul mio petto. La strinsi più forte, accarezzandola.

«Hai paura?» chiesi, aspettandomi una risposta negativa.

«Sì».

   
 
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