«Oh Dio, grazie di
aver inventato i dolci. Voglio mangiare solo dolci per il resto della
mia vita».
«Sembra
gradire»
commentò Edward, seduto davanti a me, accarezzandomi la
piccola pancia.
«Sì,
sì, lo sento. Me
lo sta dicendo in ogni modo possibile… Oh»
m’interruppi, riflettendo sulle sue
parole «non si stai muovendo. La senti lo stesso?»
chiesi curiosa.
Annuì, sorridente.
«Un
po’».
Sorrisi anch’io,
prendendo un altro morso del mio cornetto al cioccolato, lasciando che
continuasse ad accarezzare sua figlia. Stava maturando sempre
più con i suoi
pensieri ed io e Edward ne eravamo davvero orgogliosi.
«Allora»
esordì
Carlisle, rientrando nel suo studio. Mi ricomposi leggermente sul
lettino,
pulendomi le briciole ai lati della bocca e arrossendo. «La
analisi del sangue
vanno piuttosto bene» asserì, fermandosi composto
e in piedi al centro della
stanza.
«Piuttosto?»
domandai
un po’ spaventata.
«Finisci il tuo
cornetto al cioccolato» mi rassicurò Edward
notando la mia espressione nauseata
«non dovrai bere nessun bicchiere di sangue».
Mi veniva da vomitare
solo all’idea. «Per oggi» balbettai,
allontanando quello che rimaneva della mia
colazione. La rivelazione del professor Philip ci aveva sconvolto
notevolmente,
ma Carlisle mi aveva rassicurato che avremmo considerato
quell’ipotesi solo nel
caso in cui non avessimo avuto altre alternative.
«Bella, le donne di
cui parla Philip non avevano a disposizione la terapia farmacologica
che stiamo
dando a te» mi rassicurò mio suocero con un
sorriso «sei sempre anemica, è
vero, ma lo sono anche molte altre gestanti con gravidanze
meno… speciali».
Edward mi lasciò un
bacio sui capelli. «Affronteremo ogni cosa quando ce ne
sarà bisogno, ve
bene?».
Annuii, accarezzandomi
la pancia. Per quanto l’idea mi repellesse avrei fatto
qualunque cosa per mia
figlia, anche bere del sangue mentre ero ancora umana. Speravo solo non
ce ne
fosse bisogno.
«Non lo vuoi
più?» mi
chiese Edward, distraendomi dai miei pensieri e indicando il pezzettino
di
brioche che avevo lasciato.
Feci una smorfia. «Non
mi va».
Ridacchiò, buttandolo
via. «Non volevi mangiare solo dolci per il resto della tua
vita?».
Sollevai gli occhi al
cielo, lasciando dondolare i miei piedi, liberi di muoversi sul bordo
del
lettino su cui ero seduta. «Possiamo andare?»
chiesi speranzosa. Era stata
un’estenuante mattinata in ospedale. Considerando quanto poco
amassi quel luogo
e tutti i trattamenti a cui ero stata sottoposta, non vedevo
l’ora di fuggire.
Avevo preso seriamente in considerazione l’idea che Edward
avesse deciso di
comprarmi quei dolci solo per tapparmi in qualche modo la bocca. Ma mi
diedi
subito della sciocca, capendo che l’aveva fatto solo per il
mio benessere, per
farmi distrarre e stare meglio.
Eppure, a parte l’idea
del sangue, mi sentivo davvero bene.
Alle mie parole
l’espressione di Carlisle si contrasse di dispiacere.
«Vorrei solo fare
un’ultima cosa».
Sospirai, desolata.
«Deve solo controllare
quanto stai crescendo» mi sussurrò lievemente
Edward «non ci vorrà molto e non
ti darà fastidio».
Annuii, seppur
riluttante. «Certo, va bene».
Anche l’altra
rivelazione del professore era stata piuttosto sconcertante. Pensavo
spesso
alla bambina, a come sarebbe cresciuta lentamente, e a come io stessa
non mi
fossi resa conto dei cambiamenti del mio corpo. O meglio, non
cambiamenti.
Carlisle prese
delicatamente le mie mani fra le sue, osservando le mie unghie.
Passò ai
capelli, misurò l’altezza, le proporzioni del mio
corpo. Disse che in effetti,
come Philip ci aveva informati, stavo crescendo più
lentamente del solito. Era
stato difficile, quasi del tutto impossibile notarlo, per le strane
variazioni
che ha «l’organismo umano»
- sue parole - e per le fasi alternanti di
crescita. L’importante era che andasse tutto bene, anche solo
per sentire
Edward sereno.
Arrossii lievemente
quando dovetti salire sulla bilancia. Mi morsi il labbro inferiore,
mentre sia
Carlisle che Edward osservavano l’infame numeretto rosso sul
display. «Prometto
che non mangerò più così tanti dolci.
O sì, e prometto che non mi farò
abbindolare dai manicaretti di Esme…»
pensai velocemente, invocando Dio ed
alzando gli occhi al cielo.
«Hai preso due chili e
mezzo» disse Carlisle sorridendo divertito alla mia
espressione eloquente.
Arrossii.
«È anche fin
troppo
poco. Andiamo… puoi mangiare quanti dolci vuoi» mi
disse Edward intuendo i miei
pensieri, sollevandomi con un braccio e facendomi scendere dalla
bilancia.
«Andiamo via?»
chiesi
entusiasta.
«Esatto» mi
rispose
con un sorriso. «Dobbiamo andare in un posto».
«Andate pure. Rinnovo
le mie raccomandazioni Bella, non ti stancare troppo».
Carlisle si fece
improvvisamente più serio. «Come va con i
sogni?».
Prima che Edward
potesse aprire bocca, risposi io. «Bene» dissi, con
forse troppa enfasi, arrossendo
subito dopo per la possibile duplice interpretazione delle mie parole.
«Va…
tutto bene… considerando che sono cosciente di quello che mi
accade riesco a
controllare la situazione». Nell’ultimo periodo in
effetti, grazie anche allo
yoga - dovevo ammetterlo - ero riuscita a scoprire di poter acquisire
un nuovo
ed imprevedibile controllo di me stessa. Per quanto i sogni della
bambina mi
stancassero notevolmente, l’importante era che lei stesse
bene. Tutto andava
per il meglio.
La porta marroncina si
spalancò di botto. «Dottor Cullen!»
esclamò Mark,
entrando di corsa nello studio. Era lo specializzando di ginecologia,
il
migliore del suo corso, che avrebbe dovuto assistere al mio parto. Mi
chiedevo
se ci fosse una persona più paziente di Carlisle in grado di
stargli dietro.
Avanzò nello studio frettolosamente. «Stavo
registrando i dati sulla cartella e
mi sono accorto che forse la VES è troppo bassa!».
Carlisle sorrise
composto, scuotendo il capo e offrendogli delucidazioni. Mark era un
ragazzo
dolcissimo, e con infinita voglia di imparare. Ma anche così
maledettamente
curioso! Mi sfregai il braccio, ancora dolorante per il prelievo che mi
ero
lasciata fare da lui per dissuaderlo dalla storia
dell’ecografia. Assurdo.
«Ciao
Carlisle!» lo
salutai, uscendo dall’ambulatorio accanto a mio marito,
«ciao Mark, mi
raccomando, non lavorare troppo» ironizzai con un sorrisino.
«Oh, no, no»
rispose
serio «ma Bella, già te ne vai?» chiese,
e mi sembrò tanto di vedere un bimbo a
cui hanno appena tolto il gioco nuovo.
Ridacchiai,
lasciandomi trascinare via da Edward. In fondo, come Carlisle mi aveva
spiegato, per uno specializzando era una grande soddisfazione poter
seguire
personalmente un caso e avere tutto lo spazio che gli stava offrendo.
Con la
sua curiosità e la sua inesperienza, manipolarlo sarebbe
stato più semplice, e
Carlisle avrebbe avuto un paio di mani in più su cui
contare.
«Oddio, Edward, dove
mi hai portata?» esclamai, osservando il grande recinto,
pieno di abeti di ogni
misura, tutti innevati. Scesi velocemente dall’auto,
osservando lo spettacolo
di lucine di fronte ai miei occhi. La neve che cadeva giù
dal cielo rendeva
tutto il quadro decisamente più pittoresco.
Sentii le sue mani
fredde sulla vita, e l’euforia della bambina si
unì alla mia, mentre l’aria
fredda entrava nella mia bocca, aperta per lo stupore. «Puoi
scegliere quello
che vuoi» mormorò al mio orecchio mio marito, con
la sua voce carezzevole.
«Attento, così
urterai
al muro» lo chiamai, guidandolo.
Rise. «Bella, credi
forse che abbia difficoltà a trasportare un
abete?».
Borbottai, sfilandomi
i guanti e sfregando le mani una contro l’altra, per impedire
che si
congelassero definitivamente. Lo osservai mentre lasciava ondeggiare
l’albero,
senza sfiorare alcuna parete o oggetto d’arredamento.
Era davvero un
bell’albero. Non troppo alto, anche se Edward aveva voluto
che sfiorasse il
basso soffitto del salotto. Io, dal canto mio, avevo preteso che avesse
una
chioma ampia e fitta, e che le foglie fossero verde smeraldo. Era un
bell’albero. Il nostro primo albero.
Lo mise in piedi,
tenendolo dritto con un braccio ed emergendo dalla folta chioma.
«Dove lo
vuoi?» chiese con un sorriso contento da ragazzino. Sembrava
davvero felice.
Sorrisi anch’io.
«Aspetta» mormorai, scomparendo dalla stanza, per
poi ritornare con un grosso
vaso e un sacco di terra. Lo trascinai sul pavimento, tirandolo.
«Bella» mi
sgridò.
«Ce la faccio»
mormorai, continuando a trascinare il vaso fino all’angolo
opposto al camino.
Lo avrei posizionato in modo che i nostri inesistenti vicini potessero
vederlo
dall’esterno, dalla grande vetrata. Nella notte, con tutte le
lucine accese,
avrebbe scintillato nell’oscurità, e magari
avrebbero potuto vederlo anche gli
animali della foresta. Era il nostro albero, il nostro primo albero, ma
ogni
anno, come ogni famiglia, avrei preteso di addobbarlo sempre nello
stesso
punto. Stavamo creando la nostra prima consuetudine, di quelle che ti
scaldano
il cuore ogni volta che le ripeti. Di quelle che ti fanno sentire una famiglia.
«Lascia» disse
Edward,
togliendomi il sacco di terra dalle mani e posando l’albero
al centro esatto
del vaso.
Mi pulii le mani, una
contro l’altra. «Vorrei fare dei
biscotti», dissi a mezza voce, confessando la
mia idea e arrossendo un po’, timorosa del fatto che potesse
trovarla banale o
stupida, «che ne dici? Mi dispiace che vadano buttati, magari
li mangerei solo
io…».
Mi sorrise. «Potremmo
chiamare tuo padre e la mia famiglia stasera. Ti va?» mi
baciò la fronte,
stringendomi una mano con la sua.
Annuii, radiosa.
«Certo». Era sempre attento ad ogni mia richiesta,
premuroso, e felice di farmi
felice, in qualsiasi modo. L’amavo tantissimo, e pensavo che
ben presto mi
potesse mancare il respiro dalla felicità.
Mi dedicai alla
cucina, cercando fra le vecchie ricette che avevo portato con me da
Phoenix,
lasciando mio marito a occuparsi della sistemazione
dell’albero. Canticchiai,
leggera, allegra, impastando la soffice pasta, trasmettendo la stessa
allegria
alla bambina. Chissà, mi chiesi, se una volta nata avei
potuto cucinare per
lei, se ci fosse stato qualcuno in grado di apprezzare la mia cucina.
L’avrei
amata in ogni caso ma speravo di non dover allattare mia figlia con dei
biberon
pieni di… sangue.
Avremmo potuto
risolvere chiedendo semplicemente al professore, eppure lui si ostinava
a
rimanere in silenzio. Che arroganza! Eppure Rosalie ed Emmett erano via
da una
settimana, solo per aiutare lui!
«Hai finito?»
la voce
di Edward, alle mie spalle, mi fece sussultare. Mi abbracciò
da dietro, posando
la testa sulla mia spalla.
Coprii la ciotola con
l’impasto con un canovaccio, spingendolo in avanti sul
ripiano della cucina. Mi
voltai tanto da poterlo baciare liberamente. Ben presto,
però, le sue mani
furono sul mio viso, le mie fra i suoi capelli, e la stanza fu riempita
di gemiti.
«Edward»
mormorai
ansante «dobbiamo finire l’albero».
Cacciai un urletto quando mi strinse le
natiche con le mani.
«Dobbiamo…»
mormorò
roco baciandomi ripetutamente il collo, tenendomi la testa bloccata e
reclinata
da un lato.
«Dobbiamo»
esalai,
lasciandomi andare sul suo petto sconvolta, il cuore che mi batteva
dirompente
nelle vene, «andiamo».
Aveva fatto un lavoro
eccellente, come al solito, piantando l’albero. Pretesi che
non utilizzasse, o
che almeno tentasse di frenare, le sue doti da vampiro mentre lo
addobbavamo.
Avevamo comprato tante di quelle decorazioni che a stento si sarebbe
visto il
verde dei rami sottostanti! Ma Edward non aveva una misura, e non
appena aveva
visto i miei occhi posarsi su una o su un’altra cosa
l’aveva presa. Avremmo deciso
più tardi se utilizzarla, così aveva detto.
Voleva sempre accontentarmi in
tutto, eppure questa volta mi pareva ci fosse qualcosa in
più. Mi pareva che
anche lui fosse piuttosto preso dalla storia dell’albero.
«Da dove
cominciamo?»
chiese entusiasta, osservando i rami ancora spogli.
«Dalle luci»
risposi,
come se fosse ovvio, «dobbiamo metterle intorno».
«Oh…
Bene».
«Edward» chiesi
perplessa «non sai come si fa un albero? Credevo che sapessi
tutto, ormai»
dissi ridendo.
Si passò una mano fra
i capelli, come imbarazzato. «Se ne sono occupate sempre Esme
e Rosalie. Non
ricordo molto dell’ultimo albero che ho fatto»
mormorò «sono passati tantissimi
anni. Allora non c’erano le luci elettriche, suppongo di
averlo decorato con
mia madre, con delle candele. Avrò avuto
all’incirca otto o nove anni».
Mi parve di scorgere
un velo di malinconia fra le sue parole. Mi avvicinai, prendendo le sue
mani
fra le mie, dandomi ella stupida per la mia leggerezza. «Non
ti preoccupare, ti
insegno io».
Mi sorrise, accarezzandomi
i capelli e baciandomi la fronte.
Rispettò il patto, e
non usò nessun potere da vampiro. Sistemammo tutte le lucine
colorate, e le
palline di vetro, e gli addobbi. I nastri, le ghirlande, i fiocchi.
Cominciavo
a decorare dal basso, e lasciavo che lui si occupasse della parte
più alta, un
sorriso euforico stampato sul suo volto da ragazzino smaliziato. Sentii
più
volte la bambina muoversi, e ogni volta lui sollevava il capo e mi
osservava,
felice.
«È
bellissimo» disse
infine, osservando il nostro lavoro. Era ricco di addobbi, ma era
speciale e
nostro. Esprimeva la nostra armonia. Mi piaceva tanto,
eppure…
Portai le mani sui
fianchi. Immediatamente vidi una delle tante decorazioni avanzate sul
tavolo.
«Mettilo su, mettilo lassù quel fiocco!»
esclamai porgendoglielo. Mancava
ancora qualche ritocco. Mi sollevò per i fianchi, facendomi
sedere sulle sue
spalle. «Oddio, Edward, sei troppo
alto…» risi, agitando le braccia.
«Non ti muovere, metti
quel fiocco» mi rispose divertito. Non appena
l’ebbi sistemato mi afferrò per i
fianchi per farmi scendere.
«No, aspetta»
dissi
stringendomi con le gambe, fasciate dalle calde calze chiare e morbide.
«Voglio
mettere il puntale!».
«Dove l’hai
messo?»
chiese, volgendo una rapida occhiata alla stanza e facendomi girare
velocemente.
Mi aggrappai con le
mani alle sue spalle, facendolo fermare. «Non lo so,
l’hai preso tu!».
Mi fece scendere,
mettendosi di fronte a me. «Beh, no, pensavo
l’avessi preso tu. Ne faremo a
meno» mormorò, facendo spallucce, come se fosse
una cosa assolutamente normale.
«Beh» mormorai
perplessa. «Solitamente il puntale è
necessario».
Inarcò un
sopracciglio. «Ne sei sicura? Il nostro albero è
bellissimo anche così».
«Già»
ammisi,
osservandolo. Non mi curavo poi tanto di essere tradizionalista. Si
poteva dire
che il nostro albero non seguisse alcuna tradizione, con
l’eclettismo dei suoi
addobbi. Sorrisi, facendomi abbracciare e ricordando le parole di mia
madre.
«Un Natale il nostro puntale si ruppe. Mia madre
impazzì, ribadendo
l’importanza di quello stupido oggetto. Tutti i negozi erano
ormai chiusi,
vagammo per tutta la città in cerca di un puntale.
Camminavamo fra la neve
fredda, congelate, ma le si ostinava a ripetere:
“È una questione di principio,
il puntale è la parte più importante
dell’albero! È così, e basta. Si
può fare
un albero anche senza nessun addobbo, solo con un puntale, sarebbe
stupendo. Il
contrario sarebbe una cosa orrenda!”» risi,
ricordando la febbre del giorno
dopo. Avevamo il nostro albero col puntale, ma dovemmo godercelo
entrambe a
letto.
Edward strinse le
labbra, sollevando entrambe le sopracciglia. «Non credevo
fosse così importante.
Sicura che non sia necessario?».
Feci spallucce, ma
vidi nei suoi occhi una strana scintilla. Già, era il suo
primo albero dopo
tantissimo tempo. Il nostro primo come famiglia. Era comprensibile che
volesse
fare tutto quello che andava fatto. «Vado a prenderlo e
torno, va bene?» mi
chiese, quasi come se volesse il mio permesso.
Annuii, sorridendo.
«Certo». Mi sorrise, baciandomi la fronte.
«Riordino» dissi osservando lo
scempio attorno a noi, «torna presto».
Quando fu scomparso
dalla mia vista mi concessi di iniziare a sistemare quel putiferio.
C’erano
buste di cartone e addobbi in ogni dove. Eravamo stati proprio dei
bambini!
Sorrisi, invece, ripensando all’espressione contenta sul viso
di mio marito.
Chissà, magari, una volta tornato a casa, dopo aver messo il
puntale… per
cuocere i biscotti ci voleva un’ora, era più che
sufficiente, potevamo
riprendere da dove avevamo lasciato…
Il telefono di casa
squillò, così mi affrettai lesta a rispondere,
rossa in viso. Scavalcai poco
agevolmente il divano, afferrando la cornetta.
«Pronto?» feci trafelata.
«Ci sono
così tanti
tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi
tutti…».
Risi alla voce
divertita di mio marito. Mi sollevai dal divano, andando verso la
vetrata.
«Dimmi come sono» feci comprensiva, capendo quanto
fosse importante per lui.
Osservai il cielo ghiacciato e crepuscolare, e gli alti alberi
ricoperti di
neve. Il giorno stava quasi volgendo al suo termine. «Credo
che quello dorato
sia perfetto» mormorai alla cornetta, posando una mano sul
vetro trasparente.
«Bene,
prenderò
questo allora. Hai fatto una magnifica scelta».
Non feci a tempo ad
arrossire, che una macchia inconsueta richiamò la mia
attenzione. «Ma… cosa…»
farfugliai, stringendo gli occhi per vedere meglio in mezzo al bianco
accecante
della neve.
Solo dopo alcuni
istanti riuscii a realizzare che un grosso lupo dal folto pelo
marroncino stava
correndo velocemente proprio verso di me. Seth!
Edward richiamava la
mia attenzione, chiamandomi. «Bella, Bella!».
Fissai il lupo in
silenzio, completamente paralizzata da quello che stava avvenendo. Era
vicino
non più di dieci metri, i grandi occhi concentrati su di me.
Lasciai cadere il
telefono.
Le orecchie del lupo
si appiattirono e le sue zampe anteriori si stirarono frenando
bruscamente
sulla neve. Era come se un’immensa forza invisibile lo stesse
frenando,
schiacciandolo. Ululò.
Contemporaneamente, un
fischio acutissimo stridette nella mia testa, facendomi vibrare. Urlai,
portandomi le mani fra i capelli. Gemetti, mentre il dolore diventava
sempre
più martellante e una gabbia invisibile
m’imprigionava, pervadendomi da dentro.
Edward
Avevo trascorso una
magnifica giornata con mia moglie. Carlisle mi aveva rassicurato su
ogni cosa.
Prima della visita avevo avuto una certa ansia riguardo
all’andamento della
gravidanza, riguardo alla sua anemia e alla possibilità che
dovesse modificare
la sua… dieta. E ancor di
più, paura condivisa da mio padre, ero
preoccupato riguardo al possibile stress di cui mia moglie avrebbe
potuto
risentire a quella rivelazione.
«Non
l’ho mai vista
così serena» mi aveva rassicurato mio
padre subito dopo la visita, «sta
benissimo. È una donna forte e molto coraggiosa, non avere
paura per lei,
Edward». E l’aveva guardata con affetto,
accarezzandole e capelli e
sorridendo per il rossore sulle sue guance.
Così mi ero concesso
di essere tranquillo, felice, estraniato dal mondo, dai problemi, e dal
sovrannaturale. Almeno per un giorno.
La mia Bella. Era un
amore, mentre sgambettava trascinandosi dietro il grande vaso. Era un
amore,
mentre cucinava con il grembiulino giallo, che le metteva in evidenza
la
piccola pancia. Era un amore, mentre dirigeva i lavori per la
costruzione del
nostro albero, il nostro primo albero.
Lei era il mio amore,
e noi eravamo una famiglia. Ero semplicemente troppo contento. Non che
non mi
fossi mai sentito parte di una famiglia, avevo ricevuto tantissimo
affetto. Da
Carlisle, Esme, da ogni mio fratello. Ma con Bella e la nostra bambina
tutto
era diverso. Le amavo immensamente, tanto da lasciarmi andare spesso e
volentieri in comportamenti che con la freddezza di qualche anno
addietro avrei
giudicato stupidi e superficiali, ma di cui ora non avrei potuto fare a
meno.
Ignorai con un sorriso
sarcastico l’occhiata che le donne, giovani e non, mi
rivolsero non appena misi
piede nel piccolo supermercato di Forks. Ignorai i loro pensieri,
quelli
rivolti a me, e quelli rivolti a mia moglie, scorrendo veloce verso il
reparto
che stavo cercando.
Quando mi trovai di
fronte all’immensa varietà di addobbi e puntali
rimasi allibito. Possibile che
in una cittadina con Forks, in cui mancavano cosa fondamentali, come ad
esempio
una libreria, si desse così tanto spazio alla
superficialità?
Composi velocemente il
numero di casa. «Pronto?» mi
rispose Bella al settimo squillo. Sentivo
il suo respiro pesante dall’altro lato della cornetta.
Sorrisi, immaginandola
destreggiarsi fra la confusione che avevamo creato. Sarei presto
tornato da
lei, per aiutarla a sistemare.
«Ci sono così
tanti
tipi di puntali qui, non finirei neppure se li prendessi
tutti» affermai
sarcastico, godendomi subito dopo il suono della sua risata allegra.
Sentii il
fruscio della stoffa e il rumore dei suoi passi, inconfondibili, una
musica per
le mie orecchie. Immaginai le sue gambe snelle ondeggiare,
meravigliosamente
perfette.
«Dimmi come sono»,
disse serena.
Osservai lo scaffale delle
decorazioni di fronte a me, e mi lanciai in una minuziosa descrizione.
Volevo
che scegliesse lei, che tutto fosse come voleva lei. Vederla contenta e
felice
valeva più di qualsiasi cosa al mondo. Vetro, metallo, forme
e dimensioni.
Immaginai il nostro eclettico albero, dubbioso. Quale sarebbe stato
quello
giusto?
«Credo che
quello
dorato sia perfetto» m’interrupe mia
moglie.
«Bene,
prenderò questo
allora. Hai fatto una magnifica scelta». Sulla mia bocca
spuntò un sorriso. Era
mia moglie, era Bella, sapevo che mi avrebbe sorpreso, come sempre.
Afferrai
l’oggetto e mi diressi alla cassa, ansioso di ritornare a
casa.
«Ma…
cosa…»
sentii le parole sconclusionate di mia moglie e un suono strano
scalpiccio come
sottofondo. Una terribile sensazione s’impossessò
di me.
«Bella? Bella?»
la
chiamai ripetutamente. Non raccolsi il resto, afferrai la mia busta e
mi
diressi verso l’auto a grandi falcate. Delle terribili
prospettive si stavano
affacciando alla mia mente. Cos’era successo, cosa stava
succedendo? Stava
male?
Sentii il tonfo sordo
del telefono, mentre cadeva a terra. «Bella!
Bella!» continuai a chiamarla,
spingendo a fondo l’acceleratore, sempre più
perplesso e preoccupato.
L’angoscia mi stava divorando.
Due suoni contemporanei
e sovrapposti, eppure ben distinguibili al mio udito da vampiro, mi
lasciarono
spiazzato. Un ululato, e l’urlo di mia moglie.
«Bella!» gridai agghiacciato.
Dei gemiti bassi e doloranti. Cosa stava accadendo?!
Lasciai l’auto sul
vialetto e corsi molto più velocemente dentro casa. Mia
moglie era lì, in
piedi, di fronte alla vetrata. Avanzai rapidamente verso di lei, e
quello che
vidi mi lasciò senza fiato.
La sua pelle, pallida.
La sua espressione, vacua. I suoi occhi, spalancati, neri.
Sentii un trotterellare
veloce, e distinsi con perfezione la figura di un lupo correre via, fra
gli
alberi. Lo avrei seguito sicuramente, se solo non avessi avuto il viso
pallido
di mia moglie fra le mani, se solo le sue labbra non si fossero mosse
per chiamarmi.
«Edward».
Non si agitava. E
sarei stato molto meno preoccupato se, come di consueto,
l’avesse fatto. Se,
come era sempre accaduto, non fosse stata affatto cosciente.
«Bella» la
chiamai, passando le dita fra le lunghe ciocche scure dei suoi capelli,
«Bella,
amore. Sono qui… Mi senti?» sussurrai agitato,
tentando in qualche modo di
farla rinvenire.
Fece un breve e
piccolo movimento con il capo, e mi parve come se stesse annuendo.
Mi imposi di mantenere
la calma, di pensare lucidamente e razionalmente per aiutarla. La
scossi per le
spalle, le baciai la fronte, il naso, la bocca. Immobile, era
terrorizzata e
immobile. La sollevai di peso, prendendola fra le braccia, agitato,
preoccupato. «Amore, amore, rispondimi» la chiamai,
accarezzandole
freneticamente la fronte nivea. Se sue labbra si mossero, ma non ne
uscì alcun
suono. L’adagiai, facendola sedere sul divano e chinandomi di
fronte a lei,
continuando a chiamarla, continuando ad accarezzarla.
Un lampo bianco mi
colpì gli occhi. Rimasi esterrefatto.
Normalmente dovevo notevolmente concentrarmi per poter vedere qualcosa.
Questo
pensiero mi aveva colpito all’improvviso. Poi di
nuovo, la luce. Bella
era rigida, immobile. Strinsi le sue mani fra le mie, avvicinandomi
alla
pancia, tremante, tentando di porre fine a quella tortura.
La luce mi accecò
completamente, riempiendomi gli occhi. Era bianca e iridescente.
Tuttavia,
sentii una sensazione inconsueta. Freddo. Era allo stesso tempo
così piacevole
e spiacevole. All’improvviso, mentre i miei occhi
osservavano, attenti, capii.
Era neve. Un’immensa distesa di neve. La sensazione di
ricerca, la solita e
consueta, crebbe a dismisura dentro di me. Mi aspettai che tutto
finisse, come
al solito. Invece, questa volta, la mia ricerca fu soddisfatta. Avevo
coscienza
di me.
Avevo trovato me
stesso.
«Ahhh!»
l’urlo di mia moglie mi fece tornare alla realtà.
Si dimenò, agitandosi,
roteando gli occhi, tornati del suo intenso marrone naturale.
«Bella!»
esclamai
angosciato, vedendola agitarsi dolorante, bloccandole le braccia per
impedirle
di farsi alcun male.
Si prese la testa fra
le mani, gemendo, dondolando avanti e indietro come una forsennata. I
denti
stretti. Gli occhi, nocciola, sgranati.
«Amore, amore»
la
chiamai, stringendo il suo piccolo e fragile corpo fra le mie braccia e
costringendola a fermarsi, attento a non farle del male.
Ansimò, prendendo dei
respiri profondi e veloci, come se fosse appena uscita
dall’apnea. Artigliò le
mani al mio maglione, stringendomi, aggrappandosi, graffiandomi, come
se fossi
uno scoglio in un fiume.
«Shh,
shh. È tutto
finito» la rassicurai, sorpreso dalla
sua reazione. La strinsi più forte, attento a non farle
male, facendo calmare
il battito del suo cuore. Continuava a gemere, a mezza voce.
L’allontanai,
aspettandomi di trovare i suoi occhi appannati di lacrime. Ma non ce
n’erano.
C’era solo tanto terrore.
«Edward»
esalò, stringendosi
sofferente al mio corpo, allacciandosi con forza, tanta da tremare, con
le
braccia e le gambe. Era bollente. Sentivo tutto il
suo calore irradiarsi
dal suo corpo verso il mio.
Ero spaventato,
sopraffatto dalla veloce successione degli eventi. L’agonia,
il sogno, il
terrore. Troppe cose persino per una mente spaziosa come la mia. Troppi
quesiti
irrisolti, troppi i possibili risvolti e collegamenti. Ma ora
c’era decisamente
una priorità: rassicurare mia moglie.
Mi imposi di avere un
tono calmo e pacato, di trasmetterle sicurezza.
«Amore» la chiamai dolcemente
«è tutto finito. Cosa succede?». Ero
preoccupato. Ogni volta lei sminuiva il
suo stato, faceva di tutto per nascondermi la sua stanchezza. Ogni
volta,
ironizzava sulla sua condizione, su quello che le era accaduto. Era
convinta di
poter tenere tutto perfettamente sottocontrollo.
Ma questa volta era
stato evidentemente diverso.
Si strinse con più
forza a me, continuando a tremare. Feci per alzarmi, per farla stendere
sul
divano, o farla mettere in una posizione più comoda. Fare
qualsiasi cosa che mi
consentisse di aiutarla. Sussultò, cantilenando un no.
Posai una mano
sulla sua fronte, sul suo collo, trovandoli certamente più
caldi di quanto
avrebbero dovuto essere. Si appoggiò al mio palmo, rimanendo
tremante e
silenziosa.
Pochi istanti dopo
aver sentito i pensieri dei miei familiari, la porta di casa si
aprì.
«Cos’è
successo?».
I pensieri di Alice, allarmati, furono i primi a giungermi. Si era
bloccata a
pochi metri da noi, una mano alla bocca. Jasper le fu subito accanto,
stringendola.
«Edward»
i
pensieri di mio padre mi costrinsero a voltarmi verso di lui, al mio
fianco.
Bella sussultò,
gemendo, stringendo le gambe attorno a me, spaventata, sentendo
l’inaspettato
contatto con la mano di Esme. Continuava a tremare, gli occhi gradi e
fissi nel
vuoto. Le accarezzai la schiena, acquietandola. «Shh.
Calma».
«Sono entrambe
disorientate,
destabilizzate» disse Jasper con delicatezza, osservando mia
moglie e
percependo la gravità della situazione, «Bella
è terrorizzata. Cosa diamine
è successo?» pensò sgomento.
Sentii i deboli
pensieri della bambina, disturbata dal calore. «È
calda» dissi conciso,
voltandomi verso Carlisle.
Mio padre ricambiò il
mio sguardo, allungando una mano verso il viso di mia moglie, attento a
farsi
guardare e non compiere movimenti bruschi. Non fece una piega quando la
mano si
posò sulla sua fronte. Subito i suoi pensieri confermarono i
miei, la sua
temperatura era decisamente più elevata di come avrebbe
dovuto essere. «Aspetta»
pensò, resosi conto del mio stato d’angoscia
«Aspettiamo, forse ora si
abbassa».
Lo guardai
preoccupato, tentando di leggere nei suoi pensieri quanto fosse sincero
e
convinto della sua affermazione.
«Cos’è
successo,
Bella?» chiese Alice preoccupata, avvicinandosi a colei che
considerava a tutti
gli effetti sua sorella. S’inginocchiò accanto a
me, sfiorandole una mano.
Levò un lamento lieve,
portando lentamente un palmo aperto sulla tempia e gemendo.
«La testa…»
mormorò, «la testa…». Mio
Dio, cosa le stava accadendo? Cosa le era successo?
La mente di mia
sorella fu invasa da una serie di immagini, velocissime, tutte con
Bella
protagonista. Poi si concentrarono su un altro tipo
d’immagine. Non era una
visione, era un ricordo. Era Alice, da umana. Una camicia lunga e
bianca,
sporca. Delle bruciature, un forte dolore alla testa.
Ansimò, spalancando gli
occhi e guardando Bella.
Jasper venne
immediatamente accanto a sua moglie, sollevandola e portandola lontano.
In quel momento notai
che il tremore di Bella era cambiato. Si mosse, velocemente, tossendo.
«Edward…
I…» farfugliò, guardando la porta del
bagno.
Capii. La sollevai
velocemente e la portai nella stanza, sorreggendola, tenendole la
fronte e i
capelli. Ci seguì solo Carlisle, chiudendosi la porta alle
spalle. «È sotto
shock» pensò, osservandola. Mi
passò un asciugamano. «Il dolore alla
testa potrebbe essere dovuto alla temperatura elevata».
Le asciugai il sudore
sulla fronte, le pulii le labbra, sollevandola fra le braccia. Vederla
così
indifesa mi annientava. Il coraggio che aveva sempre dimostrato mi
aveva
aiutato ad andare avanti. Era vero, capivo perfettamente quanto
minimizzasse,
ma lei mi sorrideva, mi guardava tranquilla, mi accarezzava i capelli,
dicendomi che tutto andava bene. Come se fossi io quello da
rassicurare. Ed era
vero, solo ora lo capivo, l’aveva sempre fatto.
«Ti viene ancora da
vomitare?». Le scostai una ciocca dal viso.
Scosse il capo, e feci
un piccolo sospiro di sollievo, quando mi resi conto che stava
riacquistando
lucidità. La portai in camera, adagiandola sul copriletto.
Le tenni le dita
strette alle mie, comprendendo quanto ne avesse ancora bisogno.
Mio padre le sfiorò la
fronte, costatando con serenità che la temperatura stata
tornando normale. Lo
ringraziai della sua rassicurazione. Bella sbatté le
palpebre, chiudendole per
alcuni secondi, stanca, portandosi una mia mano sulla guancia.
«È tutto
finito» le
ripetei, ansioso di farla stare meglio.
«Cos’è
successo?»
chiese Carlisle alle mie spalle. «Alice ha avuto una visione,
non molto
differente da quello che abbiamo trovato appena siamo arrivati.
Cos’è
accaduto?» chiese calmo, avvicinandosi a Bella e facendole
comprendere le sue
intenzioni. Lei annuì. Sollevò con cautela il suo
vestito, fin sull’ombelico,
tastandole l’addome.
Mi scostai leggermente
per agevolargli i movimenti. «È tutto troppo
complesso. Ci sono i licantropi di
mezzo, e non capisco come possano centrare. Per il resto, la bambina ha
fatto
il suo solito sogno» osservai mia moglie, mentre ricambiava
attenta il mo
sguardo, «Sono riuscito a seguirlo tutto.
Ma…» deglutii, e Bella
strofinò il suo pollice contro la mia guancia
«Bella era lucida, e cosciente»
rivelai.
I pensieri di mio
padre si bloccarono, così come i suoi movimenti. Lei chiuse
gli occhi, e mi
aspettai che delle lacrime scendessero dalle sue ciglia fitte. Ma non
fu così.
Si sollevò, prese il
bicchiere che Carlisle le aveva porto e ingoiò in un sorso
la compressa. Non
chiese perché, non chiese cosa fosse. Tocolitici,
mi aveva spiegato, a
scopo preventivo per le contrazioni.
Ci lasciò soli non
appena la temperatura di Bella fu di nuovo vicina alla
normalità. Mi stesi
accanto a lei, avvolgendola in una coperta. «Va
meglio?» chiesi, accarezzandole
il fianco destro.
«Sì»
mormorò
abbracciandomi.
Le baciai la fronte,
morbida e vellutata come la buccia di una pesca. «Mi vuoi
dire cosa è
successo?» chiesi delicatamente, attento a non turbarla,
«anche solo
approssimativamente se vuoi».
Strinse le labbra,
posando la testa sul mio petto. «La testa…
mi… faceva male. Era Seth, il lupo.
Era Seth. Ma non si è avvicinato. Si è bloccato,
ha ululato, è andato via».
Chiuse le palpebre, ancora una volta, stanca.
L’accarezzai.
«Riposa»
sussurrai a mezza voce.
Rimase in silenzio per
molti minuti, ma non si addormentò. Riaprì gli
occhi e mi guardò in silenzio,
forse titubante. «Sta bene?» chiese infine, a voce
appena udibile. Mi resi
conto che stesse parlando della bambina, ma mi colpì il tono
che aveva usato.
«Sì, sta bene,
non ti
preoccupare. Non accadrà niente, è tutto passato.
Riposa» ripetei, premurandomi
di rassicurandola.
Chiuse gli occhi.
«Edward» mi chiamò, vibrando nel
silenzio.
«Sì?».
Scosse il capo sul mio
petto. La strinsi più forte, accarezzandola.
«Hai paura?»
chiesi,
aspettandomi una risposta negativa.
«Sì».