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Autore: miseichan    19/02/2010    3 recensioni
Ivan si definisce il figlio del demonio. Chiunque lo conosca non oserebbe mai contraddirlo, e su questo sicuramente gli darebbe ragione, perché ha tutte le sembianze di un demone: alto, con un fisico asciutto e scolpito, occhi neri più dell’ebano… occhi che però ora sembrano morti, perché hanno visto cose orribili: immagini che purtroppo non dimenticherà mai. Ma in quel nuovo paese, una ragazza riuscirà a superare le difese di Ivan, i muri che ha alzato attorno a sé. Una ragazza riuscirà a vedere oltre quella sua aria da bello e dannato… l’unica che riuscirà a far tornare a brillare quelle due gocce d’ebano, dure all’esterno e fragili all’interno. STORIA SOSPESA PER VACANZE ( brevi )… scusate!!
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il figlio del demonio

 

*Suncity*

 

 

Un viaggio di nove ore.
Cinquecentoquaranta minuti in cui era riuscito a riprendere il controllo di sé.
Ora niente poteva scalfirlo: era riuscito a fare in modo che quelle immagini in grado di  distruggerlo tornassero a prendere il sopravvento su di lui solo quando chiudeva gli occhi.
Il suo nuovo compito era perciò di non chiuderli mai: non quando c’erano altre persone che avrebbero potuto notare come improvvisamente la sua solidità  esteriore venisse annientata.
Aveva passato tutto il tempo in silenzio, ignorando i tentativi di conversazione degli altri uomini.
Non aveva voglia di parlare e probabilmente non ne sarebbe nemmeno stato in grado.
I suoi compagni dopo un po’ demorsero, lasciandolo in pace nel suo stato catatonico.
E Ivan ne fu felice, perché aveva bisogno di starsene per conto proprio, cercando la forza dentro di sé per tornare a essere quello di sempre. Doveva assolutamente fare in modo che il ragazzino spaurito in lui non prevalesse.
E alla fine ci era riuscito: l’aveva capito quando guardando la strada davanti a lui non aveva visto anche del sangue sullo sfondo. Ora solo se chiudeva gli occhi tutto tornava a tingersi di rosso.  
E ne andava fiero.
Già diverse volte, nelle prime ore di viaggio, quando il sonno sembrava starlo vincendo e la mente lasciava liberi i pensieri, si era ritrovato in preda ad un tremore irrefrenabile ed a un forte senso di nausea. La prima volta era stato tanto forte che l’uomo al volante aveva dovuto accostare per farlo scendere a prendere una boccata d’aria. Ogni volta lo guardavano tutti, senza sapere bene come comportarsi, scambiandosi occhiate cariche di compassione.
Era stato proprio l’odio  per quel loro comportamento, la sua più totale intolleranza per il modo in cui lo guardavano, a dargli la forza.
Non gli piaceva la pietà altrui, non voleva che lo compatissero.
Aveva bisogno di sapere che ce l’avrebbe fatta da solo.
E ora non ne aveva la certezza, ma di certo si sentiva più sicuro.
Si guardò le mani, notando con piacere che non tremavano più. La testa non gli girava più di tanto e la sensazione di vuoto allo stomaco… bè quella non era convinto se ne sarebbe mai andata.
Si accorse vagamente del cambiamento di velocità dell’auto: fino a quel momento avevano sicuramente infranto tutti i limiti, ma ora sembrava fossero tornati ad andare sotto i cento chilometri orari. Probabilmente perciò si stavano avvicinando alla meta.
Alzò gli occhi, curioso di vedere in che posto si sarebbe ritrovato a vivere.
Non riconobbe niente: aveva davanti a sé solo una strada vuota, di quelle sterrate, enormi.
Ai lati una fitta vegetazione: alberi altissimi che non riuscì ad identificare a causa della luce ancora troppo fievole. Quando vide un fiumiciattolo scorrere indisturbato alla sua destra e un pontile lì affianco con degli uomini concentrati nella pesca, gli salì spontaneo alle labbra uno sbuffo contrariato:
-Ma cos’è? La terra di nessuno?-
Si sorprese delle sue stesse parole: le aveva pronunciate con voce roca e sarcastica. Ecco in cosa si era trasformato: nel classico stronzo, ma non se ne preoccupò più di tanto perché in fondo preferiva passare per stronzo che per femminuccia.
Anche i suoi accompagnatori reagirono con un moto di meraviglia sentendolo parlare, solo il guidatore non si voltò a scrutarlo incuriosito.
Fu lui a rispondergli, lanciandogli un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisore:
-Suncity-
Pronunciò il nome del posto in cui erano appena arrivati nello stesso momento in cui Ivan lo lesse sul cartello attaccato al tronco di un cedro:
“Welcome to Suncity”
Si abbandonò di nuovo all’indietro, facendo aderire meglio la schiena al sedile e si lasciò andare in un lungo sospiro liberatorio. Suncity: la città del sole.
Non era possibile.
Aveva appena lasciato San Francisco per cosa? Per questo buco di posto?!
Certo San Francisco non era quella che si può definire una gran metropoli, ma diamine era sicuramente meglio di questo…
Continuò ad osservare sconvolto la città in cui erano appena entrati. Non era neanche sicuro si potesse definire città: era un minuscolo agglomerato di case, quello che potrebbe essere un paese, ma sicuramente molto peggio.
Ivan cercò di cambiare atteggiamento, cercando un qualcosa di positivo in quello che vedeva, ma non vi riuscì: lasciò vagare lo sguardo sulle villette a schiera, sui prati ben curati, sulle strade pulite.
Regnava un silenzio impressionante: né l’abbaiare di un cane né il pianto di un bambino… sì, erano le quattro del mattino, ma l’ora non giustificava il fato che il paese sembrava morto.
Ivan iniziò a chiedersi se aveva davvero visto quei pescatori o se era stato solo un gioco della sua immaginazione. La macchina girò ancora per un po’, per quelle strade che sembravano tutte uguali, passando davanti a villette nelle quali Ivan tentò inutilmente di trovare un qualche segno di distinzione.
Si passò una mano fra i capelli, cercando di calmarsi: non riusciva a crederci!
Quel posto gli riportò alla memoria i film horror visti, in cui i paesi erano proprio come quello: del tipo che ti fanno chiedere se veramente esiste o è solo una scenografia… a quanto pareva esistevano, e lui ci avrebbe dovuto vivere.
All’idea gli salì un sorriso alle labbra: non l’avrebbe mai detto, ma la cosa quasi lo divertiva.
In posti così creare scompiglio doveva essere uno spasso.
Se la sarebbe spassata alla grande allora.
La macchina infine si fermò davanti ad una villetta, del tutto identica a tutte quelle già passate: bianca, con un piccolo giardino sul davanti, lo steccato anch’esso bianco e la cassetta della posta raffigurante un gallo. Vi erano due finestre ed una porta al pian terreno e tre finestre al primo piano.
Questo fu quello che Ivan riuscì a vedere prima che l’uomo alla sua sinistra lo spingesse fuori dall’auto. Scese e quasi andò a sbattere contro l’altro fermo sul marciapiedi che lo afferrò per un braccio e lo trascinò lungo il vialetto fino alla porta. Arrivato sotto il portico riuscì a liberarsi con uno strattone:
-Ce la faccio anche da solo-
Borbottò a mezza voce entrando in casa. Sbattè più volte le palpebre per abituarsi alla luce che vi era e riuscire così a vedere qualcosa di più: si trovava in quello che poteva essere definito atrio;
un attaccapanni, un mobile con specchio ed un tappeto gli unici arredi. Spostò lo sguardo a destra e poi a sinistra vedendo prima una cucina e poi un salotto. Non vi si soffermò più di tanto.
Non gli importava nulla: stava già combattendo con tutto se stesso l’impulso di correre verso la macchina, ingranare la marcia e fuggire da quel posto. Ma non poteva e lo sapeva bene.
Così quando i due alle sue spalle chiusero la porta e un altro gli fece cenno di seguirlo in salotto, non potè far altro che ubbidire. Entrò in quella stanza, senza degnare di uno sguardo le veneziane alle finestre o i tappeti persiani sul parchè né tantomeno si preoccupò di sedersi sul divano bianco, di fronte all’uomo accomodatosi in poltrona, piegando le gambe sotto di sé e rischiando così di sporcare quel candore immacolato.
L’unica cosa che gli importava fu quella che chiese, con tono indifferente e seccato:
-Quanto dovrò rimanere qui?-
L’uomo che aveva davanti non rispose subito: continuò a guardarlo, passandosi la mano sulla testa pelata. Teneva l’altra mano ferma invece sul rigonfio della giacca, dove teneva la pistola: era la posizione che ormai assumeva abitualmente.
Ivan per un po’ resse quello sguardo, poi cedette, abbassandolo sulle proprie mani: l’altro lo stava studiando, non con preoccupazione ma con aspettativa. Era come se stesse cercando di capire con chi aveva veramente a che fare e di quanto si potesse sbilanciare, valutando cosa potesse dire e cosa fosse invece più opportuno lasciar stare.
Alla fine poggiò l’avambraccio sul bracciolo della poltrona e, lanciato uno sguardo agli altri uomini fermi alle spalle di Ivan, si decise a parlare:
-Non lo sappiamo ancora-
Prevenendo la rispostaccia di Ivan, continuò con tono duro:
-Vedi di non fare cazzate, ragazzo. Qui sarai al sicuro, e questo è ciò che conta. Fai sempre ciò che ti diranno i miei uomini e cerca di attenerti alle regole-
Ivan continuò a guardarlo contrariato ma non infierì.
“Vedi di non fare cazzate” … facile a dirsi.
Si guardò un attimo alle spalle, considerando velocemente gli uomini alle sue spalle.
“I miei uomini” aveva detto la testa pelata: e così era lui il capo. Lo aveva intuito fin dall’inizio, da come si comportava, dal fatto che fosse stato lui a guidare, e perché era stato l’unico a guardarlo e trattarlo come se fosse un normale diciassettenne.
Provò un moto di gratitudine e rispetto nei suoi confronti, che soffocò momentaneamente il desiderio di ribellarsi che gli stava nascendo in petto.
Ne approfittò per porre un’altra domanda, una curiosità che gli era sorta in seguito alle parole dell’altro:
-Non rimanete tutti?-
Non lo aveva chiesto per paura: per quanto gliene importava avrebbero anche potuto lasciarlo lì da solo, ma per semplice voglia di essere informato come si deve.
-No. Resteranno con te solo gli Esposito. In ogni caso tenterò di…-
Non concluse la frase, interrompendosi per rispondere ad un cellulare ultrasottile che estrasse dalla giacca. Parlò in maniera coincisa, con un tono che non ammetteva repliche.
-Parla McCartur. Sì. Abbiamo finito. Ripartiamo subito. … Lascio qui gli Esposito, sì armati.  Benissimo-
Chiuse lo slide del telefonino con uno scatto che fece sobbalzare Ivan: per tutto il tempo avevano continuato a lanciarsi occhiate, e ora che aveva concluso la telefonata McCartur si alzò in piedi.
Passando vicino al divano poggiò per pochi attimi una mano sulla spalla di Ivan, sussurrando a fior di labbra, in modo da farsi sentire unicamente da lui:
-Cerca di non combinare troppi guai, ragazzo-
Quando Ivan si voltò, alle sue spalle erano rimasti solo due uomini:
-Gli Esposito?-
Annuirono in contemporanea, muovendo la testa verso il basso un’unica volta. Senza scomporsi, senza sorridere. Ivan iniziò a chiedersi se fossero davvero umani.
Li osservò meglio: erano molto diversi, quasi opposti.
Approssimativamente della stessa statura: forse un metro e ottanta, con fisici robusti ed allenati, vestiti come gli agenti federali che si vedono in televisione.
Le differenze che si notavano invece, erano nei loro visi, e come avrebbe scoperto poi, nel modo di comportarsi.
Uno portava capelli lunghi, legati in una coda di cavallo, e aveva tre buchi all’orecchio sinistro e due a quello destro. I tratti erano taglienti, e una leggera barba gli colorava il viso troppo bianco.
L’altro invece, aveva i capelli quasi rasati a zero, nel taglio alla marine. Un piercing sul sopracciglio sinistro: una minuscola pallina appena visibile. I tratti di questo erano più dolci, il viso come più morbido; l’unica pecca era una cicatrice bianca che gli attraversava le guancia destra.
Entrambi mettevano paura, ognuno a modo suo. Ma messi insieme, erano come un’arma micidiale.
Ivan iniziò a rimpiangere di non essere scappato prima: ora che aveva osservato meglio quelli che sarebbero stati i suoi “controllori” l’impresa gli sembrava assai più ardua.
-Siete parenti? Cugini?-
Tentò di intavolare una conversazione, senza nemmeno sapere il perché: non aveva voglia di parlare, ma non voleva nemmeno rimanere immobile in quella stanza, e se quei due non si fossero scostati, liberandogli il passaggio…
A rispondere fu il secondo, quello che gli ricordava un marine:
-Fratelli-
Ivan sollevò un sopracciglio: non l’avrebbe mai detto. Quei due fratelli? Incredibile.
Li osservò ancora per un po’: vedendo che non accennavano a muoversi, continuando invece a studiarlo con espressione accigliata, fece per sdraiarsi quando uno dei due si schiarì la gola.
Alzò lo sguardo per capire chi fosse stato ma erano di nuovo entrambi immobili.
Si irrigidì, frustato da quella situazione, e stava per lasciarsi andare in uno sfogo che sarebbe stato molto liberatorio per lui, quando il marine parlò:
-Ivan, giusto?-
Il ragazzo annuì.
Di più non fece: quando lui aveva iniziato il discorso loro si erano comportati alla stessa maniera.
Pochi istanti dopo, senza capirne il motivo, Ivan li vide sogghignare.
Che facevano, ridevano del suo comportamento?
Il ghigno fu ben presto sostituito da un semplice sorriso: non un sorriso caldo e confortante, ma quantomeno di certo un miglioramento dall’espressione torva di prima.
Se avessero continuato a sorridere, sarebbero quasi potuti passare per due normali giovani: perché Ivan ora se ne era accorto, ma non potevano avere più di venticinque anni.
Il marine, sempre sorridendo, si passò la mano dietro il collo, per poi rivolgersi ancora a lui:
-Senti Ivan, vediamo di partire con il piede giusto. Hai sentito McCartur: non si sa quanto tempo dovrai restare qui. E con te dovremo restare anche noi. Se non ci facciamo buon sangue… bè la convivenza può diventare complicata-
Ivan annuì, ancora diffidente: non gli piacevano quei due.
Il marine probabilmente intuì la sua apprensione, perché fece un passo avanti, avvicinandosi al divano e porse la mano ad Ivan:
-Io comunque sono Jeremy-
Ivan ricambiò la stretta, continuando a non sorridere. Guardò di sbieco l’altro uomo, rimasto ancora distante. Quello strinse gli occhi, come a far capire che era meno propenso di lui a dare fiducia e a voce bassa mormorò:
-Terence-
Era una presentazione quella?
Ivan non ne era convinto, comunque annuì nella sua direzione. Se pure non si era presentato, avrebbe fatto capire così, che a lui, di avere la fiducia dell’altro non gliene poteva importare di meno.
Jeremy al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla. Ivan si voltò a guardarlo e lo vide, con la testa leggermente piegata di lato, osservarlo intensamente:
-Non sarebbe il caso che andassi a riposare un po’ Ivan? Hai l’aria stanca-
Per quanto fosse vero, Ivan non potè fare a meno di provare fastidio a quell’affermazione.
Non erano fatti suoi se voleva riposare o meno.
Non sarebbe certo stato un federale del cavolo a mandarlo a letto.
Ma Ivan sapeva che in realtà la sua rabbia era motivata solo dalla paura: dal terrore che aveva di dover chiudere gli occhi. Se li avesse chiusi… non riusciva nemmeno a pensarci.
Aveva sonno certo, e prima o poi avrebbe dovuto dormire di nuovo.
Sperava però di riuscire a rimanere sveglio, fino al momento in cui non fosse definitivamente crollato. In quel modo il sonno lo avrebbe preso direttamente, senza lasciargli nemmeno il tempo di rivedere un nanosecondo di quei fotogrammi che aveva impressi nella memoria.
A bloccare il flusso dei suoi pensieri fu un qualcosa che lo colpì sul petto: la afferrò appena in tempo, prima che cadesse a terra. Era un sonnifero.
Lanciò un’occhiata a Terence: era stato lui a lanciarglielo.
-Ti aiuterà-
Non lo aveva detto, lo aveva solo mimato con le labbra, ma Ivan lo aveva capito benissimo.
Cosa aveva capito? Come faceva a sapere…?
Non ebbe il tempo di darsi una risposta: Jeremy, prendendolo per il braccio, lo spinse verso le scale che portavano al piano di sopra.
-Ci sono tre camere da letto: scegline una e cerca di riposare-
Non disse altro.
E Ivan, senza sapere il perché ubbidì.
Iniziò a salire lentamente le scale, e ad ogni scalino la stanchezza sembrava gravargli sempre più sulle spalle.
Strinse fra le dita il sonnifero: lo avrebbe preso.
Aveva troppa paura: lo avrebbe preso e non avrebbe chiuso gli occhi finché non avesse fatto effetto.
Salì le scale lentamente, stringendo fra le dita quella che era la sua ancora di salvezza.
L’ultimo suo pensiero, fu la speranza che Terence ne avesse una cospicua scorta di quei sonniferi.
Perché, per quanto gli facesse male ammetterlo, senza sarebbe andato alla deriva.

 

*

   
 
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