Il
figlio del demonio
*Suncity*
Un viaggio di nove ore.
Cinquecentoquaranta minuti in cui era riuscito a riprendere il controllo di sé.
Ora niente poteva scalfirlo: era riuscito a fare in modo che quelle immagini in
grado di distruggerlo tornassero a prendere il sopravvento su di lui solo
quando chiudeva gli occhi.
Il suo nuovo compito era perciò di non chiuderli mai: non quando c’erano
altre persone che avrebbero potuto notare come improvvisamente la sua
solidità esteriore venisse annientata.
Aveva passato tutto il tempo in silenzio, ignorando i tentativi di
conversazione degli altri uomini.
Non aveva voglia di parlare e probabilmente non ne sarebbe nemmeno stato in
grado.
I suoi compagni dopo un po’ demorsero, lasciandolo in pace nel suo stato
catatonico.
E Ivan ne fu felice, perché aveva bisogno di starsene per conto proprio,
cercando la forza dentro di sé per tornare a essere quello di sempre. Doveva
assolutamente fare in modo che il ragazzino spaurito in lui non prevalesse.
E alla fine ci era riuscito: l’aveva capito quando guardando la strada
davanti a lui non aveva visto anche del sangue sullo sfondo. Ora solo se
chiudeva gli occhi tutto tornava a tingersi di rosso.
E ne andava fiero.
Già diverse volte, nelle prime ore di viaggio, quando il sonno sembrava starlo
vincendo e la mente lasciava liberi i pensieri, si era ritrovato in preda ad un
tremore irrefrenabile ed a un forte senso di nausea. La prima volta era stato
tanto forte che l’uomo al volante aveva dovuto accostare per farlo
scendere a prendere una boccata d’aria. Ogni volta lo guardavano tutti,
senza sapere bene come comportarsi, scambiandosi occhiate cariche di
compassione.
Era stato proprio l’odio per quel loro comportamento, la sua più
totale intolleranza per il modo in cui lo guardavano, a dargli la forza.
Non gli piaceva la pietà altrui, non voleva che lo compatissero.
Aveva bisogno di sapere che ce l’avrebbe fatta da solo.
E ora non ne aveva la certezza, ma di certo si sentiva più sicuro.
Si guardò le mani, notando con piacere che non tremavano più. La testa non gli
girava più di tanto e la sensazione di vuoto allo stomaco… bè quella non
era convinto se ne sarebbe mai andata.
Si accorse vagamente del cambiamento di velocità dell’auto: fino a quel
momento avevano sicuramente infranto tutti i limiti, ma ora sembrava fossero
tornati ad andare sotto i cento chilometri orari. Probabilmente perciò si
stavano avvicinando alla meta.
Alzò gli occhi, curioso di vedere in che posto si sarebbe ritrovato a vivere.
Non riconobbe niente: aveva davanti a sé solo una strada vuota, di quelle
sterrate, enormi.
Ai lati una fitta vegetazione: alberi altissimi che non riuscì ad identificare
a causa della luce ancora troppo fievole. Quando vide un fiumiciattolo scorrere
indisturbato alla sua destra e un pontile lì affianco con degli uomini
concentrati nella pesca, gli salì spontaneo alle labbra uno sbuffo contrariato:
-Ma cos’è? La terra di nessuno?-
Si sorprese delle sue stesse parole: le aveva pronunciate con voce roca e
sarcastica. Ecco in cosa si era trasformato: nel classico stronzo, ma non se ne
preoccupò più di tanto perché in fondo preferiva passare per stronzo che per
femminuccia.
Anche i suoi accompagnatori reagirono con un moto di meraviglia sentendolo
parlare, solo il guidatore non si voltò a scrutarlo incuriosito.
Fu lui a rispondergli, lanciandogli un’occhiata attraverso lo specchietto
retrovisore:
-Suncity-
Pronunciò il nome del posto in cui erano appena arrivati nello stesso momento
in cui Ivan lo lesse sul cartello attaccato al tronco di un cedro:
“Welcome to Suncity”
Si abbandonò di nuovo all’indietro, facendo aderire meglio la schiena al
sedile e si lasciò andare in un lungo sospiro liberatorio. Suncity: la città
del sole.
Non era possibile.
Aveva appena lasciato San Francisco per cosa? Per questo buco di posto?!
Certo San Francisco non era quella che si può definire una gran metropoli, ma
diamine era sicuramente meglio di questo…
Continuò ad osservare sconvolto la città in cui erano appena entrati. Non era
neanche sicuro si potesse definire città: era un minuscolo agglomerato di case,
quello che potrebbe essere un paese, ma sicuramente molto peggio.
Ivan cercò di cambiare atteggiamento, cercando un qualcosa di positivo in
quello che vedeva, ma non vi riuscì: lasciò vagare lo sguardo sulle villette a
schiera, sui prati ben curati, sulle strade pulite.
Regnava un silenzio impressionante: né l’abbaiare di un cane né il pianto
di un bambino… sì, erano le quattro del mattino, ma l’ora non
giustificava il fato che il paese sembrava morto.
Ivan iniziò a chiedersi se aveva davvero visto quei pescatori o se era stato
solo un gioco della sua immaginazione. La macchina girò ancora per un
po’, per quelle strade che sembravano tutte uguali, passando davanti a
villette nelle quali Ivan tentò inutilmente di trovare un qualche segno di
distinzione.
Si passò una mano fra i capelli, cercando di calmarsi: non riusciva a crederci!
Quel posto gli riportò alla memoria i film horror visti, in cui i paesi erano
proprio come quello: del tipo che ti fanno chiedere se veramente esiste o è
solo una scenografia… a quanto pareva esistevano, e lui ci avrebbe dovuto
vivere.
All’idea gli salì un sorriso alle labbra: non l’avrebbe mai detto,
ma la cosa quasi lo divertiva.
In posti così creare scompiglio doveva essere uno spasso.
Se la sarebbe spassata alla grande allora.
La macchina infine si fermò davanti ad una villetta, del tutto identica a tutte
quelle già passate: bianca, con un piccolo giardino sul davanti, lo steccato
anch’esso bianco e la cassetta della posta raffigurante un gallo. Vi
erano due finestre ed una porta al pian terreno e tre finestre al primo piano.
Questo fu quello che Ivan riuscì a vedere prima che l’uomo alla sua
sinistra lo spingesse fuori dall’auto. Scese e quasi andò a sbattere contro
l’altro fermo sul marciapiedi che lo afferrò per un braccio e lo trascinò
lungo il vialetto fino alla porta. Arrivato sotto il portico riuscì a liberarsi
con uno strattone:
-Ce la faccio anche da solo-
Borbottò a mezza voce entrando in casa. Sbattè più volte le palpebre per
abituarsi alla luce che vi era e riuscire così a vedere qualcosa di più: si
trovava in quello che poteva essere definito atrio;
un attaccapanni, un mobile con specchio ed un tappeto gli unici arredi. Spostò
lo sguardo a destra e poi a sinistra vedendo prima una cucina e poi un salotto.
Non vi si soffermò più di tanto.
Non gli importava nulla: stava già combattendo con tutto se stesso
l’impulso di correre verso la macchina, ingranare la marcia e fuggire da
quel posto. Ma non poteva e lo sapeva bene.
Così quando i due alle sue spalle chiusero la porta e un altro gli fece cenno
di seguirlo in salotto, non potè far altro che ubbidire. Entrò in quella
stanza, senza degnare di uno sguardo le veneziane alle finestre o i tappeti
persiani sul parchè né tantomeno si preoccupò di sedersi sul divano bianco, di
fronte all’uomo accomodatosi in poltrona, piegando le gambe sotto di sé e
rischiando così di sporcare quel candore immacolato.
L’unica cosa che gli importava fu quella che chiese, con tono indifferente
e seccato:
-Quanto dovrò rimanere qui?-
L’uomo che aveva davanti non rispose subito: continuò a guardarlo,
passandosi la mano sulla testa pelata. Teneva l’altra mano ferma invece
sul rigonfio della giacca, dove teneva la pistola: era la posizione che ormai
assumeva abitualmente.
Ivan per un po’ resse quello sguardo, poi cedette, abbassandolo sulle
proprie mani: l’altro lo stava studiando, non con preoccupazione ma con
aspettativa. Era come se stesse cercando di capire con chi aveva veramente a che
fare e di quanto si potesse sbilanciare, valutando cosa potesse dire e cosa
fosse invece più opportuno lasciar stare.
Alla fine poggiò l’avambraccio sul bracciolo della poltrona e, lanciato
uno sguardo agli altri uomini fermi alle spalle di Ivan, si decise a parlare:
-Non lo sappiamo ancora-
Prevenendo la rispostaccia di Ivan, continuò con tono duro:
-Vedi di non fare cazzate, ragazzo. Qui sarai al sicuro, e questo è ciò che
conta. Fai sempre ciò che ti diranno i miei uomini e cerca di attenerti alle
regole-
Ivan continuò a guardarlo contrariato ma non infierì.
“Vedi di non fare cazzate” … facile a dirsi.
Si guardò un attimo alle spalle, considerando velocemente gli uomini alle sue
spalle.
“I miei uomini” aveva detto la testa pelata: e così era lui il capo.
Lo aveva intuito fin dall’inizio, da come si comportava, dal fatto che
fosse stato lui a guidare, e perché era stato l’unico a guardarlo e
trattarlo come se fosse un normale diciassettenne.
Provò un moto di gratitudine e rispetto nei suoi confronti, che soffocò
momentaneamente il desiderio di ribellarsi che gli stava nascendo in petto.
Ne approfittò per porre un’altra domanda, una curiosità che gli era sorta
in seguito alle parole dell’altro:
-Non rimanete tutti?-
Non lo aveva chiesto per paura: per quanto gliene importava avrebbero anche
potuto lasciarlo lì da solo, ma per semplice voglia di essere informato come si
deve.
-No. Resteranno con te solo gli Esposito. In ogni caso tenterò di…-
Non concluse la frase, interrompendosi per rispondere ad un cellulare
ultrasottile che estrasse dalla giacca. Parlò in maniera coincisa, con un tono
che non ammetteva repliche.
-Parla McCartur. Sì. Abbiamo finito. Ripartiamo subito. … Lascio qui gli
Esposito, sì armati. Benissimo-
Chiuse lo slide del telefonino con uno scatto che fece sobbalzare Ivan: per
tutto il tempo avevano continuato a lanciarsi occhiate, e ora che aveva
concluso la telefonata McCartur si alzò in piedi.
Passando vicino al divano poggiò per pochi attimi una mano sulla spalla di
Ivan, sussurrando a fior di labbra, in modo da farsi sentire unicamente da lui:
-Cerca di non combinare troppi guai, ragazzo-
Quando Ivan si voltò, alle sue spalle erano rimasti solo due uomini:
-Gli Esposito?-
Annuirono in contemporanea, muovendo la testa verso il basso un’unica
volta. Senza scomporsi, senza sorridere. Ivan iniziò a chiedersi se fossero
davvero umani.
Li osservò meglio: erano molto diversi, quasi opposti.
Approssimativamente della stessa statura: forse un metro e ottanta, con fisici
robusti ed allenati, vestiti come gli agenti federali che si vedono in
televisione.
Le differenze che si notavano invece, erano nei loro visi, e come avrebbe
scoperto poi, nel modo di comportarsi.
Uno portava capelli lunghi, legati in una coda di cavallo, e aveva tre buchi
all’orecchio sinistro e due a quello destro. I tratti erano taglienti, e
una leggera barba gli colorava il viso troppo bianco.
L’altro invece, aveva i capelli quasi rasati a zero, nel taglio alla
marine. Un piercing sul sopracciglio sinistro: una minuscola pallina appena
visibile. I tratti di questo erano più dolci, il viso come più morbido;
l’unica pecca era una cicatrice bianca che gli attraversava le guancia
destra.
Entrambi mettevano paura, ognuno a modo suo. Ma messi insieme, erano come
un’arma micidiale.
Ivan iniziò a rimpiangere di non essere scappato prima: ora che aveva osservato
meglio quelli che sarebbero stati i suoi “controllori”
l’impresa gli sembrava assai più ardua.
-Siete parenti? Cugini?-
Tentò di intavolare una conversazione, senza nemmeno sapere il perché: non
aveva voglia di parlare, ma non voleva nemmeno rimanere immobile in quella
stanza, e se quei due non si fossero scostati, liberandogli il passaggio…
A rispondere fu il secondo, quello che gli ricordava un marine:
-Fratelli-
Ivan sollevò un sopracciglio: non l’avrebbe mai detto. Quei due fratelli?
Incredibile.
Li osservò ancora per un po’: vedendo che non accennavano a muoversi,
continuando invece a studiarlo con espressione accigliata, fece per sdraiarsi
quando uno dei due si schiarì la gola.
Alzò lo sguardo per capire chi fosse stato ma erano di nuovo entrambi immobili.
Si irrigidì, frustato da quella situazione, e stava per lasciarsi andare in uno
sfogo che sarebbe stato molto liberatorio per lui, quando il marine parlò:
-Ivan, giusto?-
Il ragazzo annuì.
Di più non fece: quando lui aveva iniziato il discorso loro si erano comportati
alla stessa maniera.
Pochi istanti dopo, senza capirne il motivo, Ivan li vide sogghignare.
Che facevano, ridevano del suo comportamento?
Il ghigno fu ben presto sostituito da un semplice sorriso: non un sorriso caldo
e confortante, ma quantomeno di certo un miglioramento dall’espressione
torva di prima.
Se avessero continuato a sorridere, sarebbero quasi potuti passare per due
normali giovani: perché Ivan ora se ne era accorto, ma non potevano avere più
di venticinque anni.
Il marine, sempre sorridendo, si passò la mano dietro il collo, per poi
rivolgersi ancora a lui:
-Senti Ivan, vediamo di partire con il piede giusto. Hai sentito McCartur: non
si sa quanto tempo dovrai restare qui. E con te dovremo restare anche noi. Se
non ci facciamo buon sangue… bè la convivenza può diventare complicata-
Ivan annuì, ancora diffidente: non gli piacevano quei due.
Il marine probabilmente intuì la sua apprensione, perché fece un passo avanti,
avvicinandosi al divano e porse la mano ad Ivan:
-Io comunque sono Jeremy-
Ivan ricambiò la stretta, continuando a non sorridere. Guardò di sbieco
l’altro uomo, rimasto ancora distante. Quello strinse gli occhi, come a
far capire che era meno propenso di lui a dare fiducia e a voce bassa mormorò:
-Terence-
Era una presentazione quella?
Ivan non ne era convinto, comunque annuì nella sua direzione. Se pure non si
era presentato, avrebbe fatto capire così, che a lui, di avere la fiducia
dell’altro non gliene poteva importare di meno.
Jeremy al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla. Ivan si voltò a
guardarlo e lo vide, con la testa leggermente piegata di lato, osservarlo
intensamente:
-Non sarebbe il caso che andassi a riposare un po’ Ivan? Hai l’aria
stanca-
Per quanto fosse vero, Ivan non potè fare a meno di provare fastidio a
quell’affermazione.
Non erano fatti suoi se voleva riposare o meno.
Non sarebbe certo stato un federale del cavolo a mandarlo a letto.
Ma Ivan sapeva che in realtà la sua rabbia era motivata solo dalla paura: dal
terrore che aveva di dover chiudere gli occhi. Se li avesse chiusi… non
riusciva nemmeno a pensarci.
Aveva sonno certo, e prima o poi avrebbe dovuto dormire di nuovo.
Sperava però di riuscire a rimanere sveglio, fino al momento in cui non fosse
definitivamente crollato. In quel modo il sonno lo avrebbe preso direttamente,
senza lasciargli nemmeno il tempo di rivedere un nanosecondo di quei fotogrammi
che aveva impressi nella memoria.
A bloccare il flusso dei suoi pensieri fu un qualcosa che lo colpì sul petto:
la afferrò appena in tempo, prima che cadesse a terra. Era un sonnifero.
Lanciò un’occhiata a Terence: era stato lui a lanciarglielo.
-Ti aiuterà-
Non lo aveva detto, lo aveva solo mimato con le labbra, ma Ivan lo aveva capito
benissimo.
Cosa aveva capito? Come faceva a sapere…?
Non ebbe il tempo di darsi una risposta: Jeremy, prendendolo per il braccio, lo
spinse verso le scale che portavano al piano di sopra.
-Ci sono tre camere da letto: scegline una e cerca di riposare-
Non disse altro.
E Ivan, senza sapere il perché ubbidì.
Iniziò a salire lentamente le scale, e ad ogni scalino la stanchezza sembrava
gravargli sempre più sulle spalle.
Strinse fra le dita il sonnifero: lo avrebbe preso.
Aveva troppa paura: lo avrebbe preso e non avrebbe chiuso gli occhi finché non
avesse fatto effetto.
Salì le scale lentamente, stringendo fra le dita quella che era la sua ancora
di salvezza.
L’ultimo suo pensiero, fu la speranza che Terence ne avesse una cospicua
scorta di quei sonniferi.
Perché, per quanto gli facesse male ammetterlo, senza sarebbe andato alla
deriva.
*