Storie originali > Generale
Segui la storia  |      
Autore: LetShizueGo    21/02/2010    0 recensioni
Oh, com’è futile la bellezza!
Eppure, frivola e futile, la bellezza era sinonimo di potere, la bellezza era tutto, in quella società così frivola e priva di qualsivoglia valore umano, che fin dagli aurei tempi classici i più grandi dotti tramandavano.
In quel gioco assurdo che era diventata la vita in una società dove nulla era importante, dove niente era giusto e niente sbagliato, Ginevra non riusciva a trovare un posto adatto alla sua personalità.

Critica, storia, ma soprattutto la descrizione di una vita segnata da una morte inaccettabile, dalla perdita di un pezzo di anima.
[Vermillion Pt. 2 rimarrà la canzone che ascoltavo quando hai asciugato le mie lacrime. Micio]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A/N:Dovrei dedicare questo capitolo ad un caro amico, perchè senza di lui non sarei andata avanti con la storia, non sapevo come continuare.
Ila sera fra il sei e il sette Febbraio è stata una data che mi ha segnato profondamente, che mi ha cambiata.
Mi ha fatto vivere situazioni e sentimenti che non ho mai provato, vedere posti che non avevo mai osservato, capire cose che avevo già afferrato.
La vita è ingiusta, anzi, scusate i termini, è una fottuta stronza!
Micio, mio caro amico, non volevo ritrovarti lì, in quell'obitorio, steso, immobile ed ambrato dal tempo, su quel lettino fatto di marmo.
Scusami se non ti ho abbracciato un'ultima volta.

Mi permetti di dilungarmi semplicemente per sfogarmi. Per non sentirmi costretta nei confini di queste mura, dove se urlassi ciò che provo mi prenderebbero per pazza.
-Shizue

***

Sono bella, o mortali: una chimera
di pietra! Tutti il mio seno ha estenuato,
ma al poeta un amore ha ispirato
tacito, eterno come la materia.

Ho il trono nell’azzurro, sfinge oscura,
ho il cuor di neve, del cigno il biancore,
odio il gesto che le linee scompone,
al riso e al pianto estranea è mia natura.

Vedendomi in atteggiamenti fieri
ispirati a scultorei monumenti,
i poeti si danno a studi austeri.

Per stregare così docili amanti
ho, specchi dove il bello si discerne,
gli occhi, i miei occhi dalle luci eterne.

-Charles Baudelaire

***

Inizio della Storia

Entrava la perlacea luce della luna nella stanza di Ginevra, illuminata solo da una silenziosa lampada elettrica, da quella luce artificiale priva di movimento, priva di qualsiasi forma.
Stava leggendo seduta sul suo letto, con le esili spalle poggiate al muro, avvolta nella sua coperta color del sangue fresco, o di un rubino appena uscito dal laboratorio di un orefice, che lo ha reso così prezioso.
Il libro che stringeva tra le dita sottili e delicate era rilegato in una copertina di pelle color del legno, scuro come solo i libri rilegati di un tempo potevano essere.
E infatti quel libro era molto vecchio.
Ginevra Black voltava le pagine ingiallite del libro, quelle pagine che il tempo, crudele e spietato, non aveva risparmiato al suo trascorrere. Così quelle divennero gialle, l’inchiostro, una volta come l’onice, era poco leggibile e quasi si confondeva con la carta su cui era stato stampato, i fogli e la copertina irrimediabilmente segnati, così come il volto di un uomo viene inevitabilmente compromesso dallo scorrere del tempo, viene segnato da una ruga dopo l’altra, lo splendore dei capelli viene man mano a mancare, il colore degli occhi si spegne e la pelle avvizzisce. Secca, proprio come un fiore.
Oh, com’è futile la bellezza!
Eppure, frivola e futile, la bellezza era sinonimo di potere, la bellezza era tutto, in quella società così frivola e priva di qualsivoglia valore umano, che fin dagli aurei tempi classici i più grandi dotti tramandavano.
Dov’è finita la filosofia? Dove si sono perse le lezioni che la storia ha impartito? E l’arte?
L’arte. L’arte è del tutto inutile.
E’ soggettiva, nulla che si può dire può degnamente rappresentare ciò che l’artista vuole esprimere, nemmeno questi può spiegarlo, perché lui è solo lo strumento attraverso il quale le sensazioni umane trovano sfogo.
Non è altro che uno sfogo dell’anima. Non serve ad altro.
E come sfogo, è passeggero, è incorporeo, è solo un’ espressione dell’immoralità del peccato in cui l’uomo precipita, diventando cenere, rozza e sporca cenere.
Ma è dalla cenere che nasce la leggiadra fenice, incantevole nel suo rosso splendore, eterna nel suo brillante piumaggio, Venere tra gli immaginari animali.
E’ dal peccato che nasce la santità delle cose.
La ragazza chiuse il libro scuro, posandolo con leggerezza sul comodino. Alla sfuggevole luce della lampada, così mediocre rispetto alla pura e immacolata luce solare, che troppe, troppe volte è stata paragonata alla magnificenza della luce divina, si intravedevano ancora piccoli frammenti color del prezioso oro che componevano il titolo del libro quando era ancora proprietario della sua antica eleganza.
Controllò l’orologio appeso sopra di lei. Era quasi mezzanotte.
Ginevra si alzò, la lunga chioma scura e mossa sciolta le ricadeva elegantemente sulle spalle.
Prese fra le mani un vestito di raso bianco con i bordi neri, corto, semplice.
Indossandolo con grazia si avvicinò allo specchio osservandosi e giudicandosi. Ah qual dono aveva ricevuto.
Bella e innocente, nulla avrebbe fatto pensare a ciò che si nascondeva sotto quel candido vestito color neve e nessuno avrebbe indovinato mai quale luce si nascondeva dietro la porta di quei grandi occhi smeraldini, innocenti e puri.
Sperimentava il peccato per poterne criticare l’odore, gustava il piacere per poter dire che non è la felicità, sacrificava la sua anima per poterne salvare altre.
O, almeno, così giustificava le sue azioni.
Ipocrita. Non era per altruismo che voleva esser buona ma per vanità, stupida e superficiale voglia di apparire, di esser sulla bocca di tutti, era smaniosa di potere, la bramosia le faceva immaginare gli altri ai suoi piedi: e con la sua ineguagliabile bellezza poteva soddisfare la sua voglia.
Scese lentamente le scale, aprendo la porta piano, scribacchio qualcosa su un post-it giallo sbiadito e si avviò lungo il buio viale, dirigendosi verso il parco.
Passò un ambulanza lì vicino, lei la fissò pensando a chi potesse trasportare. Subito si immaginò un uomo vecchio, avvizzito, legato e imprigionato in una ragnatela di tubicini incolore, intrappolato nel bianco logorante delle pareti di quella sala d’ospedale improvvisata, pensando a quando verrà trasferito da quel posto angusto in una sala più ampia, e incrocerà per poco altre persone che come lui potrebbero non farcela, e poi forse tornerà indietro e verrà trattato da malato terminale dai familiari. O forse andrà a far visita ad una cupa cappella e la sua casa diventerà una bara legnosa, lucida. Magari aveva solo una semplice influenza, o forse una gamba rotta.
Che situazione deprimente!
-Ginevra!-
La lunga sagoma di un ragazzo si intravedeva da dietro la fontana del parco. Agitava un braccio sferzando l’aria notturna impregnata di fredda umidità, quella fastidiosa umidità che ti penetra fin dentro il midollo e ti fa tremare dall’interno.
Man mano che il ragazzo si avvicinava alla panchina, Ginevra ne riusciva a distinguere i particolari della bella fisionomia.
Era un giovane molto alto i biondi capelli ben pettinati, gli occhi grandi di un azzurro insolito, color del mare, con una incommensurabile profondità più che rara negli occhi chiari. Le sue labbra piene ben disegnate riposavano in una linea delicata ed elegante.
-Breese- disse di rimando Ginevra accendendosi una sigaretta.
-Elegante stasera- osservò il biondo ragazzo sedendo vicino alla figlia dei Black.
-Solo se visto dal tuo punto di vista-
-E visto dal tuo?-
-Semplice e vanitosa espressione del mio stato d’animo-
Breese la osservò con luminosa curiosità riflessa negli occhi languidi, atteggiati a sensuale abbandono. Pendeva dalle labbra della sua amica.
-Tranquilla?-
Ginevra lo fissò sorridendo maliziosa, passandogli una mano fra i capelli delicati e spettinandoli.
-No, semplice vuoto-
-La tua associazione di colori e sensazioni mi è sempre stata incomprensibile-
Si avvicinò alla ragazza sfiorandole le labbra rosse come le rose nel pieno della loro vita. Scese piano, le morse il labbro inferiore, le baciò il mento, le baciò il collo e vi rimase.
Lei gli accarezzava i morbidi capelli, scompigliandoli ad ogni tocco leggiadro della sua mano pallida, illuminata solo dal roseo scorrere del sangue nei tessuti.
Rimasero in quella posizione per qualche istante, che sembrava congelato nella sua interezza, nelle sue trepidazioni e nei suoi fremiti. Quanto è dolce lo scorrere del tempo quando riesci a condividerlo con qualcuno che ti capisce, che ti completa. Che ti vuole bene.
Che va oltre le apparenze. Che conosce tutto il tuo essere e lo rispetta.
In quel gioco assurdo che era diventata la vita in una società dove nulla era importante, dove niente era giusto e niente sbagliato, Ginevra non riusciva a trovare un posto adatto alla sua personalità.
Fu così che trovò il ragazzo che ora le aggiustava i capelli che aveva lasciato liberi, che la trattava come una regina, diventando un re, fu girovagando fra le anime di una terra senza regole che trovò Breese.
-Certo che il destino è davvero crudele- disse Breese guardando il cielo, oscuro come un incubo, terso e stellato come un sogno. L’aveva sempre paragonato al Purgatorio cristiano, l’incrocio fra Inferno e Paradiso.
-Non ti capisco Breese-
Ginevra invece osservava i lineamenti del ragazzo cogliendone ogni minimo cambiamento, ogni stato d’animo che gli passava attraverso.
-Mi ha dato te, bella e incomprensibile, e poi ti toglierà a me, comunque-
-Quanto sei pessimista-
-Io lo definirei realismo-
-Breese, ognuno è artefice del proprio destino-
-E’ qualcosa di superiore, non lo possiamo decidere-
-Nulla è a noi superiore, solo noi stessi-
Breese la osservò mentre parlava. Si conoscevano da quasi un anno e non era mai andata così oltre nelle sue teorie. Aveva sempre capito che aveva degli ideali un po’ strani, ed era proprio per queste sue stranezze che l’affascinava. Così bella eppure così brutta! Era una ragazza che sembrava aver vissuto molti più anni di quelli che dimostrava avere.
Diciassette anni. Cosa l’aveva portata a questo?
-Non credi in qualche cosa?-
-Non credo né in Dio, né in Satana, non credo nella redenzione né nel peccato, nel morale e nell’immorale. D’altro canto cos’è la religione se non un pallido riflesso delle speranze e delle paure dell’uomo?- rispose Ginevra osservando la luna, splendido disco argenteo, che onnipotente osservava, come giudice imparziale, la scena stando zitta, senza giudicare però come un giudice, ma lasciando ai due ragazzi giudicarsi da soli, ognuno giudicava sé stesso senza mostrarlo in volto.
Due maschere di una tragedia greca.
-Ora sei tu la pessimista- rispose Breese prendendole la mano e giocherellando con le sottili dita, morbide come petali di boccioli di rosa.
-E’ questione di punti di vista-
-Non sempre-
-Breese, noi temiamo ciò che non possiamo vedere e ci rifugiamo in insulse idiozie, fatte solo di dogmi e versi, che ci dovrebbero mettere “sulla retta via affinché si giunga alla beatitudine eterna”. Cos’è la beatitudine se non il piacere? E il piacere non risiede forse nel peccato? E’ solo il mio punto di vista questo, come puoi vedere, ma di certo non credo che la beatitudine risieda nel guardare una luce in un posto tutto bianco. E’ depressivo!
La religione è solo il mezzo per cui l’uomo può evitare di commettere crimini, oltre certo a trovar consolazione di timori assoluti come nel caso della morte. Ma in questo è riuscita, Breese? I delitti, le rapine, gli abusi e i tradimenti, quelli ci sono sempre! Che ci sia o meno la religione.
La chiesa, che si predica “Santa” è la prima peccatrice, è fatta di uomini e come tale è peccatrice. E anche i santi peccano almeno sette volte al giorno, me lo disse una catechista. Non si erga a giudice un organismo che per primo è peccatore.-
Un soffio di vento fece tremare la ragazza che si accoccolò sul petto del giovane dio greco. Lui le carezzò le guance rosee, osservandola dolcemente.
-Quindi credi in una giustizia superiore?-
-Oh Breese, ci sono state troppe giustizie divine o, come dici tu, superiori per crederci ancora…-
-E allora chi deve ergersi a giudice?-
-Le leggi dell’uomo-
-Ormai le leggi dell’uomo non servono a nulla- sospirò Breese con gli occhi rivolti verso il cielo.
-Solo perché il sistema va avanti a corruzione ed intrighi politico-economici- concluse Ginevra.
-E la morte?- chiese dopo un po’ Breese, quando l’atmosfera cambiò dal borbottio sommerso dei due ragazzi alla scompostezza del silenzio di un sonno greve. Era smanioso di conoscenza, voleva carpire i segreti più profondi della ragazza, bramoso di potenza, influenzato da quella ragazza, così affascinante nella sua sensuale misticità, quell’alone di mistero simile alla dogmatica attrazione che la madonna esercita sui fedeli.
Lei arrossì e si chiuse ancora di più nel petto del ragazzo, sentendosi scossa dalla domanda e dal solo pensiero del non ritorno.
-Sinceramente… ne ho terrore- rispose in un sottile sussurro appena udibile.
Breese la strinse fra le braccia, tenendole la testa con una mano e spingendola verso il suo esile petto, come per rassicurarla, come se volesse proteggerla dalla sua eterea paura, inconsistente come i sogni, terribile come nulla che a parole si può palesare.
Si era pentito della sua insistenza.
Aveva scavato in cerca del così prezioso e decantato nero oro per trovare un profitto personale florido e consistente a discapito della sua ragazza, finora l’unica persona a cui voleva bene, a cui riusciva a dedicare il suo tempo.
-Tutti abbiamo paura di qualcosa. Ma non pensi di poter trovare conforto nella religione invece di essere così restia verso essa?
Ginevra pose la testa subito sotto il collo di Breese e rispose con lo stesso tono sommesso di prima: -No, mi farebbe ancora più paura-
-Sei strana- commentò lui sorridendo dolcemente.
-Lo so-
Iniziò a piovere, quella fine pioggia irritante che non pulisce il cielo, che non rinfresca l'aria, che a nulla serve se non ad alleviare l'indomabile sete dei fiori che giacciono solitari nel parco a quell'ora deserto, destinato a ripopolarsi sotto l'allietante luce del giorno.
Ginevra si allontanò dal temporaneo rifugio che l'esile torace di Breese aveva rappresentato per lei poco prima, salutò con uno sguardo profondo il ragazzo per poi allontanarsi subito dopo andando incontro alla sua casa.

Chiuse la porta della sua stanza con la sua grazia priva di qualsiasi suono e sprofondò nel buio inconsistente della notte
Il libro scuro sul suo comodino sembrava maestoso, colpito violentemente dai pallidi raggi lunari. Il titolo era confuso nella copertina.

Si svegliò sudata, aveva avuto un incubo, ma non lo ricordava.
Riusciva a ripescare solo una luce bianca nel lago inconsistente dei ricordi. Il bianco... il vuoto.
Ma perché? Perché il vuoto?
Doveva essere interrogata su Platone, lo detestava.
I raggi ultraterreni del sole la colpivano violentemente agli occhi, provocandole un breve bruciore, che sensazione irritante!
Fondamentalmente Ginevra poteva definirsi una ragazza molto intollerante, irascibile, facilmente irritabile e anche un po' lunatica. Un mix di difetti che non giovava affatto alla sua socializzazione ma, essendo lei una tipa essenzialmente solitaria, tutto ciò non le provocava il minimo fastidio.
Potrebbe sembrare una contraddizione ma, attraverso i suoi difetti, lei riusciva a valorizzare ancora di più i suoi pregi.
Si alzò specchiandosi nel grande e argenteo specchio da toeletta.
Vedeva una ragazza chiara, con lunghi capelli lucenti, ondulati e arruffati, e due occhi verdi, velati dal torpore del sonno, quella patina opaca che spegne gli occhi quando la stanchezza si impadronisce del nostro debole corpo. Una bellezza selvaggia da non poter essere descritta.
Prese la vestaglia sottile color grigio perla e se la mise addosso. Scese lentamente le scale, con un piccolo sorriso sul volto: continuava ad evocare i momenti passati insieme a Breese la sera prima, le piaceva il soffuso alone mistico che il ricordo conferiva al roseo volto del ragazzo.
Preparatasi per la scuola non proferì parola scendendo nel salotto, non ne aveva affatto voglia.
Il salotto era una stanza abbastanza grande, piena di finestre ampie e luminose, coperte da sottili ed eleganti tende bianche, che lasciavano filtrare la luce attraverso di esse, donandole una sfumatura che ne sbiadiva i contorni, amalgamandole con l'arredo di legno scuro e rossastro, in contrasto con le lunghe e sottili maniglie d'argento che ornavano i lati verticali delle imposte così massicce ma dall'apparenza così fragili...
Nel centro della stanza, su quattro piedi in delicato ferro battuto, intrecciati fra loro i fili con motivi floreali, si ergeva un tavolino in cristallo trasparente, satinato ai bordi con lo stesso motivo dei piedi. C'era un mazzo di Orchidee bianche nel sottile vaso di porcellana cinese, vicino al pianoforte a cosa del padre. Ah quanto le piacevano le Orchidee.
Si avvicinò al divano in pelle chiara dov'era seduta la madre che la guardava, sorridendo.
-Io vado mamma- le disse, baciandole una guancia scarna.
-Ciao tesoro-
Quante sdolcinatezze. Voleva urlare e fuggire via da questo mortorio. Sembrava che la vita fosse una videocassetta registrata che ogni giorno ripartiva dall'inizio. Eppure non tutto era uguale... che ci fossero due linee del tempo? Una circolare e una lineare, quella della vita, che viene a coincidere con la linea circolare creando una vita sempre nuova e sempre uguale? Beh può darsi che sia così.
Arrivò in classe in ritardo.
Era stata fuori ad aspettare Breese sotto casa, ma non era arrivato, così si era incamminata verso la scuola un quarto d'ora più tardi del solito.
La scuola.
Ormai la scuola sta cadendo a pezzi, l'unica cosa buona è la condotta che fa media.
La cosa invece che più le faceva ribrezzo era il tetto massimo di immigrati nelle classi "per favorire l'integrazione". Il ventennio nero dell'Italia era stato caratterizzato dallo stesso provvedimento verso i bambini ebrei, ed era stata integrazione mandare quegli stessi bambini verso i forni crematoi, sotto le docce a gas, ai lavori forzati?
Si schifava dei provvedimenti presi in "favore dell'istruzione". Quante bugie, quanta ipocrisia!
Si sedette al suo solito posto, quello vicino la finestra, lontano dalla cattedra e dalla porta. Adorava avere tutta la situazione sotto controllo, poter cogliere con i suoi occhi smeraldini tutto ciò che accadeva intorno a lei.
Era consapevole delle sue manie di imperialismo.
Si scosse quando la professoressa la chiamò per l'interrogazione.
Si alzò e si presentò di fronte alla professoressa dai lineamenti affilati e all'apparenza crudeli.
-Può iniziare Black-
-Platone nasce ad Atene intorno al 428 a.C. da famiglia aristocratica, da cui provengono alcuni protagonisti della politica cittadina: fra questi vi era Crizia.
Platone vive in pieno il fallimento sia del sistema politico aristocratico sia di quello democratico.
Dopo la morte di Socrate, Platone lascia Atene recandosi...-
Venne interrotta dal suono del suo cellulare. Uscì senza badare ai rimproveri e alle minacce dell'insegnante.
-Pronto?- rispose, poggiandosi allo stipite della porta, voltata verso il corridoio, dando le spalle alla prof.
-Ginevra...- Singhiozzava Breese al telefono, piangeva molto forte, cercava di trattenere i singhiozzi per poter parlare, ma non ci riusciva.
-Breese cos'hai? Cos'è successo?!- Iniziava a preoccuparsi. Non lo aveva mai sentito così.
-Ginevra...-
-Rispondimi Breese!- urlò lei, ignorando la professoressa che le urlava contro, i suoi compagni atterriti che la fissavano.
-...E' morto Alex, ha avuto un incidente stanotte-
Il mondo le crollò addosso.
Breese continuava a piangere al telefono, Ginevra ferma sulla porta. I suoi occhi verdi erano spalancati e lucidi, il telefono che stava per cadere a terra, non sembrava che sentisse tutto ciò che accadeva dietro di sé.
-Dove sei?- chiese in un flebile sussurro, non era sicura che lui l'avesse sentita.
-In ospedale, nella camera mortuaria- rispose lui cercando di controllare il tremore della sua voce, facendo il forte per non far crollare la ragazza.
Riattaccò subito Ginevra, iniziò a correre per il corridoio, ignorando la professoressa che minacciava la sospensione, Non le importava. Scendendo le scale si imbatté in un bidello e lo urtò ma non lo degnò neanche di uno sguardo. Passò di fronte la bidelleria spalancando le porte dell'istituto nonostante il segretario tentasse di ostacolarla. Non ci riuscì.
Uscì dal cancello, scavalcandolo, e corse verso il lungo autobus bianco che stava per ripartire alla fermata lì di fronte.
Riuscì a prendere il pullman per un soffio. Salì le piccole scalette del veicolo, mostrando la tessera dell'abbonamento alla linea cittadina. Il controllore la verificò usufruendo dell'apposita macchinetta e la restituì alla proprietaria. Quant'era lento dannazione!
Ginevra si sedette in fondo, un posto vicino al finestrino opaco, sporcato dalla polvere che si era depositata nel tempo. I pullman urbani erano sempre poco puliti.
Osservò lo spettacolo che le si presentava davanti. Il pullman quasi vuoto, il corridoio libero. Una signora cercava di tranquillizzare il suo piccolo che aveva perso il suo giocattolo, un barbone mordeva avidamente un panino che aveva acquistato con l'elemosina di coloro che si impietosivano a vederlo sotto una veranda che gocciolava durante un temporale, scosso dai tremori della febbre che saliva, forse affetto da polmonite, ma nessuno se ne curava. Poi c'era un'anziana signora che lavorava ai ferri, intrecciando la lana a formare una sciarpa per il suo nipotino. Era azzurra, doveva essere un piccolo.
Non riusciva a crederci, non poteva essere vero. Vagava con la mente, cercando i ricordi che la legavano al suo amico, trovandoli e rivivendoli, fissando il vuoto, non il paesaggio che le sfrecciava davanti.
Alex.
Già le mancava.
Non poteva esser vero.
Era solo uno stupido scherzo di Breese.
Ben architettato.
Sentiva il suo respiro diventare irregolare, gli occhi bagnarsi, aveva freddo nonostante splendesse il sole lì fuori, tremava come un pulcino bagnato, voleva urlare e non poteva, si sentiva costretta.
Prese il cellulare, andò alla rubrica e chiamò Myriam. Voleva dirglielo lei, meglio che saperlo da altri.
Tremava mentre premeva il tasto verde, non riusciva a formare una frase coerente nella sua testa, figurarsi a formularla con le labbra.
-Ehi Gin, ma ti sembra il momento di...-
-My, per quello che ti devo dire non c'è momento adatto, non dovrebbe proprio esserci un momento, non sarebbe dovuto...- si bloccò sorprendendosi di non riuscire a piangere, poteva sembrare quasi indifferente, poteva sembrare insensibile.
-My, Alex non è più tra noi... è passato oltre-
Ci fu un silenzio traumatizzante. Ginevra si sorprendeva sempre di più della reazione che stava avendo.
-No Gin, non ti credo-
Riattaccò.
Ginevra sospirò e maledì il traffico, l'autista e tutto ciò che era intorno a lei. Possibile che proprio adesso tutto andava così lento? Sembrava che ogni minuto durasse anni, ogni secondo mesi... Non andava bene!
Intanto pensava a quando sarebbe andata lì, al volto di Breese che rideva mentre Alex la fissava divertito... Ma non sarebbe stato così.
Si sentiva vuota, come se al posto del cuore vi fosse semplicemente aria, come se fosse stata svuotata di ogni organo e di ogni sensazione.
Vuoto.
Lo stesso vuoto del suo sogno, del suo incubo.
Ancora non aveva ricevuto il colpo.
Di nuovo richiamò a sé i ricordi di tutti i momenti passati con Alex e si sorprese a riscoprire attimi sempre nuovi. Non ricordava perfettamente ogni volta che lo aveva visto.
Scoppiò a piangere come non era mai successo... nelle cuffie Guccini cantava “Canzone per un'amica”, canzone tristissima, adatta alla circostanza.
Come avrebbe voluto che non fosse così!
Il pullman fermò davanti all'edificio rossastro, corroso dal tempo.
Scese con il capo chino, ad aspettarla c'erano Elisabetta, la sua Lizzy, e Myriam.
Allora Myriam aveva accettato la realtà.
Le venne incontro, piangendo, e Ginevra smise di singhiozzare, gli occhi rossi ma asciutti, doveva essere il legno che avrebbe salvato la vita alle due naufraghe, Lizzy e Myr.
-Non potevo crederti! Non volevo!- esclamò fra i singhiozzi Myriam.
-Non voglio crederci neanche io- ribatté sommessamente Ginevra.
Si incamminarono verso la sala mortuaria. Lì Ginevra trovò i ragazzi con cui aveva passato la serata qualche giorno prima. Fissò il ragazzo che aveva guidato l'auto.
Tutti erano con la testa china, a condividere lo stesso atroce dolore.
I saluti erano bisbigli, sussurri di vento che ti spaventano e che ti ghiacciano le membra, che ti ricordano che tutto è realtà.
Stavano sulla porta quando Lizzy le richiamò ed entrarono, ignorando la cappelletta piccole a fredda. Quella visione di sfuggita sembrò per Ginevra un flashback.
Nel piccolo atrio c'era troppa gente sofferente, provata dal dolore, gente che cercava di afferrare la realtà, ma questa era troppo veloce per poter essere presa.

Un lettino di freddo marmo, come il corpo inerte di chi vi stava sopra. Solo i genitori gli stavano vicino, disperati, scioccati...
Solo il viso ed il collo erano visibili, il resto coperto da un lenzuolo bianco d'ospedale e, come se di proposito, il cappuccio del maglioncino nero faceva capolino da dietro la testa.
I capelli neri, lunghi e lisci, ricadevano spenti sulla fredda lastra, gelida sorella della neve congelatrice.
Gli occhi chiusi, le labbra schiuse e aperte, macchie di sangue secco dietro l'orecchio... tutto ciò aveva visto Ginevra entrando lì.
Fuori rimanè a consolare Lizzy, crollata a terra in lacrime, la consolò Cicco, ci provò la madre di una sua amica. Ed ora era di nuovo lì, tremante come un pulcino, Breese la guardava preoccupato, Matteo che l'abbracciava per rassicurarla.

Fuori Lizzy, Myriam, Cicco e Ginevra stavano fumando una sigaretta per Alex.
Aveva diciannove anni quando la sua vita è fuggita.


   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: LetShizueGo