Il
figlio del demonio
*
Finster*
Quando Ivan si sentì poggiare una mano sulla spalla non reagì prontamente:
quasi non capiva più niente, stordito dalle chiacchiere della nonnina.
Fissava i piccoli occhi dell’anziana signora, resi più tondi e grandi
dagli occhiali a mezza luna che indossava, e che davano alle iridi una
sfumatura violacea.
Gli stava simpatica, certo, e Ivan aveva provato subito un affetto innato verso
quella anziana, dolce signora, ma in quel momento non riuscì a trattenersi dal
lanciarle un’occhiata carica di risentimento perché lo teneva inchiodato
lì, appoggiato con i gomiti allo steccato bianco, da più di mezz’ora.
Gli aveva chiesto di tutto: dove era nato, che cosa gli piaceva mangiare, che film
guardava, se aveva mai avuto una ragazza… all’ennesima domanda Ivan
si era dovuto mordere la lingua per non darle una rispostaccia che avrebbe
rischiato di offenderla ma che sicuramente l’avrebbe zittita.
Anche ora, mentre lo interrogava su un futuro a cui non aveva mai pensato, Ivan
si chiedeva se fosse il caso di esprimere a voce cosa realmente gli passava per
la testa:
“Se vuole, signora, le scrivo una mia presentazione completa, con tanto
di certificato dell’anagrafe e fotografie allegate. Ma per favore! La
prego: si tappi quella dannata bocca e mi lasci andare!”
Per fortuna la mano che gli strinse solidale la spalla gli impedì di parlare.
Ivan si rimise in piedi, vedendo in Jeremy il suo salvatore: certo, da quando
la nonnetta lo aveva bloccato aveva imprecato mentalmente contro i fratellini
che, ne era sicuro, si stavano facendo chiatte risate su di lui, ma erano
passati quasi nove minuti dall’ultima volta che li aveva mandati al
diavolo perciò accolse l’altro giovane con un sorriso parzialmente sincero.
-Signora Applewear! Vedo che ha conosciuto Ivan!-
La signora si esibì in un sorriso ancora più caloroso alla vista del nuovo
arrivato:
-Jeremy! Sì è un ragazzo simpaticissimo e molto affascinante…-
Aggiunse con voce amabile, ammiccando ad entrambi. Poi sporgendosi maggiormente
verso di loro continuò:
-Gli stavo giusto chiedendo che aspirazioni lavorative avesse quando
voi…-
Jeremy la interruppe cortesemente, sperando invano di poter porre fine alla
conversazione:
-Ah signora, è ancora giovane. A sedici anni non si può ancora sapere-
Ivan al suo fianco strinse i denti e bisbigliò, innervosito:
-Diciassette. Ne ho diciassette-
Sia Jeremy che la vecchietta si voltarono ad osservarlo: il primo come messo in
difficoltà, gli rivolse un mezzo sorriso di scuse, la seconda invece con aria
incuriosita riprese a parlare:
-Diciassette, eh? Sei il più piccolo dei tre, allora-
Ivan non capì a cosa alludesse e Jeremy fu più veloce di lui a rispondere:
-No, signora, non siamo tre fratelli: Ivan ci è nipote-
Gli occhi della vecchietta se possibile si spalancarono ancora di più mentre
con voce concitata continuava:
-Oh! Figlio di…-
-… nostra sorella Amanda-
Concluse Jeremy per lei, per poi avvolgere le spalle di Ivan con un braccio e
tirarlo a sé:
-Ora però dovremmo andare, se non le dispiace-
Entrambi i giovani credettero di essere finalmente riusciti nel loro intento
quando videro la vecchietta giungere le mani e annuire con aria comprensiva.
Avevano anche iniziato ad arretrare lentamente, allontanandosi dalla staccionata,
quando improvvisamente la signora cacciò un urletto sorpreso che li fece
trasalire e fermare di colpo:
-Un momento! Ivan: è un taglio quello che hai sul collo? Come te lo sei fatto?-
Ma come aveva fatto a vederlo?
Jeremy stava già scuotendo la testa con fare rassicurante, ma la vecchina
continuava a fissare Ivan.
Il ragazzo sentendo l’ultima domanda si era inconsapevolmente irrigidito,
e dopo aver lanciato a Jeremy uno sguardo impaurito, si liberò dalla sua
stretta arretrando di qualche passo.
Jeremy parlò con voce calma, studiando nel frattempo con occhi preoccupati
l’espressione scombussolata di Ivan:
-E’ stato un incidente, signora. Non ci faccia caso-
Ivan non sentì la risposta dell’altro: a furia di arretrare era arrivato
a poggiare la schiena contro il muro della casa e in quel momento tutte le sue
energie erano concentrate nel tentativo di non tornare con i ricordi alla sera
prima. Si stava ancora massaggiando le tempie, quando si sentì sospingere per
gli scalini verso l’interno dell’abitazione.
-Ivan? Ivan!-
Il ragazzo realizzò giusto in tempo di trovarsi nel salotto, seduto sul divano,
con Jeremy in poltrona che gli sventolava le dita davanti al viso: appena in
tempo per bloccare il palmo della mano di Terence pronto a colpirlo su una
guancia.
Ivan lo guardò con tanto d’occhi, lasciando andare di botto la mano che
ancora stringeva.
-Era per il tuo bene-
Disse l’altro con una scrollata di spalle, alludendo allo schiaffo
evitato, prima di accomodarsi sul tappeto in posizione yoga e telecomando alla
mano, cominciare a fare uno zapping furioso.
Jeremy soffocò una risatina sotto lo sguardo inquieto del ragazzo, e
rivolgendosi a lui come per farlo contento propose:
-Se vuoi ancora uscire, puoi provare dalla porta sul retro-
Ivan scosse la testa frustrato e alzando gli occhi al cielo si distese supino
sul divano:
-Mi è passata la voglia-
Sputò fra i denti, quasi con rabbia, sebbene la colpa del suo nervosismo non
fosse da attribuirsi che alle chiacchiere della vicina.
Sentendo quelle parole Terence abbassò il volume al televisore e, scambiata
un’occhiata con il fratello, si rivolse ad Ivan:
-Allora ti va di cominciare a lavorare?-
L’altro in risposta emise solo un suono interrogativo, non capendo a cosa
si riferisse la domanda.
Come al solito fu Jeremy a prendere la parola, aiutando Ivan a capire:
-Dobbiamo iniziare a parlare: pianificare la copertura che useremo. Hai visto
quante domande ha fatto la signora Applewear: dobbiamo prepararci sulle
risposte da dare-
Ivan piegò le braccia dietro la testa, posizionandosi in modo tale da riuscire
tranquillamente a guardare entrambi i giovani in viso:
-Ad esempio quindi che ho diciassette anni… zio?-
Chiese il ragazzo con tranquillità, calcando volutamente sull’ultimo
appellativo.
Jeremy sorrise avvertendo la rabbia repressa dietro quella domanda,
contrariamente a Terence che invece gli rivolse quasi un ghigno.
-Sì, diciassette, ho capito. Non sbaglierò più, nipote-
Concluse l’altro provocandolo appositamente, ma Ivan cadde nella trappola
senza accorgersene:
-Non chiamarmi così! E ficcati bene in testa che non sono un bambino! Non puoi
dirmi cosa fare né quando andare a letto né altro! Tu… non puoi… e
basta! Sono stato chiaro?-
Era scattato in piedi nella foga della sfuriata e fu quando i due davanti a lui
annuirono sorridenti in contemporanea, che capì il tranello che gli aveva teso
Jeremy.
Tornò a sedersi con uno sbuffo contrariato, cercando di ignorare la vergogna
che minacciava di assalirlo: non voleva dargliela vinta, per niente al mondo.
-Stai meglio? Ho sempre detto che una sana sfuriata, migliora le cose-
Sollevò appena lo sguardo verso Jeremy, che continuò indifferente:
-Ora, tornando a noi: tu nipote, noi zii. Tu figlio di Amanda: figlio diciassettenne-
Ivan incontrò lo sguardo interrogativo dell’altro e annuì frettolosamente.
Sì, fino a quel punto c’era.
Continuarono così per ore: accordandosi persino sulle cose più insignificanti.
Al punto che Ivan arrivò a chiedersi se non fosse tutto un modo per conoscerlo
meglio.
Non ci si scervellò troppo, però: in fondo anche lui stava venendo a conoscenza
di tante cose. Informazioni che lo lasciarono basito: stupito dal fatto che
quei due riuscissero anche solo a parlarsi. A quanto pareva infatti i
fratellini erano esattamente l’opposto l’uno dell’altro, e
non solo fisicamente.
Se Jeremy era democratico, amante del gioco d’azzardo, vegetariano,
appassionato di scienze e di corse automobilistiche; Terence era repubblicano,
riflessivo, letterato, esperto di arte… di quelli che in definitiva
avrebbero tranquillamente potuto passare il loro tempo a lanciarsi continue
frecciatine, discutendo su ogni cosa.
Eppure, per quanto strano, fino a quel momento Ivan non li aveva mai sentiti
battibeccare, e anzi gli erano sempre sembrati molto solidali e uniti.
Del canto suo Ivan cercò di rivelare il meno possibile su di sé: giusto cose
del tipo che era allergico allo zenzero, che non sopportava i film romantici o
del suo odio per il football. Si astenne però dallo specificare il perché di
certe affermazioni, evadendo le loro domande.
Non era semplicemente ancora pronto ad aprirsi.
E loro lo capirono, non insistendo più di tanto.
Passarono poi ad altri argomenti, come il lavoro che Jeremy aveva già trovato
nell’officina del posto, mentre Terence aspettava di sapere se lo
avrebbero preso come capocuoco o semplice assistente nel ristorante più grande
che c’era, probabilmente anche l’unico.
Per quanto sembrasse impossibile, avevano fatto tutto nelle misere dodici ore
in cui lui era crollato: l’unica cosa ancora urgente da fare era la sua
iscrizione. Fu quella frase a far scattare Ivan ormai pressoché addormentato:
-Cosa?-
Quasi gridò, sgranando gli occhi in direzione dei due che giocavano a carte
accovacciati sul tappeto.
Jeremy ricambiò il suo sguardo con aria interrogativa, mentre Terence gli lanciò
un sorrisetto sardonico che riuscì soltanto a far inquietare maggiormente il
ragazzo.
-Devi andare a scuola, Ivan-
Un ululato ruppe il silenzio che si era creato in seguito a
quell’affermazione, risvegliando Ivan dalla sua sorpresa.
-Ma perché? Siamo a metà aprile, Jeremy! Fra poco più di un mese la scuola
chiude!-
Si lagnò sperando di averla vinta almeno in quella discussione.
Ma l’altro scosse la testa sorridendo. L’abbaiare energico di
un cane invase il salotto, entrando dalla finestra semi aperta che lasciava
filtrare una piacevole brezza quasi estiva.
-No, Ivan. Senti: la vita riprende. E qui più che mai dobbiamo sembrare
normali. Perciò andrai a scuola. Domattina ti accompagniamo noi e vediamo che
si può fare-
Ivan si mise a sedere, massaggiandosi le tempie, come faceva quando era
infastidito da qualcosa o particolarmente concentrato: e in quel momento stava
cercando un qualche modo per evitare di dover riprendere gli studi, tentando
nel frattempo di isolare l’abbaiare frenetico che continuava senza
accennare a smettere.
-Jeremy… non sono proprio nel mio periodo migliore. Non mi va di
chiudermi in una classe ogni mattina e…-
Jeremy poggiò le carte che aveva in mano per terra, mostrando così
all’avversario di aver vinto ancora una volta; poi si voltò verso il
ragazzo che ancora protestava:
-No. Andrai a scuola, punto. Non è così tragico il liceo, dai-
Fece per prendere le carte lanciate sgarbatamente da un Terence frustrato sul
tappeto e rimischiare il mazzo, quando gli sovvenne un’altra cosa:
-Ah, a proposito: tu comunque presta un po’ di attenzione in generale, mi
raccomando. Cioè cose del tipo non parlare troppo di te con chi non conosci,
non andartene sempre in giro da solo, tienici informati su qualunque risvolto
e…-
Ivan si alzò in piedi, avviandosi verso la finestra nella speranza che
chiudendola il latrare del cane sarebbe rimasto escluso fuori, ma invano. Dando
un pugno rabbioso al vetro, guardò Jeremy e con un sopracciglio inarcato
concluse il discorso per lui:
-… E non accettare mai caramelle dagli sconosciuti, vero mamma?-
Jeremy sorrise, divertito dalla sua frase. Terence invece annuì serio e
fissando Ivan negli occhi mormorò:
-Già: potrebbero essere pillole di cianuro-
Gli altri due si voltarono a guardarlo: Jeremy con fare biasimevole e Ivan
ancora indeciso se prendere o meno la sua frase come uno scherzo. Non si poteva
mai sapere con Terence…
Il giovane si alzò, soddisfatto dalla reazione ottenuta e si incamminò verso la
cucina, lasciando il fratello intento a mischiare le carte e Ivan con la testa
premuta contro il muro.
Gli stava per venire il mal di testa.
Se lo sentiva: come sentiva quell’odioso abbaiare.
Prese la decisione senza pensarci sopra due volte e in pochi passi raggiunse la
porta spalancandola di botto. Scese i pochi scalini quasi di corsa, gridando,
incurante del fatto che i vicini sentissero:
-Brutto sacco di pulci! Ti decidi a smetterla di rompere maledettamente
e…?!-
Ivan si era fermato, troncando la sua sfuriata immediatamente non appena aveva
messo piede in cortile: il cane che abbaiava era fermo ai piedi della quercia,
a pochi passi dal ragazzo.
Quando era apparso Ivan l’enorme pastore tedesco si era subito zittito,
smettendo di tirare il guinzaglio che lo teneva legato.
Il ragazzo inquadrò subito il proprietario della piccola mano bianca che
tentava inutilmente di tirare via il cane: nonostante fosse già buio, i
lampioni in strada rischiaravano abbastanza bene la scena.
Una ragazza abbastanza alta, esile, vestita con una semplice salopette di jeans
ed una magliettina celeste, fissava Ivan con i suoi occhioni azzurri spalancati
dalla sorpresa e anche un po’ dalla paura si accorse il ragazzo.
Sorrise subito cortese, sperando di poter rimediare alla pessima figura appena
fatta.
Continuò a studiare la ragazzina, notando che sebbene fosse alta, gli arrivava
appena alla spalla, spostò poi lo sguardo sui lunghi capelli lisci e biondi che
teneva legati in una coda di cavallo.
Sarebbe potuta essere davvero bella se solo si fosse curata un po’ di
più, pensò Ivan.
Ma poi si corresse fra sé e sé, notando le lentiggini che coprivano il visino
dolce ed abbronzato di lei: era bella anche così.
Si avvicinò di qualche passo, e dopo aver lanciato uno sguardo in tralice al
cane che con un guaito si mise a sedere, si rivolse a lei:
-Scusami. Non volevo gridare: è solo che il cane…-
Lei lo interruppe, facendogli segno di fermarsi con la mano e disse, a voce
tanto bassa che Ivan dovette sforzarsi per capirla bene:
-No no, non preoccuparti. Lui è Finster-
Spiegò indicando il cane, per poi continuare:
-Lo puoi chiamare anche Fin. Ho cercato di farlo smettere, ma c’è un
gatto sull’albero e Fin si è come imbestialito e finchè non sei uscito
tu…-
Ivan annuì, continuando a sorridere, sperando che la ragazza perdesse quella
sua aria spaurita: aveva un’aria così spaventosa?
Lei rispose al sorriso, mostrano i denti bianchi e perfetti. Strinse poi la
coda in una mano, iniziando a giocare nervosamente con i capelli: prendendoli e
lasciandoli con le dita.
Tirò quindi il cane per il guinzaglio e iniziò a retrocedere verso il
marciapiedi.
Ivan la guardò allontanarsi senza sapere bene cosa fare, alzò una mano in segno
di saluto e lei agitò la sua incamminandosi lungo la strada. Dopo pochi passi
si fermò, girandosi nuovamente verso il ragazzo e alzando un po’ la voce
per farsi sentire gli chiese:
-Senti, ti dispiacerebbe provare a far scendere di lì il gatto? Io… mi
sento in colpa: Fin lo avrà spaventato a morte-
Ivan annuì serio, sorprendendo persino sé stesso con quel gesto: la osservò
ancora un po’, mentre svoltava l’angolo, poi fece per tornare in
casa.
Sul primo scalino però si fermò, guardando la quercia con la coda
dell’occhio: doveva?
Ci pensò su per un po’, e in pochi passi tornò ai piedi
dell’albero. Individuò subito il gatto rosso, rannicchiato su un ramo,
per fortuna dei più bassi. Facendo leva con le braccia si sollevò lungo il
tronco, cercando di raggiungere l’animale.
Ma il gatto non sembrava minimamente interessato a essere preso: fissava Ivan
con un paio di occhi verdi, senza spostarsi di un millimetro. Il ragazzo cercò
di avvicinarglisi di più, mettendo un piede sul ramo alla sua destra, e
spostando la testa attraverso le foglie.
-Si chiama Zorba-
La voce giunta dal basso lo fece trasalire, rischiando di farlo anche cadere
data la posizione assai instabile in cui si trovava. Per fortuna riuscì ad
aggrapparsi saldamente al tronco, evitandosi così il capitombolo. Ivan guardò
con astio verso il basso, vedendo un ragazzo seduto sul prato sotto di lui.
Aveva i capelli ricci e castani, una corporature esile sebbene allenata, ed era
molto abbronzato, come tutti in quel paese, a quanto aveva potuto vedere Ivan.
-Mi hai fatto prendere un colpo-
Sibilò rivolto al ragazzino, che con aria innocente gli fece spallucce:
-Il gatto è mio: credevo di aiutarti-
Gli rispose a tono, prima di muovere le dita sul prato. Ivan osservò quel gesto
senza capire, poi sentì un fruscio alle sue spalle e si voltò rapido in
direzione del gatto. Ma Zorba non era più là.
Ivan riabbassò lo sguardo, per vedere il gattino accoccolato fra le braccia del
padrone.
Con un salto scese dall’albero, e lanciata un’occhiata di fuoco ai
due al suo fianco fece per andarsene. La voce del ragazzo lo fermò,
costringendolo a girarsi con uno sbuffo contrariato:
-Io sono Mattia, comunque. Abito qui di fronte-
Ivan annuì, indifferente a quella notizia. Ma il ragazzino, probabilmente
appena quattordicenne, non demorse, alzandosi in piedi e continuando a parlare:
-Tu sei Ivan, vero? Si parla già di te, sai? Ci vedremo sicuramente a scuola,
comunque, e volevo proporti un sacco di cose: sai com’è tu sei il nuovo
arrivato, lo straniero! Cioè, dico, è fantastico! Poi hai pure quell’aria
da cattivo ragazzo, tormentato anche, figurati: faremo una strage! Hai
intenzione di combinare qualcosa, vero? Perché…-
Ivan sorrise involontariamente davanti a quella fiumana di parole, ma verso la
fine iniziò a scuotere la testa in senso di diniego:
-No, Mattia: non ho intenzione di combinare niente. Mi dispiace se ti ho
deluso, ma credo me ne starò buono-
Mattia si girò un attimo verso casa sua, messo in allerta dalla luce nel
portico che si era accesa, per poi tornare a guardare rapido Ivan:
-Dici così ora: ma ne riparliamo fra tre giorni e vediamo se non hai cambiato
idea. Te lo dice uno che vive in questo mortorio da quattordici anni, fidati.
Ora vado, ci si vede-
Scappò a razzo, salutando appena Ivan con la mano.
Aveva indovinato l’età almeno, pensò il ragazzo, passandosi una mano fra
i capelli.
Quattordici anni in quel mortorio… sperò che Mattia si sbagliasse, e che
resistesse tranquillo molto più di tre giorni.
Ancora una volta fece dietro front per salire gli scalini, ma venne nuovamente
fermato.
Fu un dolore lancinante allo stomaco a bloccarlo sul gesto.
Una pressione penetrante fra le scapole, che con suo grande sconcerto vide gli
era stata provocata da un bastone: un randello ancora premuto nel punto
dolorante.
*