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Autore: Padme Undomiel    25/02/2010    7 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Purity cap 11

11.

 

Istinto

 

 

Un sole caldo illuminava il grande giardino, donando sfumature diverse alle foglie verdi degli alberi bagnati dalla pioggia della notte precedente e facendo brillare le gocce d’acqua che erano rimaste tra le fronde.

Tutto sembrava prendere vita, dopo un temporale.

Sorrideva serena, sfogliando le pagine di quel libro ormai consumato, avvertendo accanto a sé il movimento degli altri ragazzi, intenti a svolgere i propri compiti con dedizione e grande forza di volontà. Tutt’intorno, le risate, le urla e i lamenti dovuti a litigi dei bambini, finalmente liberi di uscire dopo una serata di pioggia, allietavano l’atmosfera.

Era felice che potessero svagarsi: avevano trascorso un intero inverno rinchiusi dentro le loro camere senza poter uscire, attendendo la primavera e l’estate con quell’impazienza e irruenza tipica dei bambini. Finalmente il loro desiderio di giocare poteva essere appagato.

E Yagami Hikari si sentiva irrazionalmente in pace, tra quei suoni così gioiosi che sapevano di famiglia, di quella famiglia che lei mai avrebbe abbandonato.

Scosse la testa, alzando, finalmente, lo sguardo sulla piccola figura china ad osservare la sua attività di ricerca. Sulle sue labbra apparve un sorriso di scusa. “Mi dispiace tanto, Naoko-chan: nemmeno qui c’è qualcosa di nuovo.” Le disse.

La bambina dai capelli biondo scuro si rattristò, guardandola con occhi supplichevoli. “Nemmeno una storia nuova? Anche piccola!” implorò.

Hikari sospirò, cingendo la bambina in un abbraccio. “Dai, non preoccuparti: ci sono ancora altri libri che non sono riuscita a controllare. Vedrai che qualcosa la troveremo.” La rassicurò, dandole un bacio sul capo.

Ogni sera la giovane si fermava nella stanza dei bambini, per raccontare loro alcune fiabe per farli addormentare. Era il momento per loro di lasciar correre la fantasia, di immaginarsi al posto di quei personaggi di cui parlavano le storie nei libri, di essere allegri e sognatori, di continuare a sperare in un futuro radioso: nessuno di loro avrebbe mai rinunciato a questo momento di svago, chi per un motivo, chi per un altro.

Nemmeno Hikari. Lei era convinta che quei bambini avessero un gran bisogno di non perdere le speranze, e voleva donare quel pizzico di magia che serviva loro per condurre un’esistenza serena quanto possibile, per non fare in modo che si sentissero soli e abbandonati. Ne aveva ogni giorno la conferma osservando Keiji, che più di tutti voleva ribellarsi alle ingiustizie che credeva gli fossero toccate.

Il problema consisteva nel fatto che l’appuntamento era giornaliero, e ben presto le storie finivano. I bambini amavano stupirsi delle novità: storie ripetute più volte non sarebbero state speciali come quelle che loro si aspettavano. E Hikari non voleva deluderli: sapeva quanto ci tenessero.

Era per questo che stava trascorrendo la mattinata sfogliando libri, ma era al quarto volume e non era cambiato nulla.

“Allora stasera ce ne racconti un’altra?” domandò Naoko, con la speranza negli occhi color caramello.

Hikari rise, guardandola negli occhi come a farle capire che non voleva prenderla in giro. “Promesso. Fidati: non ti mentirei mai.”

Naoko sorrise, abbracciandola forte. Era sempre stata una bambina molto affettuosa. “Grazie, Hikari!” esclamò, contenta. Poi il suo viso si fece imbronciato. “Lo dici tu a Shinji-kun che le tue storie non sono da piccoli, e sono belle?”

“Ti prende ancora in giro?” le chiese in risposta Hikari, scuotendo la testa con aria rassegnata. Naoko e Shinji, i due gemelli, non sarebbero mai andati d’accordo, a quanto sembrava: sebbene fossero stati trovati insieme quando sua madre era ancora in vita, lui era un bambino molto insicuro, che non riusciva a tirar fuori i suoi sentimenti, mostrandosi sempre superiore a tutto e a tutti. E Naoko spesso piangeva per questo.

Quanto avrebbe dato la giovane per vederli andare d’accordo, perché sapeva perfettamente che i due dovevano volersi molto bene.

Vide la piccola annuire con una sorta di solennità, e un moto di affetto per lei la colse.

Le accarezzò dolcemente il viso, con un sorriso. “Glielo dirò, ma cercate di non litigare, d’accordo? E’ più bello se giocate insieme.”

“Va bene!”

Naoko corse via, probabilmente per raggiungere il gruppo di bambini che la stava aspettando, e Hikari rimase seduta sotto quell’albero nel giardino, sopra un telo per non bagnarsi, il libro ancora aperto tra le mani e un sorriso affettuoso sul viso.

Non si sarebbe mai abituata alla semplicità del bambini, neanche trascorrendo una vita intera a contatto con loro.

Si guardò intorno, respirando il profumo del giardino bagnato dalla pioggia e riempiendosi i polmoni della freschezza dell’aria. Pareva che lei non fosse l’unica a godere di quella pace e tranquillità: tutti, nessuno escluso, erano usciti in giardino, e ognuno di loro aveva qualcosa da fare.

Poco distante, circondato da tanti bambini e da Mimi, che sedeva con loro, c’era Taro, intento a inscenare un altro spettacolo tipico di lui trascinando con decisione e spirito pratico un riluttante Shinji, evidentemente contrario a partecipare a “cose stupide”, mentre Ichiro, concentrato e serio, imitava i suoni di una batteria o canticchiava motivetti di accompagnamento che aveva sentito alla tv.

Sora, poco distante, era intenta a stendere i numerosi panni appena lavati dei bambini, che avevano questa particolare tendenza ad abbandonarsi a giochi pericolosi e decisamente a rischio di sporcarsi senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze. Rimproverava dolcemente suo fratello Taichi, poco distante: Hikari intuì che, come al solito, Sora desiderasse da lui un aiuto nel suo lavoro, e sapeva che Taichi non doveva essere particolarmente felice, vista l’aria supplichevole che aveva assunto parlando con lei.

La giovane non poté fare a meno di sorridere, osservando la ritrosia del maggiore dei due Yagami. Avrebbe fatto di tutto per salvare le sorti dell’orfanotrofio, sarebbe stato pronto ad affrontare ogni genere di imprevisto, ma dedicarsi alla pulizia –di qualunque tipo si trattasse- sicuramente non era il suo forte. Ma non poteva farci nulla, contro Sora.

Taichi aveva qualche limite, dopotutto.

Spostando lo sguardo verso destra, Hikari scorse il gruppo di bambini più grandi –accompagnati, come sempre, da Asami, che non voleva essere esclusa nonostante avesse solo otto anni a discapito dei loro dieci- che ascoltavano attentamente le spiegazioni in campo informatico fornite loro da Koushiro, e notò con piacere che sembravano tutti interessati, e che domandavano chiarimenti al ragazzo dai capelli rossi con una vivacità incuriosita che la inteneriva. Accanto a loro c’era anche Jyou, e persino lui, pur non facendo parte del pubblico infantile di cui Koushiro si era circondato, annuiva alla fine di ogni sua frase, con aria concentrata e gli occhi fissi sullo schermo del computer.

Non bisognava mai fermarsi, considerò, chiudendo il libro di favole che teneva in mano. C’era sempre qualcosa da fare, e l’importante era dedicarsi alle proprie attività con serenità, gioia e quel pizzico di spensieratezza che avrebbe permesso ai bambini di non sentirsi estranei a loro.

Anche quando non erano solo loro a tenersi impegnati in un’attività.

“E allora, Keiji-chan, hai deciso di lasciar perdere?” domandò divertita, alzando lo sguardo sui rami dell’albero sotto il quale si stava riposando.

Conosceva la risposta ancora prima che venisse pronunciata, ma il suo tono di voce mentre lo diceva era così buffo da farle venire sempre voglia di domandarglielo ancora.

Uno sbuffo. “No: non è ancora arrivato. Io non scendo finché non lo vedo.”

Hikari sorrise, osservando la sua piccola figura aggrappata al ramo e con gli occhi castani fissi in un’altra direzione. Sapeva che Keiji sarebbe potuto rimanere tra le fronde degli alberi per giorni interi, ma non aveva senso che si preoccupasse tanto per un problema che non c’era e non ci sarebbe mai stato.

Le sembrava semplicemente troppo sull’attenti, e se ne chiedeva il motivo.

“Dai, non fare il testardo: lo sai che non verrà” ribatté, cercando di farlo ragionare. “Non avrebbe nessun motivo per farlo… e in ogni caso, se qualcuno sapesse di essere sgradito a tal punto, non si farebbe mai vivo. E tu non vuoi che venga, giusto?”

Un rumore di foglie smosse, e il viso di Keiji apparve alla luce, osservandola imbronciato.

“Non lo voglio qui” affermò, indignato. “Ci spia, lo so.”

“Keiji-chan, stai attento, per favore!” Hikari scattò in piedi, allarmata dalla posizione apparentemente instabile del bambino dai capelli viola. Capiva come si sentiva Jyou quando si preoccupava per lui: il pensiero del pericolo che correva era troppo vivido, e Keiji era spericolato abbastanza da fare mosse avventate.

Un sorriso birichino apparve sul suo viso da bambino. Non era affatto preoccupato. “A te non piace questo, Hikari: a me non piace quel biondo. Se io mi siedo di nuovo, tu lo mandi via?”

Hikari rimase senza parole per un secondo, sorpresa. Poi scoppiò a ridere, osservando gli occhi fin troppo seri del piccolo. Non avrebbe mai smesso di stupirla: sembrava capace di contrattare la sua voglia di fare pazzie con la promessa di scacciare qualcuno che non credeva sarebbe più tornato.

Scosse la testa, cercando di calmarsi. “Puoi spiegarmi perché ce l’hai tanto con lui?”

“Perché viene ogni giorno, e ci spia.” Replicò Keiji, tornando a scrutare il cancello grigio come se si aspettasse di veder sbucare qualcuno all’improvviso. “Tu non lo vedi, ma io sì: che vuole da noi?”

La notizia la sorprese: per riflesso seguì lo sguardo del bambino, scoprendo che nessuno era lì. Era probabile che Keiji stesse esagerando? Era possibile che quel ragazzo chiamato Takaishi Takeru li guardasse ogni giorno, o era solo quella strana antipatia che il piccolo provava per lui a renderlo apprensivo e quindi ad esagerare?

Considerò per un attimo l’idea di riuscire a scorgere quei capelli biondi tra i cespugli accanto al cancello, con il cuore in gola, per poi scuotere la testa e tornare a guardare la figura sull’albero.

“Tutti i giorni, dici?” domandò, aggrottando le sopracciglia.

“Sì, tutti. Credo che sia un ladro.” Rispose Keiji, offeso e sicuro della sua ipotesi.

Hikari rise ancora, incredula. Per quanto quel ragazzo si fosse comportato in maniera che non riusciva a capire, essere paragonato ad un ladro le pareva una grossa esagerazione.

“Keiji-chan! Non è bello dire queste cose, lo sai?” lo rimproverò dolcemente, sentendolo sbuffare subito dopo. “Ricordati che ha aiutato Naoko-chan a tornare da noi quando mi sono distratta… E poi non si sarebbe mai avvicinato per parlarmi, se avesse avuto cattive intenzioni.”

No, non poteva essere un malintenzionato, considerò la giovane, assorta per un momento nei suoi pensieri. Takaishi Takeru l’aveva turbata con il suo tormento e le sue domande inusuali, ma Hikari sapeva che lo sguardo sofferente del giovane che le si era presentato era autentico, sincero.

Oltretutto, cosa avrebbe potuto volere da un umile orfanotrofio come il loro?

“Ti stai preoccupando troppo, te lo assicuro.”

Keiji non replicò, continuando a tenere il broncio e a puntare lo sguardo fisso sul luogo dove fu abbandonato, sette anni prima.

Hikari alzò le spalle, tornando a sedersi sull’erba con un sorriso. “Va bene, non ti rimprovero più. Puoi restare lì, se preferisci. Contento?” domandò.

Non era da Keiji rimanere in silenzio per così tanto tempo. La giovane aggrottò le sopracciglia, sollevando ancora lo sguardo. Possibile che fosse così offeso da decidere di non risponderle? Forse c’era qualcosa che lui non le aveva detto, per qualche motivo.

Non le era del tutto chiara la diffidenza del piccolo verso Takeru.

“Keiji-chan, ti prego: vorrei saperlo, se c’è qualcosa che non va.” Gli disse, preoccupata. “Lo sai che puoi dirmi tutto: non riderò di te, né farò commenti. Voglio solo sapere cosa…”

“Mandalo via, per piacere.”

“Eh?” La domanda supplichevole lo spiazzò: tradiva un’impazienza che non sembrava da lui, e Hikari non riusciva a spiegarsene il motivo. Anche perché quella richiesta poteva essere attuata solo se…

“E’ qui, e ci spia di nuovo. Mandalo via, Hikari!”

Hikari sussultò, volgendo nuovamente lo sguardo verso il cancello.

Non impiegò molto tempo per scorgere una figura seminascosta dai cespugli, di cui erano chiaramente visibili solo i capelli biondi. Era immobile, rivolto verso di loro: probabilmente stava davvero osservando loro, come aveva detto Keiji.

Una strana sensazione si impossessò di lei, senza che potesse far nulla per evitarla.

Aveva riflettuto molto sulle parole che Takaishi Takeru le aveva rivolto qualche pomeriggio prima, sempre consapevole della tristezza e del senso di impotenza che l’aveva colta dopo il loro discorso. Si era domandata più volte quale potesse essere il motivo di tanto intestardirsi, di tanto cercare di parlare con qualcuno privo di problemi, o che sa come risolverli. Era arrivata persino a chiedersi, rattristata, perché la sua voglia di conoscere la risposta avesse dovuto porla davanti alla sua fragilità, a quella dell’orfanotrofio, a quella di tutti loro senza Yagami Yuuko.

Ma poi aveva capito, rimproverandosi per non esserci arrivata prima.

Era logico che volesse trovare una sorta d’eroina: nel momento in cui si è scoraggiati, ci si crede senza via d’uscita, il primo istinto è quello di trovare qualcuno che possa sopportare il carico di disperazione che si porta sulle spalle.

Takaishi Takeru doveva essere davvero triste. E aveva visto in lei, in tutti loro ragazzi che si occupavano dei bambini, il qualcuno che cercava.

Hikari aveva ricordato con un sorriso quante volte aveva fatto lo stesso con Taichi, quando era piccola, e a quante volte era successo anche poco tempo prima. Era strano pensare, però, che Takeru avesse visto in lei il suo Taichi.

Sospirò, alzandosi in piedi con lentezza. Keiji voleva che lo scacciasse, perché era spaventato. Ma lei non riusciva a provare timore per lui.

Nemmeno sapendo che li aveva spiati, che li spiava e che avrebbe, con tutte le probabilità, continuato a spiarli.

Piuttosto, sentiva un grande senso di compassione per lui, perché aveva intuito il suo dolore, ma non sapeva da cosa fosse stato causato.

E Hikari sapeva che non poteva scacciarlo senza aver conosciuto il motivo di queste osservazioni silenziose e misteriose. Takeru avrebbe continuato a fermarsi dietro ai cespugli, in attesa di risposte che non avrebbe mai avuto, se qualcuno non fosse intervenuto.

Lei sapeva di essere fragile, di avere dei limiti, di avere paura, a volte. E, essendo anche lei umana in questo senso, avrebbe fatto luce sul mistero.

Con un rumore attutito, sentì Keiji scendere dall’albero. Le prese la mano. “Stai andando lì?” chiese, con tono quasi speranzoso.

Hikari annuì, sfiorando una guancia del suo fin troppo serio interlocutore. Keiji distolse lo sguardo, a disagio. “Non ti preoccupare: vedrò di risolvere questa faccenda, una volta per tutte.”

Quando lo vide sorridere di nuovo, chiaramente soddisfatto, ebbe la conferma che il giovane dai capelli biondi doveva averlo spaventato a morte, per indurlo a supplicare Hikari che lo mandasse via. Si sforzò di non ridere solo per non ferirlo.

Gli lasciò la mano, puntando lo sguardo verso la figura ancora immobile che li osservava e chiedendosi cosa avrebbe scoperto durante quella conversazione.

Quello che sapeva per certo, però, era che voleva parlargli da sola. Senza Taichi, Sora o chiunque altro.

Perché sapeva che, alla presenza di chiunque altro, non sarebbe riuscita a parlare in tutta sincerità del suo desiderio di conoscere il tormento di quello sconosciuto. Avrebbero anche potuto convincerla a cambiare idea, e lei voleva approfittare dell’occasione senza altri indugi.

No, si disse, scuotendo la testa. Era una faccenda che doveva risolvere lei, e se ne sarebbe presa la totale responsabilità.

 

***

 

Non si era nemmeno accorto della sua presenza, a pochi metri di distanza.

Aveva la mano destra protesa verso il fogliame ancora umido dopo pioggia della sera prima, e scostava delicatamente i cespugli per poter osservare meglio.

Portava lo stesso cappello grigio che gli aveva visto sul capo qualche giorno prima, come se fosse una sorta di tratto costante nel suo aspetto fisico. Era chiaramente attento a non far rumore: era in posizione rigida, ferma, ma stabile per non cadere e, quindi, far rumore.

I suoi occhi azzurri erano completamente presi da una qualche scena che doveva aver attirato la sua attenzione, anche se lei non riusciva a scegliere tra le tante che erano sotto i suoi occhi scuri ogni giorno.

Hikari ricordava il viso di chi le aveva rivolto la parola senza un senso apparente, ma fu sorpresa di notare un sorriso sereno sulle sue labbra.

L’ultima volta che aveva chiacchierato con lui, il suo volto era serio, fin troppo, forse. Quanto era diverso, adesso, notare che Takaishi Takeru poteva gioire delle cose più semplici e pure.

La sua determinazione a parlargli crebbe. Nessun ladro avrebbe sorriso a quel modo semplice e appagato, osservando la villa che avrebbe dovuto rapinare.

Doveva essere solo un ragazzo come altri. Come lei.

Si avvicinò timidamente, sempre attenta a non far rumore. Sebbene fosse ormai certa di quella scelta improvvisa, si sentiva in imbarazzo a distoglierlo dai suoi pensieri, anche se quello che Takeru stava facendo non era certo legale.

Non poté far nulla per impedire alle sue guance di infiammarsi.

“Takaishi-san?” tentò a bassa voce, con le mani strette tra loro.

E il giovane sussultò bruscamente, come fa ogni bambino colto di sorpresa dalla mamma mentre commette qualche azione che non dovrebbe.

Vide lo sguardo di lui saettare verso il suo viso, per poi sgranare gli occhi, imbarazzato, e fissarla come se fosse atterrito da lei.

Era normale che si comportasse così, in fondo: se li stava spiando da giorni, come sosteneva Keiji, trovarsi a guardare negli occhi la proprietaria dell’orfanotrofio non poteva essere di certo piacevole.

L’imbarazzo gli impedì di dire alcunché.

Ora o mai più, si disse Hikari, a disagio anche lei.

“Mi fa piacere rivederti” continuò, con un sorriso incerto. Gli occhi di Takeru si spalancarono maggiormente: forse si aspettava delle grida indignate. “Ti serve qualcosa?”

Seppe di averlo sorpreso osservando la sua espressione attonita.

Hikari rimase ad aspettare una sua risposta, esitando sul da farsi. Non sapeva come fargli capire che non lo avrebbe denunciato per il suo osservare.

I secondi passarono, ma le parole sembravano congelate sulle labbra del giovane.

Era ormai chiaro che lui non sarebbe riuscito a discolparsi in nessun modo: decise di riprovare con un altro approccio, tentando di alleggerire l’atmosfera.

Fece un piccolo cenno con la testa verso la villetta bianca, ben attenta a mantenere il suo sorriso ben fermo sul suo volto. “Naoko-chan ti è molto grata per quello che hai fatto qualche giorno fa” riprese, sempre più consapevole dell’imbarazzo del giovane. “Ha un bel ricordo di te: ti ha nominato l’altro giorno, mentre parlavamo di ragazzi gentili che aiutano le persone.”

Finalmente, con grande sollievo di Hikari, l’altro parve rendersi conto che doveva dire qualcosa.

“Yagami-san… Mi dispiace molto, io non ero qui per… Non volevo spiarvi, ecco” disse Takeru, e lei colse un certo imbarazzo e biasimo per se stesso nel suo tono colpevole. Esitò, prima di continuare, con una breve risata: “Immagino cosa dovrai aver pensato, vedendomi qui dietro al vostro cespuglio. Posso assicurarti che, almeno, non ho cattive intenzioni. Lo giuro. Ho… ho sentito i bambini ridere e giocare a voce alta, ed ero solo curioso. Volevo vedere con i miei occhi…”

Si interruppe, il viso in fiamme, e parve trovare molto interessanti alcuni passanti che chiacchieravano tranquillamente sul marciapiede opposto.

Hikari lo osservò, curiosa, e non poté fare a meno di sorridere, rassicurata. Ancora una volta, aveva avuto una conferma della mancanza di doppi fini in quel ragazzo: uno sguardo del genere non poteva essere frainteso.

“Io credo che tu non abbia nulla di cui vergognarti” rispose serenamente, tentando di rassicurarlo. Sembrava che Takeru volesse sparire dalla faccia della Terra seduta stante. “E’ bello sapere che qualcuno riesce ancora a fermarsi al suono di una risata di bambino. Credo sia uno dei suoni più dolci e innocenti del mondo, e può fare miracoli.”

Takeru incontrò i suoi occhi per un istante ancora, e Hikari riuscì a scorgervi tante domande senza risposta, e un’enorme, intollerabile confusione che non gli riusciva di nascondere. Di nuovo, la voglia di conoscere il motivo di tanta insicurezza la colse.

Takeru annuì piano. “Sento spesso le loro risate” ammise, con un lieve sorriso ad incurvargli le labbra. “Sono tanti bambini, e si fanno sentire. E poi, io abito qui vicino.”

“E’ per questo che ti sei interessato a questo orfanotrofio?” domandò Hikari cautamente, cercando di non essere invadente. Era felice di star parlando con lui senza quell’amarezza che aveva colto la volta precedente, e non era intenzionata a rompere quella quiete.

Ancora un momento di silenzio. Takeru parve rifletterci per un istante, aggrottando leggermente le sopracciglia, come se non ne fosse sicuro nemmeno lui; il suo sguardo si perse lontano, come a cercare la risposta dentro di sé.

Poi sollevò nuovamente gli occhi su di lei, con aria triste. “Credo di sì” rispose lentamente, soppesando le parole. “Non so. Forse quelle risate infantili avrei dovuto ascoltarle molto tempo fa: mi avrebbero fatto capire molte cose.”

Il sorriso sul volto di Hikari si spense.

Aveva sentito chiaramente la voce del giovane dai capelli biondi tremare, mentre pronunciava quell’ultima frase. Aveva scorto quella smorfia dolente che aveva attraversato il suo viso, e l’amarezza che quell’affermazione aveva portato con sé si era solidificata nell’aria, rendendogliela quasi percepibile al tatto. Era un dolore reale, nascosto da un volto falsamente rassegnato.

Forse Takeru non aveva mai incontrato qualcuno che potesse essere come suo fratello Taichi: forse non c’era mai stato nessuno pronto ad aiutarlo, nel momento del bisogno. Probabilmente era per questo, che appariva così smarrito.

“Non capisco” ammise semplicemente, osservandolo con aria di scusa.

Takeru sospirò profondamente, ricambiando la sua occhiata.

“Ti è mai capitato di mettere in discussione tutto quello che fai, Yagami-san?”

La giovane rimase a fissarlo, con aria di sorpresa, inizialmente spiazzata. Non sapeva come reagire ad una frase del genere. Avrebbe avuto la risposta pronta in un istante, ma non aprì bocca, lasciando che lui continuasse a spiegarsi.

“Quello che intendo è un continuo arrampicarsi sugli specchi. E’ un tentare di fare di tutto, continuando ad essere incerti e dubbiosi, senza poi ottenere nulla. Mi capita spesso di trovare un motivo momentaneo di gioia, una meta provvisoria, ma poi questa diventa insignificante nel momento in cui sono vicino al raggiungimento dell’obiettivo. E’ terribilmente frustrante notare come potrei rendermi utile in tanti modi, ma non sapere assolutamente quale sia quello giusto e vero per me. Tu hai mai provato sensazioni del genere?”

Il suo volto era di nuovo grave. Con quei capelli dorati e occhi azzurri, alla luce del sole, sembrava un angelo. Un angelo sofferente, che ha perso le ali.

E Hikari si sentì triste per lui. Come poteva non esserlo, dato che conosceva quei momenti di sconforto?

“Qualcosa del genere sì, qualche volta” ammise sinceramente, e puro stupore si manifestò sul viso del suo interlocutore. Lei sorrise alla sua occhiata. “Ne abbiamo parlato la scorsa volta: gestire un orfanotrofio non è una scelta facile, e non sempre abbiamo la risposta giusta o sappiamo quale sia la strada giusta per noi. Credo di capire in qualche modo, Takaishi-san.”

Sembrava sconcertato dall’aver trovato qualcuno che riuscisse a comprendere quello di cui stava parlando, e fu il suo turno di ammutolire. Forse cercava domande più specifiche da rivolgerle.

“Però non ci riesco fino in fondo” continuò Hikari, aggrottando le sopracciglia. “Quando si è sconfortati e ci si sente persi, ci si aggrappa sempre a qualcosa che sia fonte di speranza. Possibile che tu non ne abbia nemmeno una? Un tuo sogno speciale, un amico, un parente, un fratello o una sorella? Nulla?”

Sperò di non essersi spinta troppo oltre, mentre notava i pugni di lui stringersi e le sue labbra assottigliarsi fino a formare una linea sottile. Forse aveva esagerato, era stata invadente. Ma Takeru aveva ogni diritto di non rispondere, d’altra parte, se lo avesse ritenuto necessario.

Per un motivo o per un altro, però, la risposta arrivò.

“No, nulla di così grandioso. Il problema è che niente riesce a farmi sentire fiero di me stesso, al momento: non so davvero più cosa fare. Vorrei rendermi utile in qualche modo, ma la maniera per farlo è sempre più sfuggente.”

Hikari ebbe l’impressione di cominciare a vederlo meglio, dopo quest’ultima affermazione. “Vuoi renderti utile? Utile per chi?” Volle sapere, spronandolo a chiarire.

Rimase interdetta osservando l’incertezza sul volto del suo interlocutore. Cosa c’era di così strano nella sua domanda?

“Cosa penseresti di me, se ti dicessi che non lo so?” rispose con un sorriso imbarazzato lui, lasciandola sbigottita. “So che devo rendermi utile, ma non so dove, come, né quando. Comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va, nella mia testa.”

Le risate dei bambini dentro il giardino fu l’unico rumore udibile in quel momento.

Hikari sbatté le palpebre più volte, non sapendo come reagire ad una frase tanto incredibile. Pensò, in un primo momento, che il giovane stesse scherzando, ma dovette ricredersi quando vide la sua occhiata diretta e seria, che non lasciava ombra di dubbio.

Era questo, allora, il suo tormento? Era per questo che le sembrava così abbattuto, così disilluso, così smarrito?

“Forse non dovresti affrettare i tempi” gli suggerì, tentando di essergli d’aiuto. “Forse stai attraversando un momento difficile, e hai solo bisogno di schiarirti le idee….”

Un sospiro rassegnato in risposta la fece zittire improvvisamente. “Sono anni che va avanti, Yagami-san. Ogni giorno che passa mi sento sempre più inutile, come se qualcuno avesse portato via il mio futuro senza intenzione di restituirmelo. Sinceramente, non credo sia un periodo, se capisci cosa intendo.”

Takeru le sembrava scoraggiato più che mai, mentre tornava a guardarsi le mani.

Poi, un sorriso di scusa. “E’ per questo che vi osservo: vedo in voi quella determinazione che mi manca da tanto tempo, e riesco a scordare i miei problemi per qualche istante. Ma dopo avervi osservati, è solo peggio. Ancora non riesco a capire come abbiate deciso di prendervi questa grande responsabilità senza paura di non esserne in grado, di cambiare idea.”

Hikari non seppe come, ma all’improvviso la scena davanti ai suoi occhi si fece più nitida, più chiara e comprensibile. Non c’erano più dubbi, tristezza per Takeru o per la sua situazione: solo una grande sorpresa per la risposta che sentiva nascere spontanea dalle sue labbra.

Aveva la soluzione.

Era irrazionale, forse insensata, forse inutile, ma era forte e sicura nella sua mente.

In fondo, qual era il segreto del successo di tutti loro con i bambini che accudivano?

Solo uno.

Ma sapeva quanto fosse efficace.

Lo guardò dritto negli occhi, sorridendo della sua apparentemente insensata decisione.

“Takaishi… Takeru-san, se tu guardassi ogni giorno gli occhi dei bambini non avresti il coraggio di essere incerto, o dubbioso.” Si stupì della serenità delle sue parole, rendendosi conto di non aver mai preso un’iniziativa del genere senza interpellare gli altri. “La loro semplicità è sufficiente per farti superare momenti di crisi, per farti crescere più responsabile e protettivo e, al contempo, per farti tornare alla loro innocenza. Riesci a capire perché non possiamo arrenderci, con loro da proteggere?”

Aspettò, immobile, che le sue parole fossero ben assimilate dal ragazzo, senza dire altro.

Takeru aggrottò le sopracciglia, sorpreso. “Vuoi dire… I bambini sono la vostra maniera per andare avanti?” chiese, e nel suo tono di voce c’era tutta l’incredulità possibile.

Hikari annuì semplicemente.

“Ma i problemi restano” obiettò ancora il giovane, non convinto. “Davanti ai bambini si può solo mascherare l’incertezza, per non allarmarli o rattristarli. Dov’è la guarigione, allora?”

Non ebbe bisogno di pensarci nemmeno per un momento, prima di parlare.

“Vieni con me in giardino dai bambini, Takeru-san.”

“… Che cosa?”

Ora era semplicemente sconvolto, come se avesse assistito ad un fenomeno paranormale.

Hikari sorrise ancora, sicura. “Non riesco a spiegarti a parole tutte le qualità dei bambini, per cui è meglio che tu venga a parlarci di persona. Credo che li troveresti adorabili, e che capiresti cosa intendo, quando dico che loro sono l’unica cosa che ci fa restare in piedi nonostante tutto.”

C’erano buone probabilità che questa strana idea potesse aiutare il giovane. Doveva aver perso la fiducia in se stesso, la speranza nel futuro, ogni certezza: forse era soltanto cresciuto troppo, e nella maniera sbagliata.

Non era troppo tardi per ricominciare a sorridere.

E poi, lui le aveva detto che voleva rendersi utile. Chissà: forse avrebbe potuto unirsi a loro, se l’avesse voluto. Sora, Mimi, Koushiro e Jyou avevano iniziato quasi allo stesso modo.

Sentiva che poteva tentare, anche se non aveva domandato il parere a nessuno.

Takeru sembrava titubante. “Non… Io non credo di potere…” Balbettò, osservando con aria strana i giochi dei bambini dietro i cespugli.

Gli si avvicinò di un passo, lentamente. Lo vide accorgersi del movimento, per poi voltarsi nuovamente a guardarla. Nei suoi occhi c’erano tante domande.

“Se il problema è il nostro consenso, te l’ho appena dato” gli rispose. “Coraggio: si tratta solo di parlare loro per un momento.”

“Vi ho spiati” obiettò Takeru, cercando di essere ragionevole.

Hikari scoppiò a ridere. Come poteva pensare ad una cosa del genere quando non aveva fatto nulla di male?

“Va tutto bene, sul serio. Se ti va di venire con me, ti assicuro che non sarai giudicato da nessuno.” Rispose, divertita. “Andavi di fretta?”

Lo guardò ancora, piena di aspettative, chiedendosi quale sarebbe stata la risposta definitiva. Chissà se sarebbero cambiate alcune cose, a seconda dell’esito di quel discorso.

Infine, Takeru sospirò, con un sorriso. “No, non avevo nulla da fare. Grazie tante per l’invito, Hikari-san.”

Suonava tanto come un sì.

Lei si illuminò. “Naoko-chan sarà tanto felice di vederti di nuovo.” Disse, rallegrata.

Sperò vivamente di aver trovato la giusta soluzione, mentre faceva a Takeru segno di seguirla e apriva nuovamente il cancello grigio, per poi entrare nel giardino.

Sperò che quello strano istinto a fidarsi di quel giovane solo e triste non fosse da biasimare, mentre con lo sguardo scorgeva le tanto familiari figure dei suoi amici e di suo fratello, ignari dell’ospite inaspettato che si guardava intorno, a disagio.

Sperò di non aver sbagliato tutto, mentre Naoko, al suono del cancello aperto, si voltava incuriosita, per poi riconoscere il suo accompagnatore silenzioso, e quindi sorridere felice.

“Takeru-san!” esclamò, scattando in piedi e allontanandosi dal cerchio di Taro e del suo piccolo teatro.

E mentre tutti i presenti si voltavano nella loro direzione, e i loro occhi si spalancarono per la sorpresa, Hikari si morse il labbro inferiore, cercando di prevedere quale sarebbe stato l’esito della sua decisione.

Era impossibile immaginarlo.

Ma sperava con tutto il cuore che Taichi e gli altri ne avrebbero capito il motivo, mentre rimaneva a osservare quel momento di silenzio attonito che pareva inglobarli tutti in una dimensione senza alcun suono.

Nemmeno quello dei loro respiri.




Buon pomeriggio a tutti voi! Proprio non ce l'ho fatta a non lasciare in sospeso gli avvenimenti, come ho già fatto precedentemente: il capitolo sarebbe diventato troppo lungo, e preferisco trattare tutto in maniera accurata. Perciò, non me ne vogliate! ^^ E spero che quest'ulteriore -ma più importante- incontro tra Hikari e Takeru riesca a soddisfarvi. Posso solo dirvi che è stato compiuto un grande passo avanti... Per il seguito degli avvenimenti, però, vi invito ad aspettare ulteriori aggiornamenti.
Grazie, Mystery Anakin, per esserti impegnata a recensire appena possibile: mi commuove tutto questo interesse! ** E' molto interessante ascoltare le tue opinioni riguardo al diario di Miyako, pur dovendo restare assolutamente neutra... E sono felice che la parte del flash-back di Osamu e Ken si sia letta tanto facilmente! Che vuoi che ti dica... Osamu non si aspettava certo che un inesperto fratello minore riuscisse laddove lui aveva fallito per otto anni! Per un investigatore come lui è un grave colpo... u.u Oh, vuoi vedere che ti sto facendo appassionare alle Kenyako? xD Spero che gli ulteriori sviluppi tra loro ti piacciano come nel cap precedente! Per intanto, aspetto tuoi pareri appena possibile! Alla prossima, e grazie!
Shine, ti confesso che mi piace tantissimo leggere le emozioni che i miei aggiornamenti ti evocano, e perciò ti ringrazio di essere così accurata! :) Lo sai che mi piace sperimentare tipi di capitoli diversi, per questo sono contenta che la trovata del diario all'inizio ti sia piaciuta! Ho sempre voluto scrivere una storia dove fosse trattato il confronto tra i due fratelli Ichijouji... Insomma, cerco di renderli al meglio! ^^ Temo che al momento tra i due le cose non siano messe bene, ma non disperare, che tutto può cambiare in meglio! E se sono riuscita a emozionarti alla scena finale tra Ken e Miyako, posso dirmi davvero felice! xD Grazie di tutto, aspetto tuoi pareri al più presto!
Sono davvero contenta di aver letto la tua recensione, NanahoBerlitz: fa sempre piacere leggere pareri di nuovi lettori, soprattutto se così positivi! Sono lusingata, sul serio! :) Davvero il tuo personaggio preferito è Miyako? Ammetto che è anche il mio! ^^ E ti ringrazio per i complimenti sul capitolo introspettivo, così come quelli sulla storia in generale! Spero di leggere tuoi commenti anche per i capitoli a venire, e che la storia continui a piacerti tanto... Io ce la metterò tutta per non deluderti! Grazie ancora!
Roe, non sai che sollievo scoprire che la mia storia non ti sembri un plagio -sempre non voluto, come sai- : d'altronde, quando ho scritto questo cap non avevo ancora letto la tua storia! xD Sono contenta che questo aggiornamento ti sia piaciuto, piuttosto. L'idea di una sorta di competizione tra Osamu e Ken, in effetti, mi affascinava: diciamo che avevo voglia di recuperare qualche altro elemento dall'anime! Anche lì il maggiore si mostra freddo con Ken, in fondo ;) I fratelli di Miyako non hanno abbandonato la madre, semplicemente non le fanno visita così spesso... E non è nel carattere di Miyako essere fredda, soprattutto se si tratta di Ken! Quindi, tranquilla :) E spero che questo cap ti piaccia! Grazie per i tuoi commenti, le tue impressioni e tuoi complimenti, aspetto pareri! ^^
Come al solito, opinioni, consigli e critiche saranno benaccetti! ^^ Al prossimo aggiornamento!
Padme Undomiel
   
 
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